Musica Zero Km - MZK news n°10 settembre 2018

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#musicazerokm



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SOMMARIO

MUSICAZERO KM (MZK NEWS) N°10 Settembre/Ottobre 2018

Editore MZK Lab S.r.l.s. Via Flaminia 670, 00191 Roma

Direttore Responsabile Valeria De Medio valeriademedio2.0@gmail.com

Project Manager Marco Gargani

Art Director & Progetto Grafico

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Jacopo Mancini jacopomancini08@gmail.com

Assistenza Legale Avv. Vanessa Ivone

Caporedattore Alessio Boccali alessioboccalimzknews@gmail.com

Redattori Carlo Ferraioli, Francesco Nuccitelli

Collaboratori Esterni Gianluca Meloni, Guido Pietro Airoldi, Carlotta Santigli, Chiara Zaccagnino, Paola Carbone, Cristian Barba, Simone Lucidi, Manuel Saad, Lavinia Micheli, Fabio Turchetti, Arianna Bureca

Sede Redazionale Via Emilia 82, 00187 Roma

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Sito & Contatti Tel. +39 3331785676 www.mzknews.com redazionemzknews@gmail.com

Stampa produzione@miligraf.it Via degli Olmetti, 36 Formello 00060 Finito di stampare nel mese di settembre 2018

Marketing & Comunicazione Alice Locuratolo comunicazionemzknews@gmail.com

Tel +39 / 3382918589

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Autorizzazzione rilasciata dal Tribunale Civile di Roma N°2 / 2017 del 19.1.2017

AVVISO IMPORTANTE: Alcune delle foto di questa rivista sono tratte dalla rete internet in totale mancanza di indicazioni sul

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SOMMARIO

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E DI TO R I A L E LE VIBRAZIONI CUR IO S A N D O : L a dy G aga BOO M DA BA S H E RN I A COV E R T R A P : T he A ndre' NI C C O L O ' A G L IA R D I DI R E S T R A IT S L EG A C Y L A N OT T E D E L L A TA R A NTA Y OU N U T S NI C C O L O ' C O N T ESSA POS T E R D E L M E S E: Lady G aga BURNINGMAN: Black Rock Desert

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DALL'ANTICONFORMISMO AL MAINSTREAM SPAZ I O MUSI CA: Promoz ione art ist i SOUN DMEET ER: Dal quart iere PROGET T I DA SCOPRI RE GEN ERAT I ON : Monika Kruse DJ SHOP: Denon Dj SC5000 M SLEEPI N G SOUN D: La bat t eria AUDI ORAN DOM: Audiot ecnica a Roma LUI GI "GRECHI " DE GREGORI BOHEMIAN RHAPSODY: Il film di Freddy Mercury NOTE DI GUSTO DIRITTO D'AUTORE: Il caso 'Lucio Battisti' LA LIFE E' BELLA: Eco e Narciso

PARTECIPA AL CONTEST: VINCI BEN HARPER ALL’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA / SCOPRI COME A PAG 59

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yright sulla proprietà e sull’autore, si intendono quindi usate in completa buona fede. Chiunque riconoscesse come suo uno scatto è pregato di segnalarcelo per un’immediata soluzione del problema. Contatta redazionemzknews@gmail.com

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editoriale

di Alessio Boccali

Caro cantautore, come sei cambiato...

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a parola cantautore oggi ha tutta un’altra accezione rispetto a quella di un po’ di anni fa. Attenzione, etimologicamente parlando stiamo parlando sempre di colui che scrive le proprie canzoni, ma è nei fatti che le cose son cambiate. Il cantautore “vecchio stampo” interpretava e recitava i suoi pezzi, da una parte indossava la maschera dell’attore e dall’altra ne tirava le fila come un fine regista. Egli ci raccontava storie di vita vera, di quotidiani più o meno fortunati, racconti e leggende nate grazie alla saggezza popolare o all’infinito genio creativo di grandi letterati, che spesso erano proprio loro stessi. Che cos’è invece il cantautore oggi? Eccezion fatta per alcuni esempi illustri, un certo Mannarino tanto per limitarci a Roma, il cantautore moderno è molto incline al fascino del popular. Egli resiste raramente al ritornello orecchiabile o

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alla melodia “supermega” radiofonica; le sue sono storie perlopiù inventate, a volte comuni ai più ed altre volte al limite del possibile, in un mescolarsi di generi che, prima o poi, passa sempre per quel pop che fa vendere i dischi. Si potrebbe dire che il cantautore oggi è un po’ più uomo di spettacolo e un po’ meno intellettuale, ma faremmo un torto a quei grandi cantautori del passato che del teatro canzone fecero il loro vanto, ma cercate di capirmi, per forza di cose, il cantautore di oggi ha bisogno di sentire i riflettori dello spettacolo sempre accesi su di sé e mantenere vigile lo sguardo a ciò che succede intorno al suo prodotto discografico. Il cantautore di oggi invidia il cantautore “vecchio stampo”: quest’ultimo i demoni ce li aveva in maniera quasi esclusiva dentro di sé e cercava di renderli belli e sconfiggerli con la musica. Il corrispettivo moderno, invece, i demoni ce li ha anche tutti intorno e deve sconfiggerli a forza di vendite e di scalate alle hit parade. Giocoforza, di tempo per gli intellettualismi ce n’è poco.

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INTERVISTE

Le Vibrazioni Siamo tornati e la nostra "Vieni da me" oggi suona come un pezzo degli Aerosmith in versione pugliese. "Oggi siamo più maturi, più consapevoli, soppesiamo tutto ciò che abbiamo realizzato e non ce lo vogliamo far portare via, com’è successo un tempo quando ci perdevamo dietro alle stronzate.”

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di Alessio Boccali

na reunion attesa che ha riportato un po’ di sano rock’n’roll nelle classifiche e nelle orecchie del pubblico italiano. Il progetto de Le Vibrazioni (Francesco Sàrcina, Stefano Verderi, Marco Castellani e Alessandro Deidda), in realtà, non si è mai fermato, si era soltanto preso una pausa laboriosa per poi tornare in grande stile, perché, come canta Venditti, “Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano…”. Durante il loro interminabile tour, che li sta portando in giro per tutta Italia, sono riuscito a scambiare due chiacchiere con lo storico frontman della band: Francesco Sàrcina, di seguito quello che ci siamo detti. Ciao Francesco, come procede il vostro tour? Quest’anno non vi siete fermati un attimo… Hola! È vero, il nostro è un never ending tour! È dal post Sanremo a febbraio, che non ci fermiamo; abbiamo fatto instore, club, festival, concerti estivi senza nemmeno un break, ma è stata un’estate molto gratificante. Ci sono tanti nuovi fan giovani che cantano le nostre canzoni

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e questo ci fa ancora più piacere. Pensa che il nostro singolo “Vieni da me”, dopo 15 anni, è nuovamente disco d’oro: una figata! A proposito di quella grande hit, so che avete composto un pezzo, in uscita il 28 settembre, che si intitola “Pensami così” e che sotto forma di jingle è la sigla del programma di Caterina Balivo su Rai1 che si chiama proprio “Vieni da me”… Sì, quello del jingle è stato un giochino molto simpatico. La Balivo è un’amica e mi faceva piacere comporre la sigla del suo nuovo programma. Non mi andava di riproporle una versione speciale di quella storica “Vieni da me”. Ho pensato allora ad una cosa nuova e l’ho fatto durante il tour sapendo che avrei dovuto inserire quel “vieni da me…” che è il titolo del programma. La sorte ha voluto che sia venuta fuori una bomba atomica e, di conseguenza, insieme ai ragazzi abbiamo deciso di inciderla e di farla uscire. La vostra reunion ha scatenato una bella ed importan-

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ph Chiara Mirelli

INTERVISTE

te reazione da parte del pubblico, ve l’aspettavate? No, non ce l’aspettavamo, soprattutto perché di questi tempi ne accadono di tutti i colori; tutto è diventato così veloce ed improvviso: spesso situazioni semi-sconosciute, quasi casalinghe, iniziano a girare e fanno successo, mentre artisti o band storiche spariscono. Era un po’ un terno a lotto questo ritorno. Per fortuna l’abbiamo vinto ed è stato molto bello vedere come fosse ancora vivo un bel ricordo de Le Vibrazioni. Poi sai, quando vai in giro per i vari festival – organizzati da Radio Deejay, RTL, Wind ecc. – e stai sul palco a suonare la “chitarrona”, ti accorgi che non è più una cosa comune fare rock oggi e “Vieni da me” sembra quasi “Living on the edge” degli Aerosmith. Oggi è come se noi fossimo gli Aerosmith… in versione pugliese, ma stiamo lì dai (ride, n.d.r.). Certo, abbiamo anche beccato un bel disco eh… A proposito proprio di quest’ultimo disco, “V”, hai sempre detto che per voi ha rappresentato una rinascita, ma visto il titolo possiamo pensare anche ad una “v” che sta per vendetta contro tutte quelle logiche che

avevano portato al vostro scioglimento? No, perché la vendetta non ti porta mai niente; magari ti dà una soddisfazione momentanea, ma non crea una buona onda dato che nella vendetta c’è sempre rabbia e con questa non puoi portare avanti un grande progetto come il nostro. Quindi proprio una vendetta no, ma sicuramente ci siamo tolti dalle scarpe un bel po’ di sassolini. In passato sono state fatte e dette delle cose sbagliate da parte di chi forse aveva capito poco della nostra musica e, probabilmente, credere in un progetto come il nostro che richiede tanti anni di cura e attenzione ad alcuni non conviene, sopratutto nel mondo odierno in cui la musica corre velocissima. Questo che stiamo facendo oggi noi da indipendenti è un lavoro che va avanti da parecchio tempo; anche quando ero in giro come solista già pensavo al ritorno de Le Vibrazioni. Poi, insomma, la band era un fuoco e non vedeva l’ora di tornare in pista, i nostri collaboratori sono stati fantastici e, quindi, tutto un lavoro di squadra ha dato nuova vita al progetto. Non era facile trovare un clima del genere. Poi che te lo dico a fare? La passione e la voglia di raggiungere l’obiettivo

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ph Chiara Mirelli

INTERVISTE

“Siamo arrivati al punto che per ora procediamo così, per singoli. Anche perché se c’è una cosa che mi ha dato sempre fastidio è che tra le canzoni che ho scritto c’erano sempre più potenziali singoli di quelli che poi effettivamente uscivano.”

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INTERVISTE

prefissato ti danno una carica incredibile. Come sono Le Vibrazioni oggi? Beh, sicuramente abbiamo molto più entusiasmo. Un tempo avevamo la carica della gioventù, di tutto ciò che ci si era creato attorno appena avevamo fatto il “botto”, ma in realtà eravamo anche troppo giovani per soppesare e realizzare ciò che stava accadendo. Oggi siamo più maturi, più consapevoli, ponderiamo tutto ciò che abbiamo realizzato e non ce lo vogliamo far portare via, com’è successo un tempo quando ci perdevamo dietro alle stronzate. Adesso di cavolate ne facciamo meno – siamo sempre e comunque degli eterni Peter Pan, eh – però lavoriamo con più cervello. Con un gioco di parole, a 15 anni dalla vostra “Dedicato a te” a chi dedichereste questa rinascita? A tutti i nostri collaboratori perché – come ti dicevo prima – se oggi siamo qua è proprio grazie ad un insieme di cose: belle canzoni, bei produttori, management fantastico, distribuzione e ufficio stampa impeccabili… e, perché no, anche a Claudio Baglioni che ha scommesso su di noi - indipendenti - facendoci suonare a Sanremo. In generale, Claudio è stato un grande perché ha preso pezzi forti fregandosene di tante logiche discografiche. In estate è arrivata “Amore Zen”, come sarà un vostro ipotetico album futuro? Guarda, in realtà dopo “V” stiamo lavorando a dei pezzi singoli – sempre rock’n’roll – da far uscire un po’ alla volta e che poi, chissà, forse un giorno racchiuderemo in un disco. Abbiamo preso esempio dai “giovani”, da quello che stanno facendo i vari rapper, trapper piuttosto che i thegiornalisti o Calcutta. Un album spesso è limitante; succede, infatti, che nel mentre fai uscire i vari singoli del disco cambiano delle mode, cambiano

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dei suoni e tu magari non hai una canzone adatta a quel determinato momento. È successo un po’ con “V”, che non conteneva un pezzo per l’estate e per questo motivo abbiamo composto “Amore Zen”. Siamo arrivati al punto che per ora procediamo così, per singoli. Anche perché se c’è una cosa che mi ha dato sempre fastidio è che tra le canzoni che ho scritto e messo nei vari album c’erano sempre più potenziali singoli di quelli che poi effettivamente uscivano. In conclusione, voglio fare una domanda al Francesco uomo e non al frontman de Le Vibrazioni: in “Così Sbagliato” canti “Quando mi sento un figlio e sono un padre…” e in un altro pezzo dell’album “V”, che si intitola “Voglio una macchina del tempo” ironizzi sulle difficoltà di essere un padre, ma com’è essere un papà rock? Più che altro bisognerebbe chiedere ai figli com’è avere un padre rock, poveri ragazzi (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, in realtà penso che alla fine si divertano. Certo, non abbiamo gli orari canonici, la mia presenza a casa è un po’ random: potrei suonare a Capodanno come la domenica o a Pasqua, però ho anche dei momenti in cui sono in vacanza, non so, magari a novembre, e se mi gira li prendo e li porto in Sud America. Ormai sono rock anche loro. I bambini, di solito, hanno bisogno di metodi e regole, però devo dire che ho capito come dare qualità al tempo trascorso con loro anche se la quantità non è tanta. Tanti genitori stanno sempre in casa con i figli, ma non li considerano perché distratti dai cellulari, da quei social che ci stanno rovinando. Il bambino che ti vede in quelle condizioni, ti imita e da grande sarà un disadattato pure lui. Almeno io gli do quelle “botte di vita” e mi dedico totalmente a loro. Poi certo ho poche regole, ma ce le ho anche io. Devono ascoltarmi, riflettere sulle cose e poi possono farmi tutte le domande che vogliono.

