Speciale IBE 2021
Sei pronto per le branchie
Cambiamento o resilienza. Lavoro e società, che fare? Memorial Umberto Cugini
In Collaborazione con
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Memorial Umberto Cugini
Agenda Benvenuto a IBE 2021 09.15 Benvenuto | A. Sianesi - Fondazione Politecnico di Milano 09.30 Dove eravamo rimasti. Ricordo di Umberto Cugini | M. Fucci
MindUp Pentaconsulting
Presenza di Marta e Margherita Cugini
09.40 Innovability: il nuovo paradigma | F. Iervolino - Deloitte 10.00 Produzione Digitale e Servitizzazione | R. Siagri - Imprenditore 10.20 Human-centered Innovation | G. L. Sacco Siemens Digital Industries Software 10.40 Gestione dell’energia nel nuovo ecosistema | N. Lanzetta - Enel 11.00 Viaggio nel digitale, dov’è il paese Italia | S. Quintarelli - Advisor 11.20 Cultura e Ambienti Manageriali efficaci ed efficienti
per agganciare la ripresa | M. Fucci - MindUp Pentaconsulting
11.40 Smart working? Smart Warning! | M. Maiocchi - Visionario 12.15 Domande e Risposte – Dibattito Interattivo | G. Colombo
Politecnico di Milano
Edittoriale
Siamo all’ottava edizione... ancora una volta dove stiamo andando
Buona giornata, ebbene si, siamo giunti all’ottava edizione di Industry Big Event, un traguardo interessante che ci ha visti impegnati in tutti questi anni. L’obiettivo non è cambiato ed il format è rimasto sempre lo stesso.
ovviamente la cosa cambia aspetto, dimensione e finalità.
D’altronde non è stato banale aver scelto di mostrare e dimostrare che il cambiamento è l’unica condizione stabile nel tempo e che la vera leva (quella più lunga) o interruttore principale che dir si voglia rimane la cultura aziendale a tutti i livelli.
Certo la Digitalizzazione non è la panacea per ogni male del nostro tessuto industriale e del sistema paese in genere, ma senza un suo sviluppo corretto e smart difficilmente potremo essere competitivi.
Cultura e cambiamento sono gli elementi da interiorizzare e implementare per continuare a fare impresa. Sapevamo che avremmo dovuto insistere. E noi insistiamo sicuri che questa sia la direzione giusta per governare nel modo corretto le trasformazioni, la tecnologia e gli strumenti abilitativi come ad esempio, le applicazioni software, le infrastrutture, le piattaforme in genere. In questo periodo a seguito di chiacchiere in Tv e articoli di giornali (ma quanti esperti abbiamo in Italia) sto riflettendo sull’utilizzo delle parole e di come queste spesso diventino una moda e di conseguenza indiscriminatamente sulla bocca o peggio sul blog di chicchessia, indipendentemente dalla preparazione. Mi riferisco in particolare all’utilizzo indiscriminato e a volte fuori luogo della parola: DIGITALIZZAZIONE.
massimo fucci Direttore Responsabile massimo.fucci@pentaconsulting.it
A parte il fatto che per chi -come meha seguito da tempo le evoluzioni nelle aziende (e non solo) la parola in sé si riferisce ad un concetto di condizione normale che esiste da almeno una ventina di anni. Certo se alla parola Digitalizzazione si fanno corrispondere in uno strano principio di causa effetto altri termini quali: investimenti, finanza agevolata o contributi a fondo perduto
Mi ricordo a tal proposito come un’azienda fosse riuscita a far passare i propri ottimi cavi di rete come innovazione 4.0, onore al merito!
Un esempio su tutti la fattura elettronica: avere il cassetto fiscale ha reso più semplice il rapporto di ogni azienda con contabilità, commercialista e agenzia delle entrate. Il che si è tradotto in un risparmio di tempo per tutti (ciascuno lo può facilmente monetizzare) e una gestione più equa. Guarda caso è uno dei fattori che ha contribuito ad un aumento del gettito, anche se è rimasto sottotraccia. Ho fatto un esempio semplice che ha dato un grande beneficio, lascio al lettore traslare il tutto nella propria realtà organizzativa, comprendere quali siano i benefici dovuti all’effetto Digitalizzazione e quali siano le aree su cui operare perché non c’è ancora integrazione diretta. Questo è uno dei temi che verranno focalizzati durante l’evento di quest’anno, insieme alla sostenibilità organizzativa e energetica e, non ultimo, alle responsabilità di chi (il management) in azienda deve dare la direzione e guidare verso un porto che continua a cambiare. Buona partecipazione PS. Questo evento è anche il memorial di Umberto Cugini co-ideatore, coorganizzatore di tutto il percorso IBE. In questo magazine gli abbiamo dedicato un’intera sezione Ciao Umberto
Sommario 03
Edittoriale
Siamo all’ottava edizione... ancora una volta dove stiamo andando
Cover
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Speciale IBE 2021 Memorial Umberto Cugini
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L’energia nel nuovo ecosistema
Editore Pentaconsulting Srl Piazza Caiazzo, 2 - 20124 Milano Tel. 02 39523808 pentaconsulting@pentaconsulting.it
Architettura dello stato e architettura informatica
Direttore Responsabile
Massimo Fucci massimo.fucci@pentaconsulting.it
Content Manager
Maria Lanzetta m.lanzetta.partner@pentaconsulting.it
Progetto Grafico
novembre duemilaventuno
mcquadro studio creativo campanagrafica@gmail.com
Mindup magazine Speciale IBE 2021
n. 03 novembre 2021 - anno I supplemento a www.newsimpresa.it diffusione gratuita
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Innovability: un nuovo modello di business fondato sull’integrazione tra innovazione e sostenibilità
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Produzione digitale e servitizzazione
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Cultura e Ambienti Manageriali efficaci ed efficienti per agganciare la ripresa
30 Smart working? Smart warning!
Memorial Cugini
Ciao Umberto!
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Human centered Innovation
Innovability: un nuovo modello di business fondato sull’integrazione tra innovazione e sostenibilità di maria lanzetta Tempo di lettura previsto: 6 min.
Cambiamenti strutturali dell’attuale contesto economico e sociale erano già nell’aria, ma la crisi Covid-19 ha ulteriormente accelerato il processo di trasformazione e ha fatto emergere in modo chiaro la necessità di porre l’uomo al centro dell’innovazione.
Cittadini, imprese ed istituzioni devono far leva su nuovi strumenti per affrontare questa nuova era, abbracciando un approccio antropocentrico e sostenibile.
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È fuori dubbio che questa pandemia planetaria abbia messo in forte discussione un sistema economico e sociale che ormai era arrivato al capolinea: nella frenetica e convulsa corsa ai profitti, si è finito con il perdere di vista le reali priorità, seguendo un modello di business che a lungo andare si è, in qualche modo, logorato, diventando non solo inefficace ma addirittura tossico.
