MUSIC
FABRIZIO
MORO
MOVIE FRANCESCO
Ph.by Luca Zizioli
DISTRIBUZIONE GRATUITA MZK News Marzo / Aprile 2017
DOMINEDO’
LIFE La Street Art:
MAUPAL
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VINICIO CAPOSSELA #musicazerokm
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SOMMARIO MZK News N°1 Marzo/Aprile 2017 Editore MZK Lab S.r.l.s. Via Flaminia 670, 00191 Roma Direttore Responsabile Valeria Barbarossa Direttore Editoriale Andrea Paone
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Art Director Jacopo Mancini Assistenza Legale Avv. Vanessa Ivone Collaboratori Alessio Boccali, Andrea Celesti, Gianluca De Angelis, Carlo Ferraioli, Luca Vincenzo Fortunato, Gianluca Meloni, Edoardo Montanari, Francesco Nuccitelli, Dario Tommasini, Beatrice Caruso Sede Redazionale Via Emilia 82, 00187 Roma Sito & Contatti Tel. +39 3331785676 www.mzknews.com redazione@mzknews.com Stampa produzione@miligraf.it Via degli Olmetti, 36 Formello 00060 Pubblicità e Marketing Alice Locuratolo pubblicitamzknews@gmail.com Tel +39 / 3382918589 Autorizzazzione rilasciata dal Tribunale Civile di Roma N°2 / 2017 del 19.1.2017
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VINICO CAPOSSELA FABRIZIO MORO RECENSIONE “PACE” di F. Moro JOE VICTOR ALBERTO QUARTANA ANALISI TESTI “Smith & De André” MARCO PISCHE SANREMO’ S KARMA I TALENT SHOW SIMPLY LED ZEPPELIN! NEW AGE “La Musica Elettronica” Generation: I MODERAT Nuove dal Dancefloor: INCEPTION Il ricordo di LUIGI TENCO EMIS KILLA ROMA SUONA IL SOUND CUBANO
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FRANCESCO M. DOMINEDO’ ACTUAL Analisi del Film: SING LE NOSTRE RECENSIONI:
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IMBARAZZO DA OSCAR ATTORI DA OSCAR MOONLIGHT al microscopio LA CRISI DEL CINEMA ESISTE? I CONSIGLIATISSIMI 14 ANNI SENZA ALBERTONE Le ultime dal MONDO DEL CINEMA YOUTUBE DREAMERS Come nasce un Film: IL SOGGETTO La vera storia di SCREAM
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“Smetto Quando Voglio Masterclass” “La La Land”
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MAUPAL W LA STREET ART I locali che vi consigliamo: FELT MUSIC FRANCESCO DE CARLO LIFE IN MOSTRA! Europe Calling: SOFIA NIKOLA TESLA VAN GOGH Alive The Experience ARMONIA E DISARMONIA Qual è il suono perfetto? LA VALIGIA DEL PRESIDENTE ROMA: Come migliorarla SI SELFIE CHI PUO’ CE LO SPIEGA POLIFEMO L’ ARTE DEGLI ZUCCHERI
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EDITORIALE
Pensieri Fissi
di Andrea Paone
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io è morto scrisse Nietzsche, con lui se ne è andato pure il Rock? Secondo Gene Simmons, quindi non uno qualunque per chi non lo conoscesse stiamo parlando del Dottor Lingualunga dei “Profani” Kiss, sì. Il termine rock deriva da rock’n’roll, locuzione coniata all’inizio degli anni Cinquanta dal dj Alan Freed, che significa letteralmente “scuotiti e rotola”, anche se l’allusione all’atto sessuale, to rock, è piuttosto evidente. Più fonti fanno coincidere la nascita dell’epopea rock, inteso come periodo di produzione musicale, con il 9 settembre 1956, quando un già noto Elvis Presley partecipò all’Ed Sullivan Show. Prima di questa data Bill Haley aveva firmato “Rock around the clock”, hit mondiale e colonna sonora del film “Il seme della violenza” (1954), Little Richard cantava “Tutti Frutti”, Carl Perkins pubblicava la leggendaria “Blue Suede Shoes”. Arrivò poi Jerry Lee Lewis, Il Killer, che con la sua “Whole Lotta Shakin’ Goin’On”, i suoi riccioli biondi e il suo pianoforte incendiario, divenne il contendente al trono di Elvis. Arrivarono poi i mitici Sixties, i favolosi anni Sessanta, che portarono con sé la nascita di una cultura rock vera e propria. Bob Dylan ne fu la massima espressione sull’East Coast: musicalmente non portò alcuna innovazione al rock, date le sue radici da folksinger, ma fu il primo a riportare in auge la rabbia e il bisogno di cambiamento che prima di lui Elvis, Chuck Berry e soci avevano cantato, offrendo la possibilità di “pensare” attraverso le parole delle
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sue canzoni - vere e proprie pietre miliari come “Blowin’ in the Wind” - che lo trasformarono nel “Messia” delle nuove generazioni. Parallelamente nella factory di Andy Warhol nascevano i Velvet Underground, che con Lou Reed, John Cale e la bellissima Nico, diedero una scossa alla scena artistica del tempo con “The Velvet Underground and Nico”, il celebre album della banana, dalle sonorità minimaliste e surreali. Era il 1967. Ad Ovest la California divenne la frontiera dello spirito più autentico del rock e il surf il simbolo di una nuova condizione giovanile audace e libera dagli obblighi della vita adulta. Nacque così la surf music: il rock’n’roll dei giovani bianchi della classe media americana. I Beach Boys (Brian, Carl e Dennis Wilson con Alan Jardine e Mike Love) furono la realtà che meglio incarnò il clima di quest’epoca. Il lavoro simbolo della band, che rivela lo strepitoso talento di Brian Wilson, è “Pet Sounds”, concept album che contiene la stupenda “God Only Knows”. Gli Stati Uniti furono il regno incontrastato del rock fino alla metà degli anni Sessanta, quando dal Regno Unito emerse una nuova generazione di musicisti e band - Beatles, Rolling Stones, Who, solo per citarne alcuni - che influenzarono in maniera radicale sia la scena musicale britannica, sia quella oltreoceano, tanto che l’apice dell’epoca rock verrebbe fatto risalire al 1967 con la pubblicazione dell’album “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles, capolavoro assoluto di una discografia che non ha bisogno di
EDITORIALE
presentazioni. L’evento che segna il culmine dell’epopea del rock nel 1969 è il Woodstock Arts and Music Fair, dove si esibirono tutti i più grandi artisti del tempo: da Joan Baetz a Jimi Hendrix, passando per i Jefferson Airplane, gli Who, Janis Joplin, Crosby, Stills, Nash e Young, Santana e molti altri, in quella che può essere definita come la prova generale per la realizzazione di un mondo nuovo in cui i giovani avevano la possibilità di liberarsi in un viaggio chimico e surreale - dalle incombenze della realtà. Eroe per antonomasia di questa generazione fu Jimi Hendrix, che dovette trasferirsi dal Greenwich Village in Inghilterra per trovare fama e pubblico. L’inizio degli anni Settanta segna il disincanto e vede la tragica morte degli artisti-icona di questa generazione: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, figure entrate nel mito, nuovi poeti maledetti, simbolo di una creatività pronta a sacrificare tutto per vivere la loro idea di “profano”. Ecco, appunto… L’eterna lotta tra Sacro e Profano. Il Sesso Droga e Rock and Roll contro la “sacralità” di un Sistema chiuso alle nuove generazioni, fatto di idee e deferenza nei confronti delle opinioni della maggioranza della gioventù. Il Rock, quindi, era un “circolo” dove si poteva evadere dal conformismo, per molti era la “musica del Diavolo” – a tal proposito vi consiglio di guardare il film Detroit Rock City - frutto dei tanti classici cliché. Ma alla base c’erano ragioni, se vogliamo chiamarle, storiche. Basta
pensare al mitologico Robert Johnson e quel “patto satanico” che – almeno secondo la leggenda - lo fece diventare il più grande chitarrista di ogni tempo! (anche qui, vi consiglio due film: Mississipi Adventure e Can’t You Hear the Wind Howl?). Insomma, l’anticonformismo capitanato da figure leggendarie come i Kiss, i Rolling Stone e pure i “puliti” Beatles – galeotta fu, la famosa canna fumata nei bagni di Buckingham Palace - VS il Sacro quindi contro ciò che è di proprietà degli Dei: il Sistema; affidato al “giusto”. Questo era, questo fu… ma adesso? Dispute sui Muse. Rock o non Rock. Il Metal ha ormai 542 sottogeneri che variano a seconda del taglio dei capelli. I Red Hot Chilli Peppers che non permettono la vendita di alcool ai loro concerti. Il Gotico, l’industrial, ecc. Molti concerti contengono più membri della band sul palco che pubblico. Il punk fa capolino nella dance e timido timido chiede “posso entrare anche io?”, ma la dance lo manda a fare in culo. Le ragazze si spartiscono i generi musicali in base ai vestiti che portano meglio, ma la sorpresa delle sorprese, discograficamente parlando, è Mick Jagger fa dischi con Will I Am e Jennifer Lopez e frega tutti, dimostrando di essere davvero Rock almeno lui. A livello di concerti, è l’unico settore non in calo dopo la crisi del 2009. Ecco, allora non è morto il Rock! Ora io mi chiedo, non è che forse il Rock sta rinascendo, e si chiama semplicemente con un altro nome?
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Vinicio,
il folklore della Cupa di Andrea Paone
Vinicio è un nome che proviene dal latino Vinicius, d Capossela è come un buon vino rosso: corposo, inten
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ome ogni vino che si rispetti il cantautore, nato ad Hannover da genitori irpini, ha un gusto ricercato, particolare e, per certi versi, poetico. Dopo 12 anni di scrittura è uscito il suo disco Canzoni della Cupa, diviso in due parti: Polvere e Ombra. La polvere che rappresenta il sole, quindi quella parte della terra che viene lavorata e poi quella oscura, quella lunare dove le paure escono dall’ombra… Torniamo a noi, 12 anni di lavoro, come una vigna che pian piano cresce, da piccoli tralci che era questo album è diventato vigoroso. Sì, perché questo è uno di quei dischi che vanno capiti, vanno assaporati, per assimilarli e degustarli. Alla fine, come il vino è troppo buono per essere solo bevuto, questo album è troppo bello per essere solo ascoltato.
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Il 27 febbraio inizierà la seconda parte del tuo tour: Ombra. In termini psicologici l’ombra è la parte inferiore della personalità e coincide con il concetto di inconscio personale, considerata a volte come il negativo della propria esistenza. Come mai hai scelto questo nome, cosa devi mostrare? Sì, inizierà la seconda parte. Non devo mostrare nulla, Canzoni della Cupa prende il nome da un toponimo, la Cupa, un luogo che si trova nelle zone degli Appennini, dove ci sono rilievi, quindi avvallamenti, dove non batte bene il sole, insomma una zona d’ombra. Un luogo dove nascono leggende, materico, un posto che definirei mistico, illuminato dal neon della tecnologia, dalla scienza, quindi dalla ragione. Per spiegare bene il disco, dovrei partire dicendo che si divi-
de in due parti: la polvere, quindi esposto al sole, alla fatica e l’altro (ombra) a tutte quelle figure che fanno parte del folklore. Hai usato una parola significativa: fatica. Nel video “scorza di mulo” hai scelto un animale bistrattato, meno regale come il cavallo e più dedito al lavoro, ti rivedi in quell’animale? In realtà sono asini, però sì. Il video è stato girato in Andalusia nel santuario De Los Burros, dove ci sono almeno 80/100 asini. L’asino è in via d’estinzione da quando non è stato più utilizzato per lavorare e il mondo di cui parlo non disponeva di cavalli, ma di asini che non venivano nemmeno montati, ma utilizzati solamente per lavorare. Infatti è stato molto bello suonare lì, davanti a tutti questi animali, è un animale straordinario. M’interessava capire e raccontare i mulattie-
MUSIC ri, queste figure che vivevano di notte un po’ al confine tra la luce e l’oscurità. La scelta degli strumenti è la parte più complicata, soprattutto quando si trattano argomenti come questi. Fatto di mondi folklorici, tutto diventa scenografia. Hai usato molto il violino, anche detto lo strumento del diavolo, era premeditato? Penso che ci siano strumenti musicalmente più adatti per parlare dell’ombra. Quindi le corde sono adatte, perché la mitologia le accomuna al Diavolo, poi cosa se ne faccia non lo so (ride)… Serviva qualcosa di leggero, di immaterico e anche di sinistro quindi gli archi erano perfetti. Inoltre negli auditorium e nei teatri danno molta qualità essendo più incorporea, più volante. Invece la prima parte (polvere) che aveva luogo negli spazi aperti, c’erano più ottoni, tamburi e trombe. Ho voluto tutto questo, e per rispondere alla domanda, sì, era tutto pensato. Passiamo ai video, anzi, forse sarebbe meglio definirli cortometraggi, perché hanno una logica, una fotografia particolare, come nascono e qual è il tuo rapporto con il regista? No, non nascono prima. Però quando
scrivo immagino, infatti i miei testi sono molto descrittivi. Quindi cerco di sviluppare un rapporto sul tema, un’idea e con il regista parliamo sul dove girare. Per esempio il video “scorza di Mulo”
“La nostra immaginazione è la miglior scenografia che esista”
che è stata fatta con Chicco De Luigi e Dario Cioni. Mentre Il Pumminale l’altro “filmino” – non mi piace chiamarli video – è stato fatto con il regista Lech
Kowalski, famoso per avere documentato tutta la scena punk del 77. Diciamo che il risultato finale deve essere quello di dare una suggestione. In effetti, mi chiedo spesso che senso abbia accorpare ad una canzone che già di per sé ci mette a disposizione il miglior scenografo che esista: la nostra immaginazione. Quindi, secondo me, è riduttivo. Però ammetto che mi stimola molto fare videoclip, perché adoro il cinema e mi piace sempre cercare di dare una visione. Per quanto riguarda i videoclip, ormai sono diventati quasi più importanti dei testi… Guarda ricordo ancora quando nei primi tempi i miei provini li facevo con un walkman a cassette e avevo il telefono che serviva solo per chiamare; con lo smartphone si passa più tempo su YouTube e su Facebook che ad ascoltare la semplice musica, perché si viaggia d’immagini più che con il pensiero. Pensiamo a RTL una volta era solo una radio, adesso è pure una televisione. Adesso l’album oltre che scritto bene, deve avere dei contenuti virali. Non so se è meglio o peggio diciamo che è avvenuto un
erivato molto probabilmente da vinum: “vino”. so e prelibato.
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cambiamento, prima si pensava di più ai contenuti e meno all’immagine ora non più… io mi ritengo di vecchia scuola. Possiamo definire Le canzoni della Cupa, come un saggio al periodo odierno che come il Medioevo è ricco di difficoltà, ombre, polvere che poggiandosi sulle cose rendono tutto meno lucido, quanto tornerà il Rinascimento? Diciamo che anche nel Medioevo ci sono piccoli frammenti di Luce. Quando par-
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lo di Ombra, narro le nostre radici, il mondo della terra quello che i sociologi chiamano il mondo contadino. Proprio una zona d’ombra che la città con la sua tecnologie nasconde il resto. Penso che forse ci sia troppa luce, con una luminosità che ci abbaia, diciamo che per me, il più grande cambiamento degli ultimi 100 anni è la concezione del tempo, noi viviamo in una frammentarietà del tempo. Non so se è una fase che possiamo
assimilare al Medioevo o al Rinascimento, sicuramente quest’ultimo era appunto l’abbattimento delle superstizioni, del rinnovamento del pensiero, della voglia di scoprire e amare la cultura. Noi attualmente, invece, abbiamo riscoperto nuove superstizioni, nuovi tipi di fede che ci appannano come nel Medioevo, siamo passati dal Dio religioso al Dio capitale, ecco forse il rinascimento tornerà quando ritroveremo l’Umanità.
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La “PACE” di
FABRIZIO
MORO
Il cantautore romano si racconta sul palco di MZK News
di Andrea Paone
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abrizio Moro, un cantante amato e stimato in tutto lo stivale, ha studiato cinematografia e ha imparato a suonare la chitarra da autodidatta. La musica gli ha permesso di vivere in pieno la dimensione della borgata che, per lui, rappresenta una forza piuttosto che un impedimento, tanto che proprio l’esperienza della “periferia urbana”, fornisce l’ispirazione ai testi delle sue canzoni, dense di personaggi di quelle realtà. I suoi pezzi sono una serie di fotografie, di immagini in sequenza, di disagi quotidiani, di vicende soprattutto autobiografiche, per raccontare a suo modo nient’altro che la vita. Il suo passato è ricco di aneddoti, partito da zero ha superato gli ostacoli comuni in cui inciampa qualsiasi ragazzo di provincia che arriva in città. Alla fine, stranamente per questo paese, è riuscito a sorgere, come un fiore in una terra arida… Parlaci del tuo percorso… Ho cercato di studiare, ad un certo punto mi sono defilato perché con la scuola ho sempre avuto un problema: non sopportavo gli schemi, gli orari e i perimetri; an-
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cora oggi mi pento della scelta di “essere scappato” alla fine del quarto anno. Sai… i litigi con i professori. Infatti come dicevi prima tu, ho imparato a suonare la chitarra da autodidatta, forse anche per questo non mi ritengo un musicista eccelso, però attraverso la chitarra riesco a scrivere le canzoni. Con il piano sto migliorando, l’anno scorso al Palalotcredit Fabrizio Cestari tomatica ho provato per la prima volta a suonare curezza rimane sempre, perché è il senso davanti ad un pubblico, è andata bene anche se ho preso un paio di responsabilità che ho nei miei confronti di stecche… tornando al tragitto, beh… e di chi mi ascolta. Perché alla fine la mufino a poco tempo fa in realtà pensavo sica come concetto principale ha la comuquesto, perché il percorso è sempre stato nione. Vivo tutto con molta ansia positiva, in salita, una gavetta continua. Io poi sono un’ansia che mi aiuta a costruire. partito da zero, nessun filo conduttore che potesse guidarmi. Sono partito da una Cosa ti chiedono nel backstage i ragazzi? cantina con ¾ della band che ho attual- Il più delle volte mi chiedono consigli su mente e quindi ho sempre paura che quel- come fare a vivere di questo mestiere. Io lo che hai costruito puoi perderlo. L’insi- rispondo sempre che la canzone è l’ultima
MUSIC credit Fabrizio Cestari
Vasco è stato una delle mie fonti, però io continuo ad ispirarmi ai cantautori degli anni ’70 cosa, è vero che c’è la musica, ma è il percorso che conta, fare sempre scelte giuste. Noi artisti fondamentalmente siamo molto introversi, per fortuna ci esprimiamo con l’arte. Ho scoperto che ti sei avvicinato da piccolo alla musica mentre ti trovavi ad un concerto di Vasco e hai pensato “Che quello sarebbe stato un bel sogno, da seguire” e alla fine hai aperto pure un suo concerto, quindi adesso che sei tu stesso una fonte d’ispirazione per i giovani ti senti più un Cantautore alla Vasco o un cantautore più confidenziale come De André? Vasco è stato una delle fonti, però io continuo ad ispirarmi ai cantautori degli anni ’70 e questo lo devo a mia madre che le mattine prima di alzarmi metteva Battiato, De André, Gaetano, Dalla, Gaber, Guccini e tanti altri… Certo Vasco mi ha fatto accendere la scintilla. Successe tutto per caso, mio padre infatti vendeva gadget fuori dallo stadio e subito dopo un concerto di Vasco, vedevo negli occhi delle persone che uscivano felicità, calore, amo-
re. Quindi chiesi a mio padre se potevo entrare per sentire l’atmosfera. Come sai subito dopo un concerto, c’è un’atmosfera irreale, piena di adrenalina e magia. Mi travolse una voglia incredibile di imparare a suonare la chitarra e decisi: da grande voglio vivere di questo mestiere. Cambia secondo te il modo di vivere la musica dalla città alla provincia? Beh, io venivo dalla periferia, dalla borgata, ricordo che all’epoca noi ascoltavamo i Metallica, gli Iron Maiden, i Deep Purple e con un mio amico, Giorgio, iniziammo a suonare cover di queste band, insomma iniziammo il classico percorso che molti fanno tutt’oggi. Chi veniva dalla città ascoltava altro. Beh, prima suonavate i Deep Purple adesso i ragazzi cantano Rovazzi… Sai, questo fenomeno di riprendere le vecchie rock band e suonarle è una cosa prettamente di Provincia, fortunatamente, è un approccio diverso alla musica. Sai… Ci ho messo 42 anni a non giudicare quello che è molto diverso da me, perché se una
Guarda la video intervista
cosa arriva al successo e fa dei numeri, vuol dire che è sfuggito qualcosa a me e questo mi spinge a fare meglio. È uscito il tuo nuovo album Pace, che cosa è per te la Pace? Sai che me lo chiedo spesso pure io? Allora intanto ci sono tante definizioni che posso darti, perché non è una cosa sola… per esempio fare ciò che ami mi dà pace. Trovarsi in equilibrio con le persone che ami e in armonia con i miei figli. Per esempio io sono una persona molto ipocondriaca, da quando sono nati loro i miei timori si sono assorbiti, perché la prima preoccupazione sono loro e questa cosa mi dà pace. Sicuramente è il sentimento che più cerco in questo momento, ma che più mi sfugge. Quindi non ho ancora capito se sono io che non voglio trovare la pace o ancora non ho capito il meccanismo per arrivarci. Alla fine è un po’ come l’amore: lo cerchi e poi dopo un po’ ti rompe le scatole… Ecco bisogna cercare la pace, ma rincorrerla avendo sempre una battaglia da combattere. Bisogna rimanere vivi! Grazie a tutti i lettori di MZK News
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MUSIC GENERE: Cantautorato Elettrocantautorato Rock DATA DI USCITA: 10.03.2017 LABEL: RCA Records Label ARTISTA: Fabrizio Moro TITOLO: Pace TRACCE: 11
PACE
La recensione di di FABRIZIO MORO
Un album moderno e profondo proprio come il suo autore
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di Alessio Boccali
abrizio Moro è un artista coraggioso, un innovatore e canzone dopo canzone, album dopo album lo sta ampiamente dimostrando. Certo, il suo stile è oramai inconfondibile, la sua penna è una delle più mature ed emotivamente potenti del panorama italiano, eppure le sue capacità di giocare con la musica, di mutare genere e sonorità stupiscono sempre. Il nuovo album Pace è un’ulteriore dimostrazione di questa teoria e Sono anni che ti aspetto, il primo singolo che ha anticipato l’uscita dell’album e che Fabrizio ha già eseguito nell’ultimo tour nei palazzetti, ci aveva già messi sulla buona strada per notare questo mutamento. Eppure il singolo sanremese Portami via e Pace, anch’essi ascoltabili da prima dell’uscita dell’album, avevano provato ad ingannarci, ricordandoci le classiche e meravigliose ballad del cantautore romano. Da Fabrizio Moro però ci si aspetta sempre di più e le attese di un qualcosa sem-
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pre più stupefacente sono state ripagate! Lo si intuisce subito dalla seconda traccia del disco, che si apre con la già sopracitata Pace. Tutto quello che volevi, la seconda traccia dell’album appunto, è un brano che parla del sempre più forte bisogno di certezze e consapevolezze e che nelle sonorità strizza l’occhio all’elettronica; non semplice pop elettronico, sia ben inteso, bensì un elettrocantautorato con sfumature di rock. Stesso discorso “sonoro” per Giocattoli, un pezzo dedicato alla nostalgia dell’infanzia con un ritornello che fa “Quanti anni hai stasera? Io ne ho tre…” e che vi entrerà immediatamente in testa. Anche Semplice segue la stessa falsariga elettronica, alternando al ritornello un parlato che nelle strofe sembra quasi un rap; un inno super-radiofonico al non complicarsi la vita. I due pezzi successivi, ovvero il brano sanremese Portami via e La felicità, sono due meravigliose ballad in pieno stile Moro. La sua voce graffiante ed emozionante è inconfondibile e rende ancora più effica-
ce la potenza comunicativa dei suoi testi. L’essenza, la settima traccia dell’album, è il pezzo più rock di Pace, mentre con la successiva Sono anni che ti aspetto si torna di nuovo sulla strada dell’elettrocantautorato. Percorso seguito alla grande anche dalla più “leggera” Andiamo (impossibile non ballarla). Gli ultimi due pezzi infine, ci riportano allo stile cantautorale puro. In particolare È più forte l’amore è una bellissima dedica all’amore universale, quel sentimento che non conosce ostacoli di nessuna natura (sesso, razza o religione); un duetto con Bianca Guaccero, che vuole testimoniare la grandezza del sentimento più bello e, fortunatamente, ancora più diffuso al mondo. Intanto, l’ultima traccia di Pace, invece, è un invito a non farsi travolgere dalla fugacità del tempo approfittando, in ogni momento, della bellezza di tutto ciò che avviene nel “frattempo”, nell’attesa di qualcos’altro. Un album fortemente radiofonico, che ascolteremo e riascolteremo con grande piacere.