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CURIOSANDO

Lady Gaga begins

OGGI CONOSCIAMO...

LADY GAGA di Francesco Nuccitelli

Come è noto, il vero nome della cantante nativa di New York, non è Lady Gaga, ma è Stefani Joanne Angelina Germanotta (nome dalle chiare origini italiane). Ma come nasce la scelta di questo pseudonimo? Il nome Lady Gaga è ispirato semplicemente alla celebre canzone dei Queen “Radio Ga Ga”.

Un look in continua evoluzione Oltre a essere una grande artista, Lady Gaga è sempre stata un personaggio abile nel reinventare il suo look in più di un’occasione. Dal colore dei capelli per essere unica (perché confusa con Amy Winehouse in passato) al famoso vestito di carne che mise agli VMA, dal peso di 26 Kg.

Record in classifIca...… Nel 2016 viene pubblicato il suo quinto album in studio “Joanne”. Il disco ha debuttato subito al primo posto nella classifica Billboard 200, divenendo così il quarto album consecutivo dell’artista a raggiungere la vetta in questa speciale classifica. Un grande traguardo per Miss Germanotta.

...record di vendita Non basta il record delle classifiche. Infatti, Lady Gaga ha anche un grande record nelle vendite. Il suo album “The Fame Monster” è stato l’album più venduto dell’intero 2010.

Il mito prima del mito Prima di diventare la grande performer che tutti noi oggi conosciamo. Lady Gaga ha avuto un passato da semplice autrice, scrivendo brani per artisti del calibro di Britney Spears, Fergie, New Kids on The Blocke e le Pussycat Dolls. 12

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INTERVISTE

BOOMDABASH ra i nomi più citati in quest’estate 2018, i Boomdabash di Biggie Bash, Mr. Ketra, Blazon e Payà hanno conquistato il pubblico italiano con il loro sound travolgente: un reggae dal cuore salentino. Il loro ultimo disco “Barracuda” contiene featuring con grandi nomi del panorama italiano: da Jake La Furia e Fabri Fibra nel brano omonimo del disco, al loro idolo Alborosie, passando per Rocco Hunt e Sergio Sylvestre, per poi arrivare alla collaborazione con Loredana Bertè che li ha eletti i re e la regina della stagione estiva. Si è discusso di questo grande successo, e non solo, con Angelo Rogoli aka Biggie Bash, la voce “inglese” della band.

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capolavoro. Il vostro penultimo album si intitola “Radio revolution”, ora proprio con “Non ti dico no” siete tra i più trasmessi su tutte le radio. È questa la rivoluzione che volevate? Esattamente. La rivoluzione che avrebbe portato gli ultimi ad essere i primi. Gli ultimi eravamo noi, quattro ragazzi di strada nati e cresciuti in un territorio difficile che, grazie alla musica, riscattano la propria vita costruendo una carriera mattone dopo mattone. Questa rivoluzione, però, non deve essere soltanto nostra; il nostro augurio è che diventi un esempio chiaro e limpido per ogni giovane di periferia con un sogno segreto da realizzare.

Ciao Angelo, partiamo subito dal vostro ultimo album Come lo definireste? E cosa significa per voi essere dei barracuda (e non dei pesci piccoli) nel mondo della musica e nella vita quotidiana? Sicuramente l’album migliore di sempre, il disco della maturità definitiva del progetto Boomdabash. La metafora del barracuda rispecchia perfettamente la nostra esperienza nel music biz: 15 anni, passati da indipendenti, fatti di duro lavoro e sacrifici. Nonostante tutte le difficoltà siamo comunque riusciti a conquistarci un posto di tutto rispetto nel panorama musicale italiano. Leali e fieri come un barracuda, senza paura quando c’è stato da far fronte a qualsiasi tipo di difficoltà.

Parlando con Alborosie, uno dei più grossi esponenti del reggae mondiale, è venuto fuori che per fare al meglio la sua musica ha dovuto lasciare l’Italia. Avete mai pensato di lasciare il nostro paese anche voi, magari per andare in Jamaica e quindi alle origini del reggae, e invece qual è il segreto che ha fatto sì che la vostra musica attecchisse anche qui da noi? Ad essere sincero è un’idea che non ci ha mai sfiorato. Viaggiamo quasi ogni giorno, siamo sempre in aereo, nel nostro mini-van, in giro per l’Italia e l’Europa, ma è di fondamentale importanza per noi e per la nostra musica essere presenti sul nostro territorio. La gente ci vede e quindi sa che noi ci siamo, vedono che non li abbiamo abbandonati e sanno di poter contare su di noi. Sanno che noi siamo lì, presenti,

Nel disco tantissime ci sono tantissime collaborazioni, ma la più affascinante è senza dubbio quella con Loredana Bertè. Com’è nato tutto quanto? Ed è stata lei a suggerirvi la frase sulla Luna (così da richiamare il suo “E la luna bussò”)? È stata un’idea venuta fuori veramente per caso. Eravamo tutti insieme a lavorare ed in principio c’era molto scetticismo; nessuno pensava che saremmo riusciti davvero a realizzare un singolo con la grande Loredana. Ricevuta la risposta positiva siamo schizzati subito al settimo cielo e ci siamo messi al lavoro assieme al nostro team di produzione. Il ritornello, e quindi il verso che cita la luna, è stato scritto da Federica Abbate e Cheope Mogol (figlio del grande Mogol che tutti conosciamo), a parer mio i migliori autori attualmente in circolazione, che hanno collaborato con noi alla realizzazione di questo piccolo

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ph Flavio & Frank

di Alessio Boccali


INTERVISTE

Il tour estivo dei Boomdabash si conclude tra le mura "amiche" della Puglia: il 19.09 a Copertino (LE) e il il 29.09 a Monte Sant'Angelo (FG).

con loro. Il segreto è proprio questo: il costante supporto dei nostri ragazzi. Senza di loro, il seme sarebbe morto e la pianta non sarebbe diventata un albero. “Salento state of mind” è un vostro grande motto, che cosa rappresenta il Salento per voi e come siete riusciti a sposare il dialetto salentino con l’inglese? Forse per la musicalità di entrambi gli idiomi? Il Salento è dove siamo nati, dove siamo cresciuti e dove ci seppelliranno. È la nostra mamma e noi siamo suoi figli. È una costante fonte di ispirazione, ci regala la serenità e la tranquillità che ogni musicista deve avere per poter lavorare bene.

Cantare in dialetto e inglese in realtà non è stato una scelta. Semplicemente, quando ci siamo ritrovati per la prima volta in studio, io ho scritto la mia prima strofa in inglese, perché avevo sempre composto in inglese e Payà, che veniva dalla scena reggae salentina, in dialetto salentino come aveva sempre fatto. Ci siamo resi conto da subito che era un mix che poteva davvero funzionare ed oggi è il nostro “marchio di fabbrica”.

"Leali e fieri come un barracuda, senza

In chiusura, qual è il vostro tormentone dell’estate? (Non vale rispondere “Non ti dico no”, ma i pezzi di Ketra ve li lascio altrimenti vi toglierei metà della hit parade italiana di questo periodo). Ovviamente “Amore e capoeira” di Takagi e Ketra (ride, n.d.r.).

paura quando c'e' stato da far fronte a qualsiasi tipo di difficolta'"...

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ph Jessica De Maio

Ernia

di Alessio Boccali

Prendo il '68' e punto al Centro!

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atteo Professione, in arte Ernia, è un rapper classe ’93 originario di Milano, che sta vivendo una seconda vita musicalmente parlando. Dopo l’esordio, non troppo fortunato, insieme a Ghali nei Troupe D’Elite, è da solista che sta raccogliendo i frutti del suo seminato fatto da testi acuti ed intelligenti: non solo sesso, droga e iPhone insomma… Ciao Matteo, partiamo subito dal nuovo album. Come lo presenteresti al pubblico? Ciao! Ti presento “68” esattamente per quello 16

che è: il mio anno appena passato e la mia vita come è cambiata. Il titolo “68” si collega al tuo precedente doppio album “Come uccidere un usignolo/67”, è così anche a livello tematico e strumentale oppure è un caso e che cosa stanno a significare questi numeri? C’è qualcosa in comune nelle liriche e a livello strumentale, ma c’è anche tanto di diverso, tanta roba che prima non avrei fatto. Il titolo “68” viene dal nome dal bus che partendo dalla periferia di Bonola, passando dal mio quartie-

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INTERVISTE re, porta in Centro: è il mio viaggio, è la mia crescita. Vedremo, però, se riuscirò veramente ad andare in centro o dovrò tornare verso la periferia. Prima della carriera da solista facevi coppia con Ghali nei Troupe D’Elite, come ricordi quei tempi e ti aspettavi che avreste trovato la vostra strada come solisti? Quando è finita quell’esperienza pensavo che non avrei più fatto musica, che non ce l’avremmo fatta, tanto che mollai e andai a vivere a Londra. Oggi sei un artista atipico nel tuo genere; faccio fatica e non ho voglia di inserirti nel calderone del trap italiano proprio per questa tua atipicità: il tuo beat è molto più ricercato e la maggior parte delle volte le tue tematiche sono meno leggere, più impegnate. Non trovi anche tu sia limitante essere definito un trapper (tant’è vero che in “Qt” cantavi di essere un’alternativa ai trapper…)? In Italia è limitante fare black music in generale: non c’è una cultura di questa; i ragazzini ora ascoltano la trap perché lo fanno tutti, ma non sanno da dove viene, perché, come si fa, ecc. All’estero tutto si è sviluppato con un processo durato 30/40 anni. Qua solo 10 anni fa i rapper erano considerati dei reietti; con l’arrivo dei social e di internet usato così compulsivamente dal nuovo pubblico, poi, sono esplosi, ma senza delle basi, senza una knowledge: per capirci, se faccio una base con del jazz o con del soul sotto, la gente la schifa perché non la conosce. Invece tra colleghi, nella maggior parte dei casi, ci si complimenta per pezzi più stilistici, più particolari,

cioè tutti quelli che non andranno bene a livello di vendite, perché una minima di conoscenza noi l’abbiamo costruita. Ti piace molto leggere e sai scrivere molto bene, spesso tanti tuoi colleghi dicono di aver imparato tutto solamente dalla strada, pensi invece che la scuola, la letteratura, la “cultura da biblioteca” ti abbiano insegnato tanto nella vita, al pari della strada, e che poi questo ti sia servito molto anche nella musica (viste le tante citazioni letterarie nei tuoi lavori)? Di sicuro se non fossi stato per strada non avrei nulla da scrivere bene. Per il resto a me piace tutto quello che riguarda il nostro passato, la storia, ma della letteratura, oltre a qualche citazione, in realtà c’è poco di applicabile alla musica. Quali sono invece i dischi o gli artisti che ti hanno maggiormente spinto ad intraprendere la carriera musicale? Da ragazzino il massimo per me erano i Club Dogo: ancora adesso guardando quegli anni non trovo dei competitors in Italia in grado di reggere il confronto con loro. I Dogo facevano, in chiave italiana, quello che gli americani facevano negli USA. Il primo disco che comprai fu “Penna capitale”, e poi via con tutta la discografia, ricordo ancora esattamente tutti gli anni di uscita dei progetti come gruppo, dei mixtape e dei dischi da singoli quando si sono divisi. In conclusione, pensi che il tuo possa essere un modo di fare musica esportabile anche all’estero? Non credo in realtà, spesso non è canticchiato, ma rappato vero, dico troppe parole…

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FOCUS

Cosa succede se il passato e il presente della musica italiana si incontrano? di Manuel Saad

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a scienza ci dice che due atomi diversi, scontrandosi, possono formare vari tipi di legami, se non addirittura avviare una reazione di fissione nucleare. Prima di identificare il tipo di reazione chimica innescata dal fenomeno The André, cerchiamo di capire di cosa si sta parlando. Il progetto si basa su un anonimato più ragionato di quello di un Liberato che parte proprio con l’intenzione di voler creare, nell’immaginario dello spettatore, l’impressione di essere ad un concerto di Fabrizio De André. All’inizio non c’era nessuna intenzione di fare dei concerti, ma le cose cambiano e ora è in tour. Volto coperto da un cappuccio, occhiali polarizzati e dei fari alle sue spalle, mantengono celata la sua identità. Sappiamo poco se non pochissimo: è friulano, ha meno di trent’anni, studia all’università ed è un grande fan di Faber. Come la maggior parte dei progetti, The André è nato per gioco. Internet è un mondo nella quale tutti possono entrarci e dire la propria.