Francesco Iervolino, Partner Deloitte Officine Innovazione
Il Covid-19 ha scatenato una crisi senza precedenti con un forte impatto non solo sulla nostra sfera emotiva, ma anche sulle nostre priorità: da quelle aziendali e di business, a quelle sociali, generando, di fatto, un processo di revisione delle priorità stesse. In questo scenario è ormai chiaro quanto sia necessario mettere in campo una strategia economica e sociale che ponga al centro l’essere umano, non solo come individuo, ma anche e soprattutto come parte di una collettività. Per questo oggi è sempre più necessario pensare a un processo di innovazione di tipo antropocentrico, ovvero pensata attorno e per l’uomo: non più innovazione fine a sé stessa, guidata meramente dalla tecnologia ‘ad ogni costo’ – secondo il modello di questi ultimi decenni –, ma guidata dall’uomo e a servizio dell’uomo, nel rispetto delle sue necessità non solo come individuo, ma collocato in un contesto ambientale e di comunità. Deloitte ha affrontato la questione e ha condotto un’analisi demoscopica dettagliata, per capire l’atteggiamento e l’attitudine delle aziende e delle persone a riguardo. Quello che è
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emerso è che la società post-pandemica tenderà a ruotare sempre di più attorno a una nuova sostenibilità: ambientale, sociale ed economica. Per questo, l’innovazione oggi risulta un valore aggiunto solo se è a servizio della sostenibilità. Questa interdipendenza è il fondamento di una strategia d’impresa che potrà consentire una crescita della competitività. Da qui nasce il concetto di Innovability (termine coniato per la prima volta nel Gruppo Enel), ovvero la combinazione di innovazione e sostenibilità. Una sfida complessa e allo stesso tempo entusiasmante, a cui rispondere grazie a un approccio integrato, che potrebbe essere la chiave per far ripartire il nostro Paese. Di conseguenza, non si potrà più mettere in piedi un progetto innovativo e tecnologico che assorba molte energie per essere realizzato, ma ci saranno dei vincoli e delle caratteristiche tali per cui il nuovo modello si dovrà adattare a delle variabili aggiuntive, quali quelle di sostenibilità ambientale e sociale. Allo stesso tempo, però, la sostenibilità da sola, non può essere perseguita incondizionatamente, se non viene utilizzata come propulsore per l’innovazione. «Adottando il paradigma dell’Innovability un progetto di innovazione non può essere sviluppato se non è sostenibile. Allo stesso tempo, la sostenibilità non è attuabile se non è spinta dall’innovazione. Per questo le aziende oggi, soprattutto le PMI, devono aprire la loro mentalità a questo nuovo concetto, anche attraverso percorsi di open innovation, quali forme di cooperazione tra i diversi attori della filiera e, in alcuni casi,
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anche di collaborazione con i propri competitor, tramite un processo di confronto e di interscambio», commenta Francesco Iervolino, Partner Deloitte Officine Innovazione. L’Innovability rappresenta, dunque, la naturale evoluzione dell’innovazione antropocentrica: un nuovo paradigma che non solo mette al centro i bisogni delle persone, ma che, da ora in poi, dovrà avere come priorità anche il benessere ambientale e sociale. In questo modo, l’importanza assegnata alla “centralità dell’uomo” viene estesa a quella della sostenibilità: l’innovazione diventa lo strumento abilitante di una transizione etica e sostenibile che vada a beneficio sia delle persone sia del Pianeta. «Come dimostrano le iniziative di numerose istituzioni nazionali e internazionali, la sostenibilità sta diventando sempre più centrale nelle strategie di lungo periodo. Ne è un esempio evidente la decisione dell’Unione Europea di destinare il 37% del Next Generation EU alla lotta ai cambiamenti climatici e di finanziare questo strumento per il 30% tramite l’emissione di Green Bonds. Questo, per giunta, rientra anche nelle priorità del governo italiano: l’istituzione del Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale ne è una conferma» aggiunge Iervolino. Tuttavia, di fatto, sempre sulla base dell’analisi condotta dalla società di consulenza, emerge che solo il 25% delle aziende italiane ha definito una strategia integrata basata sull’Innovability e la strada è ancora in salita, sebbene l’attenzione per la tematica sia crescente: infatti, alcuni dei dati raccolti riportano che il 90% delle
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aziende dell’indice di borsa S&P 500 ha pubblicato un bilancio di sostenibilità nel 2019, contro il 20% del 2011, primo anno di rilevazione. È importante sottolineare, però, che lo sviluppo di una transizione sostenibile coinvolge a pieno titolo non solo le aziende private, ma anche istituzioni pubbliche, università e centri di ricerca. Da parte di aziende e consumatori, infatti, è crescente la consapevolezza della necessità di un operato congiunto e di collaborazione tra i vari stakeholder, in quanto proprio dall’efficienza di questi processi di trasferimento tecnologico dipenderanno i risultati del PNRR. Lo studio di Deloitte, inoltre, ha evidenziato che, per sviluppare un vantaggio competitivo, sia a livello di singola azienda sia a livello di sistema Paese, è necessario che l’Innovability sia misurabile e concreta, in grado di generare valore economico, sociale e ambientale. Ma come misurarla? Risponde Iervolino: «Sicuramente attraverso un’analisi di risultati tangibili quali, per esempio, il numero dei progetti sviluppati e il riscontro positivo non solo sul conto economico dell’azienda, ma anche sul tipo di impatto in termine di sostenibilità ad ampio spettro. Questo è possibile attraverso un business plan in cui i KPI vengano definiti dall’inizio e che contenga non solo la parte economica del valore atteso, ma anche obiettivi legati all’utilizzo delle risorse, delle componenti ambientali e sociali». Tutto questo, dunque, comporta una ridefinizione delle priorità: quelle economiche, in particolare, oggi non possono più prescindere da quelle
connesse alla sostenibilità, non solo in termini ambientali energetici e di risorse naturali – tema di cui si parla già da qualche tempo -, ma anche di sostenibilità sociale e di equilibrio delle persone. Oggi, non a caso, si sente spesso parlare di Era della Great Resignation, ovvero un’epoca di dimissioni. Ma come è possibile che questo fenomeno sia esploso nel 2021, cioè in un momento di grande incertezza e crisi economica? «Le aziende si devono fermare a riflettere su questo fenomeno», risponde Iervolino. «Va bene essere profittevoli in termini puramente economici, ma oggi la società ci sta chiedendo qualcosa di diverso. E se, allo stato attuale, le aziende fanno fatica a portare nuovi collaboratori a bordo, forse è perché le persone cercano un equilibrio tra lavoro e vita privata. Quindi bisogna superare il concetto di “dove andare a lavoro” e relegare a un ruolo secondario tutti gli altri aspetti della propria esistenza. È necessario consentire alle persone di integrare e armonizzare le diverse componenti della propria vita: la modalità di Smart Working, per esempio, potrebbe ben rappresentare questo nuovo paradigma», continua l’esperto di Deloitte.
Alla luce di quanto detto fin ora, sorge spontanea la domanda se questa nuova strategia, basata sul concetto di Innovability, comporterà l’introduzione di nuove competenze e nuove figure professionali, e a questo riguardo Francesco Iervolino afferma che «le aziende devono lavorare su più livelli: non è solo una questione di nuove figure professionali, ma di mentalità. Bisogna utilizzare, salvaguardare e coinvolgere le risorse già presenti nell’azienda, anche attraverso programmi di upskilling e reskilling, finalizzati a far crescere e far evolvere le persone, puntando molto sulle diverse soft skills di tutti quei collaboratori che già hanno fatto proprio il DNA dell’azienda e possono concorrere fattivamente alla ridefinizione del nuovo modello di business. Poi, certo, in alcuni casi potranno essere richieste delle competenze tecniche specifiche o ruoli strategici quale quello dello Chief Innovability Officer, ma il grosso del cambiamento lo fa la comunità aziendale dall’interno, partendo dal vertice e da lì a scendere. Non è necessaria, quindi, una ricerca spasmodica di nuove figure professionali. È invece preferibile cercare di salvaguardare, motivare e far crescere le risorse già presenti».