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DAL QUARTIERE
I Joe Victor e l’arte della semplicità
di Francesco Nuccitelli
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uanto è difficile ergersi in un mondo complicato come quello musicale, solo la bravura, la costanza e la determinazione fanno andare avanti. È questo il caso dei Joe Victor, considerati come una delle migliori band emergenti del panorama musicale italiano e non solo. In attesa del loro prossimo progetto, Gabriele, il cantante del gruppo romano, ha trovato il tempo di concederci un’intervista. Siamo partiti con l’inizio, la nascita della band… “La band si è formata nel 2014, all’inizio eravamo io, il vecchio batterista Mattia Bocchi e il nostro vecchio bassista Francesco Fraschetti. Il tutto nasce dall’idea di Mattia (Bocchi) che mi ha sentito suonare, poi mi aveva chiesto se avevo qualche canzone, perché voleva formare una band. Nei primi concerti eravamo solo noi tre e andavamo bene. In seguito chiamai il mio migliore amico, con il quale suono da anni, il tastierista Valerio Roscioni (quello con i capelloni) gli dissi che stavamo formando un nuovo gruppo, anche se pensavamo di non suonare più in realtà. Sia io che Valerio avevamo suonato tante volte insieme, senza mai avere progetti seri, smettendo poco dopo. Valerio voleva fare il falegname, io volevo fare altro. Poi gli ho detto di venire, l’ho convinto e ab-
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biamo fatto tanti Live, è andata bene e la band è cambiata”. … e della scelta particolare del nome? “Per quanto riguarda il nome, ne ho scelto uno di persona, volevo evitare quelli troppo musicali, troppo da band o troppo seri”. La giovane band presenta una peculiarità: “Quando abbiamo iniziato il progetto, avevamo solo canzoni in lingua inglese, che però piacevano a tutti; comunque anche a me andava di cantare in Inglese, quindi è un motivo casuale” e sulla possibilità di cantare in italiano “Beh sì anche se al momento stiamo pensando al nuovo progetto, poi per cantare in italiano si vedrà”. Tante volte è difficile spiegare la propria musica, specie se l’amore per questa è universale in tutti suoi generi “Il nostro stile musicale si basa sulla passione per la musica in generale. Tutto quello che ci piace cerchiamo di farlo, tutti i generi ci influenzano e cerchiamo di farci influenzare da loro, cerchiamo di maneggiarli, in sostanza è l’amore per la musica. Ci piace molto suonare, fare musica e proporla alle persone, il nostro concerto oltre ad essere uno show, è uno spettacolo dove anche l’occhio vuole la sua parte. C’è una componente di proposta della nostra musica verso tutti quelli che ci ascoltano” poi sul palco “Noi il palco lo viviamo come una seconda casa, lo è sempre stato, ti
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proponiamo degli stimoli, delle vibrazioni, dell’energia un nuovo ascolto, è come un dare e ricevere, il discorso è molto semplice e lineare, noi non siamo un gruppo che si vuole intellettualizzare”. Un gruppo giovane, ma esperto allo stesso tempo, con concerti nazionali e internazionali: “cantare all’estero o in Italia è uguale, non cambia molto, perché ogni luogo è diverso, suoni a Roma o Viterbo è diverso, suoni in Veneto o in Puglia è ancora diverso, come anche quando suoniamo in Ungheria o in Austria. Ci sono componenti di diversità ovunque in ogni luogo, la gente balla, si diverte, anche nei concerti dove non eravamo conosciuti”. Invece, per
esperienze. Per quanto riguarda gli artisti italiani, non so quanto si potrebbe mescolare la musica italiana con quella inglese, ma non importa si potrebbe fare comunque. La musica è musica ed è sempre bella, comunque ci sono artisti che ci sono simpatici, magari un giorno chissà”. Piccoli aneddoti di viaggio perché per il gruppo è anche sinonimo di dimenticanza: “durante i nostri concerti ci perdiamo un sacco di cose, moltissimi oggetti, stando sempre in giro ci siamo resi conto che dimentichiamo sciarpe, cappotti, cappelli, occhiali, cellulari, lasciamo pezzi di noi ovunque andiamo e se da un lato fa ridere, dall’altro è strano, siamo un gruppo molto particolare, poi ce ne sarebbero tantissimi altri ma questo merita, poi ecco anche il tasso alcolico si è alzato”. La nostra intervista ha trattato anche del loro primo album, Blue Call Pink Riot “come già detto è nato con le canzoni che già avevamo, tutti i nostri lavori, la nostra prima vera esperienza in uno studio di registrazione, particolare e con un periodo di gestazione piuttosto lungo, visto che l’album è uscito un anno dopo, nel 2015, noi abbiamo iniziato nel 2014, non sapevamo neanche come stare in sala di registra-
“LA MUSICA E’ MUSICA ED E’ SEMPRE BELLA” quanto riguarda i progetti futuri? “Siamo al secondo disco, lo stiamo preparando, poi si spera di iniziare un piccolo Tour europeo, che è in preparazione”. Diverse sono le collaborazioni artistiche, come ad esempio i “Ministri”. Tuttavia, se bisogna scegliere collaborazioni future… “Ora i nomi non li avrei e non vorrei sembrare ripetitivo ma vorrei collaborare con gli artisti che ci piacciono, magari con quelli stranieri, anche solo per vedere come lavorano, non ti saprei dire però i nomi, se proprio te li dovessi fare sarebbero dei nomi troppo in alto adesso per noi, sicuramente ci piacerebbe collaborare con qualcuno che ha fatto lo stesso percorso nostro, la stessa storia, per uno scambio di
zione. Le canzoni di questo album, alcune erano nuove ed altre meno, visto che ne scriviamo tante, capita che facciamo una sorta di votazione democratica, ci sediamo e ne decidiamo 3-4 a testa, che poi proponiamo al produttore. Per finire due battute, la prima con una piccola anticipazione del disco “Che sarà più bello del primo” e una piccola provocazione sul Festival di Sanremo “Beh se scriviamo una canzone in italiano, vogliamo confrontarci con tutto”.
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Alberto QUARTANA
Un progetto partito con umiltà e con voglia di affermarsi di Andrea Paone & Alessio Boccali
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lberto Quartana nasce a Messina con la voglia matta di fare musica. La studia, la suona e oggi la produce con il progetto Leave Music, nato nel 2007 e negli anni affermatosi come una delle più grandi realtà italiane nel mondo della produzione discografica, management artistico e organizzazione di manifestazioni culturali. Nel loro roster figurano artisti del calibro di Alessandro Mannarino, Artù, Cassandra Raffaele, Tommaso Di Giulio ecc. Abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare quattro chiacchiere con lui… Ciao Alberto, partiamo dalle origini. Da musicista a co-fondatore dell’etichetta Leave Music, come hai gestito questo passaggio? Ciao ragazzi, guardate il passaggio è stato molto naturale. Nel corso della mia vita ho studiato per tanti anni musica, ho suonato in varie band, poi ho deciso di andare in America per un anno a fare un corso di specializzazione, dopo aver studiato per tre anni in un corso di armonia jazz con Filippo Daccò a Milano. L’esperienza americana mi ha formato non solo dal punto di vista musicale, ma anche e soprattutto da quello umano; lì ho visto che un musicista poteva essere anche altro: un produttore ad esempio. Tornai dall’America in fretta e furia a causa della chiamata per il servizio militare e così, dal paradiso americano, entrai capellone in una caserma militare di Taranto. Anche lì comunque sono riuscito a mettere su una piccola band e a suonare. Uscito di lì volevo subito mettermi al lavoro; mi sono stanziato a Roma ed ho insegnato chitarra, ben presto però mi sono innamorato della produzione: ho cominciato ad arrangiare i pezzi dei miei allievi, tra questi tra l’altro c’era anche Artù, che ora è uno degli artisti della Leave Music.. Come in ogni momento della storia mu-
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sicale, anche oggi si ricerca maggiormente un determinato mood. Quale pensi sia il mood di questi tempi e, soprattutto, tutti gli artisti che non entrano a far parte del cosiddetto “mondo mainstream” dove vanno a finire? Beh sì, naturalmente da una parte c’è il mainstream che va per la maggiore e che ha bisogno del supporto dei media. Ecco
perché molte major discografiche hanno deciso di affiancarsi a questi talent show che vanno tanto nel nostro paese; per loro è un canale comunicativo importantissimo. Dall’altra parte, invece, c’è tutto il mondo della musica indipendente, quel tipo di musica che in questo periodo storico è un po’ a cavallo tra il pop ed un sound più ricercato, ma che di fatto è pop se pensiamo, ad esempio, a Calcutta, ai Thegiornalisti, ai Cani ecc., artisti che vengono seguiti non solo per quello che suonano, ma anche per come appaiono, per come si propongono.
Il “tuo” più grande artista ad oggi è Alessandro Mannarino, un cantautore che è uscito dall’indie per approdare al mainstream… a proposito, ci racconti come l’hai scoperto? Sì è vero e quello che ha fatto Mannarino è un percorso al quale tutti devono ambire. Non bisogna essere schiavi del mainstream, ma è una grande opportunità per farsi ascoltare da tantissime persone. Certo, deve essere un percorso consapevole. Comunque con Alessandro è stato un colpo di fulmine: mi ha colpito la prima volta che l’ho visto suonare. Per studiarlo meglio l’ho fatto esibire al Foollyk, un locale romano del quale curavo la direzione artistica. In quel locale, facendo esibire tanti artisti emergenti, ho visto suonare tutta la realtà romana dell’epoca e Mannarino fu uno di quelli che mi sembrò immediatamente un artista vero, una novità bella forte. Cantò per prima “Il bar della rabbia” e subito mi colpì la forza di quello stornello rabbioso che sembrava quasi un rap… poi continuò con “Me so’ ‘mbriacato”, “Tevere Grand Hotel”, “Le cose perdute” e così mi innamorai perdutamente della sua musica. La Leave Music è nata nel 2007, un anno prima dell’inizio della crisi economica italiana, c’è voluta fortuna, ma anche tanto coraggio per scommettere su questo progetto ed uscirne vincitore… Lo rifaresti oggi? Sì, io iniziai proprio da Mannarino e su di lui feci una grande scommessa. Presi un prestito in banca ed iniziai ad investire. Oggi il mercato discografico è ancor di più un mare magnum pieno di offerte, ma di sicuro lo rifarei. Ultima domanda prima dei saluti. Il tuo è un progetto partito con umiltà, dal basso, che consiglio daresti quindi a chi vuole intraprendere lo stesso percorso di Leave Music? Direi di non aver paura e rischiare. Bisogna crederci e provarci con tutto il cuore.
MUSIC
ANALISI dei TESTI di Alessio Boccali
PATTI SMITH “BECAUSE THE NIGHT” Alla base della nascita di questa canzone c’è un regalo; “Because the night”, infatti, fu originariamente incisa dal Boss Bruce Springsteen durante le sessioni di registrazione dell’album “Darkness on the edge of the town”, costui però si accorse ben presto che questa canzone non avrebbe trovato posto nel disco e decise di cederla alla collega Patti Smith, che insieme alla sua band stava incidendo il disco “Easter” nella sala di registrazione accanto. L’artista statunitense trasformò il testo di Springsteen, che raccontava le insoddisfazioni di un lavoratore, in una dedica d’amore al marito Fred Smith. Il testo sembra seguire la linea poetica di Prévert riagganciandosi a quei versi che hanno portato sulla bocca di tutti il poeta francese. “I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte” scriveva il poeta e “(They) Can’t hurt you now because the night belongs to lovers” – “(Loro) Non possono ferirti ora perché la notte appartiene agli amanti” recita il testo di Patti Smith. Stiamo parlando sicuramente di un sentimento passionale “Desire is hunger, is the fire I breathe; love is a banquet on which we feed” – “Il desiderio è forte, è il fuoco che respiro; l’amore è un banchetto sul quale ci sfamiamo”, ma anche di un amore salvifico, quasi fosse personificato da un angelo custode ”Have I doubt when I’m alone, love is a ring, the telephone. Love is an angel disguised as lust” – “Ho dubbi quando sono sola, l’amore è uno squillo, il telefono. L’amore è un angelo travestito da desiderio”. Stiamo parlando di una fiaba a lieto fine, di un sentimento forte e totalizzante, del quale Patti Smith si è sempre, a buon ragione, vantata “Without you I cannot live, forgive, the yearning burning” – “Senza di te non posso vivere, perdona il desiderio bruciante” […] “Because tonight there are two lovers if we believe in the night, we trust” – “Perché stanotte ci sono due amanti se crediamo nella notte, ci fidiamo”, un insieme di emozioni che, a distanza di quasi quarant’anni dall’incisione di questo brano, oltre a generare invidia, rientrano di diritto nella storia della musica mondiale.
FABRIZIO DE ANDRE’ “VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE”
Ottava traccia di “Storia di un impiegato” del ‘73, “Verranno a chiederti del nostro amore” è il brano che Fabrizio De André scrisse per la prima moglie Enrica, madre di Cristiano, il primo figlio del cantautore. Lo stesso Cristiano ha sempre reinterpretato questo brano non toccando gli arrangiamenti originali, che Fabrizio scrisse con la PFM, mantenendo intatta l’emozione che egli stesso provò quando, in una piovosa notte genovese, papà Fabrizio seduto sul letto dedicò questa poesia alla mamma. Trattandosi di un brano di un concept album per analizzare il testo occorre contestualizzarlo. “Verranno a chiederti del nostro amore” è la traccia successiva a “Il bombarolo”, il pezzo che racconta il tentativo fallito da parte dell’impiegato di mettere una bomba al Parlamento. Egli finisce, invece, in galera per aver fatto esplodere un’edicola e vede la propria donna presa d’assalto dai giornalisti. Tuttavia, sembra che questa notorietà alla donna non dispiaccia affatto ed il protagonista riflette su un “amore” che sa di finzione. In un grido di disperato silenzio l’impiegato chiede alla consorte di non parlare della loro unione («un amore così lungo tu non darglielo in fretta» e poi «non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole / le tue labbra così frenate nelle fantasie dell’amore»), di non darsi in pasto «a quella gente consumata nel farsi dar retta» (i giornalisti alla ricerca di uno scoop). L’amara consapevolezza di essere diversi è ormai lapalissiana: lui un anarchico rivoluzionario e lei una borghese altolocata. Così diversi che nemmeno l’amore è riuscito a cambiarli («non sono riuscito a cambiarti / non mi hai cambiato lo sai»), così diversi da non bastarsi e da regalare le loro labbra ad altre bocche («digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre / come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre» «e troppo stanchi [gli occhi] per non vergognarsi [dei tradimenti]/ di confessarlo nei miei / proprio identici ai tuoi»). Il loro non è amore, è un sentimento senza prospettive; non è possibile immaginare un futuro con chi non ha progetti né ideali («dimmi senza un programma, dimmi come ci si sente»), con chi ama per convenienza («[farai l’amore] per amore o per avercelo garantito») e con chi ancora non si è stancato di essere immerso nelle convenzioni sociali. Il finale è una flebile speranza («[chissà se] continuerai a farti scegliere / o [prima o poi] finalmente sceglierai»). MZK News
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MUSIC
DAL QUARTIERE
MARCO PISCHE
di Alessio Boccali
m u b l a ° 1 Il
“Il cantautore romano con la mente sempre in viaggio”
M
ini z l a C e d n Muta rdine diso dio a m r A ’ l l e n
arco Pische, all’anagrafe Marco Pischedda, nasce a Roma poco più di trent’anni fa con una chitarra in braccio e tante parole in testa. Nel corso degli anni gira il mondo, quella chitarra inizia a suonarla e quelle idee che gli frullavano nella testa finiscono su carta: nascono così le sue canzoni, un carico di musicalità ed ironia che di certo non passa inosservato. Ho deciso di scambiare due chiacchiere con lui per esplorare a fondo la sua passione per la musica e per fare insieme a lui un viaggio nel suo album “Mutande, Calzini, disordine nell’armadio”.
se vivere alla giornata o se programmare il futuro, che appare sempre più incerto. “Disordine nell’armadio” è quello che, inevitabilmente, ne scaturisce: la mancanza di certezze e quindi il caos interiore. È una sintesi un po’ cruda, ma purtroppo vera. È anche vero però che questo caos può essere un punto di ripartenza per camminare e costruire...
Ciao Marco, devo dirti che ho ascoltato il tuo disco tutto d’un fiato e non posso non farti i complimenti. Ti chiedo, quindi, di presentarmelo con parole tue e di spiegarmi il perché di questo titolo “Mutande, calzini, disordine nell’armadio”. “Mutande, calzini, disordine nell’armadio” è il mio associarmi all’odierno stato delle cose nella nostra società. “Mutande e calzini” è infatti la metafora della crisi di oggi; non c’è più lavoro, nessuno sa come fare,
Bravo, hai quasi anticipato l’argomento della prossima domanda! Nel video di “Camminare e costruire” protagonista è la cartapesta, un richiamo forte all’infanzia. Mi piace molto quest’assonanza perché è quando comincia a camminare che il bambino inizia a costruire la sua vita. Hai pensato un po’ a
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questo collegamento per la realizzazione del video? La canzone nasce da una vacanza che mi ha dato il coraggio di credere nei miei sogni
MUSIC d’artista. Questa canzone mi ha dato proprio la carica per camminare, darmi da fare e costruire il mio progetto musicale. Posso dirti che il video è un po’ il riassunto di questo mio viaggio che sì, è anche stata una rinascita, un tornare bimbo per costruire una nuova vita. Un altro pezzo forte del disco è “Fiore di strada”. Personalmente, dopo aver ascoltato tutto il tuo album, ho voluto intendere questo fiore di strada come un girasole, per la natura allegra ed ironica delle tracce che il disco contiene. Ti ci ritrovi in questa associazione? Sì, diciamo che nel girasole io rivedo la musica e ti spiego perché. Essa è questo girasole che mi dà le spalle ed io sto là, come fossi il sole, in attesa che il fiore si volti per ispirarci a vicenda e per trarre da lei la forza di andare avanti. Poi “Fiore di strada” è una canzone che racconta un po’ la mia vita: nella prima parte sono stato un po’ pigro ed ora ho capito che bisogna camminare e costruire, come dicevamo prima. Insomma, nonostante il cemento delle imposizioni della società odierna, il fiore deve trovare il coraggio di sbocciare anche sulla strada. Un paragone che ti fanno un po’ tutti è quello con Rino Gaetano... Ah sì, questa te la voglio dire e la devi proprio scrivere eh! (ride n.d.r) Il paragone col grandissimo Rino mi fa veramente piacere, però, se ti devo dire la verità, io voglio essere paragonato solo a Marco Pische. Alcuni mi hanno paragonato anche ad Ivan Graziani, che amo per la sua pazzia, ma mi piace che io sia riuscito a fare un sound del tutto mio, naturalmente gli spunti ci sono come è giusto che sia: mi piacciono le idee di chi sta dalla parte del giusto. Una domanda sul mondo dei locali musicali che hai frequentato per le tue esibizioni live. Ti è mai capitata una situazione spiacevole nella quale era veramente impossibile suonare? Intendo a causa dell’organizzazione della struttura... che so, una cassa mal funzionante, uno sgabello rotto... Guarda, com’è normale che sia, ci sono locali in cui mi sono trovato benissimo ed altri in cui mi sono trovato malissimo. È proprio nei locali “peggiori” però, che ho trovato una spinta in più per dare spettacolo. Io poi non sono un tipo molto esigente: attacco il jack della chitarra alla cassa e vado. Certo, mi è successo anche che in un
locale ho trovato una batteria veramente messa male ed a fine serata mi sono sentito in dovere di andare ad abbracciare il mio batterista in quell’occasione, l’amico Jacopo Mancini, che era riuscito a fare veramente dei miracoli con quello strumento. Sarebbe bello trovare una strumentazione perfetta in ogni locale, ma è nelle difficolta che bisogna ancor di più rimboccarsi le maniche e dare un grande spettacolo. La canzone dell’album che amo di più è “Semplice straniero”; mi racconti com’è nato questo pezzo? Iniziamo dal dire che “Mutande, calzini, disordine nell’armadio” l’ho scritto in tre fasi, in tre posti del mondo: Canarie, Italia e Thailandia. “Semplice straniero” è nata proprio in quest’ultimo posto. Io mi sento un semplice straniero e tante volte vedo che chi è straniero nel nostro paese viene trattato come uno schiavo. Io, invece, da straniero in terra straniera sono stato trattato bene, com’è giusto che sia insomma. Ho socializzato subito con tutti ed ho dato seguito alla frase, che poi ho riportato nel brano “Porta tutto ciò che hai dentro, che se non è tanto, tanto basterà” e tanto è bastato per arricchire le conversazioni ed arricchirmi di esperienza. Bisogna viaggiare e scoprire! Ti dirò poi che spesso anche in Italia mi sento “un semplice straniero in cerca di avventure...”, però in questo caso non è una bella cosa, visto che accade quando vedo quegli stranieri sfruttati ed io ripenso alla mia bella esperienza ed a come sono stato accolto; beh, non mi sento a mio agio per niente. Un altro esempio della diversa mentalità che ho trovato viaggiando è quando, sempre in Thailandia, mi sono ritrovato a cena con un francese, un russo ed un americano. Ecco, chiacchierando e stando insieme, mi sono accorto che nessu-
no era più bello o intelligente dell’altro, tutti eravamo semplici stranieri che con pochi soldi stavano facendo un’esperienza di vita. Ultima domanda: Progetti futuri? Sto lavorando al secondo disco che si chiamerà “Lunapark” e poi a breve usciranno le
date di quello che sarà un tour micidiale. Vi tengo aggiornati tramite la mia pagina Facebook.
“TUTTO DIPENDE DA TE!” Perfetto Marco! Grazie per la tua disponibilità e so che vuoi salutarci con un’ultima battuta... Sì, mi piacerebbe aggiungere una cosa: credo che la mia musica non sia “la più bella”, ma che non sia nemmeno inferiore a nessun’altra. Il mio album non dice nulla di nuovo, ma dà degli input. Poi sta all’ascoltatore capire che siamo tutti dei fiori di strada, dei semplici stranieri, che dobbiamo camminare e costruire per vivere al massimo oppure, come dico in “Perché volevo stare”, che spesso c’è bisogno di fuggire, di viaggiare... Un saluto ai lettori di MZK News, ci si vede lungo la strada!
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MUSIC
S ’ O M E SA N R
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L’umanità dissilacFra es e rivoluziona
È
finita da alcune settimane la 67° edizione del Festival di Sanremo, ma ha lasciato ‘orme’ indelebili nella musica italiana. Cosa è cambiato? Quali saranno le nuove linee guida? A questi dubbi abbiamo provato a dare una risposta, seguendo la scia ‘evolutiva’ dettata dal testo di Francesco Gabbani. ESSERE O DOVER ESSERE: L’AMBIGUITA’ DEI PROTAGONISTI L’impalcatura del Festival offre da sempre una sfumatura tra l’apparenza glitterata e la realtà degradata, testimoniata da scenografie milionarie per temi rustici o difficili. Non sorprendono dunque le storie degli ‘eroi quotidiani’ dinanzi ad un pubblico ricco e restio ai problemi veri della vita. I produttori, però, non vogliono sottrarsi al loro impegno civile e continueranno all’infinito a presentare questo aspetto che sa d’ipocrisia. Quest’anno è toccato al terremoto, “del diman non v’è certezza”, tranne una: raccontare la crisi sociale, perché si è in dovere di farlo, in quanto servizio pubblico.
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L’EVOLUZIONE INCIAMPA, O FORSE NO? Durante la competizione canora alcuni miti sono caduti (Al Bano, Ron), a causa della ‘ghigliottina’ sotto forma di televoto. Per l’opinione pubblica è sembrato il crollo degli ideali, ma dietro ciò si cela una rivoluzione che vedrà in Francesco Gabbani la piena maturazione. E’ la cosiddetta ‘rottamazione’, parola dura ma onesta, che esilia gli artisti del passato e ne sforna a bizzeffe dalle nuove tecnologie (Michele Bravi) o dai talent (Elodie, Sergio Sylvestre). Fortunatamente ci sono le sacrosante eccezioni, come dimostra il podio con un’eterna Mannoia – favorita dall’aura del ritorno dopo 30 anni –, un self-made come Meta che ha puntato da sempre sui propri prodotti, e un lineare Gabbani, sbucato dal nulla lo scorso anno e arrivato, step by step, sul gradino più alto in soli 365 giorni. Siamo sicuri che quindi il cambiamento sia così negativo? TUTTOLOGI NEL WEB A CACCIA DI CERTEZZE Dal palco al web, il passo è stato istan-
taneo e di successo. Infatti l’Ariston è diventato un’arena virtuale con ben 37,3 milioni di interazioni in tutti i social. Numeri clamorosi e sregolati, legati a fan zone oppure a deliri d’onnipotenza di utenti trasformati in giudici. A ridimensionare però questi ultimi ci hanno pensato i grandi nomi, che sono riusciti comunque a portare a casa consensi o a suscitare clamore attraverso attacchi senza mezze misure . Oltre a quelli presenti nella rete – Twitter su tutti -, si sono aggiunti quelli saliti sul palco, ad infiammare le discussioni: prima su tutte Maria De Filippi, timoniere evergreen della tv – in grado di sopravvivere con agilità dalla concorrenza - e faro del suo pubblico, che l’ha inondata di elogi e ‘cimeli’ a forma di GIF. Poi ci hanno pensato gli artisti più social a condizionare i tweet, come dimostrano i nomi di Lodovica Comello e Michele Bravi finiti addirittura nei trend delle serate. Sono questi ‘utenti verificati’ che, barcamenandosi della loro notorietà, hanno indirizzato e indirizzeranno questa miriade di tuttologi virtuali verso un’opinione nei confronti dei grandi eventi.