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Questo tipo di democrazia intellettuale può essere pericolosa molte volte ma anche geniale. Ciò che viene offerto è un’esperienza vera e propria nella quale molti, al primo ascolto, avevano gli occhi sbarrati, pieni di incredulità. I conservatori della tradizione, probabilmente, si saranno indignati pensando a come si fosse permesso di accostare il grande cantautore genovese al mondo della trap. Considerando la distanza intellettuale oltre che temporale, dei due mondi, il pensiero sarà sicuramente balenato nelle teste di migliaia di ascoltatori del progetto, non intaccando però la curiosità nel voler sentire altri brani. “Tran Tran”, “Sportswear”, “Scootero-

ni” sono solo alcune tracce cavie che vedono non solo una voce ed il modo di cantare molto simile a De André, ma anche l’arrangiamento stesso, il quale probabilmente è stato apprezzato anche dai più feticisti Faberiani. La questione quindi, non è risolta solo in una banale imitazione. C’è di più. C’è una forte voglia di sperimentare e di voler accostare una propria passione ad un mondo completamente differente e l’accortezza dell’arrangiamento denota non solo di saper suonare, ma anche di conoscere molto bene il proprio mentore. La reazione è stata innescata e a noi non resta che vedere a cosa porterà.

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Make Things Happen

VIDEOCLIP MUSICALI VIDEO AZIENDALI CORTOMETRAGGI PUBBLICITA’ SERIE WEB w w w.replayfi l ma ker.com

REPLAY FILM

REPLAY FILM

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ph Francesco Marino

INTERVISTE

Niccolò Agliardi

“Resto” e mi diverto nel mio presente garbato…

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di Alessio Boccali

iccolò Agliardi è un artista a 360° in continuo mutamento e movimento. Cantautore, scrittore, conduttore radio-tv, nonostante abbia da poco concluso un’avventura televisiva su Rai1, si è subito rigettato nella mischia: in radio su Rai Radio2 e, soprattutto, in musica con una raccolta dei suoi più bei fiori intitolata “Resto”. Ciao Niccolò, partiamo dal tuo nuovo lavoro: “Resto”… Ciao! Inizierei dal titolo: in mente avevamo un

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nome differente, “Presente”, ma c’era già un album con questo nome, quindi abbiamo scelto “Resto”, che è il titolo di uno dei brani contenuti in questo doppio cd; una canzone che non aveva avuto tanta fortuna forse per colpa di un arrangiamento che non le dava giustizia. Ciò nonostante è un pezzo che mi è venuto in soccorso ogni volta che ho pensato di lasciare quasi da parte questo lavoro faticoso e “accontentarmi” di tutte le cose belle che già mi stavano capitando. Io ed i ragazzi della mia band abbiamo sempre tenuto duro e il lavoro fatto è stato ripagato, anzi, ti dirò che avevamo così tanti pezzi da voler inserire in questa antologia, che è stato difficile selezionare gli eletti. Anche in questo, comunque, abbiamo ragionato da band.

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INTERVISTE Se dovessi descrivere “Resto” con una sola parola? “Presente”, che era il primo titolo, a cui, se me lo permetti, assocerei una seconda parola: garbato.

che fanno fatica a dirti che ti vogliono bene, ma che comunque in qualche modo riescono a dimostrartelo. Da lì poi Simone ha curato tutti gli artworks dell’antologia.

“Antologia” in greco significa raccolta di fiori, sono questi quindi per voi i fiori più belli della tua carriera? Sì, assolutamente sì. Avevo delle canzoni che avrei voluto rifare con un nuovo arrangiamento e l’ho fatto per questa raccolta; citando De Gregori “non è che le canzoni, una volta scritte e cantate, restano così per sempre”, non mi piaceva come le avevo cantate in passato perché la mia voce ed il mio essere, con il tempo, sono cambiati e le ho rifatte. Le altre, invece, le abbiamo scelte davvero tutti insieme e non è stato nemmeno così tanto difficile metterci d’accordo tutti quanti.

Rimanendo sul tuo rapporto con la tv, ma anche con i libri, visto che ne hai scritti anche alcuni, ho percepito che quando non ti esprimi in musica - o meglio se lo fai, lo fai per la tv o per altri progetti diversi dalla tua discografia - sei più attento a ciò che ti circonda piuttosto che a te stesso… sbaglio? Io credo che scrivere canzoni, per quanto divertente possa essere, è un’attività “finita”. L’inchiostro nella penna non è infinito, le dimensioni e le suggestioni che tu, con la tua esperienza personale, puoi proporre al pubblico ad un certo punto diventano limitati. Quello che mi è sempre piaciuto fare e che ho fatto con “Braccialetti Rossi”, “Dimmi di te”, nei libri o a teatro ecc. è prestare attenzione alle storie degli altri; non perché io sia un generoso di chissà quale entità, semplicemente perché mi affascinano, mi incuriosiscono. Quindi, quando io canto sono un po’ più vanitoso ed egocentrico, mentre quando faccio le altre cose mi piace ascoltare di più gli altri.

Sulla copertina dell’antologia c’è l’origami di un cavalluccio marino, all’interno del booklet ad ogni pezzo è associato un origami… com’è nata questa associazione? In occasione del programma “Dimmi di te” che conducevo su Rai1 ho conosciuto Simone Valentini, un creativo che lavorava per il format come aiuto regista. Quando gli ho raccontato che stavo lavorando a questa raccolta, si è presentato da me con un origami a forma di cavalluccio marino per augurarmi tanta buona fortuna per il mio nuovo progetto. Ho trovato l’idea deliziosa e mi è piaciuto molto il gesto di questo ragazzo; adoro quei gesti di alleanza, di fratellanza che provengono da quelle persone

ph Ray Tarantino

D SOUND

E per te che sei un cantautore, in un’epoca meno attenta ai testi e più al ritmo delle melodie, non trovi sia più complesso far comprendere sé stessi? Sì, la paura c’è, ma non mi interessa più di tanto. Io non riuscirei a rinunciare a tutto ciò che ho sempre voluto fare e per cui ho studiato tutta la vita per uniformarmi a ciò che piace agli altri, ma non a me. Faccio un sacco di cose, alcune bene ed altre forse un po’ meno, ma mi diverto ed ho una vita soddisfacente. Non puoi chiedere ad un violinista di passare a suonare i tamburi… il mio stile è questo e sono contento di me, del mio linguaggio e del mio pubblico. Per chiudere, visto che hai scritto molto anche per gli altri, qual è l’artista per il quale vorresti scrivere un pezzo in futuro e con chi vorresti cantare una canzone già edita? Vorrei scrivere una canzone per Luis Fonsi, così mi faccio la piscina (ride, n.d.r.) e cantare una canzone col “Principe” Francesco De Gregori, così si chiuderebbe un cerchio aperto tanti anni fa, ma che in realtà forse mi piace lasciare aperto.Ti dico soltanto che per me stare in prima fila ad un concerto di De Gregori è ancora una delle emozioni più belle della mia vita.

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INTERVISTE

Ti ricordi il GLAM di Simone Lucidi

L Dire Straits Legacy Una storia infinita... ma in continua evoluzione di Francesco Nuccitelli

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lan Clark (tastiere), Phil Palmer (chitarre), Danny Cummings (percussioni), Trevor Horn (basso), Steve Ferrone (batteria), Marco Caviglia (voce e chitarra), Primiano DiBiase (tastiere). Questi sono i membri dei Dire Straits Legacy, una band che ripropone i grandi successi dei DS, ma che è alla costante ricerca di una propria identità musicale, con nuovo album e un tour internazionale ormai prossimo. Nonostante i grandi impegni, siamo riusciti a raggiungere Alan Clark, per parlare dell’universo DSL.

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Come è nata l’idea di creare i DSL Dire Straits Legacy? Marco è un grande fan dei Dire Straits. Invitò me e John Illsley a suonare nella sua band, più tardi invitò gli altri membri e la band diventò the DSLegacy. Cosa hanno significato i Dire Straits nella cultura moderna e che responsabilità è riportarli in vita, senza un personaggio come Mark Knopfler? Mark era un membro importante per i Dire Straits e non è facile sostituirlo. Marco, fa un bel lavoro e la band è fantastica. Noi, lo facciamo per il gusto di farlo (non è certo per i soldi!). Perché la scelta di aggiungere LEGACY al nome?

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a musica, le donne e le maledette storie di fango di uomini di successo in costume e con la voce da angelo maledetto. Queste band prendevano i sogni nel cassetto e cercavano di trasformarli in realtà per chi li ascoltava ed in illusioni per chi le cantava. Oggi ci giriamo indietro e ci mancano queste ballad d’amore, come gli Europe rocker con la faccia da boy band, i Ratt travestiti da wrestler con i giubbotti di pelle o i Bon Jovi - che rapivano i cuori e ci facevano credere che la bandana fosse un accessorio necessario. Tutto questo è racchiuso in brani come “Dead or alive”, che parlava di un amore impossibile come quello di Romeo e Giulietta, o “Hysteria” dei Def Leppard, che ci conduceva verso quella curva che ci portava verso il sole.


INTERVISTE

Cosa ci potete raccontare invece del vostro progetto discografico? Abbiamo una grande band e abbiamo tante belle canzoni. Così, la cosa più logica da fare era quella di fare un disco. Sono molto felice per questo.

Siete tutti grandi strumentisti e ognuno con una propria particolarità, ma cosa ne pensate di queste figure del "one man", dove grazie alla tecnologia gli artisti possono esibirsi utilizzando più strumenti contemporaneamente, con loopstation e sistemi che permettono di sviluppare un live composto unicamente da un solo artista? Non ci sono regole per fare musica; l'unica regola che vale la pena seguire è "assicurati che sia buona". Sia la buona che la cattiva musica, derivano dalla tecnologia utilizzata, come nel caso di ogni altro modo di fare musica.

Quanto c’è dei Dire Straits in voi e in questo album? Non volevo che questo album avesse il sound dei Dire Straits. Se invece sarà così, questo è perché hpo suonato nei Dire Straits.

Qualche aneddoto o ricordo legato ai Dire Straits? Ho centinaia, migliaia, milioni, di ricordi; anche perché sono stato nella band per 12 anni e troppe sono le cose da ricordare! Non saprei scegliere.

Perché noi non siamo i Dire Straits Presto partirà il vostro tour mondiale, ma cosa ci potete anticipare? Citando quell simpaticone di Donald Trump: “It’s gonna be great!” ("Sarà fantastico!")