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l paradigma dell’Innovability prevede che un progetto di innovazione non possa essere sviluppato se non è sostenibile, così come la sostenibilità dovrà essere spinta dall’innovazione; dunque un processo di innovazione di tipo antropocentrico, pensata attorno e per l’uomo.
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Produzione digitale e servitizzazione di maria lanzetta Tempo di lettura previsto: 5 min.
Il passaggio dall’economia del prodotto all’economia dei servizi è ormai in atto: l’era della servitizzazione è arrivata.
Si tratta di una trasformazione che richiederà alle imprese di ripensare da cima a fondo i modelli di business, i prodotti e i processi produttivi. La servitizzazione segnerà, di fatto, il passaggio definitivo dall’era della produzione industriale a quella della produzione digitale, ma per attuare tale cambiamento servirà anche un cambio di mentalità.
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Roberto Siagri, Imprenditore
Il termine servitizzazione fu coniato nell’ormai lontano 1988 da Sandra Vandermerwe e Juan Rada4. Già a quel tempo, gli autori intravedevano che la distinzione tra servizio e prodotto si stava facendo sempre meno marcata e che i servizi sarebbero diventati compagni sempre più inseparabili dei prodotti. Tuttavia è soltanto negli ultimi tempi, grazie alla significativa riduzione del costo dei vari device e delle comunicazioni digitali, che questo fenomeno della trasformazione dei prodotti in servizi sta iniziando a diventare concreto, sigillando così l’indissolubilità del binomio prodotto-servizio. In effetti, un futuro in cui i servizi prenderanno, grazie alla tecnologia, il posto dei prodotti, mettendo così d’accordo imprese, utenti e ambiente, non è più utopia, ma una realtà che si sta delineando e concretizzando progressivamente. La trasformazione del prodotto in servizio è una straordinaria opportunità di miglioramento e di progresso che ci viene oggi offerta dalle tecnologie digitali. Arriveremo gradualmente ad una situazione in cui non esisteranno più due categorie separate e distinte, i prodotti da un lato e i servizi dall’altro. Ci saranno invece due categorie che potranno combinarsi tra loro in vari modi, rendendo possibile il superamento della concezione di prodotto come mero oggetto materiale, in favore di quella di prodotto integrato da uno o più servizi, finché saranno i servizi a conquistarsi, progressivamente, il ruolo primario. In questo contesto, sarà indispensabile un cambio di mentalità nelle aziende che dovranno prepararsi a modi-
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ficare i propri modelli di business. I servizi, dunque, stanno iniziando a farci entrare in una nuova fase nella quale, cambiando di volta in volta i modelli di business, si potranno proporre svariate combinazioni dell’abbinata prodotto-servizio, con un diverso prevalere di uno o dell’altro in funzione del modello adottato. Dovranno, inoltre, sorgere nuove imprese che, non avendo legami con modelli oramai obsoleti, possano cogliere immediatamente le opportunità offerte dalla nascente era dell’intangibile. “Nel prossimo futuro i servizi saranno, dunque, parte sempre più integrante della missione strategica dell’impresa e annunceranno una trasformazione importante che impareremo a conoscere grazie alla rivoluzione digitale. Nel corso di questo processo emergerà in modo sempre più evidente la capacità del digitale di trasformare il prodotto in servizio, come in una sorta di incantesimo che altro non è che una straordinaria opportunità di crescita felice e sostenibile, se sapremo coglierla”, ha affermato Roberto Siagri, Imprenditore e autore del libro “La servitizzazione. Dal prodotto al servizio per un futuro sostenibile senza limiti alla crescita”, nel quale l’autore, attraverso un’analisi a tutto tondo, spiega come questo nuovo paradigma, che pian piano si sta facendo strada nella quotidianità, nel giro di pochi anni trasformerà totalmente il nostro stile di vita e le nostre abitudini. Quello che, in effetti, emerge in questo saggio, è come la trasformazione del prodotto in servizio,
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attraverso le tecnologie digitali e l’innovazione in tutti i suoi aspetti, rappresenti la strada che ci condurrà in un mondo in cui utilizzeremo sempre meno la materia, grazie ad un uso sempre più intenso del digitale, ovvero di dati, informazione e conoscenza. In quest’ottica, inoltre, i dati avranno sempre più valore e saranno sempre più preziosi, perché proprio attraverso l’analisi di questi è possibile configurare e adattare i servizi di cui si ha bisogno, e qui il ruolo dell’intelligenza Artificiale diventa imprescindibile. “La servitizzazione, però, non riguarda soltanto la tecnologia che ha reso possibile il cambiamento, ma soprattutto si riflette in molti altri aspetti, quali quelli sociali, economici, estetici ed etici” spiega Siagri. “È l’unico modello infatti che, sul lungo periodo, possa garantire sostenibilità: non si tratta di un paradigma che dobbiamo rincorrere per metterci la coscienza a posto nei confronti del pianeta, ma perché la popolazione sta crescendo così tanto che l’attuale sistema economico non potrà più soddisfare tutti. Il passaggio da prodotti a servizi, peraltro, è vincente sotto ogni punto di vista: permette di risparmiare ingenti risorse, di proporre prezzi più vantaggiosi agli utenti e di portare maggiori guadagni nelle casse delle imprese. L’attuale gara al ribasso per i prezzi dei prodotti, al contrario, non fa altro che andare a discapito della loro qualità e dell’ambiente”. E’, pertanto, indispensabile un cambiamento di rotta e questo deve essere un impegno da parte di tutti,
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soprattutto nei riguardi delle generazioni future, alle quali abbiamo il dovere di consegnare un modello di sviluppo sostenibile, capace di crescere e di generare benessere per tutti. Si badi bene, però, che sviluppo sostenibile non significa la fine della crescita in senso assoluto, quanto piuttosto la fine di un certo tipo di crescita, quella legata all’economia del prodotto, all’economia del tangibile, basata sul possesso materiale di beni. E ad essere chiamato in causa è proprio il modello di produzione industriale basato sulla vendita di prodotti che, nel lungo periodo, incidono sulla sostenibilità in termini di risorse consumate e di inquinamento. Questo scenario si complica se pensiamo all’aumento della popolazione mondiale, che comporta un numero crescente di bisogni da soddisfare. Infatti, sebbene i tassi di crescita della popolazione abbiano invertito la rotta e siano oggi in calo, bisognerà comunque fare i conti con il suo costante invecchiamento e si dovrà, inevitabilmente, andare verso un’economia che tenga sempre più conto dell’ambiente, del benessere, delle persone e della società. A questo riguardo commenta sempre Roberto Siagri “ Solo quando il servizio prenderà il sopravvento sul prodotto, che si compirà il definitivo passaggio dall’era della produzione industriale a quella della produzione digitale, un modello che avrà bisogno delle tecnologie proprio per ricondurre l’uomo al centro, come portatore di creatività.” Un cambiamento importante, dunque, che alcuni temono ma che in realtà è sostenuto da un’impellente
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n futuro in cui i servizi prenderanno, grazie alle tecnologie digitali, il posto dei prodotti, mettendo così d’accordo imprese, utenti e ambiente, non è più utopia, ma una realtà che si sta delineando e concretizzando progressivamente: siamo nell’era della servitizzazione!