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CURIOSANDO NELLA MUSICA 1)
tunato di Luca Vincenzo For
analizza nte di Gabbanizcohnee Italiana tival della Can
Non tutti sanno che la sinfonia n. 8 in si minore di Franz Schubert, è stata composta dal musicista solo nei primi due movimenti iniziali. L’altro nome con cui è famosa questa sinfonia, infatti, è “incompiuta“. 2)
“Tearjerker” e “Transcending” dei Red Hot Chili Peppers sono stati dedicati rispettivamente al cantante Kurt Cobain e all’attore River Phoenix, entrambi scomparsi ancora giovanissimi. 3)
I Nirvana sono stati cacciati dalla festa per l’uscita di “Nervermind” e perché si lanciavano cibo per gioco! Un giornalista scrisse: “sembravano ragazzini” mettevano CD nel microonde. Cobain ha anche mandato a fuoco un divano.” 4)
Un dentista fece provare l’LSD ai Beatles versandogliela nel caffè. 5)
Eddie Van Halen ha registrato l’assolo di “Beat it” improvvisandolo e pensando fosse una prova per contare le battute, al fonico invece piacque e lo lasciò nella registrazione originale
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he piaccia o no, il Talent è un format diventato centrale nei palinsesti televisivi: The Voice, X Factor, Amici, sono tutti programmi che ogni anno riescono a registrare alti indici di ascolto. Spettacoli televisivi che si basano sulla competizione tra vari artisti, che vengono giudicati da personaggi famosi o dal pubblico stesso. Da questi talent sono usciti cantanti come Marco Mengoni, Alessandra Amoroso, Emma Marrone, Annalisa, solo per citarne alcuni. Storia del Talent show Come vedremo più avanti, sono tanti i critici musicali che si sono schierati contro i talent show. Ma non tutti sanno che questo genere è stato usato per dare slancio alla tv pubblica nei suoi primi anni di vita, oltre che per far conoscere alla gente cantanti oggi famosissimi. Nel 1956 infatti, la Rai mandò in onda per 36 puntate Primo applauso, programma dove ogni artista si esibiva in una propria specialità (canto, ballo, cabaret, etc.) e da dove sono usciti talenti come Adriano Celentano e Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan. Come dimenticare poi Settevoci, programma che la Rai mandò in dal 1966 al 1970. Condotto da Pippo Baudo, il format non era altro che un quiz musicale dove a quattro artisti affermati si affiancavano quattro giovani che dovevano rispondere ad alcune domande. Dal programma sono usciti cantati divenuti poi famosi come Massimo Ranieri, Orietta Berti, Al Bano, solo per citarne alcuni. Dopo un lungo
di Andrea Celesti
periodo di assenza dai palinsesti televisivi, dal 2000, sulla scia del successo che ottiene in altri paesi come Stati Uniti e Regno Unito, il genere del talent show fa il boom (o meglio ritorna) nella tv italiana grazie a programmi come Amici, Music Farm, X Factor e Ti lascio una canzone. Sono anni in cui si cerca qualcosa di nuovo e dove il pubblico, stanco dei soliti programmi televisivi visti e rivisti, sente il bisogno di aria nuova. A ciò si aggiunge l’immobilismo in quel periodo delle varie case discografiche, che smettono di fare scouting. Critiche al Talent show di oggi C’è chi accusa questi format di essere macchine per fare soldi, trasformando un talento in uno strumento che ammicca a facili guadagni. C’è chi come Fabrizio Bresciano, docente e musicista, pensa che lo scopo del talent sia evitare che il mercato discografico sforni artisti duraturi nel tempo e far si che nessun cantante sia più autore della propria musica, limitandosi ad essere semplicemente un interprete, il più delle volte mediocre. Il tutto per controllare la carriera dei nuovi talenti, mettere a tacere le personalità dei grandi autori, evitando che vengano veicolati pensieri e messaggi “scomodi”. “Cantanti usa e getta” dunque, che durano qualche anno per poi tornare nell’anonimato. C’è chi come Red Ronnie, al timone per anni dello storico programma Roxy Bar, pensa che questi format stiano creando karaoke, prodotti televisivi di successo, ma allo stesso tempo stia-
“Per me è Sì!” 24 | #musicazerokm | MZK News
MUSIC
no distruggendo quella che è la musica. Secondo il critico, oggi prenderebbero solo i cantanti con una bella voce, non ci sarebbero più “gli idoli”, cioè coloro che andavano controcorrente, si opponevano al potere, animavano i dibattiti sul palco, dotati di spirito critico e grande peso mediatico. Vengono in mente i vari Piero Pelù, Franco Battiato, Adriano Celentano, tutti cantanti che spesso guardano con un occhio critico governi, parlamentari, speculazioni edilizie. Ad esporsi sul fenomeno anche Raf, che in un’intervista al Messaggero.it, ha criticato il criterio di questi programmi: secondo il cantante il talent si limiterebbe a premiare solo il bravo interprete senza andare oltre. Per emergere oggi servono i Talent? Siamo sinceri: difficilmente torneranno, almeno nel breve periodo, i tempi in cui veniva scoperto per caso un talento che poi il pubblico vedeva crescere con il passare degli anni. Raramente al giorno d’oggi si trova qualche scopritore di talenti
che si prende il rischio di investire su qualche sconosciuto, ormai i talent sono diventati una realtà da cui attingono le case discografiche in cerca di profitto e chi vuole diventare una star deve per forza passare per questi programmi. Per questo, al di là delle critiche più o meno giustificate, questi format sono e continueranno ad essere un fattore importante, anche se sarà impossibile trovare ogni stagione un cantante che si affermi anche per gli anni successivi. Ovviamente però ci sono anche altri modi per emergere: il mondo della rete ormai è quasi al pari di quello del talent, in Italia sono sempre di più gli artisti che si affermano diventando virali su Youtube o Internet (vedi il Pagante, Rovazzi, Benji e Fede), anche se la durata del loro successo sarà tutta da verificare, visto che essi si rivolgono esclusivamente ad un target giovanile. Ovviamente bisogna essere consapevoli che alcuni di questi cantanti rimarranno sulla scena, altri verranno dimenticati, d’altronde le meteore ci sono sempre state...
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MUSIC
Una scala per il Pa
I Led Zeppelin: lungo le rotte di un sound determi
, Y L P M I “S ” ! N I L E P LED ZEP
L
a loro storia ha dell’incredibile nel panorama mondiale del Rock: un sound inconfondibile, effetti psichedelici, esoterismo, trasgressioni, estremismi e tante paure. Mentre molti nostalgici sognano una Réunion, del tutto impossibile (dopo la deludente, seppur incredibile, uscita in concerto all’O2 Arena di Londra nel 2007 che ha contato oltre 20 milioni di prenotazioni in circa 24 ore conducendo così la band ad entrare nel Guinness dei primati per la maggior richiesta di biglietti per una singola esibizione dal vivo), ripercorriamo il lungo volo del Dirigibile di Jimmy Page & co, soffermandoci in maniera particolare su Stairway to Heaven. I Led Zeppelin sono fautori di Live in-
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cendiari e movimentati, con più di 300 milioni di dischi venduti, seppur la loro politica si discostava nettamente da quella del marketing musicale degli anni ’70. Furono infatti, i primi a raggiungere il successo senza dipendere dalla programmazione radiofonica. Fino ad allora, radio e televisione erano state dominate dalle hit parade, dal 45 giri. I Led Zeppelin sbaragliarono la “concorrenza” senza mai entrare in quelle classifiche. Nemmeno la loro più grande hit, “Stairway To Heaven”, divenne mai un singolo. In riferimento a tale pezzo c’è da dire che secondo l’evangelista televisivo Paul Crouch, se si ascolta il brano al contrario in corrispondenza del verso “bustle in your hedgerow”, si può sentire: “here’s to my sweet Satan/ The one
whose little path would make me sad, whose power is Satan / He will give those with him 666 / There was a little toolshed where he made us suffer, sad Satan”. Per una bizzarra coincidenza, quella parte sembra davvero corrispondente all’interpretazione di Crouch: “Chi diavolo avrebbe potuto pensare di fare una cosa simile?” ha voluto rispondere Plant alle accuse di satanismo, “Devi avere davvero una montagna di tempo da perdere anche solo per ascoltare un brano al contrario e credere che la gente possa aver detto intenzionalmente quelle cose”. Su questa leggenda, i fan si sono scatenati: in fondo, dicono: è logico pensare che se ascolti “Stairway To Heaven” al contrario diventi “Stairway To Hell”. Su Stairway To Heaven si racconta, inol-
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aradiso… del ROCK
inante per l’evoluzione del rock e dell’Hard Rock. di Andrea Paone
tre, che la musica sia stata composta in pochi minuti e che, il mitico Page compose l’assolo della canzone chiuso in una cella frigorifera, così che il freddo lo stimolasse ad avere una concentrazione massima su ciò che stava facendo. Continuando un’analisi sulle loro politiche pubblicitarie bisogna ricordare che la sinteticità e semplicità con cui intitolarono i primi album (Led Zeppelin I, II, III, IV), privi persino del loro nome in copertina, segnarono una rottura con il passato, che voleva i titoli dei dischi funzionali al marketing della band. Più ancora della politica adottata dal loro manager Peter Grant e dal loro marketing, ad attrarre milioni di fan furono le loro esibizioni live. Concerti che, sull’onda di Woodstock, riportavano il rock alla sua
dimensione più trasgressiva, selvaggia e nello stesso tempo genuina. Le esibizioni dei Led Zeppelin erano pervase da un’energia feroce, un fuoco che attraversava ogni presente, da una fantasia allucinante, da un carisma che per certi critici risiede in un furore mistico. Comunicavano con un mix di musica assordante fatto da grida, scambi di acuti tra voce e chitarra, melodie folk e passaggi blues accostati a scale elettriche: un simposio di note esaltate dai virtuosismi supersonici di Jimmy Page e dal canto lamentoso e potente di Robert Plant. L’impronta dei Led Zeppelin è ormai immutabile nel panorama Rock: il Bonzo’s Groove viene studiato dai batteristi di tutto il mondo, gli acuti e i sentimenti esternati dall’incredibile voce di
Plant sono ricordati da ogni cultore della musica rock, i loro suoni e gli effetti utilizzati con innovazione all’epoca, vengono tutt’ora apprezzati dalla totalità dei fonici, e la cultura musicale che si evinceva dalle mani e dalle menti dei pilastri del gruppo, J. Page e J. P. Jones rimane una testimonianza di assoluta “immortalità” di questo gruppo. I Led Zeppelin rimangono nella storia impermeabili alle mode ed ai mutamenti generazionali. Nell’ultima intervista rilasciata a Rolling Stone, nel mese di ottobre 2012 si legge di un Jimmy Page ormai calmo, cultore della buona musica e della vita sana, ma si intuisce tanta nostalgia dei vecchi momenti passati con una band che ha segnato la storia del Rock.
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MUSIC
Un futuro che s
la new age de
La storia della tecnica applicata alla
R
icercarne le origini significherebbe restituire al lettore la storia dell’innovazione tecnologica, coi suoi passi, più o meno lenti, e il suo progressivo cambiamento. Indagarne le fasi, invece, per capirne (o almeno provarci) le origini, l’adolescenza, la maturità, la ricostruzione ed infine la contemporaneità, dà il senso artistico, culturale e ancor più musicale di un genere che, da diverso, nuovo rispetto al passato, e “utopico”, è diventato sempre più “uguale”, statico nelle varie declinazioni in cui si è espresso, sempre meno originale. La vera sfida, quindi, sta tutta lì: trovare nuovi e continui colpi di coda,
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in grado di donare linfa nuova, di creare la diversità, la “nuova” diversità. Di spuntare in un’intuizione. Non è semplice, soprattutto quando hai circa mezzo secolo di produzioni alle spalle, molte illustri, futuristiche, fondative del genere. Altre più ripetitive: dai Kraftwerk (anni ’70) ai pionieri dei “mitici anni ‘80”: The Human League, Depeche Mode, Alphaville ed Orchestral Manoeuvres In The Dark. Poi la svolta, la biforcazione che ancora oggi si tiene in piedi, fra giovani e meno giovani, fatte come ovvio le dovute differenze col passato. House, Techno e tutto il mondo a ballare. Siamo alla fine degli ottanta, quelli
che oggi guardiamo un po’ con nostalgia, quelli che diedero il là all’idea di rave, perlopiù britannica e statunitense sul nascere, ma che poi assumerà nei successivi novanta caratteristiche ben più globali: da subcultura di pochi a cultura di gruppi. L’aspetto musicale e, nella fattispecie tecnico, stava tutto nel produrre ritmiche, suoni e battiti duri, acidi (da qui, l’acid techno) che rispecchiassero lo spirito del tempo, e dei suoi protagonisti. Da un lato Frankie Knuckles, Marshall Jefferson e Jesse Saunders; dall’altro Juan Atkins, Kevin Saunderson, Carl Craig e Jeff Mils (per non parlare degli Underground Resistance). I primi
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sa di presente:
ell’elettronica
di Carlo Ferraioli
a musica: è arrivata una nuova era. produttori house, i secondi techno. A proposito di produzioni, nel 1989 nasceva a Londra la Warp Records, casa discografica indipendente britannica, che vide fra le proprie fila illustri e prestigiosi artisti: Aphex Twin, Boards of Canada e Squarepusher. Siamo agli inizi degli anni ’90, quindi, e di fatto già entrati nel mood più maturo del genere. E’ questa la fase che vedrà, in un primo momento, la destrutturazione di alcune forme con la successiva creazione di modi nuovi di intendere lo stile, il ritmo, i battiti per minuto (bpm). Massive Attack, The Chemical Brothers e, già negli anni duemila, Daft Punk, ne sono piena testimonianza, all’in-
terno dei rispettivi sottogruppi stilistici (e ne son veramente tanti). Il trentennio ’90 – ’10 infuse la certezza, più che la convinzione, che qualcosa stesse cambiando: suoni diversi, o forse semplicemente più suoni. Più tonalità, più sfaccettature, più correnti. A rincorrere, talvolta, il successo e la vendita più che ad essere immagine di emozioni, sensazioni e stati d’animo, come maggiormente visto agli inizi. Una certezza, nel frattempo, resta: che la musica elettronica (questa macrocategoria che spaventa quasi) sarà il futuro, o meglio, ne farà parte. Com’è già, com’è sempre stato. Questa
volta però, forse, ad accompagnare certe dinamiche di interesse, più che ad accompagnarci in pista. Del resto, come tutti gli elementi che accomunano gli individui ed esercitano influenza sociale, anche questa (e, in quanto musica, ancor di più) è spesso preda del calcolo, del guadagno, del cinismo. Quello sì, potrebbe causarne la fine, sovraccaricando la tecnica, annullando l’emozione, interrompendo il trip con uno schiaffo di banalità. Costretti ad ascoltare, e non più a sentire, nel senso inglese del termine (to feel; an emotion, love, a feeling). Speriamo quel giorno non bussi mai alle porte del locale. MZK News
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MUSIC
N O I T A R E N GE
nica
Elettro La rubrica di Musica
. eglio di 3 album m il e e at d 2 3 , 15 tracce umeri: Non solo n zioni e intensità. ritmo, emo
Moderat,
trilogia e nuovo inizio di Carlo Ferraioli
E’
un progetto berlinese di musica elettronica, che dal 2002 non smette di stupire, di incantare, di farci ballare. Un progetto qualunque, come tanti, non sappiamo neanche se lo conosciate o meno. Composto e portato avanti da sconosciuti qualunque: Apparat, al secolo noto come Sascha Ring, e dai Modeselektor (Gernot Bronsert e Sebastian Szarzy). Il sogno, poi tramutatosi in idea, è divenuto alla fine realtà, dando alla luce tre dischi dall’omonimo titolo. Bando all’ironia, lo avrete capito dalle prime battute: che Moderat sia. Cambia la progressione, non il genere: glitch, IDM, minimal techno. A cambiare, però, non è stata neanche la voglia di incuriosire, di stimolare. E allora ci correggiamo, che Moderat Live sia. Il 2016 è stato un anno energico, acuto, forte. Sicuramente significativo per loro, con l’uscita di III, opera che ha completato le fatiche di sette anni: era il 2009 quando ciò che ora si conclude
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ebbe inizio. Una trilogia, appunto, che promise bene sin da subito, con l’uscita del primo singolo estratto dal primo disco (I), “A new error”: quelle mani le ricorderete tutti, no? Bene, eravamo solo all’inizio. Ma tranquilli, non siamo alla fine. Moderat Live, dicevamo. Sì, perché il tour da poco conclusosi, e che li ha visti girare in tutto il mondo, gli sarà piaciuto, ed anche tanto. Da volerne fare addirittura un altro. Eccoci quindi al nuovo inizio, come promesso. Aprite bene le orecchie: il meglio della setlist dei vari live è stato tutto raccolto in un nuovo album, con la copertina (strafiga) che unisce gli artwork della trilogia. La scaletta scelta mette in evidenza gli episodi più cantautoriali di Moderat. Inconfondibile la voce venata di intimità di Apparat, ad esempio, oltre che alle meccaniche costruzioni dei Modeselektor, su cui si posa in un perfetto mix, capace di liberare la mente da certe sensazioni, e di provocarne altre. Un
ologramma proiettato su per la fronte per capirlo davvero. Servirebbe vederle, queste emozioni. Alcuni brani scivolano via più facilmente di altri, che invece ti prendono, ti trattengono. A parte ciò, c’è musica. Da ascoltare, perché no, di cui godere, ma da analizzare anche. Partendo da “A New Error”, passando per “Ghostmother” e il suo mood più sentimentale, per finire con tendenze R&B (pop, funk) elettroniche in “The Fool” e “Last Time”. In mezzo, l’electro-techno di “No.22”, brano appartenente al primo dei tre album; l’eccitazione “Bad Kingdom”, come poterla tralasciare: fra i brani simbolo dell’indie-pop elettronico degli ultimi tempi. Ma anche “Reminder”, “Eating Hooks” e “Rusty Nails”, in cui Sascha dà piena voce al glitch che è in sé. E allora non occorre che vi spieghiamo altro, capirete da voi. Il due settembre l’ultima data a Berlino, niente Italia. Fate vobis.
L’ ELETTRONICA ROMANA
NEW
MUSIC
INCEPTION Genere: Deep House Artisti: Jacopo Mancini & Yuri santos Etichetta Discografica: MZK Lab Regista: REPLAY filmaker Mastering: Gianluca Meloni
NUOVE PROPOSTE
dal mondo del Dancefloor di Andrea Paone
U
n disco che non smetterete mai di ascoltare con un sound impetuoso e un ritmo eccezionale. “INCEPTION”, il nuovo progetto di Jacopo Mancini e Yuri Santos prodotto da MZK lab presso lo studio Muziki di Roma, è il Futuro, quello con la F maiuscola. Quattro tracce che mettono in risalto l’esperienza e l’estro elettro/dance del deejay e producer romano Jacopo Mancini, impreziositi nei brani “Inception” e “We are gone” dalla voce soul, calda e potente del talento italo capoverdiano Yuri Santos. Il 26 febbraio è uscito su iTunes con la
presentazione del video ufficiale, dove il regista REPLAY filmaker racconta e raffigura a ritmo di acrobazie e parkour per le strade della capitale, le paure che ognuno di noi si porta dietro, i timori che ci rincorrono e che non vogliamo affrontare. Questi sentimenti s’impersonificano grazie ai ragazzi, nonchè grandi atleti, della “Streetarts Family” di Roma. Il protagonista fugge in una corsa impetuosa e intensa fatta di pensieri e flashback, portandolo in un confronto diretto con le sue paure, angoscie e ire. Un po’ come un eroe moder-
no che affronta e sconfigge i propri demoni. Un lavoro che dà modo di esprimere e dimostrare la qualità dei nuovi artisti della scena romana, un mix di passione e di creatività. GUARDA QUI IL VIDEO
MZK News
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MUSIC
Il ricordo di LUIGI TENCO L’uomo che scelse di… “Non invidiare chi vive lottando invano col mondo di domani” di Alessio Boccali
U
n bigliettino con su scritte le sue ultime volontà, o le presunte tali, è questo l’unico elemento di materialità mortale che ci resta di Luigi Tenco. Qualcuno dirà «E allora i suoi dischi? Non sono anch’essi un segno materiale della vita del cantautore?» beh, io dico di no. Gli album di Tenco, e quindi la sua musica, resta nell’immaginario collettivo e nella mente di chi lo ha amato, sono eterni ed in quanto tali non possono sicuramente far parte di una sfera mortale. Una carriera breve, ma intensa quella del cantautore alessandrino di nascita e genovese di adozione, divisa inizialmente tra cinema e musica e poi dedicata completamente all’arte delle melodie. Nel ‘61 esce il suo primo 45 giri inciso come solista ed intitolato “I miei giorni perduti”. Nel ’62 è la volta del primo 33 giri contenente successi quali “Mi sono innamorato di te” ed “Angela”, ma anche la censurata “Cara maestra” che costò a Tenco l’allontanamento dalla RAI per due anni. Nel ’63 scrive “Io sì” ed “Una brava ragazza” nuovamente bloccate dalla censura e, dopo una pausa dovuta al servizio militare e ad una contemporanea crisi di scrittura, Tenco torna sfornando grandi successi come “Lontano lontano” (in gara ad Un disco per l’estate 1966), “Uno di questi giorni ti sposerò”, “E se ci diranno” e “Ognuno è libero”. In quegli anni a Roma conosce la cantante italo-francese Dalida, il vero e forse unico grande amore del cantautore. Ed è proprio con lei che in quel maledetto 1967 Tenco si presenta a Sanremo con la meravigliosa “Ciao amore, ciao”. Gli amici del cantautore, Fabrizio De An-
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dré su tutti, dichiararono in seguito che il cantautore andò controvoglia al festival dei fiori. Fatto sta che Tenco aveva addirittura cambiato il testo della canzone per sfuggire all’ennesima censura ed adeguarsi all’atmosfera nazionalpopolare del festival, trasformandola da un inno antimilitarista ad una canzone d’amore sullo sfondo dell’emigrazione italiana verso le Americhe. Nonostante questo, il brano di Tenco non venne apprezzato dagli organizzatori del Festival e non fu ammesso alla serata finale, classificandosi al dodicesimo posto. Fallito anche il ripescaggio, dove fu favorita la canzone “La rivoluzione” di Gianni Pettenati, pare che Tenco sia stato preso ancor più dallo sconforto. L’eliminazione di “Ciao amore, ciao” fu comunicata al cantautore nella sala hobby dell’hotel sanremese, che, su tutte le furie, dichiarò di voler abbandonare la carriera da interprete e di voler dedicarsi esclusivamente alla carriera di compositore. Da lì al ritrovamento del suo corpo senza vita all’interno della camera 219 dell’Hotel Savoy il passo è breve. Vicino al suo corpo venne ritrovato quel bigliettino di addio, che le perizie calligrafiche successive attribuirono al cantautore stesso. Una morte, che proprio per questo motivo, venne subito giudicata come conseguenza di un suicidio e che portò alla chiusura immediata delle indagini. Il mistero in realtà non si concluse lì e continuò negli anni coinvolgendo scenari politici e complottisti che ancora oggi mantengono un velo di incertezza sulle ultime ore di Luigi Tenco. Tanti sono gli artisti che negli anni, insieme al fratello Valentino, hanno spinto per
riaprire l’indagine che prima nel 2005 e poi definitivamente nel 2016 è stata archiviata confermando l’ipotesi di suicidio volontario; tesi che però continua a non convincere la famiglia e gli amici artisti di sempre. L’eredità artistica lasciata da Tenco è immensa. Un artista dall’indole malinconica ed introspettiva che ha scritto testi meravigliosi per raccontare la sua filosofia d’amore e sopperire le sue frustrazioni e i momenti vuoti. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva: «Perché scrivi sempre cose tristi?» rispose con ironia «Perché quando sono felice esco…». Questo per giustificare la predisposizione alla malinconia presente nei suoi testi. A 50 anni dalla sua morte nessuno si è dimenticato del genio di Tenco, anzi, come succede per tutte le più grandi figure della nostra società, l’arte del cantautore è stata apprezzata pienamente soltanto dopo la sua dipartita. Tra gli omaggi più belli che negli anni Luigi Tenco ha ricevuto c’è quella “Preghiera in gennaio” di Fabrizio De André che recita “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia / se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia, / soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, / che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”: un inno ad un uomo che non si piegò mai al compromesso e che, proprio per questo, decise di “…Andare via lontano a cercare un altro mondo. Dire addio al cortile, andarsene sognando…” Eppure quel 27 gennaio del 1967 a Sanremo è morto soltanto l’uomo Luigi Tenco, non l’artista.