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FOCUS

LA NOTTE DELLA TARANTA di Cristian Barba

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n grande sole sorge sul palco della ventunesima edizione della Notte della Taranta. È quello della magnifica scenografia di luminarie che illumina la piazza di Melpignano e si riflette sulla pietra barocca dell’ex convento agostiniano accanto al quale è situato il palco, creando un gioco di colori caldi inconfondibilmente connessi al Salento. La piazza si scalda in fretta, popolata da oltre 150mila persone pronte a partecipare al grande rito collettivo che racconta il senso d’appartenenza di un popolo simbioticamente legato alla propria terra ma sempre aperto alla condivisione. Poi, soprattutto, la musica. Andrea Mirò - maestro concertatore di questa edizione - aveva promesso “contaminazione totale” e così è stato: dal delicato violino della cubana Yilian Cañizares alle sonorità indiane dei Dhoad Gypsies, dal rap di Clementino all’intramontabile classe di Enzo Gragnaniello e James Senese, per oltre 4 ore si è assistito a una commistione di generi, colori, accenti, culture. Il tutto all’interno della cornice rappresentata dalla tradizionale musica popolare salentina e incarnata dall’Orchestra popolare della Notte della Taranta, con la quale si è integrata ed esibita anche LP - ospite internazionale dal timbro inconfondibile - in una straordinaria rivisitazione “pizzicata” della sua celebre Lost on You. In questa totale promiscuità culturale hanno trovato spazio, con esibizioni particolarmente degne di nota, anche i “padroni di casa” Mino De Santis e Après La Classe, che hanno omaggiato il pubblico di Melpignano presentando due brani inediti che riassumono perfettamente il connubio tra l’appartenenza identitaria e l’abbattimento dei confini: il cantastorie salentino ha portato sul palco un Canto alla Terra da pelle d’oca incentrato sulla tutela del territorio, mentre il gruppo ska ha proposto un vero e proprio inno all’accoglienza dei migranti dal titolo Kalòs Ìrtate - “Benvenuti” in lingua grika - ricordando che «il Salento era, è e resterà per sempre una terra di mezzo». Una terra di mezzo nella quale per una notte, che ormai per tantissimi rappresenta un appuntamento irrinunciabile, la musica è la grande protagonista di un rito ancestrale capace di sopravvivere e rinnovarsi ogni anno senza mai perdere la propria identità, uno spettacolo che edizione dopo edizione si propone anche come esempio di sperimentazione musicale alla continua ricerca di contaminazioni e mescolanze sonore. 24

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12/09/18 13:20


INTERVISTE

YOUNUTS di Manuel Saad

Solo attraverso un rapporto così intenso con la musica, si riesce a darle forma e colore. Studio, gavetta e passione accompagnano una regia e una sceneggiatura perfettamente compatibili con le esigenze dei brani. Antonio Usbergo e Niccolò Celaia sono la YouNuts!

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uando e come avete iniziato? A- Ho cominciato con la fotografia nel 2007 circa. Appena uscirono le prime reflex ho cominciato a smanettare in ambito video. Insieme ad altri due amici avevo aperto uno studio di comunicazione ed ho incontrato Nicco proprio durante la realizzazione di uno spot. N- Io ho studiato al Cine Tv Rossellini ed ero già appassionato di fotografia e video. Ho avuto un gruppo musicale, i Brokenspeakers, per la quale ho iniziato a fare alcuni videoclip che poi venivano richiesti

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Quali sono i vostri mostri sacri del cinema? A- Hai carta e penna? (ride) N- Tarantino, Spielberg, Nolan… anche se noi abbiamo un debole per film tipo “Ritorno al futuro”, “Ghostbusters”…

Qual è il vostro videoclip preferito? E quello più difficile ad essere stato realizzato? A- Te ne diciamo tre: “Pieno di vita”, “Questa nostra stupida canzone d’amore” e “1984” che è stato anche uno dei più difficili da realizzare. N- Ci sono voluti tanti giorni di ripresa ed immagina che ogni scena dura dieci secondi ma poi devi ricostruire un videoclip intero.

Avete lavorato con numerosi artisti spaziando anche tra i generi. Dal rap di Salmo al pop di Mengoni e Jovanotti. C’è qualcuno con cui vi piacerebbe collaborare? A- Il nostro sogno sarebbe Eminem.

Avete creato uno schema fisso che seguite per ogni produzione oppure improvvisate sul momento andando più “di pancia”? A- Abbiamo un nostro schema fisso ma può variare a seconda dei casi.

anche da altri. Andando avanti con Antonio ci siamo trovati bene ed eccoci qua.

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INTERVISTE

N UOVE GEN ERAZIONI DI FILM MAKER

"In questo lavoro molte cose le capisci solo facendole"...

N- Se un video ha una nota più narrativa oppure un altro tipo di approccio. A- Il metodo di lavoro è sempre quello, anche con le persone che lavorano con noi. Abbiamo dei collaboratori fantastici e se esce un bel video è soprattutto merito loro, a partire dalle location fino agli oggetti di scena. In questo campo quindi, lavorare in un team è fondamentale. A- Sì assolutamente. Prima eravamo io e Nico e facevamo un lavoro da 10 persone, ora invece abbiamo 10 persone. Capita ancora che per alcuni video ci occupiamo noi della

scenografia, dei costumi etc. ma se ci troviamo in un periodo pieno di lavoro, ci facciamo aiutare da professionisti Per chi volesse intraprendere la carriera del videomaker, cosa consigliereste? N- Cambiare idea! (ride) Sicuramente tanta pratica. Prendi una videocamera e fai cose anche senza sapere bene cosa stai facendo. In questo lavoro molte cose le capisci solo facendole, senza ovviamente trascurare il lato teorico della cosa. A- Tra l’altro, la tecnologia ha accorciato le distanze con i professionisti. Ora molti mezzi ti permettono di

ottenere un buon prodotto senza dover spendere cifre alte. La creatività e il gusto fanno parecchio e sono elementi che si formano sul campo. Quando hai passione capisci facilmente come fare delle cose e vai avanti.

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FOCUS

Dove è finito Niccolò Contessa? di Lavinia Micheli

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er i giovani della mia generazione Niccolò Contessa è una specie di mostro sacro. Una figura di tutto rispetto che occupa un posto ben preciso (e non necessariamente il più freddo) nelle compilation di Spotify. La sua voce delicata, priva di grandi orpelli, gira nelle cuffie da quando ci sentiamo tristi e malinconici (cfr. "Una Cosa Stupida") fino a quando vogliamo fare un casino, però composto. Come si conviene ai migliori rappresentanti della scena indie. Non so quanto abbia senso parlare di categorie, e non so nemmeno se Niccolò, uno che dei social diceva, in un’intervista del 2016: “Non mi piace questo darsi le pacche sulle spalle. Non comunica nulla se non autoaffermazione, autopromozione, autocelebrazione. Mi fa schifo. È il motivo per cui prima non comparivo con il mio volto e non offro perle di saggezza sui social”, apprezzerebbe essere classificato come il re indiscusso della scena indie italiana. Niccolò, e il suo progetto musicale I Cani, semplicemente arriva. Sarà per la continua ricerca musicale che lo accompagna sin da quando, solo, nella sua cameretta romana dava vita a "I Pariolini di 18 anni", attraverso i synth di "Non c’è niente di twee" fino ad arrivare al sound più cosmico dell’ultimo album de I Cani, "Aurora", uscito

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nel 2016. L’unica certezza è quella di voler fare musica e l’impressione che si ha è che gli risulti molto facile. Tanto facile che l’artista romano, nato spoletino, negli ultimi tempi, ha deciso di mettere il suo talento a disposizione di altri cantanti: sua buona parte della produzione di (Mainstream), l’album che ha lanciato il fenomeno Calcutta; suoi gli arrangiamenti di alcune canzoni di "Faccio Un Casino" di Coez. E parliamo di pezzi del calibro di "La musica non c’è", "Delusa da me" e, ovviamente, la canzone che dà il titolo all’album, "Faccio Un Casino". Ma la biografia di Contessa è piena di collaborazioni: da Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax a Max Pezzali. Sua anche la colonna sonora di "La felicità è un sistema complesso", film di Gianni Zanasi del 2015 con un fantastico Mastandrea. Ritroviamo "Questo nostro grande amore" nel film "The Pills-Sempre meglio che lavorare". E poi la sparizione. Un fan giura di averlo visto all’Atlantico di Roma durante il concerto di Cosmo, nell’aprile di quest’anno. C’è chi addirittura pubblica interviste immaginarie. Ci manchi Niccolò. Ci mancano i tuoi testi intelligenti e semplici, colti ma mai pretenziosi. La tua musica, precisa, mai uguale. Torna, ti prego. Magari con il quarto album de I Cani per le mani.

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VENT'ANNI DI PASSIONE IN SCENA AL TEATRO OLIMPICO

Redazionale

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n concomitanza con la riapertura dell’anno scolastico si torna anche a scuola di danza. Vent’anni di passione, di rigore, di disciplina, di impegno : e di successi. Era il 1998 quando il Centro Dimensione Danza aprì i battenti. Oggi , vent’anni dopo, il Centro è una bella e concreta realtà produttiva del Comune di Formello : il prodotto dell’impegno costante e della dedizione del suo fondatore, il Prof. Federico Vitrano. Riconoscimenti di alta professionalità e qualità, ringraziamenti per appoggi di beneficenza, conferma di una realtà apprezzata a livello nazionale. Da sempre infatti, il Centro Dimensione Danza è attento ai problemi di chi è meno fortunato. I proventi del Saggio che il Centro si prepara ad allestire al Teatro Olimpico di Roma il prossimo 8 Giugno 2019, saranno destinati all’AIL ( Associazione Italiana contro le Leucemie ). Ospite d’onore della serata l’etoile internazionale Raffaele Paganini. Gli ammirevoli e numerosi traguardi raggiunti, fanno del Centro Dimensione Danza un punto di riferimento per chi vuole affrontare professionalmente il meraviglioso mondo della danza, dando ampio spazio anche a coloro che si avvicinano per il semplice desiderio di provare e divertirsi facendo comunque movimento. E’ importante sottolineare che si adottano i programmi ministeriali forniti dall’Accademia Nazionale e dalla Scuola di Ballo del Teatro dell’Opera ad uso delle scuole private. Tutti i corsi sono tenuti da insegnanti altamente qualificati dal Ministero della Pubblica Istruzione e dall’ISEF, che con orario continuato sono a disposizione di grandi e piccini.

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Il Burningman non e' un Festival. di Valeria De Medio

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na sterminata carovana di strani individui ricoperti di polvere, fronzoli e aggeggi luminosi, che per 9 giorni vaga in bicicletta tra sculture immaginifiche e danza su carri carnevaleschi nel deserto del Nevada, aspettando di vedere bruciare un uomo di legno di 20 metri. Così appare il Burningman agli occhi esterrefatti di chi si imbatte per la prima volta nelle foto scattate nel Black Rock Desert durante la settimana che precede il Labor Day, immagine che però non basterebbe a giustificare la partecipazione delle oltre 70000 persone a un evento che, senza esagerare, è diventata la realtà più folle e selvaggia del mondo conosciuto. “Burning Man non è il vostro solito festival” È scritto in grassetto a centro pagina sul sito ufficiale “E’ una città in cui quasi tutto quello che accade è opera dei suoi cittadini, che partecipano attivamente all'esperienza.” Ebbene, dal 1986 per soli 9 giorni 1 volta l'anno esiste Black Rock City, un enorme semicerchio di roulotte, tende, van, camion, dove gli abitanti detti “burners” creano originalissime performances artistiche, sculture incredibili, spettacoli, mostre d’arte, workshop, giochi con il fuoco, tutto da zero e a zero riportano tutto il giorno in cui lasciano il deserto, perché tutto scorre al BM (come lo chiama chi ci è andato). Quando Larry Harvey, Jerry James e altri solo 35 burners bruciarono il primo “man” a Baker Beach, San Francisco, non potevano immaginare la portata che avrebbe avuto questo piccolo rituale di fine estate, ma ne avevano ben chiaro lo spirito, messo nero su bianco in 10 principi fondamentali: inclusione, dono, espressione personale, responsabilità

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FESTIVAL

"Un esperimento di comunita' dove il denaro e' vietato" civica, partecipazione, immediatezza, demercificazione, autonomia, lavoro comune, non lasciare traccia. Un esperimento di comunità dove il denaro è vietato, dove tutti devono portarsi viveri e beni di prima necessità e costruirsi un riparo in autonomia, una piccola città la cui economia si fonda sul dono, senza aspettarsi nulla in cambio -tranne per l’acquisto di ghiaccio e caffè- dove non esistono pubblicità, né alcuna copertura di rete per i cellulari. Un sogno al limite della perfezione, che cresce in maniera esponenziale ogni anno con un tema diverso -quest’anno I-Robot- e con punte di utopia e contraddittorietà: se fino al 1990 partecipare al Burningman era gratuito e nel 1991 costava solo 15 dollari, oggi ci si aggiudica la cittadinanza a Black Rock City con una somma che va dai 400 ai 1200 dollari, più 80 di pass per il proprio veicolo.

dal 1986 per soli 9 giorni 1 volta l'anno esiste Black Rock City

Nella società del capitale, si sa, quando il costo cresce, cresce il desiderio e l’attenzione dei media: personaggi come Marc Zuckerberg, il numero uno di Amazon Jeff Bezos e altri nuovi ricchi della Silicon Valley vantano la partecipazione all’evento: “Se non ci siete mai stati non potete capirlo” dice Elon Musk, anche lui al centro della polemica sollevata dai “puristi”, che vedono svanire la vera anima dell’evento in container di lusso, sotto soffi d’aria condizionata, fra delicatezze gourmet preparate da chef stellati, tutto in micro quartieri dall’accesso limitato, i Billionaires Row. Will Rogers ha prontamente risposto su The New York Times e su The Guardian, appellandosi ai principi di Black Rock City, quali l’inclusione e la libertà d’espressione “Abbiamo chiesto loro di vivere secondo i principi del BM. Non possiamo costringerli.[…]credo che abbiano capito.Dopo la prima tempesta di sabbia abbiamo tutti lo stesso colore.“ Burningman è Arte, follia, creatività, per qualcuno insulto alla povertà, per altri libertà, è evento, uno spaccato della società moderna, un' esperienza di vita, filosofia, contraddizione, epifania: va bene tutto, ma non chiamatelo festival.