necessità: rendere sostenibile il nostro modello di sviluppo. Si tratterà infatti di passare da un modello industriale non più sostenibile, e dunque oramai quasi privo di spazi di crescita futura, ad uno digitale in grado di consentire una crescita sostenibile indefinita, senza limiti all’orizzonte. Continua ancora Siagri: “Così come l’agricoltura ha fatto nascere l’industria, e quest’ultima non solo non ha soppiantato l’agricoltura, ma anzi l’ha intensificata, allo stesso modo, l’industria ha fatto nascere i servizi, i quali non andranno a soppiantare l’industria, quanto piuttosto a svilupparla di più”. Pertanto, se vogliamo continuare a crescere in maniera sostenibile, dobbiamo progressivamente abbandonare il mondo dei prodotti e avvicinarci al mondo dei servizi, per approdare infine alla dimensione del puro servizio. Dal “nudo” prodotto passeremo prima al prodotto orientato al servizio, poi al prodotto orientato all’uso e, per finire, al prodotto orientato al risultato, in quella che, è anche definita da Walter Stahel, l’economia delle prestazioni (ndr. IBE 2016), in modo da far aumentare quanto più possibile il valore intangibile e arrivare infine all’era del puro servizio. Ogni cambiamento epocale, tuttavia, ha bisogno di un terreno fertile su cui germogliare, e la quarta rivoluzione industriale - che Siagri defini-
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sce “rivoluzione del software” - non è da meno. “Affinché una trasformazione avvenga sono necessari quattro componenti: concetto, convenienza economica, tecnologia e, soprattutto, volontà. Credo che i Millennials e la Generazione Z si adatteranno facilmente ai nuovi paradigmi: vogliono l’accesso alle cose, non il loro possesso. Le generazioni precedenti, nate povere e affamate, sentivano il bisogno di possedere, ma in un mondo globalizzato questo ci limita. Per, esempio, se compro una casa a Cortina passerò lì tutti i miei inverni, ma se spendo quel denaro in alloggi Airbnb potrò vedere il mondo intero” conclude Roberto Siagri. Per rendere possibile questa transizione, quindi, dobbiamo fare leva sulle nuove generazioni, molto meno legate al possesso di beni rispetto a quelle precedenti, e più propense ad acquistare non più il prodotto ma le sue prestazioni. Il digitale ha la capacità di trasformare il prodotto in servizio, che altro non è che una straordinaria opportunità di crescita felice e sostenibile in cui saremo tutti vincitori: più utili per l’impresa, più benessere per i lavoratori, più clienti felici, più rispetto per l’ambiente. La modalità di produzione digitale non è per poche imprese capaci di grandi investimenti, e l’adozione delle nuove tecnologie non è più come in passato un problema di dimensioni aziendali; al contrario, è alla portata di tutte le imprese e in special modo delle PMI, perché il mondo del futuro non sarà dei più forti ma dei più agili.
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Human centered Innovation di gian luca sacco Tempo di lettura previsto: 4 min.
Tutto sta cambiando rapidamente a partire dalle esigenze, alle condizioni al contorno, alle tempistiche all’aspetto di ogni nuovo prodotto.
Un tema che da un lato vede il consumatore/ fruitore del bene, dall’altro il produttore del bene impegnato nel risolvere la non facile equazione di produrre ciò che verrà acquistato ad un prezzo appetibile e compatibile con i criteri di margine che ogni prodotto deve necessariamente generare. Ovviamente senza conoscerne a priori i reali contorni. Un’impresa che vede le aziende impegnate in attività e progetti innovativi di digitalizzazione dei processi di sviluppo e produzione dei prodotti.
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Gian Luca Sacco, Sr. Director Marketing, EMEA, Siemens Digital Industries Software
In un’ottica di cambiamento lo scenario nel quale le aziende dovranno presto operare sarà caratterizzato da una rete di imprese digitali che spazia dalle start-up alle grandi imprese. Queste reti di organizzazioni digitali dovranno necessariamente condividere dati e informazioni congrue aggiornate in tempo reale per poter collaborare efficacemente nelle diverse fasi di progettazione, produzione e realizzazione di prodotti e processi. Questo avverrà - sta avvenendo - in tutti i settori, siano essi discreti o di processo. Mentre le aziende lavorano per implementare questa visione e farla diventare una realtà, emergono tre imperativi critici di business alla base dell’eccellenza operativa e della trasformazione digitale. 1. Gemello digitale integrale, il centro della trasformazione digitale La definizione di gemello digitale – oramai entrata nella terminologia comune, anche con un po’ di abusodifferisce in funzione di chi ne sta parlando. Siemens è orgogliosa di aver sviluppato la tecnologia per creare quello che definiamo un gemello digitale “integrale”. Con questo termine si intende che il gemello digitale ideale dovrebbe essere in grado di coprire l’intero ciclo di vita del prodotto e della produzione e integrate un “feedback loop” per garantire che i dati sulle prestazioni effettive vengano reinseriti nei modelli che potranno così essere continuamente perfezionati. Deve
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anche essere in grado di guidare azioni specifiche, consentendo agli utenti di agire sulla base delle informazioni fornite dal campo attraverso l’Internet-of-Things (IoT) e dei risultati della simulazione per apportare modifiche significative sia a monte che a valle. Un gemello digitale integrale è al centro della trasformazione digitale. Fornisce un “canovaccio digitale” che consente vari livelli di astrazione dai dati di progettazione del prodotto, a quelli di produzione e include le rilevazioni effettuate durante l’utilizzo sul campo grazie all’IoT. Lavorando oltre i confini tradizionali dell’ingegneria, il gemello digitale integrale consente una progettazione interdisciplinare, la verifica virtuale tramite simulazione e il miglioramento continuo di prodotti e processi attraverso un sistema di feedback a ciclo chiuso supportato da analisi basate su cloud. 2. Soluzioni personalizzate e adattive Ogni organizzazione affronta sfide uniche e, pertanto, richiede soluzioni su misura e un approccio personalizzato alla digitalizzazione. Queste soluzioni devono adattarsi alla roadmap digitale di ciascuna organizzazione e alle sue caratteristiche peculiari, come la distribuzione geografica e l’esperienza organizzativa con strumenti specifici. Soluzioni adattive consentono alle aziende di ottenere informazioni dettagliate e accelerare la digitalizzazione collegando sistemi esistenti con
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nuovi strumenti che faranno parte dello scenario futuro, garantendo la possibilità di mantenere automatizzati i processi e di analizzare facilmente i dati. Le nuove piattaforme di sviluppo di applicazioni low-code e no-code sono un componente fondamentale della totale integrazione, senza le quali i costi ed i tempi di realizzazione non sarebbero compatibili con budget e time to market. In quest’ottica, la piattaforma Mendix, secondo Gartner, l’ambiente di sviluppo di applicazioni low-code e no-code più robusto oggi presente sul mercato, offre la possibilità di guidare la trasformazione aziendale attraverso applicazioni software personalizzate e realizzabili senza particolari difficoltà da chiunque abbia una specifica esigenza e indipendentemente dalla loro esperienza. 3. Realizzare un Ecosistema aperto e moderno, non sarà più una scelta facoltativa Man mano che i prodotti diventano più complessi, le aziende dovranno creare nuove connessioni sia all’interno che all’esterno della propria organizzazione per sfruttare la tecnologia e l’esperienza di tutto il settore. Questa rete industriale dovrà riunire riunisce clienti, sviluppatori, designer, produttori, subappaltatori, fornitori e altro ancora in un ecosistema globale con centri di innovazione e collaborazione. La possibilità di integrarsi con questi ecosistemi digitali sarà una caratteristica chiave per il successo di un’impresa digitale.