MUSIC Avv. Claudia Roggero Avv. Valentina Mayer www.dandi.media
C
Le questioni legali legate alla cover musicale.
he cos’è una cover? Che differenza c’è tra cover e un’interpretazione? E tra cover e elaborazione? E se volessimo utilizzare una cover per un video? Nonostante i molti dubbi che possono venire sulle questioni legali legate alla cover musicale e relative all’incisione di una cover, nella maggior parte dei casi si tratta di una procedura quanto mai semplice. Cosa si intende esattamente per “cover” musicale Si tratta di prendere un’opera musicale composta da altri (indipendentemente dal fatto che sia stata incisa o meno in passato e da chi: non ci interessa qui il profilo produttivo/artistico), suonare e incidere ex novo una nostra versione. Il tutto senza mutare sensibilmente melodia, testo o struttura del pezzo originario (così come composto dall’autore). Cover e interpretazione Nella terminologia della musica leggera (principalmente pop e rock), una cover è la reinterpretazione o il rifacimento di un brano musicale – da altri interpretato e pubblicato in precedenza – da parte di qualcuno che non ne è l’interprete originale. La differenza tra interpretazione e cover non è ben definita: in genere quando un musicista interpreta un brano considerato un classico della musica eseguito innumerevoli volte si esita ad usare il termine cover (si parla in questo caso piuttosto di interpretazione). Il termine cover è invece maggiormente utilizzato per indicare la reinterpretazione di brani relativamente recenti (come nel caso delle “cover band” e delle tribute band, gruppi musicali che interpretano solo canzoni note scritte da altri). In altri ambiti musicali (nella musica classica, ad esempio) l’esecuzione di una stessa
composizione da parte di interpreti diversi è la regola, quindi non esiste un termine corrispondente. Nel jazz si definisce standard il tema di una canzone nota, che i musicisti usano come base per variazioni e improvvisazioni: queste, tuttavia, non sono semplici interpretazioni o arrangiamenti della canzone originale, quindi non sono assimilabili a “cover”. La differenza tra elaborazione e cover Se si interviene in maniera sostanziale su melodia (ad es. aggiungendo una nuova melodia o modificando la linea esistente ben oltre la normale interpretazione resa dal cantante), testo (ad es. traducendolo in un’altra lingua o aggiungendo un testo nuovo) o struttura (ad es. stravolgendo la sequenza delle varie parti, eliminandone alcune) non si tratterà di semplice cover bensì di una elaborazione: dovremo ottenere il permesso preventivo degli aventi diritto (ovvero dell’editore musicale o in sua assenza degli autori/compositori, da contattare direttamente). Aspetti economici Fatta salva la remunerazione relativa all’interpretazione, i diritti economici e le rendite relative all’esecuzione o alla riproduzione di un brano sono dei suoi autori ed editori, i cui nomi devono solitamente essere pubblicati in calce alla riproduzione audio. Talvolta la cover di una canzone è caratterizzata dalla modifica della parte letteraria, spesso perché adattata, tradotta o riscritta in un’altra lingua. In tal caso i diritti possono essere divisi percentualmente a seconda dell’entità delle modifiche tra gli autori ed editori originali e chi ha eseguito l’adattamento, a seconda di quanto stabilito dalla locale società che tutela il diritto di autore: in Italia, la Siae, che parla in questi casi di sub-autori e sub-editori.
Qualora invece uno o più autori vogliano far passare per propria un’opera, o anche solo parte di essa, scritta in realtà da altri, omettendo cioè di attribuire gli autori originali, non si può parlare di cover ma piuttosto di violazione del diritto d’autore o del copyright, a seconda della giurisdizione. Precisato quanto sopra, il resto è minimo adempimento. Quindi in fase di stampa di supporti o sfruttamenti in digitale, l’utilizzatore (il produttore che procede alla stampa o il music provider) dovrà provvedere a versare quanto richiesto dalla SIAE quanto a compensi per diritti d’autore delle opere incise, tramite le licenze usuali. Se gli autori e i compositori della cover non avessero conferito mandato a nessuna società di gestione collettiva del mondo (come la SIAE) dovremo allora richiedere direttamente il permesso scritto agli aventi diritto, ma si tratta di un’ipotesi non frequente. Cover e video Se volessimo realizzare un videoclip della registrazione fonografica, il discorso muterebbe: poiché il c.d. diritto di sincronizzazione, ovvero l’abbinamento di opere musicali a immagini in movimento (parte del diritto di elaborazione), è gestito direttamente dagli aventi diritto (ovvero dell’editore musicale o in sua assenza degli autori/ compositori) e non invece dalle società di gestione collettiva, sarà necessario richiedere e ottenere una preventiva autorizzazione direttamente agli aventi diritto. Se il videoclip invece documenta la semplice esecuzione musicale del brano stesso (es. ripresa live dei musicisti o dello strumentista per un video didattico), allora, secondo la dottrina giuridica prevalente, tale abbinamento di musica e immagini non realizza una sincronizzazione e non sarà necessaria alcuna preventiva richiesta per tale sfruttamento.
MZK News
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MUSIC
C
“Sempre con i piedi a terra”
L’intervista ad Emis Killa, all’indomani del suo nuovo successo
ome arriva il successo? Per alcuni “con preavviso”, per altri a sorpresa. Tra questi ultimi spiccano parecchi rapper, ormai usciti dall’underground e colpiti dalle luci della ribalta. Come non pensare a quelli dei ‘muretti’ negli anni ’90? Artisti divenuti famosi, ma costretti a rimanere genuini davanti agli storici fan. Ci sono riusciti? Un esempio ce lo offre Emis Killa che, all’indomani del suo nuovo tour, abbiamo intervistato per ripercorrere la sua carriera, all’insegna dell’autenticità. Partiamo dagli esordi al ‘muretto’ di Milano negli anni ’90: cosa ti è rimasto dopo tutto il successo ottenuto? «Tanti bellissimi ricordi perché ha rappresentato un cambio di stile e di mentalità che mi ha fatto crescere e diventare quello che sono. Per gli abitanti di Vimercate, Milano era vista come l’America ed io, svolgendo la mia vita lì, mi sentivo più emancipato». A livello tecnico, ci spieghi la differenza tra etichetta indie (Blocco Recordz) e una major (Carosello)? «E’ come andare in una squadra con lo stesso allenatore: la storica Blocco Recordz a livello di team, la Carosello a livello promozionale. Chiaramente, grazie alla sua potenza economica, sono migliorati i lavori rispetto a prima». Cantante, conduttore e pure scrittore: come sei riuscito a conciliare tutti questi lavori? «Penso che condurre e cantare vadano di pari passo, anche se ad
Franco Ranieri Ora il suono è perfetto
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FQS è il suo nome d’arte e, alla mia richiesta di decodificarci l’originale sigla, Franco Ranieri, romano ed appassionato di musica, arte e cultura, con uno spiccato senso di partecipazione emotiva verso vicende ed episodi che vedono il mondo e i suoi abitanti protagonisti, mi mostra il suo biglietto da visita, insieme a parecchio materiale cartaceo e non, che chiama “feedback”. Inizio ad incuriosirmi, che vorrà dire? E leggo: Metatron Franco Quadrimensional Sensitive – Ora il suono è perfetto. Franco, gli chiedo, come nasce, da quale idea, e quanto tempo fa, questa voglia di produrre qualcosa di tuo, di originale, da completo autodidatta, ma con tanta, tantissima pazienza? Ero giovane, mi risponde, ma già insofferente alla dimensione meramente commerciale e di vuotaggine che la musica, per lui divina, letteralmente terapeutica (NdR), stava assumendo. Abito che, purtroppo, non ha smesso più indossare, arrivando a degenerare in un suono stomachevole, privo di vibrazione, di passione, di cuore, ma devoto alle grandi etichette, alle produzioni sovrane, ai poteri forti. La mia musica, aggiunge, è assoluta, pura, perché alla gente faccio provare emozioni, la rendo, anche solo per un secondo, partecipe della registrazione del pezzo in studio: è come se l’artista fosse lì con loro, se ne sente la saliva in bocca, il fiato ansimare dopo un
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alcuni non piace stare davanti alla telecamera. Per quanto riguarda la musica e la scrittura, credo che per un cantautore 2.0, la scrittura di un libro è un’altra forma del suo lavoro, anche se ha un approccio ovviamente diverso. Comunque è figlio della stessa madre!»
di Luca Vincenzo Fortunato
Il tour è dedicato al tuo ultimo album, “Terza Stagione”: come si differenzia dai precedenti lavori? Quale messaggio ci vuole comunicare? «Vorrebbe far capire che sono rimasto con i piedi per terra. Tecnicamente è più difficile per l’utente medio perché ha sonorità più rap. Infatti è piaciuto molto al settore e meno al grande pubblico. Comunque ero consapevole di questa scelta e ne sono felice!»
REDAZIONALE acuto; ogni strumento viene indagato nella propria particolarità. Non è marketing, di quello non me ne frega nulla, dice, è far provare emozioni alle persone, renderle vive, toccarne la sensibilità, spesso spenta, morta. Franco mi confessa cosa vorrebe fare: portare serenità, pace, amore fra la gente, senza doverci per forza guadagnare qualcosa. Le sue produzione, spesso (o almeno per il momento), sono remastering di brani già esistenti, di cui gli stessi autori, promette Franco, rimarrebbero sbalorditi. Ma come fa? Il protocollo è segreto, ci spiega, ma tutt’altro dal voler essere riservato, d’élite, anzi. Voglio che le persone, i giornali, le grandi produzioni, sappiano che la mia musica suona a 1,618 Hz, la sezione aurea, la perfezione. E’ un prodotto unico al mondo, fatto di tecnologie che riescono ad essere smart ma estremamente performanti, di alchimia e spiritualità, ma, soprattutto, di tanto amore, passione e cuore. La gente dovrebbe riscoprire l’antica e magica vocazione della musica, della sua integrità: ma io non offro solo questo. Infatti, Franco mi spiega che sa praticamente rivitalizzare qualsiasi cosa emetta un suono, e di conseguenza, anche film, o semplici filmati: da qui ne deriva il “tanto altro”, a cui spesso ha fatto riferimento durante la nostra chiacchierata, durata più di tre ore.
Come rivivere le sensazioni
del live direttamente da casa
Tel. +39 / 339 3881649 francoranierienergia@hotmail.it MFQS Quadrimensional Sensitive
MUSIC Alessandro MA NNARINO 25 e 26 Marzo – Pala
lottomatica
AS BrunorianS tico 1 Aprile – Atl
Il cantautore romano ha da poco confezionato un album, che è una vera e propria opera d’arte . Il suo tour, toccherà le più grandi città italiane e riempirà di mu sica e magia i cuori di mi gliaia di fan. Per la doppia data romana il cantautore ha preparato uno spettacolo da urlo, corredato da una sce nografia meravigliosa.
ama raccontare Il ragazzo è uno “old school”, che coinvolgendo il e arra storie imbracciando la chit . Questo 2017 rica oni si qua a sfer pubblico in un’atmo azione grazie al sembra essere l’anno della consacr bene”. o nuovo album intitolato “A casa tutt
ROMA SUONA
OTTA
Francesco M
k 18 Marzo – Mon
“La fine in studio intitolato um alb o im pr o su Il successo to un grandissimo dei vent’anni” è sta rtato ad itica, che lo ha po di pubblico e di cr dei migliori artisti indie o esse considerato un vivo, poi, il ragazzo ha al D . palchi dell’ultimo anno le e merita grandi na zio ce un carisma ec o del Monk. proprio come quell
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MUSIC LME L E ST rco Della usica
Uuditorium Pa BpA rile – A
Ex Otag o
30 A
16 Marzo –
e “L’amor album, tutte le n u n o c di e rtistica a grand nata all e una summa a r o t è a toscan i resta a esser La band nza”, che sembr precedenti. di non v usica in u q e t e m e la viole rienze artistich zo è già sold ou bellezza della r e a loro esp data del 13 ma per godere dell a e ! il a im r r n 0 ap La p la pe ttare il 3 amente che aspe elle. Ne vale ver t dei Baus
QUBE
La band gen ov mantenuta. Il ese è oramai una prom es Capitale, pre loro tour nei club fa tap sa bella che pa anche nel cisamente nel la scoteca rom la sala princi an p ascoltare dal a QUBE. Grandissima ale della diocc vi no, che stann vo i nuovi numero 10 del asione per l’indie nostra o scalando le classifiche di al loro disco “Marassi”. vendite grazie
I L A C I S U M I T GLI EVEN N PERDERE! DA NO E L A IT P A C A L DEL
ali
di Alessio Bocc
E’ MAX GroAdelZl’OZpera 3 Aprile – Teat
nella e diviso in due parti: ny Orchestra di Praga otte ho nd mp co i Sy an ion az mi nt he me Bo ito dalla no le speri rria o Un concerto imprezios in cui Max e il fratello Francesco tratta on zzé veng nale ertorio storico di Ga rep l da e tti ici tra i prima un’opera origi fon an sin br ti strumen anni, nella seconda me l’integrazione tra ssu ria e ch da Max negli ultimi mo gis olo onica”, un ne rangiati in chiave “sint sintetizzatori.
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MUSIC
SUONI DAL MONDO
IL SOUND
CUBA
A CUBA È USANZA REGALARE ALLE GIOVANI COPPIE UNO STEREO COME AUGURIO DI UNA SERENA VITA
I CUBANI, SONO IL POPOLO PIU’ MUSICALE DEL PIANETA. A SCUOLA INSEGNANO LA STORIA CANTANDOLA
L’Avana, musica e balli a ritmo di salsa di Gianluca Meloni
O
ggi il nostro viaggio si ferma a Cuba, precisamente nella sua capitale l’Avana, dove non è difficile orientarsi se si ha voglia di ascoltare buona musica cubana, e bere ron. Appena arrivati notiamo che è un posto con tanto spazio, le strade sono molto larghe, ed i suoni della citta’ sono per così dire “antichi”, anche per via delle auto americane e russe anni ‘50 che ancora i cubani riescono a riparare anche perché è una loro fonte di guadagno importante poter portare in giro tutti i turisti nei loro taxi e taxi collettivi, una vera esperienza per noi europei. Si arriva al malecón, ufficialmente avenida de maceo, è un’ampia arteria a sei corsie situata di fronte al mare nella costa settentrionale de l’Avana, capitale
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di Cuba. È protetta interamente nella sua lunghezza da un enorme muro ed è lunga otto chilometri, dal puerto de la habana, il porto della città situato ne la habana vieja, fino al quartiere del vedado. Il rumore del mare è sempre suggestivo, e camminando fino in fondo per tutto il malecon si arriva al quartiere dell’Avana vecchia, molto caratteristico ovviamente con i suoi locali e ristoranti alcuni anche buoni, ed in quasi tutti si possono ascoltare ed ammirare i vari live set di musica cubana tradizionale, come di incontrare i famosi Buena Vista Social Club in una delle loro associazioni culturali all’Avana vecchia, dove allietano per non dire intrappolano i turisti per farsi poi pagare. Comunque il sistema di guadagno dei musicisti cubani trovo che sia più dignitoso di quello nostro, nel senso che non si vedono proprietari che specula-
no sui gruppi per fargli portare i loro amici per poi mal pagarli e fargli anche pagare a fine serata le varie consumazioni. A Cuba regna il cappello. Eh si! In tutti i club che sono stato, la maggior parte, sia i musicisti che i ballerini passano 2 volte con il cappello per chiedere un’ offerta, credo che alla fine la paga esca per tutti. Dovremmo suggerire questa soluzione, forse si suonerebbe di più e si alzerebbe la soglia dell’attenzione sulla musica, che è cultura anche da noi. Tornando ai suoni ho notato che gli strumenti principali dei set più semplici di molti musicisti sono le maracas, i bongo, il campanaccio, il guiro e la clave, chitarra e contrabasso, voci naturalmente e tromba. Il guiro mi ha colpito molto, è fonda-
NO
MUSIC LA HABANERA È UN GENERE MUSICALE NATO DALL’ UNIONE DELLE DANZE CREOLE E LA CONTRODANZA, HA INFLUITO SULLA NASCITA DEL TANGO ARGENTINO
mentale per il sound, e si parla di una zucca secca o più precisamente della guira il frutto da cui prende il nome, dove una volta seccato si scava, e nella parte superiore, si creano delle scanalature dove si sfrega con un bastoncino, ed il gioco è fatto, questi gli altri nomi con cui è conosciuto questo strumento sono: calabazo, guayo, ralladera, rascador.
una cassa armonica, per far uscire la risonanza di un suono acuto ma molto percussivo. La cubana invece è fatta di legno pieno.
Anche la clave svolge un ruolo importante, se uno ascolta con attenzione la musica cubana troviamo che essa funge da perno per la spina dorsale ritmica. Ci sono due tipi di clave, una cubana ed una africana, la seconda è anche usata nella musica cubana, si tratta di un legno di forma cilindrica scavato all’interno con un buco e due fori grandi in mezzo fatti a mezza luna, è lì che si deve far presa con la mano creando
Un’altra caratteristica che ho trovato è quella delle loro battute musicali in 4 quarti, ma loro contano sempre in tre (un, dos, tres), in realtà mi hanno spiegato poi i passi della Salsa e solo lì ho capito che il 4 è una pausa dove ci si deve fermare e quindi tutto questo diventa sincopato, è molto difficile da individuare abituati alla nostra musica pop dance ecc. Il divertimento e la solarità di questo
Comunque è più facile a farlo che a spiegarlo, magari faremo più avanti una libreria di questi suoni che potrebbero essere utili a creare composizioni originali.
genere musicale è unico e credo che sia veramente a braccetto con il ballo. All’Avana il più popolare fra i cubani stessi, a parte le trovate turistiche che sono molte, il genere più amato è il Son Cubano, è un ritmo nato a Cuba e più precisamente a Santiago di Cuba, verso la metà del XIX secolo. Il Son nasce quindi da una contaminazione e dalla mescolanza tra la tradizione musicale dei colonizzatori europei e i ritmi degli schiavi africani. È il genere che ha dato origine ai ritmi caraibici più ballati oggi, primo fra tutti la salsa ed è il primo ballo caraibico concepito a coppia, che non si basi su coreografie di gruppo. Insieme al tango, lo si può considerare il primo ballo di coppia in senso moderno. La vera alma del pueblo in Cuba è la musica. MZK News
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Vi a d i S a nt a C o r n e l i a 1 1 ( z o n a
a industriale) Formello, ROMA
MOVIE
Francesco Maria Dominedò
di Andrea Celesti
Foto N.Venditti
Scrivere è espressione di fan
C
om’è iniziata la tua avventura nel mondo del cinema? “La mia esperienza come attore è nata per sbaglio, quando ho accompagno un’amica a fare un provino alla scuola di Teatro La Scaletta. Mi hanno chiesto se fossi interessato anche io, all’inizio l’ho presa come un gioco e da li è partito tutto. Sono più di dieci anni che non faccio pù l’attore, questa estate ho dovuto fare una cosa per il mio aiuto regista e l’ho odiato profondamente per questo”. Nella tua carriera tanto cinema e tv. Cosa ami di più e perchè? “Come attore la tv che ho fatto io era legata alle fiction anni 90’-2000, quindi di tipo generalista. Amo molto di più il cinema perchè c’è più libertà, espressione, linguaggio. A me piace mischiare i generi, non amo solo un tipo di cinema ma tanti: da Tarkovskij fino al polizesco anni 70’ di Fernando Di Leo. Il cinema ha più libertà mentalmente, anche se poi quando passi da underground a overground entri nei giochi delle distribuzioni e delle produ-
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zioni, un passaggio necessario per far sì che quello che fai venga visto dal grande pubblico”. Dopo diversi film di successo, ad un certo punto della tua carriera c’è stato il passaggio da attore a regista: come mai questa scelta? “Il mio sogno era lavorare come attore con Dario Argento, ma ogni volta mi scartava. L’ultima volta sono andato a fare un provino per “Il fantasma dell’opera”, dove ho incontrato una mia ex fidanzata, assistente alla regia per il film di Tinto Brass, che mi ha chiesto se avessi ancora con me un racconto interattivo che avevo scritto tempo prima. Gliel’ho mandato via email e dopo cinque giorni mi ha chiamato Tinto Brass, che mi ha dato un appuntamento in produzione. Mi hanno offerto dei soldi ma ho rifiutato, in fin dei conti non era ancora il mio lavoro e potevo rischiare. Gli ho proposto di riscrivere per conto mio la sceneggiatura in modo dettagliato, l’idea gli è piaciuta subito e me l’hanno fatto girare. Da li è partita la mia carriera da regista...”.
Nel 99’ hai debuttato alla regia con Tinto Brass con l’episodio “Sono come tu mi vuoi”. Cosa hai imparato da quell’esperienza a fianco di uno dei mostri sacri della regia ? “Ero terrorizzato, mi ricordo che il primo giorno di riprese avevo chiesto al mio amico Marco Manetti di accompagnarmi sul set. Ad un certo punto in pausa non l’ho trovato più, lì ho avuto paura ma allo stesso tempo mi sono spronato”. Uno dei tuoi film più famosi è sicuramente “Cinque”, che si ispira al polizesco anni 70’. Com’è nata la passione per questo genere che viene rimpianto da molti? “Negli anni 70-80’ c’erano tanti piccoli cinema di seconda e terza visione che frequentavo come il Mignon, dove venivano proiettati anche questo tipo di polizeschi. Di questi amavo l’idea di intrattenimento, di fare necessità virtù, di realizzare un film d’azione senza avere i mezzi e vedevo molta fantasia in questo senso. Amo il cinema popolare di qualità, non a caso tra i miei film preferiti ci sono Arancia Meccanica,
MOVIE “Sono un bambino nel corpo di un uomo di cinquant’anni, che subisce facilmente il fascino della fantasia”. Cosi si definisce Francesco Maria Dominedò, regista, sceneggiatore e attore. È proprio in quest’ultimo ruolo che muove i primi passi nel mondo del cinema e della tv: “Fatti della Banda della Magliana”, “Cover Boy”, “Si fa presto a dire amore”, sono solo alcuni
dei film a cui partecipa come attore. Ad un certo punto decide di dire basta e intraprendere la carriera da regista. Amante dell’intrattenimento, del cinema popolare e di tanti generi diversi, attualmente Francesco Dominedò è impegnato alla realizzazione de “La banda dei tre”, film polizesco-grottesco con Francesco Pannofino e Marco Bocci. Foto N.Venditti
ntasia: l’intervista esclusiva Lo Chiamavano Trinità, I Soliti Ignoti e Il Sorpasso”. Sei stato regista, interprete e sceneggiatore. In quale ruolo ti senti più a tuo agio e perchè? “Sicuramente nel binomio sceneggiatore-regista. L’attore nasce da un ego smisurato che hai fin da piccolo, dove vuoi mostrare e farti vedere. Tutto questo adesso lo trovo noiosissimo e mi diverte molto di più partire completamente da zero”. Come vedi il futuro del cinema nell’era del digitale? “Sono stato tra i primi a usare l’HD, con cui ho fatto il mio secondo corto. Tutti mi dicevano che non sarebbe stato mai possibile fare un film in digitale, io parlavo solamente della necessità di ridurre la luce e inserire i dettagli, lo stesso problema che adesso c’è con il 4K. Il tempo mi ha dato ragione, il digitale rappresenta il futuro: ha rivoluzionato e ha fatto danni in senso buono. Adesso chiunque ha Premiere a casa può fare un film, in questo modo a
mio avviso si abbassa la mentalità piu che la qualità. E’ importante invece che ci sia il rischio di impresa, che ti stimola anche di più. Come mi raccontava Enrico Vanzina, suo padre Steno si impegnava case, proprietà, adesso questa mentalità non c’è più”.
due registi che hanno uno stile proprio e fanno un cinema diverso rispetto agli altri. Cosa ti piacerebbe fare che ancora non hai fatto? “Mi piacerebbe fare una favola moderna alla “Dio esiste ma abita a Bruxelles”, ma anche un film cinico e un western atipico”.
Quale può essere un modo per riportare il pubblico in sala? “Bisognerebbe variare, l’Italia purtroppo è il paese delle mode: anni 80’ Moretti, anni 90’ Muccino, poi tutti film alla Notte prima degli esami, e sono sicuro che il prossimo filone sara composto da film alla Jeeg Robot e Smetto quando voglio. Con tristezza devo ammettere che l’Italia non è un popolo coraggioso, il primo che rischia e crea un genere nuovo viene subito imitato, basta vedere quest’anno, dove ci sono commedie molto simili tra loro. I film più interessanti sono quelli che escono fuori dagli schemi e portano una ventata di novità. Non è un caso che le pellicole che si sono maggiormente diffuse nel mondo sono state quelle di Garrone e Sorrentino,
Quali sono i tuoi prossimi progetti? “Sicuramente montare La banda dei tre, il mio prossimo film polizesco-grottesco con Francesco Pannofino e Marco Bocci. Una storia semplice, che narra di un infiltrato di polizia che subisce un attentato da un gruppo di sconosciuti, proprio mentra sta per incastrare due persone che si occupano di una partita di cocaina. Alla fine sarà obbligato a chiedere aiuto a coloro che voleva incastrare e ci diventerà amico. Un gioco tra chi sono i buoni e i cattivi, dove l’apparenza inganna. Il tutto ambientato in una Tivoli sconosciuta, nera, con inseguimenti tra macchine elettriche. Un film di estrema qualità pensato per il pubblico. La pellicola sarà pronta probabilmente per fine aprile”. MZK News
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MOVIE
di Andrea Paone
Quattro chiacchiere con gli Actual
A
bbiamo incontrato Lorenzo Tiberia e Leonardo Bocci, star del web conosciuti come gli Actual. Con il duo abbiamo scambiato quattro chiacchiere sulla loro carriera e sul loro mondo. Ecco cosa ci siamo detti… Ragazzi, da un pochino di tempo avete iniziato a girare dei video che in brevissimo tempo sono diventati virali. Naturalmente questo successo è frutto di una lunga e dura gavetta. Quanto sono stati difficili gli inizi e qual è il consiglio che date a chi vuole cimentarsi in questa avventura?