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FOCUS

Dall'Anticonformismo al Mainstream: c'erano una volta le subculture... di Alessio Boccali

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el secondo Novecento abbiamo assistito ad un proliferare di sottoculture giovanili che hanno influenzato l’ambiente sociale internazionale fino a segnarlo radicalmente. Minoranze per niente sparute hanno saputo costruire delle immagini ben nitide nell’immaginario collettivo, dapprima come esempio di ribellione e poi, nella fase del canto del cigno, come fenomeni di moda. Dall’anticonformismo al mainstream, sì, e la musica lo sa bene. Partiamo dagli anni ’50: ecco la rivoluzione del rock’n’roll. Sotto l’egida del mito Elvis Presley negli Stati Uniti nasce un nuovo stile. Country e blues, bianco e nero, si mescolano come un cocktail ben shakerato e si intrufolano nelle teste di una generazione che, alla fine della Seconda Guerra, ha voglia di riprendere in mano la propria vita. Ciuffi impomatati, giacche e pantaloni skinny per gli uomini ed abiti succinti, capelli raccolti e tatuaggi colorati per le donne pin up. Una vera e propria rivoluzione che ben presto, però, avrebbe invaso il mondo fino a diventare routine. Il tutto mentre l’Europa ha da fare con quei dandy londinesi e un po’ teppistelli chiamati Teddy Boys, i quali aprirono le porte alla cultura mod e al punk, e con quegli intellettualoidi parigini degli esistenzialisti che influenzarono in maniera determinante la canzone d’autore tutta. Ma torniamo negli Stati Uniti. Passata, per così dire, l’ondata rockabilly, negli anni ’60 – inizi ‘70 l’America diviene teatro dell’anticonformismo gentile degli hippies. Libertà sessuale, stretto contatto con la natura e sogni

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FOCUS

più o meno utopici da voler realizzare. I “figli dei fiori” sono allegramente esagitati e coloratissimi, il loro motto è “Peace and Love” e la ricerca dell’amore universale, il più utopico dei loro sogni, cerca uno spiraglio di luce nell’abbandono ai sensi attraverso l’utilizzo di stupefacenti allucinogeni e l’ascolto di melodie psichedeliche. Se da una parte abbiamo una rivoluzione gentile, dall’altra parte del mondo, ma anche nella non lontana e ancora fortemente inglese Giamaica, spopola la subcultura violenta degli skinheads. Odio per gli intellettualismi e simpatie razziste guidano le loro teste rasate. Appartengono alla working class inglese e frequentano le bettole e gli stadi più delle loro famiglie. Pantaloni skinny a vita alta, bomberini per coprirsi e stivali con la punta rinforzata ideali sia per scatenarsi a ritmo di rocksteady e ska che per tirare calci per strada o nel peggior pub londinese. Sulla scia di questo e del fenomeno dei Teddy Boys sopracitato, a metà degli anni ’70, nasce la sottocultura punk. Gli esponenti di questo fenomeno ben rappresentano la frustrazione degli adolescenti stretti in un limbo tra vecchi ideali, che non vogliono seguire più, e l’impossibilità di trovarne di nuovi. In Gran Bretagna le basi di questa mentalità disillusa, e spesso perversa, vengono gettate da band come i Sex Pistols, i Damned o i Clash, mentre in America sono i Dead Boys, i Ramones o gli Stooges di Iggy Pop, che con la loro musica fanno scatenare giovani dal look psicotico e dallo spirito anarchico. La cultura punk, manco a dirlo, oggi è perlopiù la parodia mainstream, di sé stessa. Sempre negli anni ’70 spira forte il vento del glam; lustrini e paillettes giocano su un’ambiguità sessuale condita da isteria elettronica e musica rock poppeggiante. David Bowie ne è l’esempio più lampante; i ragazzi e le ragazze glam sembrano degli alieni proprio come il suo Ziggy Stardust. E in tutto questo l’Italia? Ad inizi anni ’80 dopo aver subito l’influenza di un po’ tutte le subculture sopracitate, dà vita ad un suo trend che non poteva essere altro che un manierismo: il fenomeno dei paninari. Ostentazione kitsch del benessere, look discutibile e ammirazione per tutto ciò che viene da fuori: dagli hamburger dei fast food all’imitazione della musica pop in lingua inglese con personaggi italianissimi, ma con nomi improbabili come Gazebo o Den Harrow. Il tutto mentre a Londra e negli USA si affermano nuove culture e nuove sonorità. In inghilterra a farla da padrone sono, infatti, le atmosfere noir del gothic, negli USA quelle nere dell’hip hop. Il primo fenomeno si estranea dalla realtà trovando la propria dimensione nel dark, nell’oscuro, il secondo nasce come un riscatto dal buio dei sobborghi americani ed arriva ad illuminare di street art anche i centri delle città. E dagli anni ’90 ad oggi? Eccezion fatta per quei viaggiatori erranti dei berlinesi squatters, che hanno influenzato l’intero globo in stretta misura, l’onda travolgente della moda e insieme a lei il marketing non hanno lasciato spazio a fenomeni subculturali che non siano mero scimmiottamento o anacronistiche rivisitazioni di stili passati. Insomma, dall’anticonformismo al mainstream… in tutto e per tutto.

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Spazio M

Andrea Amati – “Bagaglio a mano”

CANTAUTORATO POP

“Bagaglio a mano” segna un grande ritorno per il cantante romagnolo, che in questo album gioca, sperimenta e reinventa – a modo suo – il cantautorato italiano. Leggerezza, ironia, disincanto, ma non solo… Amati, in questo progetto, tratta tanti temi, apparentemente diversi tra loro, ma in un modo del tutto personale (basti ascoltare l’omaggio a Luigi Tenco). Il viaggio è lo scopo principale dell’album: un viaggio leggero, in compagnia di un solo, ipotetico, bagaglio a mano alla continua ricerca della libertà, senza problemi, impedimenti e senza tanti fronzoli. Di Francesco Nuccitelli

Emilio Stella – “Suonato”

CANTAUTORATO POP

Scanzonato e irriverente, sempre in cerca di una nuova speranza: un po’ meno traffico sulla Pontina o una birretta bella fresca in una giornata calda e faticosa. Emilio Stella è un cantautore genuino e il suo “Suonato” lo rispecchia pienamente. La vita, spesso e volentieri, ce le suona di santa ragione, ma noi precari dell’esistenza, che siamo abituati a lottare centimetro dopo centimetro e - nel caso del cantautore – palchetto dopo palchetto per raggiungere la nostra meta, non ci arrendiamo rimanendo fedeli a noi stessi e trovando nella nostra più grande passione la forza motrice. Stella è uno di noi e le sue armi e il suo scudo sono le canzoni. Di Alessio Boccali

Funk Shui Project feat. Davide Shorty – “Terapia di gruppo”

HIP HOP / FUNK SOUL

Hip Hop, funk/soul e testi da cantautore mixati in una veste così moderna che sembra venire dal futuro. Un insieme di stili davvero azzeccato personificato dal collettivo torinese Funk Shui Project, ormai sulle scene da una decina d’anni, e il cantautore, rapper e beatmaker palermitano Davide Shorty. Temi attuali raccontati con partecipazione e cognizione di causa; la banalità non ha mai spazio negli undici pezzi che compongono questo “Terapia di gruppo” ed anche i suoni ne risentono: energici e mai uguali a sé stessi, di pregevole fattura insomma. Un ottimo lavoro in team, che conferma l’efficacia della psicologia: la terapia di gruppo funziona. Di Alessio Boccali

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Musica Joe Balluzzo - "Tra i miei colori"

CANTAUTORATO

Joe Balluzzo è tra i nuovi volti della musica italiana. Il cantautore romano, con il suo primo album “Tra i miei colori” mette in mostra tutta la sua competenza e passione per la musica. Soul, pop rock e il cantautorato, sono solo alcuni dei generi che troviamo nel suo nuovo progetto. 10 pezzi in cui l’artista, mette in mostra una grande abilità nella scrittura, che si amalgama con una musicalità elegante ed intimistica, tipica della grande tradizione della musica d’autore. Tanti i colori musicali e tanti i temi trattati per un album da non lasciarsi scappare. Di Francesco Nuccitelli

Andrea Devis - “Nella Stanza”

POP

Grande ritorno sulla scena musicale di Andrea Devis con il suo nuovo album “Nella Stanza”. Un disco ricco di influenze pop, ma dalle sfumature difficili da inquadrare (si passa con assoluta semplicità da suoni dance al soul, passando per rock, R&B e musica elettronica). Da buon vocal coach, Andrea dà grande importanza alla voce (costantemente in primo piano) lasciando sempre al suo servizio. Come se non bastasse nell’album – che presenta una tracklist di 13 pezzi – troviamo brani italiani e in inglese, che mettono in mostra ancora una volta la vocazione internazionale dell’artista. Di Francesco Nuccitelli

The Zoids – “Void Dimension”

ALTERNATIVE / INDIE ROCK

Avete presente quelle melodie alternative che pensavate di poter ascoltare soltanto all’estero o in qualche vinile degli Smiths, degli Strokes o ancora dei Kooks? Beh, i The Zoids vi fanno ricredere. Il loro “Void Dimension” ha studiato tanto e sviluppa il proprio compito tutto da solo, senza copiare. Mixa hard rock, glam rock, sonorità indies e tanti altri suoni desueti per la scena italiana in un lavoro rischioso, ma che non può lasciare indifferenti. È il quotidiano il protagonista degli otto pezzi, ma ancor di più lo è la band stessa che, su un sottofondo di chitarre graffianti alternate a melodie più dolci, ma comunque dal ritmo serrato, mette in piedi una partita a poker col dio della Musica: i ragazzi partono da un tris di jack…Di Alessio Boccali

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DAL QUARTIERE Alessandro Pieravanti

VIDEO INTERVISTA

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di Arianna Bureca

l posto in cui vivi e la strada di casa di quando eri bambino influenzano tantissimo ciò che sei e che racconti. Per me è stato così. La maggior parte delle cose che ho scritto si ambienta qui…” Parliamo di Via Piccarda Donati, dietro Piazza Bologna, dove Alessandro Pieravanti ha vissuto i primi 20 anni di vita e dove Sound Meeter lo ha incontrato in una domenica all’ora di pranzo.