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L’importanza di un portafoglio completo e integrato Diverse possono essere le soluzioni da adottare in contesto di elevata competitività. Sicuramente – come testimoniano esperienze utente e commenti degli analisti di mercato, l’integrazione trai moduli applicativi per lo sviluppo e realizzazione dei prodotti devono essere integrati. Questo evita la duplicazione di dati, la dilatazione dei tempi di realizzazione e l’eliminazione dei costi nascosti dovuti alla ripetizione di parti di processo perché si è operato su dati/informazioni non congrue. In quest’ottica, Il portafoglio di soluzioni Xcelerator consente alle aziende di affrontare la loro trasformazione digitale adottando questi imperativi rapidamente e con risultati prevedibili. Xcelerator offre vantaggi sia nel classico flusso di progettazione-produzione-ottimizzazione che in domini ingegneristici tradizionalmente disparati, come elettrico, meccanico, pianificazione della produzione e Industrial Internet of Things (IIoT). Inoltre, grazie al gemello digitale integrato e alle capacità di ingegneria dei sistemi basati su modelli (MBSE), facilita il coordinamento di fornitori, partner ed ecosistemi specifici del settore, consentendo ai clienti di ottimizzare le catene del valore dalla progettazione, sviluppo e produzione del prodotto, al post-vendita.
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ggi le aziende, per essere protagoniste in un mercato in costante evoluzione, devono adottare proattivamente una robusta strategia digitale che sia humancentered, adottando un modello di innovazione più intelligente, rapida e duratura, guidata dalle persone.
Il cloud come elemento differenziatore: i vantaggi del software as a Service
Il cloud e il Software as a Service (SaaS) stanno cambiando il modo in cui le aziende utilizzano, distribuiscono e accedono al software e offrono l’opportunità di semplificare l’esperienza di implementazione, utilizzo e mantenimento, offrendo loro nuove opportunità di valore. La capacità di Xcelerator di fornire un ecosistema aperto di soluzioni flessibili e adattabili per aiutare le aziende a sfruttare un gemello digitale integrale è comprovata da migliaia di aziende in tutto il mondo. Oggi, le tecnologie cloud e edge sono maturate al punto che il valore aziendale di Xcelerator può essere più accessibile, flessibile e scalabile che mai attraverso una modalità di fruizione aggiuntiva.
una posizione unica, dovuta alla sua natura manifatturiera. Con oltre 30 stabilimenti di produzione, Siemens possiede l’infrastruttura e l’esperienza industriale correlata per supportare un co-sviluppo trasparente, efficiente ed efficace tra i diversi settori coinvolti. Un terreno fertile per sviluppare, testare e migliorare sul campo tecnologie e applicazioni e comprendere sul campo quali sono i vantaggi della loro integrazione diretta. Un ambiente in cui ideazione, progettazione, simulazione, produzione test e messa in esercizio può avvalersi di un’unica piattaforma applicativa integrata.
Xcelerator as a Service (XaaS) è la nuova offerta in abbonamento che sfrutta il cloud computing per fornire nuove potenti funzionalità che contribuiranno ad accelerare la trasformazione digitale. XaaS rende il portafoglio Xcelerator più accessibile, scalabile e flessibile, consentendo una maggiore produttività e migliori vantaggi alla competitività delle aziende.
Più il nostro mondo diventa digitale, più velocemente le organizzazioni devono adattarsi a un nuovo panorama industriale. Domani, le aziende avranno bisogno di qualcosa di più di soluzioni ingegneristiche e IT avanzate. Dovranno intraprendere una trasformazione organizzativa e impegnarsi in una collaborazione per garantirsi un successo duraturo. Un‘impresa che presuppone impegno e volontà di voler agire sulla cultura aziendale, il principale asset del cambiamento continuo a cui dovranno dare risposta. L’elemento abilitante lo si trova in un portafoglio di applicazioni integrate (Xcelerator) supportato da una vasta esperienza industriale.
Ma più che da soluzioni e servizi software di ingegneria, le aziende ottengono il massimo del valore scegliendo un partner tecnologico di fiducia per aiutare a guidare e supportare la loro trasformazione digitale. In qualità di partner globale, Siemens ha
In questo ambito Siemens Digital Industries Software è unica nella sua capacità di abilitare la trasformazione digitale e promuovere la collaborazione in tutti i settori e le aziende, indipendentemente dalle dimensioni.
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L’energia nel nuovo ecosistema di maria lanzetta Tempo di lettura previsto: 8 min.
Nel 2025 si chiuderanno tutte le centrali a carbone e questo rappresenta senza dubbio una svolta decisa in termini di sostenibilità, tuttavia il cammino verso la totale decarbonizzazione è ancora molto lungo.
Ma c’è chi si sta già adoperando attivamente per questo ambizioso obiettivo, mettendo a disposizione un’energia sostenibile proveniente al 100% da fonti rinnovabili.
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Nicola Lanzetta, Direttore Mercato Italia di Enel
È ormai noto come i cambiamenti climatici abbiano effetti sempre più devastanti sull’intero pianeta e come rappresentino, di fatto, una questione su cui non si può più temporeggiare. L’Europa già da qualche tempo sta prendendo provvedimenti per riuscire a contenere questo problema e lo scorso luglio la Commissione Europea ha lanciato il progetto Green Deal, un grande piano che prevede, tra gli altri, il pacchetto “Fit for 55”, cioè la riduzione del 55% entro il 2030 delle emissioni climalteranti. Per raggiungere tale ambizioso obiettivo, l’UE sta mettendo in campo varie iniziative, tra cui un importante piano di potenziamento delle fonti rinnovabili, che entro 10 anni dovrebbero arrivare a contribuire per il 40% al fabbisogno di energia degli stati membri. Attualmente la quota è del 20%. Ma come si stanno muovendo i grandi colossi dell’energia?
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a produzione ed il consumo di energia rinnovabile, oltre ad essere cosa buona per l’ambiente, la sostenibilità, la salute dell’uomo e del pianeta, porta grandi vantaggi anche in termini economici, sia per i produttori, sia per i consumatori.