Guarda, il primo consiglio è lanciarsi. Considera comunque che noi non eravamo partiti con l’idea di fare video virali per il web, quindi questo successo è stata una sorpresa anche per noi. È iniziato tutto da “Serie Romanista”, poi quando scoppiò lo scandalo di Mafia Capitale ci venne in mente di fare un video parodia di “Romanzo Criminale” che ne parlasse; da quel video lì, “Romanzo Capitale”, ci siamo accorti che il web era una grande opportunità ed abbiamo deciso di coglierla al volo. Sulla rete, poi, bisogna essere continui e questa è
una grande sfida. Grazie alla continuità che finalmente sta arrivando, iniziamo ad essere riconosciuti come duo comico e questa è una gran bella cosa. Anche il format su “Ciao Darwin” è stata una grande occasione di visibilità, vero? Sì, verissimo. Era un format di commento goliardico al programma, un po’ sullo stile dei maestri della Gialappa’s. Pensa che con uno di quei video su “Ciao Darwin” abbiamo fatto addirittura tre milioni di views: numeri che non avevamo mai raggiunto. Naturalmente finita la trasmissione è fini-
credit Leonardo Esposito
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MOVIE
“Siamo un
po’ come la
Gialappa’s
del web”
credit Leonardo Esposito
to anche il format, ma se e quando il programma tornerà in tv non escludiamo che questo nostro format ritornerà. Magari si può pensare anche ad un format simile per altri programmi… l’importante è che siano pieni di strafalcioni con cui giocare. Avete aperto anche una casa di produzione, come quando è nata quest’idea? In realtà è una cosa che ci è un po’ capitata ed è un qualcosa che ci dà benzina per continuare nel nostro percorso sul web. La cosa più importante in ogni cosa che facciamo è la qualità perché poi questo ti dà credibilità; così come è successo con Poste Italiane che ha avuto fiducia nelle nostre capacità. Pensate di approdare in televisione un giorno? Certo, capisco che il lavoro che c’è per un video da mettere sul web è letteralmente differente da quello per un prodotto in tv… Guarda, noi siamo partiti con l’idea di fare gli attori e quindi quando vuoi fare quel mestiere è ovvio che punti al cinema, o comunque a fare film, che siano sul piccolo o sul grande schermo. Il fatto è che secondo
noi tra qualche anno non ci saranno più grandi distinzioni tra cinema, tv e web, basti pensare al boom di Netflix, no? Ad oggi comunque, la visibilità che, potenzialmente, può darti il web è probabilmente maggiore di quella che ti dà la tv. Certo comunque ci piacerebbe anche fare tv, eh, ed in parte l’abbiamo fatto già con degli sketch su RAI 3 nel periodo degli Europei di calcio. Come nascono le idee dei vostri video? Vi svegliate la mattina e fra di voi vi dite: «Lo sai che ieri mi è successa questa cosa…» Inizialmente puntavamo tanto sulle notizie di attualità, quindi per questo facevamo molti meno video, adesso stiamo cercando di essere un po’ più pop, commerciali approcciandoci ad argomenti molto più mainstream. L’idea è di fare un video settimanale per martellare il web. Le location dei nostri video poi sono sempre luoghi a noi familiari: case di amici, casa di Lorenzo… Ho visto che in uno dei vostri ultimi video c’è lo youtuber Gordon, com’è stato lavorare con lui ed in generale com’è il vostro rapporto con le altre star del web?
Bello, è sempre bello lavorare con altre persone, scoprire le loro storie. Ultima domanda: qual è il vostro video a cui siete più affezionati? Beh, “la prima volta non si scorda mai”, quindi il primo. Poi “Romanzo Capitale” ci ha consacrati. Adesso un saluto ed un abbraccio a tutti i lettori di MZK News, seguiteci sulla nostra pagina FB!!!
Guarda la video intervista
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L’analisi di “Sing”:
Quando il Talent incontra l’Animazione di Francesco Nuccitelli
CURIOSANDO NEL CINEMA 1)
Che la saga dell’enigmista sia, di fatto, una di quelle che hanno radicalmente caratterizzato la scena horror nel primo decennio del nuovo millennio è cosa nota, ciò che in pochi sanno è che il film Saw è stato girato in soli 18 giorni! 2)
Steven Spielberg, il bambino d’oro di Hollywood, è la persona che viene ringraziata più spesso dai vincitori degli Oscar. Dio è solo al 6° posto, dopo Peter Jackson!
L’
analisi di “Sing”: Quando il Talent incontra l’Animazione Un inizio prorompente e promettente per il cinema mondiale. Chi ben comincia è a metà dell’opera recita il detto, se veramente è così questo 2017 ci darà tante soddisfazioni. Un anno che darà alla luce moltissime pellicole cinematografiche, molti saranno i generi di film dai più romantici all’animazione, passando per i più classici film di avventura costellati dai supereroi. Tuttavia, proprio dal genere animato arriva uno dei film che forse ha catturato più il pubblico in questo inizio di anno: Sing, il nuovo prodotto della Illumination Entertainment (creatrice già dei Minions, di Pets e Cattivissimo me 1, 2 e in arrivo il 3). Distribuito dalla Universal, è il primo grande successo del 2017, uscito lo scorso 4 gennaio. Sing, il cartone animato musicale può essere già riconosciuto come uno dei successi di quest’anno. La trama è la rappresentazione del nostro tempo in chiave animata con l’utilizzo di graziosi animaletti. La storia narra la vicenda di un piccolo Koala, che da amante del teatro, vuole salvare il suo dal fallimento, Buster Moon (il suo nome), pro-
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3)
clama una gara, una sorta di talent canoro per raccogliere fondi, in modo da salvare il suo stabile. All’appello rispondono vari e pittoreschi personaggi che per un motivo o per un altro desiderano dare il meglio di sé nella competizione canora, con alle spalle una vita privata, anche se potremmo dire un’ingombrante vita privata: la maialina Rosita (madre) sempre sull’attenti di 25 maialini, Meena è un’elefantessa adolescente che ama cantare ma è terrorizzata dal palco. Johnny è un gorilla di montagna adolescente che vuole diventare un cantante ma il cui padre è a capo di una banda di rapinatori e sa che la sua scelta non è corrisposta dal genitore. Ash è un istrice femmina che vuole formare una band con il suo fidanzato ed infine Mike, un topo bianco, con sembianze e movenze di cantante d’altra epoca. Diverse sono le star internazionali che hanno prestato la loro voce: da Mathew McConaughey a Scarlett Johansson passando per Seth MacFarlane, Reese Witherspoon, Tori Kelly, Taron Egerton, Nick Kroll e tante altre stelle della musica e non. Sing è un Film animato stupendo ed emozionante, che sa raccontare la passione per
Leonardo Di Caprio deve il suo nome a Leonardo Da Vinci. Infatti, la madre stava guardando un suo ritratto quando il figlio scalciò per la prima volta. 4)
Sylvester Stallone, prima di ottenere la fama, conobbe la fame. Infatti il suo primo film è stato un porno dal titolo The Party At Kitty and Stud’s. 5)
Titanic è stato uno dei film più visti ed apprezzati dell’ultimo ventennio. Pochi sanno però che la scena di nudo è stata la prima che Di Caprio e Kate Winslet hanno girato… insomma tanto per “rompere il ghiaccio”
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Il nuovo prodotto della
ILLUMINATION
ENTERTAINMENT la musica in un modo semplice e sublime. Con la presenza di personaggi divertenti e con una spiccata ironia nella loro singolare scelta, il cartone è ricco di poesia e di un grande ritmo. Jennings (regista già di “Guida galattica per autostoppisti”) scrive e dirige il film riuscendo a centrare l’idea in modo impeccabile; un film quasi perfetto, un vero e proprio progetto ambizioso e godibile anche per chi non ama il genere animato o canoro, riuscendoci con i vari trucchi del mestiere, con delle situazioni rocambolesche e simpatiche, con un umorismo “animato” e incontrando e raggruppando tutti i generi musicali possibili; certo non ci saranno grandi colpi di scena, anzi è
un film molto lineare ma che si presta molto alla nostra realtà. Una pellicola che rappresenta al meglio la musica odierna e il costante contatto con i talent, sempre più decisivi oggigiorno, dove la musica non basta da sola e lo spettacolo impreziosisce il tutto. Un lungometraggio consigliatissimo non solo per il pubblico più giovane, ma per intere famiglie. Lo spettacolo cinematografico non finisce qui, il 2017 è appena iniziato e ci attendono altri titoli che solo il tempo ci dirà se diventeranno Top o dei Flop da dimenticare il prima possibile, e allora avanti registi, avanti grandi attori aspettiamo con ansia il prossimo successo.
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MOVIE
LE NOSTRE RECENSIONI
SMETTO QUANDO VOGLIO MASTERCLASS Al momento il voto è un 27, dopo il primo da 30 e lode, il secondo prende un 24. Aspettiamo il terzo per il voto finale di Andrea Paone
S
metto Quando Voglio – Masterclass, film di Sydney Sibilia con Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Rosario Lisma, Giampaolo Morelli, Luigi Lo Cascio, Greta Scarano e Valeria Solarino. Una produzione Groenlandia, Fandango e Rai Cinema, distribuito da 01 Distribuition. Nelle sale dal 2 febbraio 2017. Torna al cinema la Banda dei Ricercatori: un sequel difficile! Sveglia alle 8, vado in bagno, preparo il caffè e scelgo la camicia… Nella mia testa inizio a pensare – cosa abbastanza strana a quell’ora – a come potrebbe essere questo sequel, sperando non segui la linea de Il Padrino: il primo leggendario, il secondo splendido, il terzo che ve dico fermateve! Arrivo al cinema, prendo posto, sfoglio il pressbook accuratamente impaginato gli dò una lettura veloce e aspetto con attesa l’inizio di questo secondo film, tanto, forse troppo sponsorizzato. Partiamo dal principio… Nel primo questa “banda” aveva creato la droga perfetta, raggiungendo le vette più “alte” de Roma bella. Sibilia era stato eccezionale nel descrivere, con chiave satirica, il lavoro in Italia: un posto dove essere laureato è quasi una vergogna! Pietro Zinni (Edoardo Leo) dopo essere stato arresta-
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to, viene contattato dall’ispettore Paola Coletti (Greta Scarano) che per fermare il dilagare delle “smart drugs” chiede aiuto alla banda. Il regista aggiunge tre membri al cast Lucio Napoli (Giampaolo Morelli) un ingegnere di meccatronica, un anatomista Giulio Bolle e il legale Vittorio (Rosario Lisma). Al gruppo gli viene chiesto di agire nell’ombra, una sorta di “task force” della polizia… Il Commento Che dire, mi sono divertito. Il film è ironico e la sceneggiatura è scritta in maniera molto comica, forse troppo. Il taglio è, ovviamente, simile al primo anche se in alcuni punti è più lento. I testi e i dialoghi sono veri, gli attori recitano in maniera impeccabile creando un amalgama perfetta, con espressività eloquenti e azzeccate, purtroppo si toccano schemi e tematiche meno forti a confronto con il 1° film, ma per come era finito era impossibile toccarne altri di così spigolosi, quindi viene meno la satira pungente e prende il comando la comicità fatta da battute e frecciatine sibilline. Consiglio di vederlo, non è al livello della prima pellicola, si capisce che è costruito per dare il meglio di sé nella terza e ultima parte, però è comunque un’opera – rimanendo in tema universitario – da 27, anche se per dare un voto totale bisognerà aspettare l’ultima parte, forse potrà trasformarsi in un 30, magari con lode.
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Il Musical che ha incantato il mondo intero di Gianluca De Angelis
P
ossiamo rivivere le stesse emozioni così pure e genuine che ci scatenavano i vecchi film di una volta? A darci una risposta arriva il regista Damien Chazelle con La La Land, che già dopo 5 minuti e una sequenza di apertura cantata e danzata tra le vetture in coda nel caotico traffico di Los Angeles, spazza via ogni dubbio: sì, è possibile. Emma Stone è Mia, aspirante attrice che guarda il luccicante mondo di Hollywood da dietro le quinte, servendo i caffè al bar degli Studios e districandosi tra una serie estenuante di provini dove il mondo dello spettacolo sembra chiuderle in faccia una porta dopo l’altra. Ryan Gosling è invece Sebastian, un pianista con il sogno di salvare il jazz e di aprire il suo locale, che si ritrova però a strimpellare jingle da piano bar pur di sbarcare il lunario. I loro sogni sono classici, come lo è anche il genere di questa pellicola: il musical, volto di una filmografia che non esiste più. Chazelle però riesce ad essere allo stesso tempo classico e moderno, scrivendo una lettera d’amore al passato luminoso di Hollywood ma attualizzando questo genere con una fotografia dai colori brillanti, lunghi piani sequenza, movimenti di macchina elaborati e musiche magnificamente integrate e trascinanti. La nostalgia che si ritrova in La La Land, insomma, è soprattutto quella di un romanticismo ormai dimentica-
to, che ricrea le sensazioni di una purezza d’altri tempi: Emma Stone e Ryan Gosling in questo, con i loro balletti a tratti teneramente goffi, si riconfermano una coppia su schermo credibile e dalla potente alchimia. Nell’arco di quattro stagioni i due si incrociano, si innamorano e cercano di conciliare l’amore per l’altro con i propri obiettivi di realizzazione, e in questo Chazelle è estremamente oggettivo. I sogni infatti hanno un prezzo, e a volte richiedono di compiere delle scelte: vuoi perseguire i tuoi sogni? Devi mettere in secondo piano l’amore. Vuoi invece vivere il grande amore? Allora devi cercare un compromesso con le tue aspirazioni personali. La La Land non è, quindi, solo un tributo agli anni d’oro del cinema che fu, dalla Gioventù Bruciata fino all’immagine-icona di Marilyn Monroe, non è solo un’ode alla Città degli Angeli, che viene descritta per quel che è, ovvero un luogo in bilico tra magia e assurdità, tra contemplazione e frenesia: è soprattutto un enorme omaggio ai sogni delle persone, e ai sacrifici che si è disposti a fare pur di perseguirli. “Here’s to the ones who dream” canterà Mia ad un certo punto del film, e ce lo dice anche un regista giovanissimo entrato ufficialmente nell’Olimpo dei nuovi registi prodigio di Hollywood, che parla soprattutto ai suoi coetanei: i sogni sono lì alla nostra portata, bisogna solo crederci di più, e allungare un altro po’ la mano.
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Imbarazzo da OSCAR
Tra scambi di buste e premi dal sapore politico di Gianluca De Angelis
C
ity of stars… Are you shining just for me?” dice la canzone principale di La La Land. Beh, nella serata degli Oscar 2017, le cose sono andate abbastanza diversamente. Eppure tutto era cominciato come da previsioni: dopo una serata tutto sommato divertente e ben gestita dalla conduzione di Jimmy Kimmel, il conteggio finale ha visto infatti La La Land dominare con 6 premi (tra cui miglior regia, fotografia e miglior attrice Emma Stone), Manchester By The Sea 2 premi (Casey Affleck miglior attore e sceneggiatura originale), Moonlight 3 premi e anche Hacksaw Ridge 2 premi. La vera sorpresa è stata però nell’assegnazione della statuetta più ambita, quella al miglior film: la serata si è infatti conclusa con uno shock sia per il pubblico che per i premiati. In una situazione che ha ricordato il tragicomico errore commesso durante la premiazione dell’edizione 2015 di Miss Universo, un confuso Warren Beatty ha prima (dopo un attimo di titubanza) annunciato La La Land come vincitore, per poi capire l’errore commesso e annunciare invece Moonlight come pellicola vincitrice. Già alcune scelte avvenute durante la cerimonia avevano fatto subodorare qualche sorpresa un po’ “politica” in controtendenza alla polemica sorta lo scorso anno
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con #OscarsSoWhite: entrambi i premi alle migliori interpretazioni da non protagonisti sono andati infatti subito ad attori afro americani, Mahershala Ali prima, che si è aggiudicato il premio con Moonlight (vincitore anche della migliore sceneggiatura adattata), e Viola Davis subito dopo con Fences. La reazione del web all’errore commesso durante il finale della serata non si è fatta attendere: c’è chi ha gridato allo scandalo, sostenendo che in una cerimonia di livello come gli Oscar sviste del genere non debbano categoricamente avvenire. C’è chi reclama su una picca la testa di chiunque abbia commesso quell’errore, non facendo differenziazioni che si tratti di un Leonardo Di Caprio o di un annebbiato tecnico del dietro le quinte. C’è persino qualche complottista che sostiene che questa pantomima non sia altro che un giochetto per alzare degli ascolti ormai in calo da qualche anno. Ora, noi non stiamo a criticare la sciatteria di gestione di una cerimonia come quella degli Oscar, che confonde le due buste dei premi più ambiti per poi accorgersene solo quando i “presunti premiati” hanno ormai finito il discorso di ringraziamento: quello che però emerge dai primi commenti a caldo è una sensazione assai diffusa che legge questi fatti come un’amara conferma di quanto la cerimonia dell’Academy abbia mutato drasticamente il suo
comportamento nel corso degli anni, seguendo il più delle volte l’occasionale scia politica e votando il film più significativo e di maggiore impatto sociale. Insomma, il premio come miglior film sembra essersi trasformato sempre di più in un “premio alla miglior tematica”: Moonlight sicuramente risponde in pieno a questi requisiti, ed è un prodotto pregevole che tratta temi attualissimi con delicatezza e con un’introspezione rara, con interpretazioni magistrali e una storia ben costruita. Quello che non possiamo fare a meno di far notare, tuttavia, è come il premio al miglior film sia prima di tutto un “premio alla produzione”, se così possiamo chiamarlo: La La Land, in questo, è una pellicola che a nostro giudizio non aveva rivali, innovativa e maestosa, un progetto in cantiere dal 2010 che attualizzava un genere dimenticato modernizzandolo e snellendolo, ma omaggiando allo stesso tempo i capolavori del musical della storia del cinema. Non sappiamo dirvi se la scelta dell’Academy sia giusta oppure no: a farlo dovrà essere il vostro singolo giudizio o il vostro gusto personale. Quello che però crediamo è che, se Moonlight probabilmente sarà una pellicola destinata ad avere ben poca rilevanza negli anni a venire, di La La Land se ne parlerà per parecchio tempo. E speriamo che non sia solo per un vergognoso scambio di buste.
MOVIE
ATTORI DA OSCAR
Ecco chi sono i vincitori del 2017 di Gianluca De Angelis
Emma Stone
Viola Davis
Miglior attrice protagonista LA LA LAND
Miglior attrice non-protagonista BARRIERE
Emma nasce in Arizona, nel 1988: fin da piccola rimane affascinata dal mondo del teatro, ricoprendo numerosi ruoli negli spettacoli della sua scuola. Il vero punto di svolta avviene a 15 anni quando, convinta di voler tentare una carriera nella recitazione, realizza una presentazione in PowerPoint per convincere i genitori a supportarla: con la madre decide infine di trasferirsi a Los Angeles. Lì, nel 2004 comincia la sua carriera televisiva apparendo in numerose serie televisive: il suo film d’esordio è la commedia Suxbad dove recita con l’amico Jonah Hill, ma la notorietà vera e propria arriva nel 2010, con la sua prima parte da protagonista nella commedia Easy Girl, e poi nel 2011 come protagonista nella pellicola The Help, per cui riceve grandi elogi da parte della critica e del pubblico. Nel 2012 veste i panni di Gwen Stacy in The Amazing Spider-Man e poi anche nel sequel, film che la fanno definitivamente divenire nota al grande pubblico. Il 2014 è un anno importante: oltre ad esordire a Broadway nel musical Cabaret, ricopre importanti ruoli sia nel pluripremiato Birdman (con la conseguente prima nomination) che in Magic in the Moonlight di Woody Allen. Nel 2016 recita per la terza volta al fianco di Ryan Gosling (dopo Crazy, Stupid, Love e Gangster Squad), nel film musical La La Land, per il quale vince infatti una valanga di premi: la Coppa Volpi a Venezia, il Golden Globe come migliore attrice, lo Screen Actors Guild Award, il BAFTA, ed infine il premio Oscar alla miglior attrice protagonista. Dopo aver lasciato le sue impronte davanti al Dolby Theatre di Los Angeles, noi non vediamo l’ora di scoprire quali saranno i suoi prossimi progetti.
Viola Davis nasce nella Carolina del Sud, l’11 agosto 1965. E’ la penultima di sei figli e cresce in condizioni di estrema povertà a Rhode Island, dove lei e la sua famiglia si trasferiscono subito dopo la sua nascita. Comincia ad appassionarsi alle materie artistiche solo al liceo, laureandosi poi nel 1988 con una specializzazione in teatro. Il suo primo ruolo sullo schermo è nel 1996 nel film Il colore del fuoco, e molti sono le interpretazioni per le quali è conosciuta come guest star: da Law & Order, CSI e anche nei film Syriana, World Trade Center e Disturbia; fino al 2008, l’anno della sua prima nomination all’Oscar per il ruolo della Sig.ra Muller ne Il dubbio. Attrice anche teatrale, nel 2011 è nel cast di The Help insieme ad Emma Stone, film per il quale vince due Screen Actors Guild Award: lì interpreta Aibileen Clark, domestica che trova il coraggio di sfidare le convenzioni razziste dei primi anni ‘60. A partire dal 2014, Shonda Rhimes la sceglie come protagonista del thriller Le regole del delitto perfetto, una serie che conquista il pubblico e grazie al quale riceve il suo terzo Screen Actors Guild Award. Nel 2016, oltre ad essere il volto di Amanda Waller in Suicide Squad, la Davis vince finalmente il suo primo Oscar per il film diretto ed interpretato dall’amico Denzel Washington, Barriere. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’opera teatrale del 1983 Fences, di August Wilson, ed è la struggente storia della vita di un’ex promessa del baseball che lavora come netturbino a Pittsburgh, tra la sua relazione complicata con la moglie ed il figlio. L’interpretazione di Viola Davis, dovuta probabilmente al fatto che la storia era particolarmente cara all’attrice, è incredibilmente potente e straziante.
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Casey Affleck
Mahershala Ali
Miglior attore protagonista MANCHESTER BY THE SEA
Miglior attore non-protagonista MOONLIGHT
Caleb Casey Affleck nasce il 12 agosto del 1975 a Falmouth, e nonostante sia stato conosciuto per parecchio tempo soprattutto per essere il fratello minore del famoso attore e regista Ben, fa presto a scrollarsi di dosso questo peso: dopo il debutto al cinema nel 1995 nel film di Gus Van Sant Da morire, nel 2000 recita in Lui, lei e gli altri, ed insieme all’amico Matt Damon è protagonista della pièce teatrale This is Our Youth. Nel 2001 è nel cast di Ocean’s Eleven di Steven Soderbergh, e nel 2002 scrive insieme a Matt Damon la sceneggiatura del film Gerry, diretto da Gus Van Sant, di cui è protagonista. Il film, nonostante venga criticato aspramente da numerosi festival indipendenti, gli conferisce una grande notorietà. Nei primi anni 2000 torna infatti ad interpretare Virgil Malloy in Ocean’s Twelve, poi Steve Buscemi lo dirige in Lonesome Jim, film indipendente. Nel 2006 è nel cast di The Last Kiss, remake del più noto film italiano di Gabriele Muccino, e l’anno successivo gira Ocean’s Thirteen. Sempre nel 2007 viene diretto in Gone Baby Gone dal fratello, per la prima volta in veste di regista, mentre l’anno dopo il film L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford gli vale una nomination all’Oscar 2008 e al Golden Globe. Nel 2016 la definitiva consacrazione: la sua delicata ed emozionante interpretazione di un uomo distrutto costretto a tornare nel suo paese natale, nel film drammatico Manchester by the Sea (diretto da Kenneth Lonergan e prodotto dagli Amazon Studios), gli vale il Golden Globe nella sezione miglior attore in un film drammatico, il BAFTA al miglior attore protagonista e il Premio Oscar al miglior attore protagonista.