“Come mai questo momento è così speciale per te?” “Ti rispondo citando ‘500’: Perchè c’è silenzio ovunque, tranne che sulla strada de casa mia che se sente ‘na sinfonia de forchette che pijano li piatti, che pare che nessuno è bono a magnà. Ma in quer momento te sei sarvato perchè nessuno te pensa e tu nun pensi a nessuno (...). Sai, la domenica all’ora di pranzo, tutti si prendono una pausa!” “Com’è il pranzo della domenica a casa Pieravanti?” “Ti svelo una cosa: in ‘Domenica a pranzo da tu madre’ racconto praticamente tutto, tra cui i famosi rigatoni al sugo di maiale, che però mia madre non ha mai cucinato! Il resto è verità: mio fratello complottista, la tovaglia fiorata, le spuntature...” (ride) “Da quanto tempo vive qui la tua famiglia?” “Da quando ci vennero i miei nonni che avevano qui un banco di abbacchi e polli. Lo ricordo con affetto e per questo mi sono tatuato la mannaia, un tributo a loro. Non l’ho mai raccontato ma farlo passeggiando tra i banchi del mercato mi sembra la cosa più bella da fare” “A quali altri luoghi del quartiere sei legato?” “Moltissimi. Tra questi l’ex galoppatoio di Villa Torlonia, dove anni fa il weekend senza darsi appuntamento ci si ritrovava ad ogni ora per giocare a pallone. Non c’era numero di giocatori, età, lavoro o etnia classificante. Si veniva e si giocava. Un bell’esempio di integrazione.” “Parli di integrazione anche nel tuo ultimo libro...” “Si, in ‘500 e altre storie’ c’è un brano in cui immagino il mondo come un grattacielo di cui siamo tutti inquilini. Citofoniamo a Roberto Angelini che abita qui dietro, se è a casa ve lo recito accompagnato da lui...”

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DAL QUARTIERE Bud Spencer Blues Explosion

VIDEO INTERVISTA

di Arianna Bureca

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bbiamo ricostruito, dentro ad una saletta, il garage dove ho imparato a suonare. Abbiamo portato le chitarre, le batterie, i microfoni, attaccato i poster alle pareti. Abbiamo chiamato a jammare tutti gli amici musicisti. È stato un processo di capitalizzazione delle idee durato un anno e mezzo, quasi fossimo due artigiani. Ne è uscito ‘Vivi Muori Blues Ripeti’, forse il disco più bello che abbiamo mai fatto” Il duo esplosivo formato da Adriano Viterbini (chitarra e voce) e Cesare Petulicchio (batteria) è tornato sulla scena con un nuovo album uscito per La Tempesta Dischi a marzo 2018. Li abbiamo incontrati tra le strade del Pigneto (quartiere romano dove i due sono musicalmente cresciuti) tra una passeggiata su Via Casilina Vecchia, un caffè e una chiacchierata a ‘Na Cosetta terminata con un piccolo live. “Qual è il primo ricordo che avete quanto ripercorrete questi vicoli?” Adriano: “Sai, da ragazzo feci un concerto al Circolo degli Artisti davanti ad una persona. Qualche anno dopo ne feci un altro, Sold Out. Lego questo ricordo ad un momento importante in cui ho realizzato un sogno: vivere queste emozioni con la musica”. Cesare: “In questo locale abbiamo anche registrato un EP Live: Fuoco Lento. E’ uno dei posti più fichi d’Italia dove suonare, e speriamo vivamente che venga riaperto...” “Da Fuoco Lento sono passati 7 anni. Come descrivereste il nuovo album?” Adriano: “Vivi Muori Blues Ripeti è un disco sincero, diretto, pieno di bei suoni, analogico, sexy, eccitante… vero. Il titolo nasce da un gioco di parole che vidi su un adesivo in Australia. Richiama la vita, la morte e il blues, che racchiude tutto” (ride) “Racchiude anche grandi collaborazioni…” Cesare: “Ci piace moltissimo collaborare, ed è una cosa purtroppo rara. In questo disco abbiamo avuto l’opportunità di lavorare sulla parte testuale con due artisti di cui siamo da sempre fan: Davide Toffolo e Umberto Maria Giardini (ex Moltheni). È stato bello” Così come è bello notare la voglia di mettersi continuamente in discussione che condividono Adriano e Cesare, la formazione imprescindibile che disco dopo disco non smette mai di stupire e ammaliare con quella spontaneità che contraddistingue ogni grande Blues Man.

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MUSICAZERO

Progetti da scoprire... a cura di Valeria De Medio, Guido Pietro Airoldi & Carlotta Santigli

Catnapp

“A Cliff in an eyeblink” È originaria di Buenos Aires, ma vive e produce a Berlino e ascoltarla è una discesa nei sotterranei bui e umidi di una metropoli del post atomico, Berlino o Buenos Aires, scegliete voi. Si chiama Catnapp, aka Amparo Battaglia e le sue live performances sono bombe a idrogeno ma lei è una tenera biondina che ama i gattini, il caffellatte e la pace nel mondo. Smilza dallo sguardo malinconico e penetrante, esordisce con la potenza di bassi minimal e tech house e la forza dell’electro e, quando tira fuori la voce, racconta un mondo fatto d'amore, rabbia, tristezza e nostalgia, rappando su basi breakbeat, drum&bass, R&B, e pop, ma senza mai abbandonare la sperimentazione elettronica. Il suo background va dai Prodigy ad Aphex Twin, Outkast e arriva fino a Beyonce e collabora con alcuni dei più grandi produttori e djs internazionali, come Dj Koze, Tricky, Maya Jane Coles, Fever Ray e tanti altri. Ascoltate “A Cliff in an eyeblink” e la amerete, se siete abbastanza coraggiosi.

Nu Guinea ”Viva Napoli”

Atmosfere esotiche di paesaggi lontani e ritmi tribali: il mondo Nu Guinea è questo. E tanto altro. Cuore napoletano e formazione berlinese, i Nu Guinea si distinguono per la miscela di etno world music ed elettronica, marchio di fabbrica del progetto fin dal primo EP “World”. Dopo “The Tony Allen Experiments”, squisito tributo al maestro dell’afrobeat Tony Allen, jam sessions e sintetizzatori arrivano fino all'ultimo “Viva Napoli”. Protagonista indiscusso del nuovo disco, il dialetto napoletano, nascosto tra i vicoli discofunk e gli scorci rock/blues dedicati a pionieri come Tullio De Piscopo e Pino Daniele, Napoli Centrale, Tony Esposito e James Senese. Stavolta Martino e Lucio sgommano come starsky & hutch sul lungomare di Mergellina, per accompagnarci in un “neo esotismo napoletano” con l’appeal della sperimentazione elettronica berlinese, tra synth e una Linn 9000. Dopo Liberato e Franco Ricciardi eccovi servito il nuovo caso discografico dell’anno. 40

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MUSICAZERO

Ketama 126

"Un disco un po' Rock, un po' Rap!" Al terzo album questa volta Lil Kety ci ha voluto regalare un disco che e' espressione di una miscela armonica tra piu' sonorita' e generi musicali differenti. Ketama qui ci svela il suo passato "metallaro" e la sua passione per questo genere che inizia gia' da prima dei tempi del liceo dove faceva parte della classica cover band dei Black Sabbath o Metallica, in un disco che unisce rap e rock, attraverso la trap. Suona assurdo ma e' cosi'... Tanta chitarra a volte campionata e a volte suonata, come in Rehab e in Lucciole, dal musicista Luca Galizia aka Generic Animal. L'uscita del disco e' stata il 25 maggio senza alcun annuncio, a sorpresa da una notte all'altra. Ha stupito e appassionato il pubblico fedele alla Trap e a Ketama, conquistando cosi' la fiducia dei pochi scettici rimasti.

POP X

"Musica per noi" Al terzo album questa volta Lil Kety ci ha voluto regalare un disco che e' espressione di una miscela armonica tra piu' sonorita' e generi musicali differenti. Ketama qui ci svela il suo passato "metallaro" e la sua passione per questo genere che inizia gia' da prima dei tempi del liceo dove faceva parte della classica cover band dei Black Sabbath o Metallica, in un disco che unisce rap e rock, attraverso la trap. Suona assurdo ma e' cosi'... Tanta chitarra a volte campionata e a volte suonata, come in Rehab e in Lucciole, dal musicista Luca Galizia aka Generic Animal. L'uscita del disco e' stata il 25 maggio senza alcun annuncio, a sorpresa da una notte all'altra. Ha stupito e appassionato il pubblico fedele alla Trap e a Ketama, conquistando cosi' la fiducia dei pochi scettici rimasti.

SOUNDS GOOD

ROMA QUARTIERE AFRICANO - SCUOLA DI MUSICA - SALA PROVE - STUDIO DI REGISTRAZIONE

Via Dancalia, 9 - 00199 Roma, www.soundsgoodroma.com soundsgoodsalaprove@gmail.com - Tel. 06 86 08 554 - Mob. 345 5827645 41


GENERATION

LA RUBRICA DEI MIGLIORI DJS E PRODUCERS DI OGGI E DI SEMPRE

Monika

Monika inizia a suonare il pianoforte alla modica età di quattro anni, ottenendo ottimi risultati, che le conferiranno poi quella consapevolezza e quell’orecchio determinati nel corso di tutta la sua carriera. Ha 47 anni, di cui 27 spesi completamente per la musica, ma anche per la beneficenza.

KRUSE

a cura di Carlo Ferraioli

Ventisette anni e non sentirli, Monika Kruse: regalita' techno Dalla musica al sociale, una carriera di successi a tutto tondo

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n’artista completo non lo si riconosce subito, servono tempo, spazi, energie. Ma soprattutto risultati. M. Kruse, quarantasettenne tedesca e pioniere della scena techno a livello sia europeo che mondiale, ha trovato il modo e le capacità per realizzare tutto ciò, con impegno e determinazione certo, ma specialmente con quel tocco di follia e genialità di cui solo personaggi di questo calibro sono forniti. Monika nasce in un non luogo, non più esistente, almeno in termini di confini: Berlino Ovest. Da lì, parte sin dai primissimi anni una smisurata passione per la musica, quasi di ogni genere (funk, soul, hip-hop ed house), che la porterà precoce a stupire ed illuminare, se stessa e chi le è attorno. A partire dal ’91, infatti, intraprende una strada ben precisa, che ancora percorre, quella in cui è maestra: i primissimi rave in quella Monaco che l’ha cresciuta, fatta di rifugi antiaerei abbandonati, post bellici, dove le persone cercavano di mettersi in salvo durante i bombardamenti. Anni dopo, quegli stessi rifugi avrebbero dato riparo alla sua voglia di esplodere e mettersi in mostra, con un altro tipo di bombe, che non fanno del male, ma del bene. 42

Awakenings, Time Warp, Sonus, giusto per dirne tre, sono alcuni degli eventi in cui si è sempre esibita con successo, portando ben in alto il nome della sua storica e venerata etichetta, la Terminal M. Festival e quindi artisti, big pari merito, che hanno apprezzato, e continuano a farlo, il suo stile deciso, travolgente, impetuoso, a tratti anche “violento”, proprio come lei e la sua vita, ricca di sfida e di corrispondenti vittorie, nonostante le tante difficoltà. E allora a farle i complimenti non mancano volti noti, anche ai lettori di questo magazine: Carl Cox, Sven Vath, DJ Rush, DJ Pierre, DJ Hell e Tobi Neumann. Nomi, eventi, ma anche spazi, luoghi ed energie profuse per giustissime cause: dal Cocoon allo Space, passando per l’Amnesia, Ibiza. Fondatrice dell’associazione benefica “No Backspin”, a partire dal 2000, Monika Kruse ha raccolto infatti oltre centomila euro per aiutare e sostenere tutti coloro i quali sono soggetti ad attacchi di razzismo, omofobia, antisemitismo ed anti immigrazione. Una stella è sempre sola perché pensa solo a splendere, ma non sempre è così, e l’avvolgente luce di quest’artista ne è chiaro esempio.

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DJ SHOP

Sensazioni e sensazioni, quando il digitale si fa (anche) analogico di Carlo Ferraioli

Denon DJ SC 5000 M L'ultimo ponte ideato per legare nuove e "vecchie" tecnologie

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vete presente tutte le comodità, il comfort che uno strumento nuovo, in funzione esclusivamente digital, potrebbe fornire, ad esempio, ad un aspirante disc jockey? Quella sensazione di spaesamento all’inizio, per via magari dei tanti comandi da dover necessariamente imparare a gestire, per far funzionare nel miglior modo possibile e sfruttare a pieno le capacità e le potenzialità dello strumento che si sta utilizzando? Ma poi, esperito tecnicamente il tutto, quel senso di padronanza che porta ogni dj a sapere molto bene cosa ha fra le mani, anzi, sotto di esse? Bene, se a ciò abbinassimo la manualità e la percezione di un vero giradischi, cosa potrebbe uscirne fuori secondo voi? È molto più semplice – semplice si fa per dire – di quanto non sembri: Denon DJ SC 5000 M, solo l’ultimo di una lunga serie di innovazioni targate Denon DJ, che dal 2003 non ha smesso di stupire neanche per un attimo con continui miglioramenti. Ma qui siamo ad un passo storico, epocale. E vi spiego subito il perché. Questo nuovissimo media player, infatti, riesce a rendere il feeling con la macchina davvero unico nel suo genere, come qualcuno ha avuto modo di definire, ma soprattutto tale e quale a

quello che si avrebbe lavorando con dei giradischi analogici. La spiegazione è quanto mai tecnica, frutto di un evidente lavoro di ricerca e perfezionamento tecnologico in materia: la versione M, che sta per motorizzato, è dotata di un vero disco in vinile da 7” al centro del wheel, con coppia regolabile e piatto, per l’appunto, motorizzato. Ma non solo. Lo stesso piatto è composto di un materiale pregiato e resistente: alluminio pressofuso, caratterizzato dall’alta risoluzione delle prestazioni MIDI. Ciò garantisce sostanzialmente al fruitore che deciderà di cimentarsi con questo nuovissimo pezzo sul mercato una vera rotazione meccanica, davvero da brividi. Lo schermo multi-touch HD da 7’’ offre del resto la familiarità d’uso dei moderni dispositivi touch screen, e i dj hanno anche la possibilità di importare tutte le proprie librerie musicali, da iTunes a Serato DJ Pro per finire con Rekordbox, passando per playlist, cartelle, hot cue e loop. Un vero salto di qualità, insomma, per chiunque deciderà di affrontare la spesa che comporta, ed averne un modello tutto per sé, col quale poter, udite udite, suonare un intero set con un solo lettore grazie alle doppie uscite: analogica e digitale, indipendenti. Allora, pronti a suonare?