Il gruppo Enel ha già intrapreso la strada verso l’elettrificazione, con l’obiettivo di offrire a livello globale un’energia sostenibile, non solo in termini ambientali ma anche economici. Partiamo dalla premessa che oggi in Italia il 50% della produzione di energia elettrica deriva dal gas e il 90% del gas viene importato dall’estero. Questo significa ovviamente che il sistema Italia non può gestire autonomamente le proprie risorse energetiche, trovandosi così in una posizione di forte dipendenza nei confronti dei paesi produttori di gas e in relazione alle oscillazioni di domanda e offerta derivanti dai mercati internazionali. La strada migliore
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che abbiamo per poterci sottrarre a questa dipendenza è quella produrre energia sfruttando fonti rinnovabili, beneficiando quindi delle importanti risorse naturali di cui l’Italia dispone. Va da sé che la produzione ed il consumo di energia rinnovabile, oltre ad essere cosa buona per l’ambiente, la sostenibilità, la qualità della salute dell’uomo e del pianeta, diventi estremamente vantaggioso anche in termini economici, sia per i produttori, sia per i consumatori. Infatti se continuassimo a utilizzare prevalentemente il gas come fonte primaria per la generazione di energia, ci troveremmo potenzialmente a doverci confrontare anche in futuro con una situazione come quella che stiamo vivendo oggi, quindi con costi sempre crescenti. Tuttavia, grazie al fatto che attualmente in Italia siamo in grado di produrre intorno al 40% dell’energia da fonti rinnovabili, possiamo e dobbiamo prevedere un decisivo salto in avanti in questo senso. Non solo, va tenuto presente che oggi l’Europa, ha l’impegno di aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili per una quota del 70% entro il 2030, il che tradotto nella pratica significherebbe una riduzione dei costi dell’energia del 35%. Quindi, un punto fondamentale che oggi imprenditori, aziende e famiglie devono aver ben chiaro è che il rinnovabile fa bene all’ambiente, alla salute e ‘alle tasche’. E questo Enel lo sottolinea con forza, anche per smentire le varie ‘leggende metropolitane’ secondo le quali, l’aumento dei costi dell’energia derivi anche da sussidi stanziati proprio per lo sviluppo del rinnovabile. Banalmente, gli aumen-
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ti delle utenze di Luce e Gas a cui stiamo assistendo in questo periodo, sarebbero del 10% in più se, come nazione, 10 anni fa non avessimo già intrapreso la strada verso la produzione green. Da un punto di vista pratico, nel frattempo, cosa può fare un imprenditore o la singola famiglia per contenere i costi legati ai consumi di energia? “Rivolgersi al mercato libero, e quindi avere la libertà di scegliere il proprio fornitore di energia elettrica e gas, svincolandosi dalle tariffe stabilite dall’autorità: questo ci dà la possibilità di optare per soluzioni a prezzo bloccato anche fino a 24 mesi e di non subire l’incremento dei prezzi cui stiamo assistendo in questo momento. Proprio per questo Enel punta dritto verso prezzi bloccati anche con dei contratti pluriennali, sia per le famiglie sia per le imprese”, ha affermato Nicola Lanzetta, Direttore Mercato Italia di Enel. “Per le piccole imprese, in particolare, questo può rappresentare una strategia efficace e di lungo periodo, perché consente di poter aver un business plan puntuale, non soggetto a variazione e, di conseguenza, a pesanti scostamenti nei bilanci. Questo è proprio l’errore che in questo periodo è stato spesso commesso da famiglie e aziende: non scegliere il mercato libero continuando ad avere tariffe stabilite dall’autorità, secondo un concetto apparentemente di “maggior tutela”, ma che subiscono variazioni ogni tre mesi e dunque soggette alla variabilità dei prezzi dei combustibili fossili. Risultato: incrementi che a luglio sono stati nell’ordine del 10% e a ottobre del
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30%. Tuttavia, dal 2023, il cosiddetto mercato tutelato cesserà e la scelta del mercato libero diventerà l’unica scelta possibile” continua Lanzetta. Stiamo, dunque, vivendo una trasformazione epocale, una vera e propria rivoluzione in termini di energia, paragonabile a quando all’inizio del ‘900 si è passati da un’economia a carbone a quella a petrolio; però se nel primo caso ci sono voluti 30 anni, oggi non abbiamo tutto questo tempo a disposizione ed è, dunque, necessario completare tale percorso di cambiamento entro il prossimo decennio. È iniziata l’era dell’elettrificazione Cosa porterà questa trasformazione? In primis, benefici per la salute e l’ambiente: bisogna considerare che il CO2 è un gas davvero subdolo, non si vede e non ha odore, per cui sfugge al controllo dell’uomo nella quotidianità, salvo poi constarne successivamente i gravi danni che provoca. Secondo punto: cambierà totalmente il modello di produzione, erogazione e fruizione dell’energia, passando da un sistema con pochi e grandi consumatori, a un’organizzazione con tantissimi “prosumer”, ovvero utenti che consumano e producono energia elettrica per se stessi ma anche per terzi, grazie alle installazioni di tutte quelle appliances che consento la produzione di energia (ad esempio impianti fotovoltaici); questo sia a livello aziendale sia domestico. Va tenuto presente, inoltre, che le attuali tecnologie di accumulo – le batterie per intenderci – che fino ad oggi erano molto costose e presupponevano
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specifiche e sofisticate “technicality”, sono diventate molto più accessibili. Inoltre tutte le tecnologie oggi, sono sempre di più in linea con la legge di Moore che valeva per i microprocessori: per cui nell’arco di un anno questa tendenza alla produzione di energia da parte degli utenti finali sarà ancora più agevole. E’ dunque chiaro che grazie a questi trend, l’ orientamento di ogni consumatore a trasformarsi sempre più anche in produttore di energia elettrica aumenterà notevolmente. Se si considera il numero attuale di impianti fotovoltaici e pannelli, parliamo di circa 800 mila installazioni; non si ragiona più quindi su volumi di 50-100 centrali. In questo scenario la strada per la completa elettrificazione si va delineando in modo molto chiaro e ipotizzare un mondo, in cui l’energia sia generata esclusivamente da fonti rinnovabili, non è più un’utopia. Ma cosa vuol dire nel concreto elettrificazione? “ Fare con elettricità tutto quello che fino a oggi si è fatto con i combustibili fossili, dal riscaldamento domestico, alla cucina, alla mobilità, addirittura al funzionamento di forni industriali, dotandosi di impianti e installazioni che permettano a privati e aziende di prodursi energia in autonomia con grandi vantaggi in termini economici e ambientali. L’elettrificazione totale, per esempio, nella mobilità ridurrebbe drasticamente le emissioni di CO2 e, se è vero che con un auto elettrica l’investimento iniziale è maggiore, è altrettanto vero che se si va a vedere l’intero ciclo di vita dell’auto (rifornimenti gasolio, manutenzione, pezzi di ricambio, etc) i costi tra auto elettrica