Nato con il nome di Mahershalalhashbaz Gilmore e cresciuto in California in una cittadina vicino San Francisco, Ali da giovane è una promessa del basket, che gli vale infatti anche una borsa di studio per il Saint Mary’s College. A volte, però, il talento non basta: il mondo sportivo non lo attrae particolarmente e decide infatti di dedicarsi alla recitazione insieme agli studi. Diplomatosi in comunicazione nel 1996, si iscrive poi a un corso di teatro al California Shakespeare Theater, per poi fare le valigie e dirigersi verso la New York University dove frequenterà il programma d’arte drammatica e si laureerà nel 2000. La sua carriera inizialmente è concentrata solo sul teatro, ma dopo una serie di spettacoli riesce finalmente a farsi notare e viene coinvolto successivamente in diversi ruoli televisivi come Crossing Jordan, CSI, 4400, Law & Order e Lie to Me. Dopo un ruolo marginale ne Il curioso caso di Benjamin Button e in Predators di Nimród Antal comincia la vera ascesa, quando viene ingaggiato per il ruolo di Remy Danton nella serie ormai di culto House of Cards. Il 2016 è il suo anno: dopo aver ricoperto magistralmente il ruolo di Cornell “Cottonmouth” Stokes nella serie Marvel Luke Cage, Mahershala Ali è tra i protagonisti di Moonlight, film vincitore di tre premi Oscar. Oltre a miglior sceneggiatura non originale e miglior film, il terzo premio spetta a lui: la statuetta per la Migliore interpretazione di un attore non protagonista arriva a Mahershala 4 giorni dopo la nascita di sua figlia. Tra i suoi progetti futuri più interessanti c’è anche l’atteso Alita: Battle Angel di Robert Rodriguez, film tratto dalla serie manga di Yukito Kishiro. MZK News
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MOVIE
MOONLIGHT al microscopio
È un film diviso in tre episodi, ambientato a Miami e con protagonista un bambino (poi ragazzo e poi uomo) nero: Jenkins, il regista aveva fatto un solo film, prima di Andrea Paone
M
oonlight è il film che – a sorpresa – ha vinto l’Oscar per il Miglior film. A sorpresa perché non era considerato favorito (la SNAI, per esempio, dava la vittoria 1:6) e, soprattutto, perché ha vinto dopo che – per via di un guaio – quel premio era stato consegnato a La La Land. Moonlight era candidato in otto categorie (film, regia, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, colonna sonora) e ha vinto in tre: oltre a Miglior film anche Miglior attore non protagonista (Mahershala Ali) e Miglior sceneggiatura non originale (a Barry Jenkins, che è anche il regista, e a Tarell Alvin McCraney, autore del testo teatrale da cui Moonlight è tratto). Moonlight è nei cinema italiani da metà febbraio e dopo questa vittoria aumenteranno sicuramente le sale in cui verrà programmato: è un film drammatico diviso in tre episodi che raccontano tre momenti nella vita di Chiron, un bambino nero (poi adolescente e uomo) cresciuto a Liberty City, un quartiere di Miami. I primi due episodi sono molto simili a quelli di In Moonlight Black Boys Look Blue (il testo teatrale da cui è tratto il film), il terzo è stato pensato apposta per il film. È il motivo per cui in alcuni dei premi che precedono gli Oscar
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Moonlight era stato candidato tra i film con una sceneggiatura originale, vista la grande differenza dal testo a cui si ispira. Sia Jenkins che McCraney sono neri e sono cresciuti a Liberty City. Gli attori più noti di Moonlight sono Mahershala Ali – che interpreta uno spacciatore che incontra il protagonista quando è ancora piccolo, e cerca di aiutarlo – e Naomi Harris, che interpreta la madre del protagonista. Ali – che ha parlato di questo personaggio come di quello che più gli manca tra tutti quelli che ha interpretato – è famoso soprattutto perché interpreta Remy Danton in House of Cards e per ruoli quasi mai da protagonista. Harris – che ha dovuto girare tutte le sue scene in tre giorni, perché è britannica e le sarebbe scaduto il visto – ha recitato in Spectre, Southpaw e Collateral Beauty. Jenkins ha 37 anni e prima di fare Moonlight aveva diretto solo cortometraggi e un film poco noto: Medicine for Melancholy, romantico e drammatico, girato nel 2008 con un budget di circa 15mila euro. Moonlight è costato di più, ma comunque pochissimo per un film da Oscar: si parla di circa un milione e mezzo di euro. Che tipo di film è Moonlight Nei primi minuti del primo episodio – il cui titolo è “Little” – Chiron (il protagoni-
sta) è un ragazzino esile e piuttosto timido che incontra Juan (il personaggio interpretato da Ali). All’inizio Chiron non gli rivolge la parola, ma col tempo inizia a fidarsi di lui. Si scopre poi che Chiron ha una vita piuttosto complicata e che tra le cause c’è la madre tossicodipendente. Le uniche persone con cui Chiron va d’accordo sono Juan, Teresa (la fidanzata di Juan) e Kevin, un ragazzino della sua età. Negli episodi successivi – intitolati “Chiron” e “Black” – ritornano molti dei personaggi che si vedono in “Little”: la madre di Chiron è sempre interpretata da Harris; Chiron e Kevin sono invece interpretati da tre attori diversi. Quelli che interpretano Chiron sono, nell’ordine: Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes. Moonlight è un film piuttosto lento, con poche parole; ma non è uno di quei film in cui non succede niente. C’è una trama, succedono cose. Dirne di più potrebbe però rovinare parte del piacere della visione. Tra chi ha scelto di parlarne svelandone il meno possibile c’è IMDb, che l’ha descritto come «una storia senza tempo di scoperta di se stessi e legame con gli altri» e un film che «racconta la storia di un ragazzo nero che lotta per trovare il suo posto nel mondo crescendo nella difficile periferia di Miami».
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MOVIE
LA CRISI DEL CINEMA
ESISTE?
Di Gianluca De Angelis
IL MUTAMENTO DELLA SETTIMA ARTE, tra commercializazzione e metodi di fruizione alternativi
S
i è tanto sentito parlare un questi ultimi tempi di una rumoreggiata crisi che sta colpendo il mercato del cinema: ma questa esiste davvero? E se sì, in cosa consiste esattamente? Bisogna sottolineare come la Settima Arte stia cambiando profondamente, sia nella sua struttura fisica che in quella che il pubblico percepisce: come i grandi multisala gestiti da colossi imprenditoriali stranieri stanno lentamente fagocitando le piccole sale indipendenti, che riescono a ritrovare una loro realtà solo in ristrette proiezioni d’essai, così anche le grandi produzioni, a ritmo di se-
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quel-prequel-remake-multiversi stanno prendendo il predominio sulle uscite annuali rispetto ai film indipendenti o anche solo autoconclusivi. È evidente però come, nel grande mondo del cinema e nell’amato-odiato sistema accentratore di Hollywood, anche la grande produzione sembri essere giunta al suo punto di saturazione, troppo privata di storie originali e costretta quindi ad attingere continuamente da idee provenienti dal vecchio panorama cinematografico. Ancora, il cinema nel senso più stretto del termine oggi è cambiato profondamente, non venendo più nemmeno considerato
come un luogo sociale dove riunirsi con gli altri, quanto più come un “concetto astratto”: non si sente più il bisogno di sedersi su una poltrona nel buio di una sala, ed al suono dei biglietti strappati e all’odore dei popcorn (tutte cose che non invogliano lo spettatore medio anche a causa del costo sempre più elevato), si vanno a sostituire sempre più metodi di fruizione alternativi che consentono di “possedere” il film a casa propria, a partire dal computer e dai suoi servizi di streaming come Netflix, fino alle smart-tv e anche ai metodi illegali come la pirateria. C’è inoltre chi la colpa la attribuisce al
MOVIE crescente dilagare di numerosissime serie tv che qualitativamente hanno raggiunto (se non, in alcuni casi, superato) molte produzioni dirette al grande schermo: fino a poco tempo fa mettere sullo stesso piano cinema e serie televisive sembrava impensabile ma oggi non è più così, e lo dimostrano infatti i volti degli attori che ci hanno ormai abituati a passare da un tipo di prodotto a un altro, si veda ad esempio l’Anthony Hopkins magistrale che quest’anno abbiamo trovato in Westworld, o al contrario lo Sherlock televisivo Benedict Cumberbatch che ha fatto quest’anno il suo debutto nel Marvel Cinematic Universe con le vesti dello stregone Doctor Strange. Diciamo che, se da una parte questo atto d’accusa alla televisione è di-
scutibile, dall’altra è insindacabile quanto le serie tv abbiano fatto divenire lo spettatore più pigro ma anche più esigente. Se però, giustamente, oggi hanno tutti accesso al cinema (in un modo o nell’altro), meno giustamente tutti si arrogano automaticamente questo diritto di poterlo giudicare come improvvisati critici: quello che manca infatti è quel generale livello culturale di base e quella anche solo minima predisposizione all’approfondimento e alla discussione che fa percepire il cinema per la sua vera natura, ovvero non come un prodotto di fruizione occasionale come può essere una rivista letta in metropolitana, ma come importante motore sociale e intellettuale. Si fa sempre più impellente il bisogno di riportare il cinema alla sua funzione
iniziale di luogo di scambio e dibattito, ma soprattutto ad un posto dove crescere e imparare qualcosa; il concetto di cinema, specialmente nelle nuove generazioni, varia dal completamente assente al male interpretato: si deve quindi tornare a proporre e a distribuire dignitosamente sempre più contenuti atti a stimolare un pensiero e una conversazione. La crisi del cinema di cui tanto si parla, in conclusione, non risiede tanto nella sua sostanza quanto nella sua ricezione e nella sua distribuzione; il problema è che questo è un sistema di cui pochi si accorgono e nessuno si lamenta: la vera crisi è quella che sta proprio nello spettatore medio odierno, divoratore di spazzatura, troppo occupato a vedere il decimo remake di Ghostbusters o di Ben-Hur.
l
n realtà nel 2016 l’affluenza nelle sale in Italia è aumentata, contando 105.385.195 biglietti venduti, con un incremento del 6,06% rispetto al 2015
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MOVIE
I CONSIGLIATISSIMI Qui proveremo a consigliare i 5 film che usciranno nel mese di Marzo, quelli che non si posso perdere o quelli che potrebbero incuriosire il grande pubblico, tra sequel, remake e nuove produzioni. di Francesco Nuccitelli
I
niziamo subito con l’ultimo e attesissimo capitolo della saga del mutante più amato, “Logan” è il nuovo film su Wolverine, sarà interpretato per l’ultima volta dal bravissimo Hugh Jackman, dopo diciassette anni dal primo film degli “X-Man”. Con lui Patrick Stewart nei panni del professor X e Dafne Keen come X-23. In Italia il film è già uscito il 3 Marzo. Come seconda scelta optiamo per un rebot, del maestoso King Kong, “Kong, Skull Island”. La storia vedrà il ritorno del re delle scimmie e un nuovo protagonista come Tom Hiddleston. Il film fa parte dell’universo di Godzilla, quindi aspettiamoci un crossover in futuro tra i due mostri. Nelle sale cinematografiche sarà in proiezione dal 9 marzo. La nostra terza scelta è su uno dei grandi classici Disney, “La Bella e la Bestia”. La storia d’amore tra Bella (Interpretata da Emma Watson) e la Bestia (Dan Stevens), nell’ennesima interpretazione della storia, tra film d’animazione e
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film Live Action. La pellicola verrà distribuita il 16 marzo in Italia. Quarta scelta tutta italiana con “Pino Daniele – Il tempo resterà” il docu-film che racconta la vita artistica del celebre cantante napoletano scomparso due anni fa. La pellicola diretta da Giorgio Verdelli è un evento cinematografico offerto ai fan di Pino Daniele, il percorso dagli anni ‘70 agli ultimi concerti. Sarà al cinema solo il 20, 21 e 22 marzo. Concludiamo con la nostra quinta scelta, “John Wick- Chapter 2”. Il ritorno di Keanu Reeves nei panni del leggendario sicario. In questa avventura John Wick dovrà affrontare alcuni dei più terribili killer del mondo, per colpa di un patto di sangue, nel meraviglioso paesaggio di Roma. Nel cast del film troviamo anche i nostrani Riccardo Scamarcio, Franco Nero e Claudia Gerini. Dal 23 marzo in tutte le sale italiane.
MOVIE
Quattordici anni senza
U
ALBERTONE
n mito per i romani, una leggenda per il cinema ecco chi era Alberto Sordi. Sono passati quattordici anni dalla morte di Alberto Sordi, uno degli artisti più amati del panorama cinematografico italiano e non solo. “Albertone” è stato un attore, regista e doppiatore unico nel suo genere, capace di esportare e celebrare la vera romanità in tutto il mondo grazie alle numerose pellicole. Un legame speciale e indissolubile quello con la capitale, culminato con la nomina a sindaco per un giorno in occasione del suo ottantesimo compleanno. Interprete della “Commedia all’italiana” insieme a Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi, Alberto Sordi ha saputo raccontare la storia del nostro paese con grande maestria e meticolosità, ponendo l’accento su vizi e virtù del sistema Italia, dal dopoguerra fino al boom. Durante la sua carriera, in cui ha recitato in 152 film tra cinema e tv, ha interpretato tanti ruoli, alcuni ancora tremendamente attuali: il soldato in trincea, l’italiano medio del miracolo economico, fino al volto da belva
di Andrea Celesti
umana. I suoi personaggi sono entrati nella memoria collettiva di tutti noi, insieme alle celebri battute e alla gestualità. Tra i suoi film più importanti ricordiamo “Un americano a Roma” (1954), “Il vigile” (1960), “Polvere di stelle” (1973), “Nuovi mostri” (1977) e “Il Marchese del Grillo” (1981). Un’artista che ha fatto ridere e ha fatto piangere, capace di unire l’uomo e l’attore con grandissima semplicità, qualità sempre più rara nel cinema di oggi. Una carriera lunga quella di Alberto Sordi, culminata con la consegna del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1995, senza dimenticare le tre nomination in occasione dei Golden Globe nel 1963, 1964 e 1966. Sicuramente pochi premi in confronto alle sue straordinarie doti, ma “Albertone“ era cosi, gli bastava essere un italiano come tanti, uno del popolo vicino alla gente. Per questo, nonostante sia passato tanto tempo dalla morte, il suo ricordo è ancora vivo nel cuore di tutti gli italiani, che non lo hanno dimenticato e mai lo faranno.
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MOVIE
THE GR
EAT WA
LL
E`il primo fi lm cinese Zhang in lingua inglese diretto dal visionario Yimou (cono regista sciuto in occ Hero e La Fo idente sopra resta dei Pug ttutto per na il film più co stoso mai pro li Volanti). In aggiunta, è anche dotto girato interamente in Cina. Sarà con tutta probabilità l’ultima volta in cui Hugh Jackman interpreterà il tanto amato artigliato canadese. Nel frattempo, sono già partite sul web le speculazioni su chi interpreterà il personaggio nei prossimi film della saga: a gran voce viene richiesto Tom Hardy. Snikt!
LOGAN
L U E L
Dal mond
JOHN WICK Capitolo 2
stata altisconta dei morti era la K IC W N H JO m di el non è da meno: qu se il , o) Se già per il primo fil ri ca si le bi rio cise dall’infalli ttime del sanguina vi le sima (77 persone uc 8 12 n be o er 80.1%. oli, sarebb una precisione dell’ secondo alcuni calc e i at ar sp i lp co 2 ntro 30 ? secondo capitolo, co etico terzo capitolo ot ip un in e nt iu gg e ra Quali saranno le cifr
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MOVIE
LAND S I L rSKUL delle inca : a n G u è N D KO L ISLAN sullo
GHOST IN THE SHELL E` l’adattame nto
to da Masam hollywoodiano del m u a l’anime direttne Shirow (conosciuto songa disegnate UL is K v :S i G a prattutto per o N d m a O i Mamoru Osh la protagonis tti visto in K più grand fa g ii e n d in n o a io e K to ta a g m è r Il Kin che inizialme Scarlett Johansson, msso tratto): ha dichia tesco scim ts n i r a r e t ig b e g o n l m te R e 0 per ricoprire era stata prevista Marga sapevate nazioni d dan Vogt- ondantemente i 3 r o J a t is in g il re ha poi rinunil ruolo della protagonistaot Robbie rano abb ssimo 15 e a p m u schermo: l s a i n a c ? L’attrice v dimensio riprese di Suiciato alla parte per partecip odzilla aggiunge r G e il n e n e o s R che le sue Jack tra il conica Harle ide Squad, dove è diventaare alle el film di vs. Kong lo scontro la e y il h z c d o (quello d io r G del film): se a Quinn (forse l’unica cosata un’irop ola p ic ll a r e i. b p a a m m ll e isto ne ale che piedi). S telo voi... bbia fatto bene o male, giubuona ards, prev amente più coloss w d dicaE h t e di Gar , sarà ver ) 0 2 0 2 l e n (in uscita
E M I T L
do del cinema
lis di Gia nlu ca De An ge
S STAR WAR Gli ultimi Jedi
ttavo capitolo In attesa dell’oST AR WARS, della saga di ULTIMI JEDI, chiamato GLI tempo rivelato è stato nel fratro “canon” Star o dell’intera dal nuovo lib ath: Empire’s gio meno amatve ag n so er p il ndetta dei te m en er a abilm i ne L ob st vi pr Wars Aft è ti e en ch im lo n el ve utante di qu gli av considerato unesai End il destino in tti che, dopo gg a, fa m in e oo ar ab P endoN . a ib ks ì saga: Jar Jar Bn più odiato della galassia fu e costretto a vivere per strada, Sith, il Gunga nne trattato come un reietto vate un po’ di dispiacere? dell’Impero, ve per i bambini del posto. Pro si come clown MZK News
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MOVIE
YOUTUBE DREAMERS
Scopriamo i meccanismi del famoso sistema video-sharing e di chi lo ha trasformato in mestiere.
U
di Luca Vincenzo Fortunato
n miliardo nel mondo, 27 milioni in Italia. Questi sono i numeri, immensi e rivoluzionari, che registra Youtube, la piattaforma video più importante della Terra, composta da views e non solo.
CONTENT CURATOR: NIENTE E’ COME SEMBRA In questo universo ci sono parecchi utenti iscritti, ma solo alcuni hanno saputo tracciare, insieme ad un ausilio, le rivoluzioni sociali di cui siamo testimoni quotidianamente. Si chiamano Youtuber e stanno sbarcando il lunario a suon di video. Un ‘self made’ (finalmente) all’italiana - secondo solo agli Stati Uniti -, favorito da aziende, come la Show Reel, che scoprono talenti e costruiscono con loro un panorama spettacolare. Non è dunque un semplice video postato su un social media, è un lavoro ‘nascosto’ con vista sul pubblico. «La community è la cabina di comando», ci ha spiegato Luciano Massa, co-founder di questa factory, dedita alla gestione del progetto creativo. Dapprima infatti l’azienda studia le comunità, cercando di scorgere coloro che hanno la «capacità di codificare le esigenze latenti del gruppo». Affronta dunque una ricerca oggettiva su persone fisiche, relegando i ‘numeri’ alla mera dimensione confermativa. Ma perché definirli ‘portavoci di un valore condiviso’? Perché sono in grado di capire le richieste delle community, sapendo che «il digitale è (diventata) un’estensione fisica».
primaria, grazie all’assenza di target preconfezionati. Si vive così una “convivenza forzata”, con potenziali trattative: è il caso della ‘migrazione’, diavolo e acquasanta se non assecondato dalla duttilità degli old e new media. Ne sono testimonianza alcune trasposizioni, tra fallimenti (‘Game Therapy’) e successi (‘Baciato dal sole’). Ma questo rapporto è davvero fondamentale per gli Youtuber? «Per i ‘millennians’, c’è una forte infuenza, mentre per la Generazione Z è quasi nullo ed è legato semplicemente all’evento». In pratica un legame apparentemente crossmediale che si sta svalutando nel tempo.
YOUTUBER & OLD MEDIA: CHE RAPPORTO? Stessa culla, strade diverse. Così appaiono questi mondi e ce lo dimostra Massa con un aneddoto che collega la novità del video-sharing alle radio libere degli anni ’80, sotto il principio della creatività. Stanno però nelle modalità e negli obiettivi le differenze cruciali: «volevamo costruire video con maggiore qualità», ha ammesso il co-founder, in riferimento alle basi di partenza della sua factory, lanciando l’avvisaglia al mondo cinematografico. Un tentativo di superamento del vecchio sistema, diverso dalla liberalizzazione richiesta dalle radio. E la missione è riuscita: Youtube ha superato il mainstream tradizionale e ha creato una ‘società virtuale’. Verrà inferto il colpo mortale? Impossibile, vista l’appurata «convergenza dei mezzi», ma la sua forza rimarrà
GUADAGNO FACILE? SFATIAMO QUESTO MITO… Se si chiedesse agli italiani un’opinione su queste figure, esse verrebbero giudicate ‘scansafatiche arricchite’. Ma sono davvero così? «E’ una credenza tipicamente italiana», ha ammonito Massa, che ha sottolineato il lavoro minuzioso che devono svolgere, affinché diventino icone. In una società di media company, è più che legittimo insomma dare una retribuzione reale a queste web star, traini di vari pensieri sociali in piena autonomia. Inoltre, avendo stipulato da soli un contratto simbolico con il pubblico, essi «stanno dimostrando la meritocrazia, un elemento che fino a 15 anni fa non era possibile vedere». Effettivamente queste persone hanno scardinato i muri di una società ‘chiusa’ e devono decodificarla ogni giorno: è lecito denigrarli così? Forse è meglio rifletterci un attimo prima di rispondere.
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MOVIE
Film
E M O C E C S A N UN
IL SOGGETTO di Edoardo Montanari
D
iamo per scontato di avere un’idea per un film che, come abbiamo visto in precedenza, potrebbe non essere immediatamente capita da un produttore o, semplicemente, sottovalutata per mancanza di dettagli. Cosa fare è presto detto: dobbiamo decidere tre punti fondamentali: l’inizio, il punto di svolta e la chiusura. Ed occorre essere coscienti che, tutti e tre saranno importantissimi al fine della riuscita di una buona storia, almeno dal punto di vista della sceneggiatura all’americana. Se siete interessati allo schema americano di scrittura di un film, quello che va per la maggiore ed il più adatto al genere comico e brillante, oltre che ai film d’azione, vi consiglio di approfondire la lettura del manuale di Syd Field e la sua struttura in tre atti. Ma torniamo a noi, l’inizio è, potremmo dire, lo status quo della narrazione. Servirà a coinvolgere lo spettatore nell’immediato ed ha la funzione di tracciare il contesto, il personaggio principale e l’eventuale antagonista che, sia ben chiaro, potrebbe anche non essere un personaggio in carne ed ossa ma anche un problema da risolvere o
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un evento naturale. Nel caso di un film come Titanic, ad esempio, l’antagonista è l’iceberg e, in minor misura il personaggio di Billy Zane, ma anche il contesto sociale nel quale Leonardo di Caprio deve muoversi per fare breccia nel cuore di Kate Winslet. Un film che inizia con un prete che ruba il portafogli e picchia un mimo (penso a El Dia de la Bestia, Alex de la Iglesia, 1995) essendo la prima immagine che vediamo, diventa plausibile e dovrebbe essere accettata a prescindere. Altra cosa sarebbe se, la stessa scena, la vedessimo a metà di un film sul Papa. Delle prime inquadrature, quindi, l’intento dello sceneggiatore è quello di attirare l’attenzione ed incuriosire, stupire, coinvolgere lo spettatore nella propria storia. Ma quante volte vi è capitato di vedere un film che sembra promettere una storia avvincente ed appassionante e, proprio dopo queste prime scene, incredibilmente, la storia muore? O non inizia mai? Vi invito a guardare Jupiter - il destino dell’universo, 2015 per averne un esempio lampante. Film con questo difetto di storia si sono moltiplicati negli anni ‘90, quando internet
non era ancora mainstream e le tv satellitari impazzavano alla ricerca di un modo per guadagnare, oltre all’abbonamento fisso mensile, un biglietto per una visione di un film a pagamento. In quegli anni, il primo colpo di scena che, solitamente, avveniva entro il quindicesimo minuto, venne spostato sempre prima fino ad essere presente nella prima o nella seconda scena. Perché? Perché i canali cominciarono a trasmettere gratuitamente i primi minuti chiedendo poi allo spettatore di acquistare il film integrale. Erano altri tempi, ma le dinamiche commericali sono rimaste simili. Basti pensare ai titoli civetta dei post di Facebook che, oggi, si basano sullo stesso principio. Ma torniamo a noi. L’inizio, quindi, è una parte imprescindibile, ed è bene tenere a mente, quando lo si scrive, tutto l’arco narrativo del film per sospende quell’incredulità che, benché patto tacito tra spettatore e sceneggiatore, viene accettata tout court anche se, in casi estremi, si rischia di ottenere l’effetto opposto, cioé la disaffezione alla storia. Iniziamo? Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana. No. Già scritto. Già visto. Già...