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FOCUS

SLEEPING SOUND L'irresistibile fascino del batterista di Simone Lucidi

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i fa sempre più attenzione al cantante, a chi fa il solo di chitarra da paura, ma la genialità dell’ultimo uomo viene sempre raccontata poco. Il batterista di solito è considerato pazzo o marginale, senza pensare che è quello che sul si dà di più, che è quello che suda di più. Senza pensare che senza di lui in una band manca il ritmo, manca l’equilibrio, manca quella variabile impazzita che decelera e accelera un pezzo, dandoti quel movimento da fare quando tu, ascoltatore, non sai che fare e quando il ritmo cresce tu ti metti a rollare con le bacchette immaginarie, pensando di essere John Bonham. Ci sono state delle figure pazzesche dietro la batteria, chi si drogava fino a star male, ma non perdeva un colpo o chi aveva un portamento nel suonarla, come se ci ballasse un lento. Batteristi come Jeff Porcaro per esempio, una vita passata tra cattive abitudini ed una morte assurda, ancora avvolta da mistero; è stato un musicista soppraffino capace di registrare più di 800 album in studio con gli artisti più famosi degli anni 70, 80 ed inizi 90. Con il suo gruppo, i Toto, è stato in grado di creare nuovi stili per suonare la batteria ed ha lanciato nuovi sound. Se togli gli altri strumenti da un pezzo dei Toto e ascolti solo Jeff, il brano mantiene la sua anima. Un pezzo da cui si può capire l’esempio precedente è Home of the Brave, del 1988, inserito nell’album The Seventh One. Un altro batterista eccentrico è Neil Peart, l’anima dei Rusch. La band canadese aveva il suo sound, ma senza Neil il gruppo sarebbe diventato piatto, senza sfumature e tempi dispari - caratteristica che lo ha proiettato nell’universo dei batteristi più famosi e apprezzati al mondo. Per apprezzare Neil Peart bisogna ascoltare tutto l’album manifesto dei Rusch, 2112 (del 1976) e The Spirit of radio (del 1980, dall’album Permanent Waves).

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AUDIOTECNICA

www.audiorandom.com / info@audiorandom.com

Benvenuti in Audio Random, IL NUOVO PORTALE DI AUDIO TECNICA A ROMA. Brevi pillole per farvi scoprire le basi per la produzione e la registrazione di musica, curando gli aspetti tecnici delle strumentazioni usate dai produttori e dagli artisti, focalizzandoci sui software e i suoi tips & tricks dei programmi più gettonati come Ableton Live & Logic Pro, facendovi scoprire e risolvere in pochi passi le operazioni più complesse.

RMS E VALORI DI PICCO SUI VOSTRI MIX a cura di Gianluca Meloni

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acciamo un po’ di chiarezza sull’argomento degli RMS ed il loro valore di picco nel missaggio. Prima cosa: che cosa sono gli RMS? Che valore dovrebbe avere il mio mix per ottenere un mastering perfetto che suoni bene in ogni dispositivo? La potenza espressa con la sigla RMS è abbastanza complessa: si definisce valore efficace di una funzione continua x(t), la radice della media quadratica (ovvero la "radice della media dei quadrati" detta anche valore quadratico medio, in inglese Root Mean Square, da cui la sigla), sul periodo della funzione stessa. Per determinare il valore, vengono eseguite tre operazioni matematiche sulla funzione che rappresenta la forma d'onda CA: (1) Viene determinato il quadrato della funzione forma d'onda (solitamente un'onda sinusoidale). (2) La funzione risultante dal passaggio (1) viene mediata nel tempo. (3) Viene trovata la radice quadrata della funzione risultante dal passaggio (2). Quindi il termine Root Mean Square (RMS) viene molto spesso usato senza conoscerne il vero significato 46

Il valore RMS di un segnale complesso deve essere letto con un misuratore apposito. Nonostante la sua complessità, il valore dei Watt di un amplificatore espressi in RMS è sempre una media di valori che cerca -ma non riesce del tutto- di esprimere quanta potenza reale possa essere convertita in movimento dall'altoparlante ad esso collegato. Potenza di Picco La potenza di picco si riferisce al massimo della forma d'onda di potenza istantanea, che, per un'onda sinusoidale, è sempre il doppio della potenza media. Per altre forme d'onda, la relazione tra potenza di picco e potenza media è il rapporto di potenza da picco a medio (PAPR). Sostanzialmente il valore di picco ci indica quanto possiamo spingere il nostro segnale, sia di uno strumento se lo stiamo registrando o di un intero mix verso la soglia dello 0 db che determina il tetto massimo nella vostra DAW, un valore intorno ai -3 / -6 db dallo zero è un valore ottimo per impostare i nostri mix, cosi da poter lasciare respiro, cioè dinamica o headroom. Notiamo spesso che nei missaggi di vari artisti e produttori ci

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AUDIOTECNICA siano molte incongruenze, date spesso dall’inesperienza o da una conoscenza approssimativa della fonia. Questo alle volte comporta che un buon brano venga poi rovinato dal fai da te che si è manifestato sempre di piu' in questi ultimi anni, non tenendo conto di alcuni passaggi che sono le basi per un buon missaggio e per un ottimo mastering. Il primo step consiste nel lasciare un headroom al nostro mix e quindi valutare il segnale di picco con un analizzatore di spettro impostato sui valori di pick level, (non fatelo andare al di sopra dei -6 db).

1,5/max 2 db di gain reduction, in questo modo i picchi saranno più controllati e potrete sentire un effetto comunemente chiamato come ( Glue Compressor) un collante che amalgama un po’ tutto il mix. A questo punto suggeriamo che lasciate che sia il tecnico del mastering a portare il vostro mix a 0 db con un disegno di equalizzazione appropriato ed una compressione che potrebbe essere più adeguata anche per il genere musicale trattato. Se volete addentrarvi voi alla masterizzazione, fate sempre conto che una buona catena di mastering si basa su pochi strumenti: un equalizzatore, un compressore, un plugin per controllare l’immagine stereo ed in fine un limiter. I valori medi per un buon ascolto di vari brani si aggirano intorno ai -12/-9 db di RMS anche se in alcuni casi si puo' andare ancora più in alto. Le considerazioni che possiamo fare in questi ultimi anni con la rincorsa al fenomeno del "Loudness War" sono queste: i brani oramai ascoltati da dispositivi, come cellulari e piccole casse di computer, hanno portato ad una distorsione e saturazione inimmaginabile; i master sempre più alti di volume non hanno diffuso un buon esempio in termini di qualità. Alcune piattaforme, infatti, come YouTube, Spotify e iTunes hanno cominciato a determinare valori più bassi di LUFS che è il valore di "Loudness Full Scale", e stanno nascendo nuove tecnologie che permetteranno un controllo più’ adeguato al mastering.

Applichiamo soltanto compressioni o limiter sui canali singoli e non sul master; in questo modo il vostro mix risulterà dinamico ed anche ascoltandolo ad alto volume non clipperà mai. Un suggerimento sul controllo dei picchi sul master è quello di applicare un leggero compressore che attenui i picchi che possono essere dati dai transienti veloci delle frequenze alte come piatti rullanti o synth. Impostatelo sempre con un ratio di partenza sui

Questa è una scala dei valori di riferimento da seguire per un buon ascolto sulle varie piattaforme.

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INTERVISTE

Luigi 'Grechi' De Gregori

ph Giuseppe De Gregori

di Alessio Boccali

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uigi “Grechi” De Gregori è un simbolo della musica folk italiana, cresciuto, come suo fratello Francesco, a pane e musica tra le mura del Folkstudio, luogo di formazione di tutta la cosiddetta scuola romana dei cantautori, ha portato la sua musica ovunque nel mondo ed ora è tornato con un nuovo progetto: “Una canzone al mese…” Salve Luigi, partiamo dal suo nuovo progetto “Una canzone al mese”, com’è nata quest’idea? Innanzitutto, era ora che tornassi. Dovevo farlo con un cd, ma oramai sembra che i cd non servano quasi più a nulla, le nuove macchine addirittura non hanno nemmeno il lettore. Quindi ho deciso di far uscire i miei dodici pezzi in digitale, uno al mese, e poi, se ci sarà una grande richiesta, li raccoglierò in un supporto fisico. Ho deciso di rompere il ghiaccio il 21 giugno con un pezzo già noto al pubblico, la “Dublino” scritta da mio fratello Francesco, e poi il mese successivo è uscito il primo vero inedito: “Tangos e Mangos”, una canzone leggera e divertente. 48

A proposito di “Tangos e Mangos”, è una novità per lei, che non è mai stato schiavo delle classifiche, questa leggerezza tematica… Sì, questo è una canzone che facevo nelle serate di bisboccia tra amici. L’ho sempre lasciata al privato, ora però ho pensato che era il momento di farla conoscere a tutti anche correndo il rischio di esser preso per scemo (ride, n.d.r.). Il prossimo pezzo che uscirà sarà più simile al mio stile storico. Lei ha viaggiato tantissimo e nella sua musica c’è tanto del suo essere giramondo… Il viaggio è il tema più antico di tutta la letteratura, non si può raccontare nulla senza il viaggio. Nuove esperienze e canzoni si sono alimentati a vicenda; non ho mai viaggiato però alla ricerca di nuove realtà musicali ed oggi per quello ormai basta internet. Restiamo proprio sul tema “internet”. Il web oggi può sostituire quello che è stato per lei e per tanti grandi artisti il Folkstudio? In un certo senso sì, ma ci sono cose che si imparano soltanto a scuola e il Folkstudio, o posti come quello, per noi sono stati anche una scuola. È tutta un’altra cosa poi esibirsi dal vivo rispetto a registrare in studio, camuffare, architettare l’esibizione per poi caricarla sul web. Tra le tante collaborazioni artistiche della sua carriera, oltre a quella con suo fratello, qual è quella che le è rimasta più nel cuore? Mi piace ricordare alcune persone sconosciute ai più. Roger Belloni, un chitarrista blues/folk con cui feci subito amicizia a Milano e mi insegnò molto. Un altro carissimo amico è stato Ricky Mantoan, o ancora Peter Rowan. Tutti loro mi hanno insegnato qualcosa ed io devo a loro parte di quello che sono musicalmente e umanamente. Parlavamo prima della musica live, quale pensa sia la dimensione giusta per godere al meglio delle sue canzoni? Non riesco ad immaginare tour ed è assai complicato oggi organizzarne; mi piace comunque l’incontro con un pubblico modesto, preferisco i locali da “pochi, ma buoni” dove c’è un vero e proprio dialogo tra pubblico ed artista. Non sto parlando di un pubblico di élite, attenzione, ma semplicemente di persone veramente interessate alla musica, che sono disposte a mettersi a sedere e a godere con calma delle canzoni.