e tradizionale oggi ormai si equivalgono, per giunta i prezzi di un motore endotermico e un motore elettrico sono assolutamente equiparabili” commenta ancora Nicola Lanzetta. Arriverà un giorno in cui si potrà fare a meno del gas? Allo stato attuale il limite delle energie rinnovabili è che non sono programmabili, nel senso che ad oggi non è possibile pianificare in modo controllato e puntuale le fonti di energia naturale: vento, sole, pioggia sono fenomeni ed elementi che si possono prevedere in linea di massima ma che non si possono governare. Bisognerà lavorare e investire su tecnologie che consentano sistemi di acculo di energia proveniente da fonti rinnovabili stabili, sicuri e affidabili, “Quello che posso dire è che ad oggi il gas è ancora un male necessario del quale si deve poter minimizzare l’utilizzo: dovrebbe rappresentare, in qualche modo, una fonte di energia di riserva, laddove e solo quando l’energia sostenibile non è sufficiente. Quando le tecnologie dell’accumulo potranno garantire una totale copertura, anche il gas potrà andare in disuso, esattamente come nei decenni scorsi si è passati, per esempio, dal riscaldamento domestico a gasolio con quello a metano. Pertanto pensare a una totale elettrificazione e una totale eliminazione dell’utilizzo del gas può rappresentare un obiettivo, nel medio/lungo termine, realistico e auspicabile” risponde il manager di Enel. La trasformazione digitale nel mondo dell’energia Per Enel il digitale è un fattore impre-
scindibile per la transizione energetica, non solo perché aiuta a decarbonizzare le fonti di generazione dell’energia in ottica green, come si è detto fin ora, ma anche per rendere più intelligente e smart il modo in cui l’energia elettrica viene prodotta, distribuita e consumata. Nella pratica il colosso italiano dell’energia ha costruito la propria digital strategy basandola su tre pilastri: asset, persone, clienti. Il primo riguarda le reti: veniamo da un mondo in cui le reti di trasmissione e distribuzioni erano abbastanza limitate, mentre oggi nelle città si dispone di reti estremamente intelligenti che consentono un collegamento produttore e consumatore, centro e periferia estremamente efficienti, (un esempio banale: i nuovi contatori 2G presenti nelle nostre case sono in grado di fornirci misurazioni ogni quarto d’ora). L’Italia risulta una delle best in class nel mondo: la rete di distribuzione del nostro Paese è una delle più avanzate a livello globale, e questo anche in prospettiva futura grazie al fatto che l’attuale sistema di reti sarebbe assolutamente in grado di supportare un carico di energia anche quando questo dovesse, auspicabilmente, incrementare del 40%-50%: questo vale sia per le gradi centrali sia per quelle piccole, attraverso una gestione in remoto affidabile e sicura per la assistenza e la manutenzione su piattaforme cloud. Il secondo pilastro riguarda le persone: gran parte del personale Enel lavora in remoto, secondo una modalità di lavoro smart flessibile e condivisa. Questo vale anche per i
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call center, con un livello di efficienza e di commitment maggiore rispetto alle modalità tradizionali. La società ha condotto una survey tra i propri dipendenti, affinché esprimessero il proprio punto di vista circa la possibilità di continuare a lavorare in smart working, anche dopo l’emergenza Covid: il risultato è stato largamente a favore del mantenimento della flessibilità. L’ufficio potrebbe diventare così un luogo d’incontro, di accoglienza e di ritrovo senza che però si debba soffrire lo stress di lunghi spostamenti, traffico e caos della città: anche questa è sostenibilità! Terzo e fondamentale pilastro è rappresentato dai clienti: garantire la migliore user experience è una delle strategie su cui Enel sta investendo moltissimo. In questo senso la trasformazione digitale ha avuto per l’azienda un ruolo fondamentale. In particolare l’Intelligenza Artificiale ha fornito nuovi strumenti utili allo scopo: ad esempio l’analisi semantica dei reclami web, effettuata grazie ad algoritmi di AI legati al Natural Language, che consente di rispondere in modo sempre più tempestivo e puntuale. Da questi approfondimenti nascono infatti insight significativi e vengono raccolti utili feedback per migliorare il lavoro degli operatori di assistenza e accrescere il livello di soddisfazione dei clienti, ai quali Enel vuole garantire sempre più un servizio e un supporto personalizzato, un contatto veloce, un’interazione efficace e soprattutto risolutiva.
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Architettura dello stato e architettura informatica di maria lanzetta Tempo di lettura previsto: 5 min.
L’intelligenza artificiale ci apre nuovi spazi di applicazione, prima inaccessibili, su base algoritmica: attività di percezione, classificazione e previsione. Ma ogni volta che digitalizziamo un’attività, esponiamo sempre più i nostri profili all’elaborazione di modelli che inevitabilmente portano a condizionamento, sorveglianza e personalizzazione di massa. Se queste attività sono svolte dai governi, quali sono i controlli e gli equilibri più appropriati? Qual è l’architettura informatica più adatta per un’infrastruttura istituzionale democratica?
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Stefano Quintarelli, Imprenditore e Advisor di tecnologie informatiche
Equilibrio tra efficienza ed effetti sociali è, oggi, uno dei temi di grande di attualità a fronte di un’interferenza sempre più invasiva della tecnologia nella sfera privata, e questo lo possiamo constatare ogni giorno nell’utilizzo della varie piattaforme e applicazioni nella nostra vita quotidiana. Ma quando questo avviene da parte del Governo, il rischio di un’interpretazione arbitraria dei dati, di una loro manipolazione o strumentalizzazione e di ledere la libertà personale è molto elevato.
da sul fatto che un computer venga alimentato con molti dati campione e, usando algoritmi specifici, sia possibile estrarre da questi dati un modello matematico, sulla base delle correlazioni presenti tra i dati stessi. Una volta estratto, tale modello potrà essere utilizzato per fare delle predizioni. Il Machine Learning è, dunque, il campo dell’informatica che fornisce a un computer la capacità di “imparare” a eseguire dei task senza essere stato esplicitamente programmato.
Ma qual è il percorso che porta all’elaborazione dei dati e alla costruzione di un modello, in base al quale formulare deduzione e previsioni? E’ qui che subentra il ricorso all’Intelligenza Artificiale e al Machine Learning.
“Si pensi al proverbio rosso di sera, bel tempo si spera”, spiega Stefano Quintarelli, Imprenditore e Advisor di tecnologie informatiche, “Questo detto nasce dall’osservazione che, molto spesso, quando la sera il tramonto è rosso, il giorno successivo il tempo è bello. Però, può essere bello anche se la sera prima il tramonto non è rosso e può capitare che sia brutto, sebbene la sera precedente il cielo sia comunque rosso. Tuttavia, di norma, se la sera il tramonto è rosso, il giorno successivo è probabile che il tempo sia bello. Si spera, per l’appunto!”.