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La vera storia di
SCREAM
di Andrea Paone
Daniel Rolling: Infanzia e adolescenza
I
Nome Completo: Daniel Harold Rolling genitori di Daniel Rolling si sposano nel 1953, Soprannome: The Gainesville Ripper (lo Squartatore di Gainesville) in Georgia. La madre, Claudia, una ragazNato il: 26 maggio 1954 za poco più che diciottenne, rimane subito incinta. Il padre, James, è un agente di poMorto il: ( giustiziato) il 25 ottobre 2006 nel carcere di Starke lizia violento e autoritario: non vuole diventare (Florida) padre e picchia più volte la moglie, rischiando Vittime Accertate: 8 (5 studenti universitari e una famiglia di 3 di farla abortire e spingendola a tornare dai suoi. È solo la prima delle tante fughe della donna, che persone) si concluderanno sempre con la riconciliazioModus Operandi/Caratteristiche: Sulle vittime si è riscontrato ne con il marito, al quale non saprà mai opporsi, violenza sessuale, tortura, smembramento e messa in scena del cadanemmeno quando la sua brutalità si abbatterà sui figli. Il primogenito Daniel non le perdonerà mai vere in modo da suscitare orrore negli scopritori. di non averlo protetto da lui, finendo con l’odiarla. Daniel nasce il 26 maggio del 1954 a Sherevesport, Lousiana. plesso di inferiorità ed è incapace di controllare la sua aggressività”, che Fin da subito il padre dimostra di non sopportare di sentirlo piangere, sfoga sugli animali: una volta tortura un gatto fino a vederlo morire. né di averlo intorno. Lo prende a calci e si diverte a farlo rotolare per Il consiglio, purtroppo, non viene ascoltato. tutta la stanza. Se Daniel Rolling da quel momento fosse stato seguito da uno psichiaIl 15 agosto del 1955 Claudia partorisce il secondo figlio, Kevin, evento tra, sarebbe diventato lo stesso un serial killer? Non lo sapremo mai. che rende il marito ancora più brutale. Sappiamo solo che non riceve nessun aiuto e che inizia precocemente Una sera, discutendo con la moglie sul canale da vedere, James le a spiare le donne dalle finestre dei loro appartamenti, abbandonandorompe il labbro con un pugno. La donna lo lascia e si trasferisce a Co- si a fantasie sessuali sempre più violente. lumbus, dove sei mesi dopo il marito la raggiunge e le promette che è Nel settembre del 1966 James Rolling tenta di uccidere la moglie: necambiato e che non alzerà più le mani su di lei e i bambini. anche questo convince la donna a lasciarlo definitivamente, nonostanClaudia, purtroppo, gli crede. te i figli la implorino di farlo, non sopportando più di essere sviliti, picPoco dopo le violenze riprendono e si fanno più frequenti e brutali. chiati e, perfino, ammanettati al termosifone perché troppo turbolenti. Nel dicembre del 1959 James tortura e uccide il cagnolino che aveva Durante l’adolescenza Daniel comincia a opporsi al padre. Una affidato alle cure del figlio maggiore. Il cucciolo muore tra le braccia volta, evitando un suo pugno, lo vede perdere l’equilibrio e fidell’inorridito Danny. nire contro una finestra, ferendosi gravemente. Mentre James Durante le Feste di Natale del 1963, quando ha solo nove anni, il padre è in ospedale, Daniel, sconvolto, si taglia i polsi con un rasoio. si accanisce a tal punto sul primogenito che la moglie prende i figli – IltentativodisuicidiononriesceepocodopoilsignorRollingtornaacasa, insieme all’albero già decorato! – e lo lascia. Per Claudia e i bambini come se nulla fosse, almeno finché riesce a rinchiuderlo in riformatorio. potrebbe essere la possibilità di cambiare vita, ma la donna si fa con- A soli diciassette anni Daniel si arruola nell’aviazione, da cui viene previncere di nuovo a tornare dal marito. sto cacciato per abuso di droghe e alcool. Poco dopo viene ricoverata in ospedale per esaurimento nervoso. Gli vengono diagnosticate turbe psicologiche di natura sessuale e un Nello stesso periodo il piccolo Danny – studente nella media al quale probabile disturbo della personalità, ma anche in questo caso si sottosi riconosce uno spiccato talento artistico – è costretto a perdere l’anno valuta il problema.Tornato a casa, rimedia solo lavori saltuari e si avscolastico per le troppe assenze per malattia, apparentemente una sem- vicina alla Chiesa Pentecostale. Si fa battezzare e partecipa con fervore plice influenza che si protrae nel tempo. Il padre non se ne preoccupa e alle attività parrocchiali, durante le quali conosce Omatha Ann Halko, accusa il figlio di fingere per nascondere di essere un fallito, un buono a che sposa nel 1974. nulla. Danny reagisce rifugiandosi sempre più spesso in un mondo im- I due hanno una bambina, ma il matrimonio dura solo tre anni maginario, che si riempie poco a poco di fantasie di violenza e di morte. perché per Danny è impossibile condurre una vita sessuale e proNel 1964 un insegnante si accorge dei problemi psicologici del ragazzo fessionale normale per via della droga e dell’alcool. Abbandona e consiglia di farlo vedere da uno specialista. la Chiesa e diventa ogni giorno più violento, tanto che aggredisce In particolare – sottolinea – Danny manifesta “un forte com- l’ex fidanzato della moglie, credendo che i due si siano riavvicinati.
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LIFE
A TU PER TU
con lo street artist
MAURO PALLOTTA aka “Dalla tela al muro, le cose non cambiano. Basta seguire le proprie passioni!”
V
MAUPAL
i presento Mauro Pallotta, in arte MauPal, famosissimo il suo “Super Pope”, ma anche “L’occhio di Pasolini” al Pigneto. Oggi è un grandissimo street artist, ma è nato come pittore. Volevo partire proprio da questo: come sei passato da artist a street artist? È stato un processo naturale, nel senso che a causa della crisi economica scoppiata nel 2008 e che progressivamente è peggiorata negli anni, io nel 2014, come gran parte degli artisti internazionali, ho sentito forte il peso di questa crisi, ma avevo sempre dentro un grande fuoco che mi spingeva ad esprimermi. Con l’avvento di Papa Francesco, poi, ho visto un po’ la luce – ride ndr -, un uomo di potere che sembra “illuminato”, che fa quello che dice e dice quello che fa. Quindi, molto impulsivamente, decisi di dipingerlo su carta ed attaccarlo su un muro vicino alle entrate del Vaticano. Quella è stata la mia prima opera di street art e devo ammettere che da quel momento è cambiata la mia forma di ricerca; non più ricerca pittorica da Accademia, ma attenzione all’attualità socio-politica. -La tua arte riprende la vena satirica e dissacrante dei lavori
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di Alessio Boccali
di Banksy, forse lo street artist più famoso al mondo; penso infatti al tuo Babbo Natale in mimetica… Sì, è proprio l’attenzione all’attualità di cui parlavamo prima, che porta a questo. Banksy si è fatto testimone delle difficoltà socio-economiche che la società occidentale vive e anch’io cerco di fare questo. -Le tue opere superano i confini italiani, fisicamente e nelle tematiche affrontate… Sì guarda, è inevitabile. Nel momento in cui parli di problemi sociali ti accorgi che sono comuni un po’ a tutti, poi magari noi italiani la prendiamo in una maniera molto più pesante, però tutto sommato abbiamo gli stessi problemi che hanno i tedeschi, i francesi o gli americani. -Ora una domanda un po’ provocatoria: abbiamo subito negli ultimi anni questo grande proliferare di talent show. Ci sono talent sulla musica, sulla cucina… Se nascesse un talent show sulla street art te la sentiresti di farne parte? Magari come professore, insegnando quelle tecniche che tu hai appreso in Acca-
LIFE demia e poi trasportato sulla strada. Allora, se riuscissi a percepire all’interno del talent un’atmosfera costruttiva ben volentieri, ma se dovesse essere un qualcosa di mero spettacolo, intrattenimento… allora no perché io reputo la street art un qualcosa di serio. Poi, insomma, addirittura professore mi sembra esagerato, però potrei aiutare i ragazzi neofiti ad indirizzarsi verso la ricerca della loro vena satirica, questo sì. Basterebbe seguire fortemente l’attualità, appassionarsi. Dalla tela al muro, le cose non cambiano. Basta seguire le proprie passioni! -La nostra rivista si occupa di musica, life e cinema: tu hai raffigurato in una delle tue opere il grande Alberto Sordi, un grande simbolo della romanità. Anche tu sei romano DOC, cerchi anche tu quindi di trasmettere la tua romanità, il tuo modo di essere quando dipingi? Certo, anche perché se non esprimessi la mia romanità, mi snaturerei. Il paragone con Alberto Sordi è certamente esagerato, magari riuscissi a rappresentare la romanità
e l’italianità nella street art come e quanto Albertone ha fatto nel cinema. Diciamo che è uno dei miei sogni nel cassetto. -Arrivati quasi alla fine di questa chiacchierata non si può non parlare dei tuoi progetti futuri… Sì, considera che i miei progetti futuri cambiano in continuazione anche in base ai fatti di attualità. Di sicuro andrò a Londra per la “ARTROOMS 2017”, esporrò quindi le mie opere lì in Inghilterra. Invece, per quanto riguarda la strada spero di lavorare al più presto per Roma o per l’Italia in generale. Anzi, a dire il vero, ora che ci penso, mi è stata da poco assegnata la prima opera sul “Muro delle bambole” di Roma; inaugurerò questo muro, già eretto a Milano contro la violenza sulle donne e quindi molto probabilmente sarà proprio questa la mia prossima opera. -Purtroppo siamo arrivati al termine di quest’intervista, ti ringrazio ancora per questa bella chiacchierata, ci incontreremo sicuramente per strada davanti alla tua prossima opera. Grazie a voi e un saluto agli amici di MZK News, non vedo l’ora di farvi vedere qualcosa di nuovo.
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STREET ART!
di Alessio Boccali
Apriamo la bellezza è
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a sempre l’uomo sente forte il bisogno di lasciare il segno del suo passaggio, di gridare forte al mondo “Ehi, io esisto!”; Ancor di più sente la necessità di comunicare, spesso anche senza parlare. Nasce da questo la Street Art che trova la sua espressione massima sulle pareti e sui muri cittadini, forse perché, come scrisse il semiologo Barthes, “Il muro, si sa, attira la scrittura”. Sia ben chiaro, e qui dobbiamo fare un grosso distinguo, non stiamo parlando di graffitismo, o meglio della “moda” di imbrattare i muri con scritte e tag spesso senza senso, la Street Art murale è una vera e propria forma di decorazione urbana, di abbellimento del grigiore cittadino.
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Ora, per non togliere nulla al writing sopracitato, possiamo dire che la Street Art trova origine proprio in quell’insieme di segni carichi di energia trasgressiva che popolano i muri delle città americane fin dagli anni Settanta, ne eredita la carica contestatrice, ma la trasporta in una dimensione visuale molto più forte. Proprio per questa sua nascita nell’illegalità, la Street Art viene spesso osteggiata e non riconosciuta come una vera e propria forma d’arte; il dato rilevante però, è che da circa una decina di anni le città europee si stanno popolando di murales fino a diventare sempre di più dei musei a cielo aperto. Un fatto evidente ed impor-
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gli occhi: intorno a noi… tante che sta sopperendo alla mancanza di colore dovuto alle colate di cemento riversate nelle nostre città. Tuttavia, la Street Art non ha soltanto una vocazione decorativa, anzi. Questa arte porta con sé una grande carica satirica. Dalla figura quasi mitologica dell’artista inglese Banksy al nostro più “terreno” MauPal, tanto per fare due esempi noti ai più, la Street Art si esprime in maniera critica ed ironica sull’attualità e sulle debolezze della società moderna e lo fa senza peli sulla lingua, caricando le opere di un forte orgoglio anticonformista; a questo proposito si parla infatti di una “guerrilla art”. La dimensione pubblica del terreno urbano diven-
“Atmosfere colorate nella Capitale”
ta luogo di dibattito su importanti tematiche quali le assurdità della società occidentale, la manipolazione dei media, l’omologazione, le atrocità della guerra e delle armi, l’inquinamento, lo sfruttamento minorile… Insomma, le più grandi brutalità del genere umano. Si anelano però anche delle soluzioni; vengono dipinte atmosfere colorate utopiche ed idilliache con l’intenzione di suggerire l’impellente bisogno di investire di amore universale tutto ciò che ci circonda, proiettandoci in questo modo fuori dal caos cittadino. Il “trucco” che permette a queste opere di arrivare al pubblico è racchiuso in un solo sostantivo: la bellezza. Tutti i
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frutti della Street Art sono belli, piacevoli, brillanti ed attirano lo sguardo del cittadino, anche di quello non abituato a contemplare opere d’arte. Ecco, questo tipo di arte è molto democratica, mira a sensibilizzare e ad essere compresa da tutti quanti perché tutti noi siamo sensibili alla bellezza. La Street Art, come ogni forma d’arte che si rispetti, rivendica poi la sua più grande ricchezza: la libertà. L’artista di fronte a quei muri si esprime, senza filtri né censure, comunicando col suo estro. Le opere che ne vengono fuori sono frutto della creatività e della fantasia e in quanto tali vivono prima di tutto nell’hic et nunc e poi, se non vengono cancellate a causa di quell’ostracismo di cui parlava-
mo prima, continuano a trasmettere emozioni nel tempo. Importante è l’esempio del caso Big City Life Project, un progetto artistico ideato da 999 Contemporary e sostenuto economicamente da Fondazione Roma-Arte-Musei, dall’Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione artistica e Turismo di Roma Capitale e dall’azienda territoriale per l’edilizia residenziale di Roma (ATER), che ha dato la possibilità a più di 20 artisti, provenienti dalle più disparate parti del mondo, di decorare le case popolari del Lotto I di Via di Tor Marancia, 63 esprimendo il proprio estro artistico in totale libertà. Questa grande voglia di bellezza un giorno ci salverà, ne sono sicuro…
“BIG CITY LIFE PROJECT”
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I LOCALI CHE VI CONSIGLIAMO
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UN MISCUGLIO DI SUONI nel cuore di SAN LORENZO di Luca Vincenzo Fortunato
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opo la novità di Montesacro, ci sentiamo in dovere di fare tappa nella parte storica di San Lorenzo per continuare il nostro percorso dei locali che vi consigliamo. Precisamente a Via degli Ausoni 84, dove si trova il famoso Felt Music Club che raduna moltissime persone all’insegna del jazz e non solo. Fondato nel 2002 come sala biliardo dal sig. Arjan Zeqja, il Felt è diventato la ‘dimora del jazz’ dal 2004, grazie alla passione del proprietario che è un abile trombettista. Un genere valorizzato dalla presenza di grandi interpreti nazionali ed internazionali come Barry Harris, che ad esempio offre un workshop di una settimana ogni anno per il suo pubblico. Ma, come
accennato prima, l’immensa struttura di circa 300 mq ha preferito aprirsi dal 2008 ad altri generi, dalla salsa, al rock, senza dimenticare l’elettronica e il folk. Attraverso live, presentazioni ed un insegnamento scolastico, il Felt è diventato un punto di riferimento per i frequentatori di San Lorenzo che trovano in essa un luogo di svago e di aggregazione musicale. Infatti la presenza di moltissimi artisti, da emergenti ad affermati, è il valore aggiunto di questo staff, abile a capire qualsiasi esigenza. Dall’offerta di un vasto service (luci, mixer, impianti audio e video, microfoni) sino al semplice affitto della sala: il locale è un mosaico che mette in comunicazione gli artisti con il pubblico, cercando di colmare i
propri bisogni, sia di natura tecnica, sia di natura promozionale. Tramite un attento ufficio stampa, si prova a ricalcare fortemente l’approccio multiculturale che differenzia il Felt dai soliti locali monotematici. Qui infatti si può passare da una serata dedicata alla danza ad un’altra rivolta alla musica: il sound è l’unico collante. Aperto tutti i giorni con orari variegati in base alle attività (per esempio dal martedì al giovedì si parte dalla mattina, verso le 11, sino a tarda sera), questo spazio regala tante emozioni per tutti gli amanti della musica. Quindi, cultori della danza e dell’ascolto originale, fate un salto al Felt Club se non ci siete ancora stati. Sarete sicuramente ‘catturati’ dall’atmosfera di festa! MZK News
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Francesco De Carlo T
al servizio della Regina
ante strade iniziate ma solo una percorsa: stiamo parlando di Francesco De Carlo, comico romano che a breve porterà la verve italiana oltremanica, precisamente sulla BBC. Abbiamo avuto l’onore di intervistarlo prima della sua nuova avventura british.
di Andrea Paone
nella cinematografia. Oggi invece far ridere è difficile, visto che la televisione standardizza la comicità, relegando il tutto ad una serie di battute in pochi istanti perché piace alla gente”.
L’età poi è importante anche per la comicità… “Certamente, un comico di vent’anni non può fare battute sul matrimonio, anche se ho visto diversi comici giovani con un carisma e una presenza scenica fuori dalla norma”.
Il primo Live è la cosa che mette più ansia in assoluto? “Io ricordo che andò benissimo, perché la prima volta sul palco va sempre bene. Tu non hai niente da perdere e quando ridono tutti puoi pensare, ‘cavolo ce l’ho fatta!’ Poi andando avanti ho cambiato il modo di vivere lo spettacolo, perché è difficile andare dove non ti conosce nessuno, oppure in posti dove il comico non è previsto e bisogna attirare l’attenzione con un tipo di comicità diversa che non è solo improvvisazione. Io per esempio trovo difficoltà a fare questi tipi di spettacolo. Ad esempio perché parlare male delle suocere se io ne ho avute fantastiche? Invece quando fai uno spettacolo tutto tuo, sai che il pubblico viene per te e, anche se è più selettivo, è più liberatorio per la mia comicità”.
Ci dicevi che quindi si nasce e si diventa comici, ma una fonte d’ispirazione l’avrai avuta? “Guarda, ti sorprenderò: quando ero bambino impazzivo per Lino Banfi perché è una forza comica. Poi certo sono cresciuto e ho iniziato ad apprezzare anche altri comici, come quelli di Mai dire goal, Aldo Giovanni e Giacomo, Quelli della Notte, i Guzzanti e tanti altri”.
Fai spettacoli sia in Italia che in Gran Bretagna: c’è tanta differenza ? “Come contenuti sono molto simili. All’inizio non avevo un inglese fluente, quindi facevo battute molto semplici. Ora invece riesco a fare spettacoli più complessi. Inoltre ho ricevuto buoni feedback dal mio primo Fringe Festival di Edimburgo, dove ritornerò ad agosto, portando lo stesso spettacolo italiano”.
Però non hai citato i grandi maestri romani… “Beh certo, ad esempio Gigi Proietti. Chi è di Roma non può non amarlo, è uno dei grandissimi! Il suo ‘A me gli occhi please’ è un capolavoro. Poi per non parlare di Fabrizi, Sordi e Verdone, che hanno portato una grande cultura comica anche
Per finire, quali sono i tuoi progetti futuri? “Sicuramente voglio proseguire questa piccola carriera internazionale perché, essendo uno dei primi a fare questa cosa, ogni giorno è una sorpresa. Adesso sto facendo tante serate in Inghilterra e inizierò diversi progetti televisivi con la BBC”.
Ciao Francesco, senti un po’: comici si nasce o si diventa? “Sicuramente c’è una propensione sin dai tempi della scuola. Io ricordo che facevo gli scherzi in classe, poi questo è un mestiere che si evolve gradualmente nel tempo. Pensa che i più grandi comici, come Louis C.K. hanno impiegato anni e anni prima di arrivare al successo mondiale”.
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“Se lo sapesse la mia prof d’inglese…”
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LIFE
LA GRANDE ONDA VIAGGIO IN GIAPPONE dal 1/4 al 24/9/2017
Chiostro Del Bramante Un viaggio al di là del tempo e della geografia per assaporare a pieno la magia del paese del Sol Levante attraverso le opere dei più grandi artisti giapponesi, come Hokusai, Utamaro o Kunisada. Il tutto partendo da “La Grande Onda”, il simbolo per eccellenza di un’arte che affonda le sue radici in una storia millenaria.
The Art Of
dal 9/12/2016 al
26/3/2017 – Au
The Brick
ditorium Parco
Della Musica
Dopo l’enorme successo della sc orsa edizione, Ta le oltre 70 scultu nte re LEGO, opere de d’arte create con più di un milion le novità tra ll’artista statunite e di mattoncini nse che espone al pu bblico opere mag Nathan Sawaya. Una mostra nifiche, produzione delle “notti stellate” di come ad esempio la ripinte da Van Gog h.
LIFE IN M I Looney Tu
di Pepemaniak:
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da Miami a Rom
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dal 27/1 al 30/4 Analemma Gall2017 ery A 20 dal capolavoro cin bambini con le opere ematografico “Space Jam” torniamo tutti quanti su tela di Federico Ma L’artista guarda alla so ria Ceruso aka Pepema cietà odierna criticando niak. la attraverso gli occhi sonaggi animati: una dei permostra irriverente che smaschera tutti le contr addizioni della società degli hashtag.
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PLEASE COME BACK
Il mondo come prigione? dal 9/2 al 21/5 2017 – MAXXI
è un bene continuaNella società dei social la privacy ola prigione assupar la , mente in pericolo. Oggi, quindi ed in questa mostra, a me significati decisamente nuovi elli, 26 artisti mettono cura di Hou Hanru e Luigia Lonard problematiche relative in luce, attraverso 50 opere, le contemporanea. ietà alla sicurezza in rete nella soc
D Il grande li bro della v NA ita da Men del alla ge nomica dal 10/2 a l 18/6/20 17 elle espo sizioni
Palazzo d
Il mondo d e del suo “p lla genetica visto dag apà” Mend li occhi el Reperti orig inali, testim e dei suoi eredi. costruzioni onianze vid sp e mente arric ettacolari vengono o e riulteriorchiti da un ’esperie tiva interatt iva ed imm nza esposiersiva.
MOSTRA!
Alessio Boccali
VIVIAN MAIER
UNA FOTOGRAFA RITROVATA
dal 1/4 al 24/9/2017
Chiostro Del Bramante mo Secolo in street photographer del Ventesi La vita di una delle più grandi ana catturati tidi quo co e nero. Ritratti di vita mostra attraverso 120 scatti in bian morte. Fosua alla fino sta nte custoditi dall’arti mistero. tra gli anni ’50 e i ’60 gelosame di velo un di ola and ond la realtà circ tografie inedite che immortalano
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Sofia, la Bulgaria da scoprire di Andrea Paone e Carlo Ferraioli
Parte “Europe Calling”, e parte bene: alla scoperta della 3ª città più antica del continente. Viaggiare, scoprire, sentirsi liberi. E spendere poco.
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ndata la prima, ma che fatica. Fra neve, alfabeti indecifrabili e luoghi d’interesse, Europe Calling ha spiccato il volo, come i due aerei che, in meno di 24 ore, hanno portato me e il mio collega frontman, Andrea Paone (per la popolazione bulgara uno showman italiano di successo, con produzioni televisive) a Sofia, partendo dal più familiare aeroporto di Ciampino, che si sarà molto incuriosito nel vederci entrare e uscire a distanza di poche ore. Ma che c’importa. La voglia di realizzare un progetto da molto in cantiere ha prevalso, al punto da non farci intimorire di fronte ai -11 °C, né alla notte in bianco, e tanto meno al dover interpretare strani simboli o, poco meglio, abbozzare uno stralcio di traduzione “inglese parlato in Bulgaria -> italiano”. Bando alle ciance, speriamo sia la prima di una lunga serie di esperienze che ci accompagneranno e vi accompagneranno alla scoperta di un’Europa veste economy. Già, perché il tutto è venuto a costare poco
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più di 50 euro, e non stiamo esagerando: niente scherzi. Oculatezza nel prenotare i voli, i giorni e gli orari giusti, curiosità nello spulciare vari ostelli e alberghi in zona (tra l’altro il nostro era anche figo): accompagnati da amicizie strette con tassisti, tutti amanti del territorio nostrano, ristoratori e proprietari di club e locali: il gioco è fatto! Di giorno, oltre che a dire a tutte le donne che erano spiccicate uguali a Nina Dobrev (attrice molto bella, cercatela su Wikipedia), abbiamo fermato i più svariati passanti, creando piccole ma simpatiche gag. Non solo, abbiamo percorso le strade principali, affossando nella neve, che non ci ha dato per nulla tregua: Vitosha Boulevard su tutte, ma anche Makedonia Boulevard e il meraviglioso Parco della Cultura, fra monumenti (il loro milite ignoto, ad esempio, e la Chiesa di Santa Sofia), stranezze, del tipo che non c’erano cani, e proprietari di club poco raccomandabili. Ma molto poco. Sì, perché nel mirino nostro e della rivista c’era anche la Sofia da bere, quella notturna:
così siamo stati alla Studentski grad, luogo di ritrovo per studenti e giovani. Una Las Vegas in miniatura, per capirci. Bene, lì siamo riusciti ad entrare in almeno tre grossi club con eletronic dance music, ad ottenere interviste coi capi e a lasciare anche il primo numero della nostra rivista. Cocktail, musica, night ed io a non congelarmi più le mani, finalmente. Non vi diciamo nient’altro, solo che siamo ritornati sani e salvi in Italia.