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NEWS

Fan dei Queen di tutto il mondo unitevi: finalmente Bohemian Rhapsody arriva nelle sale! di Lavinia Micheli

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oger, in questa band c’è spazio per una sola regina isterica!” sentenzia Rami Malek nei panni

del giovane Freddie Mercury rivolto a Ben Hardy, che presta il volto a Roger Taylor, nel trailer ufficiale di Bohemian Rhapsody, che uscirà nelle sale il 2 novembre. Il film, la cui sceneggiatura è stata affidata ad Anthony McCarten (già autore de La Teoria del Tutto), ripercorre parte della carriera del più grande Frontman di tutti i tempi: dal 1970, anno di nascita dei Queen, al 1985, anno del Live Aid concert organizzato da Bob Geldof. Chi non ricorda la memorabile performance al Wembley Stadium? Venti mi50

nuti che cambiarono la storia: The Great Pretender, di bianco vestito, al pianoforte. Le prime note che scorrono leggere sono proprio quelle di Bohemian Rhapsody. La folla in delirio. Canzone regina di A Night at the Opera,

quarto album in studio della band inglese uscito nel 1975, la Rapsodia Bohémien incarna perfettamente lo spirito libero, eccentrico e innovatore del suo cantante. Caratteristiche non facili da rappresentare e che hanno comportato mesi di duro lavoro per Rami Malek, il quale si è immerso completamente, per proprio conto, nella vita dell’uomo dalla “voce più rock di tutti i tempi (secondo Classic Rock)”. E pare che ci sia riuscito così bene, da far piangere lo stesso Brian May. E sì che portare a termine questa pellicola non è stato per niente facile. Tanti gli at-

tori pensati per il ruolo di Freddie: Sacha Baron Cohen (vi ricordate di Borat?), Ben Winchell, abbastanza somigliante. Poi la certezza assoluta del produttore Graham King alla vista del provino di Malek, protagonista della serie Mr.Robot. Tante anche le complicazioni dovute all’abbandono del set da parte del regista Bryan Singer a fine produzione. Oltre alla mastodontica difficoltà di ridurre la storia della band in due ore di girato. Tutto risolto, a quanto pare, grazie all’avvento di Dexter Fletcher che ha chiuso la regia, alle scelte di ricercare “l’equilibrio giusto” nella rappresentazione della storia e allo straordinario talento dell’attore protagonista. Dopo una scorpacciata di interviste, filmati, racconti degli stessi componenti della band, studio sui movimenti e la postura, Malek ci promette faville, denti compresi: “Quando li ho tolti alla fine del film, mi sentivo completamente nudo”, ha dichiarato a Rolling Stone. Denti di cui Freddie Mercury si vergognava, che gli procuravano un accento particolare nella pronuncia, che costituivano il suo marchio di fabbrica. Gli stessi denti da cui fuoriusciva quella voce sublime, estesa per quattro ottave, pressoché irriproducibile. Infatti sarà la sua quella che sentiremo rimbombare nelle sale dei cinema, alternata a registrazioni di Marc Martel, un canadese capace soltanto di imitarne il timbro. Anyway the wind blows.

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Musica a tratti Illustrazioni grafiche di CHIARA ZACCAGNINO

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FOCUS

Note di Gusto di Fabio Turchetti

S

tappo un Barolo Cannubi dei Marchesi di Barolo: precisamente l’89, annata meravigliosa. Quando il velluto sfiora narici e papille, con classe sopraffina, e i rimandi alla viola, alla frutta secca, ai fiori secchi e all’humus si materializzano, non resterà che chiudere gli occhi e spalancare le orecchie. E sarà bene farlo con "Kind of Blue" di Miles Davis, per molti “il” disco jazz: eleganza sopraffina, nitore assoluto, timbri adamantini. Forse anche per il momento contingente, ovvero il consueto catartico crepuscolare imbrunire alle soglie dell’autunno: né caldo né pioggia indisponente, però, a turbare quella penombra foriera di ulteriori dimensioni. Il cd aiuta, di certo, ad eliminare graffi e crocchi: ma se si possedesse un giradischi, pure d’antan, capace di indurre in tentazione già nel ricordare il rumore della puntina che cade sul vinile, potrebbe non essere proprio lo stesso, in meglio intendo. Perché un album che inizia così discreto, soffuso, misterioso, paradossalmente silenzioso (con un parterre di compari di merenda da far paura, basterebbe citare solo Bill Evans e John Coltrane, non so se mi spiego), e che poi cattura e turba come un cobra incantatore, meriterà appieno la pastosità di quel suono, dei solchi che man mano stringeranno inesorabilmente verso la fine. E quando il riff di "So What" sarà ormai ben definito, ormai un punto di non ritorno, versare il Cannubi in un calice meritevole di tempo e di spazio sarà come aver trovato la quadratura del cerchio. Gli aromi che si aprono, mentre la tromba di Davis si fa sottile e lancinante al contempo; la leggera trama aranciata che all’occhio rende il piano di Evans denso di chiaroscuri notturni e insieme luminosi, alla faccia di qualsivoglia ossimoro; il sax a far da sponda ad un sorso energico ma sinuosissimo, mascolino e femmineo, con un tannino a dar sostanza palatale alla gola di Coltrane che soffia come nessuno. Via tutto: telefoni, tv, traffico, fatica, sudore. Solo testa e cuore, a fornire corollario emozionale. Meglio persino non mettere nulla sotto i denti, almeno per il momento: quella crosta di formaggio inarrivabile, così a portata di mano, quel brasato che vi attende lento lento in pentola, quei salumi di succulenza ineguagliata, potranno giustamente attendere. Così come quel tartufo che, data l’età del vino, potrebbe essere richiamato appieno dall’esperienza sensoriale: c’è tempo, ancora. Prima di tutto ciò, ci saranno cinquanta minuti di classe pura, se nel frattempo la compagna d’ascolto che avrete invitato non si sarà scolata già tutta la bottiglia, ancor prima dell’ultima nota… 52

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Il caso

Lucio Battisti Emozioni in Tribunale Avv. Claudia Roggero & Valentina Mayer www.dandi.media

I

l 9 settembre 2018 è stato il ventennale della morte di Lucio Battisti, uno dei geni assoluti della musica italiana. Morto a 55 anni, stroncato da una malattia, solo per un caso l’anniversario della sua scomparsa coincide con la notizia che potrebbe forse trovare fine l’intricatissima, nonché lunghissima, battaglia legale legata alla sua musica. Battisti detestava la pubblicità e i riti della comunicazione. La sua ultima, storica apparizione alla tv italiana è datata 23 aprile 1972: il programma era «Studio 10». Il resto è stato, fino alla fine, impenetrabile riservatezza. Ma torniamo al caso giudiziario con il quale ho aperto l'articolo. Si tratta dei diritti dei 12 album più conosciuti della carriera di Battisti: quelli incisi con i testi di Mogol. Tutto nasce dalla decisione di Grazia Letizia Veronese di non autorizzare la diffusione della musica del marito se non per vinili e cd. E cosi arriviamo al tema avvincente: la diffusione su Internet. Un NO deciso

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alle piattaforme di streaming. Se non conosci la vicenda giudiziaria te la riassumo in poche righe. La società Acqua Azzurra, proprietaria dei diritti di tutte le canzoni pubblicate dal 1969 al 1980 (con una rendita di circa 800 mila euro l’anno), vede da una parte la vedova Grazia Letizia Veronese e il figlio Luca, e dall’altra Mogol e la Universal. Le incomprensioni fra le parti hanno portato a cause di risarcimento, fino all’inevitabile messa in liquidazione nel 2016 per il mancato raggiungimento di un voto a maggioranza qualificata (dove il 56% degli eredi Battisti non sarebbe stato sufficiente). Ma i problemi non sono finiti lì: la gestione dei liquidatori nominati dagli azionisti è stata messa a dura prova, costringendo i due alle dimissioni e a contattare il Tribunale delle Imprese, che ha deciso di nominare un commissario. Ecco dunque la novità: vista l’impossibilità di arrivare a una soluzione, il Tribunale di Milano si è affidato a un esperto, affidandogli “tutti i poteri di legge volti alla miglior liquidazione della società (Le edizioni Acqua Azzurra, di cui

sono soci tutti i soggetti citati sopra), compresa la possibilità di concedere licenze di sfruttamento economico delle opere anche online”. La musica di Lucio Battisti potrebbe essere diffusa online e dunque finire a disposizione anche di quel pubblico che ormai da tempo non utilizza i supporti fonografici. In alternativa o in concorso con la vendita in blocco del catalogo editoriale, ci sarà la possibilità di concedere licenze di sfruttamento economico delle opere “anche online”. Fa una certa impressione che la rievocazione di Lucio Battisti coincida con le notizie che vengono da un tribunale. Per la musica non è certo una novità. Pensa per fare solo qualche nome, a quanto accaduto a George Michael, deceduto il giorno di Natale del 2016. E' stata subito guerra tra le sorelle del cantante e Fadi Fawaz, che accampava diritti sull’eredità e vive in una delle case di George vicino a Regent’s Park (valore sei milioni di sterline). Anche la gestione del catalogo di Prince ha creato non pochi scompi-

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gli, tra gli eredi. Questi ultimi hanno affidato la gestione del catalogo dell’artista al gruppo editoriale Universal Music Publishing tramite un accordo, valido a livello mondiale, da 31 milioni di dollari (più di 27,7 milioni di euro). Controllo sui diritti anche per Frank Zappa, la cui moglie, dalla morte dell'artista, ha curato per lui tutto suo il patrimonio discografico e la

sua sterminata produzione musicale. La donna, combattiva e irriducibile, aveva fatto causa alla "Zappanale", il festival mondiale in cui ogni anno in Germania un pubblico venuto da tutto il mondo va in estasi ascoltando sosia e mini rockband improvvisate eseguire la musica del maestro, chiedendo 150 milioni di euro per i danni già fatti, e altri 250 se i fan continueranno a suonare e a vendere gadget. Ma torniamo a Battisti. In fondo il

sodalizio con Mogol si è interrotto perchè proprio Mogol pretendeva di dividere al 50% i diritti delle canzoni scritte insieme. E bisogna ricordare che Battisti non è soltanto quello con Mogol. Nell’attesa che la Corte d’Appello si pronunci sul risarcimento di 2,6 milioni di euro riconosciuto a Mogol nel 2016, e mentre la Universal, spera ancora di poter uscire dalla liquidazione, la situazione resta complessa e la guerra non è ancora finita.

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Arte

a Roma

LA LIFE e' BELLA "Presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini e la Galleria 1 del MAXXI".

tazione ha fatto i propri cavalli di battaglia. Il potere, il trascorrere del tempo, l’erotismo, l’intimo… tutto viene filtrato dalla lente dell’artista, rassegnato o meno, a rappresentare un’apparenza fittizia o deciso a raccontare il vero, a sciorinare l’essenza. Oggi parliamo di altri filtri, quelli utili a mascherare la verità e ad autorappresentarci artificialmente in foto e selfies sempre più perfetti, ed è proprio per questo che la mostra in questione assume una duplice valenza: storico-artistica e sociale perché, nel valorizzare un patrimonio, cerca di coinvolgere non il pubblico d’élite di chi è già avvezzo allo spettacolo museale, bensì un pubblico più ampio: quel novero di giovani così attratto dall’artificiosità del virtuale, cui si faceva velato riferimento poche righe più su.

ECO E NARCISO

RITRATTO E AUTORITRATTO” di Alessio Boccali

E

co era una ninfa dalle fattezze perfette, la sua dannazione? Essersi invaghita “d’uno che non l’amava niente”, come direbbe De André. Un tal Narciso, affascinante giovanotto, che tutte e tutti rifiutava. Finché un giorno, per punizione divina, il giovane si ritrovò a contemplare il suo volto riflesso in uno specchio d’acqua e se ne innamorò perdutamente; lì rimase a testa in giù fino a quando sopraggiunse la morte.

L’intero racconto si svolge su due scenari in stretta collaborazione tra loro: le Gallerie Nazionali Barberini Corsini, che ospitano all’interno di undici nuove sale, aperte al pubblico per la prima volta, 38 opere – tra capolavori del passato e lavori d’arte contemporanea –, e il MAXXI, dove “La Velata” settecentesca del Corradini si specchia nell’immagine della performance “VB74” di Vanessa Beercroft e viceversa.

“Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto” è una mostra che prende spunto da questa leggenda per poi muoversi nella contemporaneità. Attraverso svariati filoni tematici, ma senza seguire un ordine cronologico, le opere di Pietro Da Cortona, Raffaello, Bronzino, Caravaggio, Kiki Smith e di tanti altri artisti d’ogni epoca provenienti dalle collezioni delle Gallerie Nazionali e del MAXXI affrontano, come si può dedurre dal titolo dell’esposizione, il tema del ritratto e dell’autoritratto. Un compito assai complesso da svolgere nell’epoca che dell’esteriorità, della rappresentazione e, grazie (?) ai social networks, dell’autorappresen56

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