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Nikola Tesla
Il motore a corrente alternata
di Andrea Celesti
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ivoluzionario, geniale, ci sono tanti aggettivi per descrivere Nikola Tesla, anche se forse nessuno di questi riesce a dare un’idea della storia professionale di questo grande personaggio. Un uomo che è riuscito a cambiare la storia dell’umanità grazie alle sue invenzioni, che ancora oggi condizionano la nostra vita quotidiana. Forse proprio per questo Tesla è stato spesso ostacolato dai grandi gruppi di potere, che volevano impedire la realizzazione di molte sue opere. Tutte le sue invenzioni si basavano sul concetto di energia libera per tutti, probabilmente la causa principale dell’emarginazione che Tesla ha dovuto subire nel corso degli anni. Tra le sue scoperte più importanti ricordiamo la tecnologia a raggi x, la radio (pare che Tesla avesse depositato molti anni prima di Marconi un brevetto sul funzionamento dell’apparecchio), il controllo remoto, il laser, il wireless, la robotica... Non meno importante fu la scoperta della corrente alternata, alla base della rivoluzione industriale. Dopo una lunga battaglia contro la corrente continua di Thomas Edison, la corrente alternata entrò in breve tempo in tutte le attvità umane, modificando il corso della storia. La guerra per l’elettrificazione del mondo la corrente alternata. Per molti americani, Tesla era un uomo le cui idee erano grandi, ma del tutto inutili. Al contrario del suo rivale Edison, non guardava solo al denaro e pensava che le sue
invenzioni dovevano sfruttare le forze naturali per le necessità umane. Nella sua epoca, tutti gli apparecchi erano alimentati in corrente continua, che veniva prodotta grazie ad un magnete e ad una bobina che ruotava all’interno dell’apparecchiatura. L’obiettivo di tesla era padroneggiare le leggi della corrente e ben presto capì che il futuro apparteneva al sistema della corrente alternata: una sera del 1882, durante una passeggiata, Tesla pensò ad un motore rivoluzionario, nel quale le bobine esterne, grazie al flusso di corrente alternata che le attraversava, generavano un campo magnetico rotante. Le forze che si formavano mettevano poi in moto il rotore interno. Tra i tanti vantaggi della corrente alternata c’era il fatto che, al contrario di quella continua, poteva essere trasportata via cavo per molti chilometri con perdite quasi nulle. Dopo un periodo di lavoro alla Edison Electric Light Company, dove ebbe un diverbio con lo stesso Edison per un mancato pagamento, Tesla fondò l’azienda Tesla Electric Light and Manufacturing Company, dove si ritrovò a costruire illuminazioni per strade e fabbriche. Dopo un periodo travagliato, dove lavorò alla costruzione di strade, tornò finalmente alla corrente alternata: nel 1887 conobbe Alfred K. Brown, il direttore della Western Union Telegraph Company, che si dimostrò subito interessato al suo progetto. Il successo per Tesla non tardò ad arrivare e presto attirò l’attenzione dell’industriale George Westinghouse, che acquistò i brevetti di Tesla. Grazie ai notevoli vantaggi
avuti dalla corrente alternata, Westinghouse riuscì a vendere la sua elettricità a prezzi migliori rispetto ad Edison, che intanto passava al contrattacco facendo pressione sui politici. Quest’ultimo cominciò una serrata campagna mediatica, che però non raggiunse i risultati sperati: dal 1896 tutte le città del mondo istallarono centrali a corrente alternata. Senza rispettare il contratto di licenza, Tesla barattò con Westinghouse la sua percentuale per i brevetti con un importo di 216 mila dollari, rinunciando agli oneri futuri. Perchè tutto questo? Per Tesla non era importante tanto il denaro, ma la diffusione della sua tecnica per un mondo migliore. Forse anche per questo, nonostante i numerosi brevetti, Edison non ebbe mai il successo economico sperato. “Se privassimo il mondo industriale di tutto ciò che è nato dal lavoro di Tesla, le nostre ruote smetterebbero di girare, le vetture elettriche e i treni si fermerebbero, le città sarebbero buie e le fabbriche morte e inutili. Il suo lavoro ha una tale portata da essere diventato il fondamento stesso della nostra industria” , disse Arthur Behrend, nel tentativo di persuadere lo scienziato serbo ad accettare la medaglia Edison nel 1917. Nikola Tesla morì nel 1943 povero, abbandonato dal mondo, privato dei suoi guadagni, sottovaluto e poco considerato dagli uomini del suo tempo. Oggi, grazie a siti web, libri, Youtube la sua figura è tornata ad avere la giusta considerazione da parte delle persone, d’altronde se esistono cellulari, radio, satellitari, il merito è anche di Nikola Tesla... MZK News
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VAN GOGH The Experience di Alessio Boccali
Immergersi completamente nell’arte la Prodotta da: Grande Exhibitions e Ninetynine Data delle opere esposte: Dal 1880 al 1890 Ubicazione: Dal 25 ottobre 2016 al 26 marzo 2017 al Palazzo degli Esami di Roma 80 | #musicazerokm | MZK News
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sciandosi andare alla guida dei sensi.
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an Gogh Alive – The Experience non è soltanto una mostra, bensì, come dice il nome stesso, è un’esperienza nel mondo dell’arte. L’allestimento è piuttosto semplice: la prima sala è arredata da poster riguardanti le opere e la vita del pittore olandese e all’interno di essa possiamo trovare la riproduzione a grandezza naturale di quella che fu la camera di Van Gogh ad Arles. Nella seconda sala inizia il tour sensoriale all’interno della vita e della carriera del pittore. Grazie alla tecnologia SENSORY4™, un siste-
ma unico che incorpora oltre 50 proiettori ad alta definizione, una grafica multi canale e un suono surround in grado di creare uno dei più coinvolgenti ambienti multi-screen al mondo, il visitatore ha la possibilità di esplorare il mondo emozionale di Van Gogh tra le strade di Parigi, Arles, Saint-Rémy e Auvers-sur-Oise, le suggestioni giapponesi, il periodo della malattia… e i suoi pensieri citati sui grandi schermi accanto alle opere. Stesso discorso riguarda la terza sala, solo che stavolta le immagini sono posizionate più in alto cosicché il visitatore possa vivere le
emozioni delle notti stellate che tanto hanno ispirato il pittore olandese. Le musiche, tratte da arie meravigliose come quelle di Vivaldi, Schubert, Bach, Satie, Godard e di tanti altri maestri, che accompagnano questo magnifico tour sensoriale sono state pensate appositamente per l’occasione, in modo da creare un forte filo emozionale con le esperienze pittoriche e di vita del genio olandese. Un’operazione riuscitissima che riesce a far apprezzare appieno il mondo più intimo di uno dei più grandi artisti della seconda metà dell’Ottocento.
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Armonia e disarmonia, qual è il SUONO PERFETTO? di Carlo Ferraioli
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e frequenze, tecnicamente “fenomeni che si ripetono identici o quasi nel tempo”, sono alla base dell’universo. A dirlo è la scienza, ma non solo. La musica, da sempre catalizzatrice di emozioni, sensazioni ed apprezzata di recente per l’intrinseca funzione terapeutica, con l’universo e le frequenze che ruotano attorno a noi e alla natura, modificandone l’essenza, ha molto a che fare. Un ponte, da percorrere nel modo giusto per comprendere di ciò che è in noi, e di quello che ne è al di fuori. Allora attraversiamolo, scoprendone ogni punto.
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La scienza è vista spesso come una guastafeste, che rovina l’arte, declinata nelle varie declinazioni a noi note, quali la scrittura, la pittura, la scultura e, non ultima, la musica. In realtà essa non fa altro che aiutarci a comprendere il come ed il perché certe cose accadono, dando risposte a dubbi epocali. E’ stampella, non gamba; arricchisce l’anima, donandole libertà: non la limita. Orbene, è proprio lei, la scienza, a dirci che nell’universo tutto è energia in vibrazione. Ma proprio tutto. Il ritmo vibratorio di un oggetto, compreso quindi il corpo umano, si chiama “risonanza”, e un suono non è altro che la vibrazione di un corpo elastico. E quindi? Vi chiederete. Un attimo, abbiate pazienza. Andiamo per gradi. L’unità di misura delle frequenze, internazionalmente riconosciuta, è l’hertz (Hz). Una delle più importanti caratteristiche del suono è l’essere intonato: ciò è fondamentale per la musica, che
si basa sulla differenza tra un suono e un suono di riferimento, per l’appunto. Avete capito bene, stiamo parlando di come accordare uno strumento, momento indispensabile nella creazione di un contenuto acustico. Questo processo potrà sembrarvi anche banale, ma, a seconda di com’è espletato, può generare conseguenze diametralmente opposte. Oggigiorno, nel sistema musicale standard ed universalmente riconosciuto, la nota “La” in ottava centrale, in pratica la nota presa come riferimento per l’accordo, corrisponde a 440Hz, come stabilito in seguito agli accordi di Londra del 1953, ed ancora a quelli di Parigi del 1971. In soldoni, tutta la musica che ascoltiamo oggi, salvo rarissime eccezioni sperimentali, si basa su questa intonazione. Non tutti si son però trovati d’accordo. Era solo il 1884 quando Giuseppe Verdi, in una lettera indirizzata alla commissione musicale del governo italiano, chiedeva che fosse applicata una riduzione da 435Hz a 432, rigettando completamente la misura dei 450Hz, vista come repellente di emozioni, positività e serenità in luogo di aggressività, negatività, antisocialità e polemicità (leggere, a tal proposito, Maria Renold, 1917 – 2003, “Intervals, Scales, Tones and the Concert pich
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“440Hz o 432 Hz?” C 128Hz”). A sorpresa, il sempreverde maestro emiliano ebbe un discreto successo, ed anzi fu considerato ancor più autorevole quando aggiunse, alla sua richiesta, che egli la inoltrava “per esigenze matematiche“. Cosa accadde dopo? Purtroppo in Europa la cosa non prese molto piede: nel 1938, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, la Germania, nella figura del Ministro per la Propaganda Nazista, Joseph Paul Goebbels, ottenne che l’intonazione rimanesse a 440Hz. Nel 1971, come dicevamo, questa misura divenne standard praticamente ovunque, nonostante le innumerevoli proteste dei musicisti, riunitesi in un referendum. Il motivo era semplice, e Verdi lo aveva intuito: l’accordatura a 432Hz aveva
qualcosa di diverso. La scienza, infatti, non sprecò molto tempo a stabilire che le frequenze sonore fossero incredibilmente incidenti sulla nostra persona, a livello sia fisico che psicologico, e potessero avere effetti benefici o negativi: rilassamento, armonia, cura per la depressione e il malumore, oltre che per il mal di denti, ad esempio, e addirittura per malattie più gravi. E che altre frequenze, invece, causassero effetti anche molto negativi. L’accordatura a 432Hz è detta, infatti, accordatura aurea, proprio perché si rifà alla proporzione aurea, una scala numerica che si trova alla base dell’intera natura. Le armoniche, inoltre, esistono anche nei loro multipli e sottomultipli, e 432 è un multiplo di 8. Le frequenze di 8Hz sono
presenti in natura in moltissimi contesti, tra cui nella replicazione del DNA. Curioso, e terribilmente affascinante allo stesso tempo. Goebbels l’aveva capito. Verdi anche, e con lui molti altri studiosi e artisti passati e recenti. Alcuni propensi al benessere e alla felicità collettiva, altri allo schiavismo e alla repressione: ognuno ha cercato di utilizzare questo fantastico e “pericoloso” strumento a proprio vantaggio. Ad oggi, nonostante quanto si sa, sono i secondi ad averla vinta. Per tacita accettazione di noi tutti. La Love frequency, che fa parte di ciò che si trova alla base della natura, dell’universo e della filosofia (portata avanti anche da Platone), e collegata al chakra del cuore, resta per ora solo ferma su carta. Ahinoi.
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La valigia Football del Presidente
Pochi lo sanno ma è l’arma più potente di sempre di Andrea Paone
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l 20 gennaio 2017 Donald Trump ha giurato ed è diventato il 45° Presidente degli Stati Uniti quindi ha ricevuto i codici nucleari. Il presidente americano è infatti il commander-in-chief, cioè capo supremo dell’esercito e dispone di tutto l’arsenale nucleare e conosce i piani relativi a un’eventuale guerra atomica. Il Presidente è infatti l’unico in grado di autorizzare l’impiego delle testate nucleari: il consenso viene fornito attraverso l’attivazione di speciali codici in suo possesso e secondo le regole di ingaggio conservate in una valigetta chiamata Football. Si tratta della famosa valigetta in pelle nera che lo segue in ogni suo spostamento e che è custodita da team di cinque incaricati militari provenienti dalle diverse armi. La valigetta pesa 20 kg (ha un anima in alluminio) ed è trasportata da militari che hanno un apposito addestramento per aiutare il Presidente a dare l’ordine di lancio. Contiene anche un telefono
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che viene usato qualora il Presidente si trovi in viaggio: serve a mettersi in contatto attraverso una linea sicura e via satellite con il National Military Command Center (NMCC), il centro di comando militare statunitense che gestisce tutti i lanci di ordigni nucleari.
Dal punto di vista pratico i “codici di attacco” sono invece riportati su un documento che il Presidente deve portare su di sé chiamato Biscuit, biscotto. Si tratta di una specie di car-
ta di credito nel quale sono riportati dei codici che servono al Presidente degli Stati Uniti per autenticarsi e dare uno specifico ordine di attacco atomico secondo uno dei protocolli contenuti nella valigetta. Il biscotto è davvero molto simile alle carte con i codici operativi per autenticarsi e fare operazioni sui siti delle banche online che molti di noi usano tutti i giorni. Ma come si avvia la procedura? l Presidente chiama il National Military Command Center (NMCC), si identifica attraverso uno dei codici contenuti nel Biscuit e ordina un attacco specifico tra quelli presenti nei documenti contenuti nella valigetta. Il Presidente è l’unico a poter impartire l’ordine di attacco nucleare. Il comando deve essere confermato dal Segretario alla Difesa che non ha però alcun potere di veto: di fatto si limita a confermare che il presidente ha veramente impartito quell’ordine.
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LIFE
ROMA:
come si può migliorare la città eterna? di Andrea Celesti
R
oma Caput Mundi... non c’è frase più giusta per descrivere la città eterna, luogo in cui arte e bellezza si uniscono dando vita ad un connubio che attira ogni anno milioni di visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Roma, come ogni città che si rispetti, ha i suoi pregi ma anche i suoi difetti, che fanno storcere il naso a tante persone. Chiudiamo gli occhi per un attimo e pensiamo a come sarebbe la città eterna se non considerassimo i suoi lati negativi. Probabilmente assomiglierebbe ad un paradiso, dove ogni abitante del nostro pianeta vorrebbe abitare... Ma, entrando nel dettaglio, quali sono le cose che si potrebbero migliorare a Roma, per far si che diventi una città efficiente? Partiamo col dire che la capitale è una città dove chi commette un abuso difficilmente viene punito: parcheggi scorretti, biglietti atac non pagati, cartacce buttate in ogni angolo, venditori abusivi, sono solo alcuni dei mali che affliggono il territorio romano. Sarebbe importante
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per questo ripristinare la legalità, aumentando la presenza nelle strade dei vigili urbani, sempre più spesso rinchiusi nei loro uffici. Controlli più approfonditi infatti porterebbero multe salate ai diversi furbetti della strada, quindi maggiori entrate nelle casse comunali. Come non parlare della mobilità, una questione fondamentale fin dall’epoca degli antichi romani. Fa male ammetterlo, ma il trasporto pubblico non è ancora una valida alternativa al mezzo privato: pensiamo ai continui scioperi, ai guasti della linea metro e soprattutto agli autobus, che avrebbero bisogno di una vera e propria rete di corsie preferenziali(le poche esistenti sono occupate da mezzi privati non autorizzati) e di un potenziamento, magari aumentando la frequenza delle corse. Importante sarebbe cercare di costruire anche qualche pista ciclabile in più per incentivare l’uso della bicicletta e ridurre quindi l’inquinamento che negli ultimi tempi è arrivato a livelli record. Meno traffico e mezzi pubblici più veloci: questi dovrebbero essere gli obiettivi di una
città che si rispetti. Ultima questione, ma non meno importante delle altre, è quella riguardante i rifiuti. Purtroppo Roma è una delle città più sporche d’Europa, dove non è raro vedere cassonetti sempre stracolmi, maleodoranti, spesso rovesciati. In questa situazione difficilmente un cittadino è spronato a fare la raccolta differenziata, che si sta avviando in molti quartieri ma funziona ancora troppo poco. Bisognerebbe aumentare i secchioni per la differenziata che sono sempre pieni, al contrario di quelli per l’indifferenziata. Senza contare il fatto che non c’è un’adeguata informazione al cittadino, che in molti casi non sa bene come comportarsi. Rifiuti, legalità, mobilità, sono tante le questioni da risolvere, anche se forse non è stata detta ancora la cosa più importante. Non bisogna mai dimenticare infatti che il rinnovamento dovrebbe partire in primis dalle persone: se ognuno facesse il proprio dovere nel suo piccolo, molte cose cambierebbero e forse si vivrebbe in una città migliore. Provare per credere!
LIFE
Si
SELFIE
chi può!
Ritrarsi a colpi di click: la patologia del terzo millennio fra ricerche, after sex e psicologia di Carlo Ferraioli
F
amose “n serfi”, direbbero a Roma. Già, divertente no? Che c’è di male? E’ ciò che, indistintamente da età, sesso, razza e religione (sembra quasi un articolo della Costituzione, lo sappiamo) viene pronunciato su e giù, in lungo e largo, nel mondo. O, quanto meno, della personalissima idea che si ha del mondo per chi vive in fortuna, in ricchezza: dove non bisogna camminare venti chilometri per bere, per esempio. Esatto, praticamente ovunque insomma, o quasi. Ritrarsi è da sempre stata una forma d’arte più che raffinata, molto, se non del tutto, legata all’io ed alla propria personalità: inutile citare illustrissimi che più volte hanno messo in mostra qualità eccelse nel dipingersi, scolpirsi, disegnarsi, dando voce ad un peculiarissimo aspetto della mente. Se una volta, però, ciò scaturiva in opere d’arte dal sublime sapore, oggi le variabili hanno reso cause ed effetti di questo atteggiamento, un comportamento oggetto di studio, con soggetti resi veri e propri oggetti di indagine. La società ha subite profonde modifiche, individualizzando non poco i propri attori. Diamo una sbirciata ai laboratori della scienza, dunque: l’associazione psichiatrica americana ha di fatto riconosciuto la dipendenza da autofotoritratto, definendola “Selfie Syndrome”. Oddio, sindrome. Tranquilli, non siete malati (forse): tre sono stati i livelli di disturbo identificati. Saltuario, acuto e cronico, a seconda che ci si fotografi dalle tre alle… Ehm, innumerevoli volte al giorno. Fa ridere, ma è una vera e propria patologia, aggravata se, oltre che a ritrarsi, ci si vuole anche far vedere: condivisione. Quindi a manetta sui social, fra like e cuori. Anche da Milano gli scienziati suonano la stessa canzone, già da un paio d’anni. Era il 2014, infatti, quando uno studio della Cattolica mise in luce le motivazioni psicologiche del selfie, discutendole in occasione del convegno dall’emblematico titolo: Mente e social media: come cambia l’individuo? Azzarderemmo a dire male, ma non troppo. Narcisismo sia, quindi? Chi lo sa, ma una cosa è certa: per favore, risparmiatevi gli after sex, o come amate chiamarli. “Fino a ‘na certa”, come direbbero a Roma. MZK News
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LIFE
CE LO SPIEGA
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O M E F I POL
llora... dove eravamo rimasti... mmm...si, la Matriciana!!! O la Amatriciana? Che faccio, chiudo la Rubrica qui con questa manciatella di battute e vi lascio a soffriggere come Guancialetti croccanti, o vi dò subito la soluzione? Iniziamo, altrimenti poi dite che siccome sono Romano: “a me me piace de magna’ e beve e nun me piace de lavora’.” Amatrice, Amatriciana quindi, con tanto di disciplinare adamantino e guai a fare lo spiritoso, manco fossi Cracco guarda... ma se sali un po’ e vieni a sederti alla tavola di qualsiasi Romano o Romana, è la Matriciana che divorerai avidamente e senza ritegno pure se hai studiato a Oxford! Aspettate... una piccola postilla al fatto di toccare o meno i disciplinari però la devo, a Cracco per primo, perché odioso o meno possa sembrare, è un grandissimo Chef senza se e senza ma. Un Cuoco, per natura, per fortuna anzi, è tenuto ad uscire dagli schemi... thinking out of the Box... come mi ricorda a volte il mio amico Stefano de Costanzo (ricordatevi questo nome date retta a me) che Chef turbo Power a livello mondiale lo sta diventando... e sperimentare, disegnare la cucina, quindi, non starnazzate a vanvera di violenze culinarie, ma lo sapete voi quanti miliardi di agli e nelle sue forme e momenti della crescita più svariate, ci sono in giro? Ma davvero uno Chef, non può immaginare un profumo o susci-
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di Davide Berlenghini
tare un ricordo gustativo magari lontano in una “Ricetta”, perché se no tocca i Sacri Disciplinari?! Uno Chef, deve... mannaggia la miseriaccia... deve farlo, con sapienza e stile e tatto, ma deve, o la cucina non sarebbe più Arte, Immagine, Fantasia, ma mera e sterile e infeconda, preparazione, cottura, mettiti a sedere zitto e magna. Ecco, precisazione fatta Detto questo... il primo che mi parla della cipolla, lo caccio, chiaro?! La amatriciana, è come le altre tre grandi paste con cui abbiamo iniziato a conoscerci sul primo numero, una ricetta nata nella società Agro Pastorale Laziale, semplice, contadina. Un pastore nella sua bisaccia, non porterebbe mai una cipolla, impuzzolirebbe tutto il resto, un pastore, porta con sé il frutto primario del suo lavoro, il pecorino... porta con sé del vino, della pasta secca fatta i casa, quasi sempre lunga, un “guanciale “ di maiale che poi era tenuta legata con lo spago alla cintura dei pantaloni o alla tracolla per non ungere e comunque stare all’aria, poi, è qui qualcuno mi casca a terra... portava con sé una manciata di pomidoro... ma non sempre, i pomidoro, non crescono tutto l’anno, quindi mettetevi l’anima in pace, la Amatriciana è una gricia sfumata col vino , che in estate fa la signora in rosso... e questo è! Alla prossima bella gente, stay qua...qua qui...che la prossima volta alziamo il tiro... Abbacchio alla cacciatora!
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L’arte degli zuccheri di Beatrice Caruso
@torteedolcezze
C
iao a tutti sono Beatrice Caruso e oggi condividerò con voi la nuova rubrica dedicata alla pasticceria. Cercherò di raccontare i miei dolci con delle ricette semplici in modo da poterle ripetere a casa senza difficoltà! Affronteremo insieme qualche cenno di teoria più che altro per capire il perché dei nostri passaggi durante il procedimento delle
ricette, ma sicuramente sarà appassionante e divertente. Parleremo dei dolci appartenenti alle festività, dalla torta mimosa per la festa della donna al panettone assoluto ed imponente dolce del Natale e perché no mi piacerebbe esaminare insieme anche le mille ricette diverse di regione in regione perché è così,la nostra tradizione culinaria e quindi anche dolciaria è una delle più
vaste che esistano! Ci sarà spazio anche per i più piccini, con loro si potranno preparare coloratissimi biscotti oppure golosi cupcakes per la merenda. Insomma di idee ne avremo per ogni occasione! Per cominciare ho pensato ad una ricetta colorata, semplice ma sempre amata da molti ovvero la crostata di crema pasticcera e frutta, un classico ma davvero deliziosa!
LA PREPARAZIONE Per la base della nostra crostata dobbiamo impastare la frolla, partendo dalla farina e dal burro freddo a cubetti, quando il composto sarà amalgamato, ovvero quando la farina avrà rivestito tutto il burro dobbiamo aggiungere lo zucchero e alla fine le uova e questo è quello che in pasticceria si definisce metodo sabbiato. Dopo che la frolla avrà riposato una mezz’ora possiamo rivestire uno stampo per crostate ben imburrato e cuocere la base in forno per 25 minuti a 180 gradi. Passiamo alla crema pasticcera. Mettere un litro di latte a bollire sul fuoco con 2 o 3
Per la frolla: 500gr di farina; 200gr di burro; 200 gr di zucchero; 2 uova, Scorza di limone.
Per la crema:
1 litro di latte; 300 gr di tuorlo; 250gr di zucchero; 80 gr di amido di mais. Frutta a piacere per decorare
bucce di limone che poi toglieremo prima di procedere, nel frattempo in una ciotola aggiungiamo il tuorlo di uovo, lo zucchero e l’amido di mais. Quando il latte arriverà al primo bollore lo verseremo sul composto, una leggera mescolata e di nuovo sul fuoco fino a quando la crema di addenserà! Fatela freddare bene prima dell’utilizzo coperta con pellicola a contatto. Ben fredda la crema sarà pronta per riempire la nostra base di frolla e noi saremo pronti per sbizzarrirci con la frutta, ananas, fragole, frutti di bosco, kiwi insomma tutto quello che preferite.
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