Come è noto, l’Intelligenza Artificiale simula operazioni caratteristiche dell’intelletto umano, eseguite però da computer. Queste includono la pianificazione, il riconoscimento del linguaggio, il l’identificazione di oggetti e suoni, l’ottenimento di modelli statistici dai dati (“apprendimento”) e la risoluzione dei problemi: ciò è possibile grazie all’acquisizione di input e di dati, attraverso un sistema appunto di Machine Learning. Il Machine Learning, infatti, consiste nell’acquisire dei dati, tenendo però sempre in considerazione le fonti di provenienza e la correttezza delle stesse, e da questi elaborare un modello statistico che, dopo essere stato convalidato, consenta di fare delle classificazioni e previsioni, su base algoritimica. Il principio si fon-
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Questo è un semplice esempio di come, a partire da dati osservati nella realtà, si possa ricavare un modello che consenta di effettuare predizioni con un certo grado di accuratezza e affidabilità; in questo caso notando che, generalmente, quando alla sera il cielo si colora di rosso, il giorno dopo fa bello, ci si è costruiti la regola insista nel proverbio succitato, ovvero il modello. Si tratta, perciò, di una generalizzazione, o meglio di un
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quilibrio tra efficienza ed effetti sociali è, oggi, uno dei temi di grande di attualità a fronte di un’interferenza sempre più invasiva della tecnologia nelle nostre vite. Quali sono i rischi e i benefici dell’Intelligenza Artificiale e del Machine Learning? ragionamento per induzione. Non è, però, necessario capire le ragioni delle correlazioni per determinare un modello: la regola, infatti, non conosce i meccanismi meteorologici per cui se la sera prima c’è rosso, il giorno dopo sarà bello, conosce solo la correlazione tra i due eventi. In altri termini, il modello è statistico e la regola scaturita si basa su una correlazione constatata osservando la realtà, e non sulla comprensione del meccanismo causale: la correlazione non è ‘causazione’. E’ evidente, però, che è proprio il fatto, per cui l’Intelligenza Artificiale utilizzi modelli basati su semplici correlazioni, a rappresentare il limite della stessa AI: “I dati descrivono il mondo per com’è e non per come vorremmo che fosse” spiega Quintarelli. “Se usassimo i dati per stabilire, per esempio, i salari delle persone che lavorano in grandi aziende e usassimo quel modello per stabilire lo stipendio di un nuovo assunto, non faremmo altro che sottopagare le donne, perché di fatto, nel mondo reale, queste purtroppo sono oggi retribuite meno degli uomini; per cui se adottassimo fedelmente il modello distillato dai dati, continueremmo ad applicare delle modalità discriminatorie e a cristallizzare uno
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status quo. E qui si va a toccare una componente di tipo etico che non è insista nel Machine Learning. Se, poi, a questo si aggiunge il fatto che la stessa raccolta dei dati possa avvenire in modo impreciso, possiamo immaginare come questo potrebbe pregiudicare intere categorie di persone, come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti per il rilascio di un mutuo tramite software di AI che in base a determinati algoritmi finisce per discriminare le persone di colore! Allora, se da un parte, grazie a questa tecnica è possibile delegare alla “macchina” operazioni di percezione, classificazione e predizione che con strumenti algoritmici tradizionali non erano possibili, è anche vero però che questi modelli si tirano dentro gli effetti negativi dei bias, ovvero quegli elementi pregiudiziali della società insiti all’interno dei dati raccolti in fase di osservazione/percezione. Per cui nel momento in cui andiamo a costruire una classificazione, rischiamo di elaborare un modello arbitrario e antidemocratico. Come veniamo tutelati in questa osservazione e profilazione di massa? I modelli statistici, effettivamente, potrebbero condurre a previsioni non sempre corrette, e per questo bisogna considerare che esistono sempre delle aree di incertezza e di tolleranza rispetto agli errori, una caratteristica che fornisce ai sistemi dei margini di adattamento e customizzazione.
Prendiamo l’esempio dei Social Network: può succedere che un utente venga ‘bannato’ da una piattaforma per ragioni che a lui sfuggono, solo sulla base di dati raccolti all’interno del sistema e rielaborati, da cui viene generato un modello che informa che la tale persona non può più accedere a quella determinata piattaforma. Questo, magari, può succedere perché le informazioni all’interno di un sistema possono essere state alterate, a causa di un baco del sistema stesso o da un intervento umano come, per esempio, nel caso di hacker o, semplicemente, da una predizione errata di un sistema AI. Nel caso succitato si tratta comunque di organizzazioni private le quali, seppure in modo arbitrario, possono decidere deliberatamente di depennarti o meno. Ora, se questo già rappresenta un abuso all’interno di un’organizzazione privata, in grado di provocare un forte danno a delle persone (pensiamo agli adolescenti così vulnerabili sotto questo aspetto, o alle PMI che promuovono le loro attività) immaginiamo quanto possa essere antidemocratico e illegittimo in un contesto di E-Government, in cui lo Stato ha il monopolio legale della forza, esercitata tramite il sistema giudiziario e il potere esecutivo! Non si corre il rischio di negare dei diritti alle persone, sulla base di sistemi di Intelligenza Artificiale imperscrutabili? Non esiste un pericolo oggettivo che un insieme di codici diventi paradossalmente unico legislatore? Non si rischia di essere soggetti a un sistema di controllo alterato che induca a trarre conclusioni errate? “Code is law”, dice il Prof. Lessig!
Di conseguenza, ci si pone la domanda se esistono dei meccanismi trasparenti che mettano il cittadino in condizioni di capire, in base a quali criteri lui sia abilitato a determinate funzioni oppure no; se vige un sistema di controllo di questo potere informatico, un efficace meccanismo di rimedio, e, se sì, da chi e come viene esercitato, e quale trasparenza e quale reale accountability sia possibile. Qual è, dunque, l’architettura informatica più adatta per un’infrastruttura istituzionale democratica? Non si può, certo, lasciare tutto in mano al solo potere esecutivo! Un sistema in grado di provocare alla velocità della luce pregiudizi e danni ad un cittadino o a gruppi, anche estremamente vasti, di persone non può essere lasciato nella disponibilità unica di strutture governative opache, sottoposte al controllo totale del ministro pro tempore. Sappiamo bene che le richieste di accesso agli atti funzionano in modo estremamente residuale – quando funzionano – e che persino le interrogazioni parlamentari sono uno strumento spuntato – il più delle volte vengono fornite risposte in numero limitato e, talora, non vengono fornite affatto –. Teniamo presente che i sistemi di autenticazione saranno sempre più estesi nella nostra società, l’Identità Digitale con valore legale, nei decenni a venire, sarà sempre più richiesta per accedere alle diverse piattaforme, e proprio per questo non può essere soggetta esclusivamente al controllo di un unico ministro.
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Secondo Stefano Quintarelli, che da diversi anni opera attivamente nell’ambito del trattamento dei dati personali e dell’AI e che ha proposto e seguito la implementazione dello SPID, la soluzione è in un sistema misto pubblico-privato, in cui il servizio di autenticazione viene erogato anche da fornitori privati, mettendo a disposizione una procedura di identificazione che consenta a ogni cittadino di crearsi più profili. Questi, all’occorrenza, saranno soggetti al controllo delle autorità di garanzia, dell’AgID (Agenzia di Identità Digitale) e delle autorità giudiziarie – con il sistema esistente di garanzie e di checks and balances - le quali, ove necessario, possono mettere insieme le diverse informazioni, confrontarle, incrociarle e da lì ricavare elementi oggettivi ed esaustivi sempre nell’ambito della rule of law. In questo modo, il cittadino non si confronta solo con i ministeri e il parlamento, e non deve, necessariamente, ricorrere alle richieste di accesso civico, o al FOIA (Freedom of Information Act), ma anche alla magistratura se necessario, al garante della privacy e all’AgID. “Solo così, in un sistema democratico, è possibile offrire la massima garanzia e tutela della vita umana al cittadino, il quale viene inserito in un sistema di salvaguardia, di scrutinio e di trasparenza che non è esclusivo appannaggio di un’integrazione verticale, all’interno di un unico ministero,” conclude Stefano Quintarelli.
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Cultura e Ambienti Manageriali efficaci ed efficienti per agganciare la ripresa di massimo fucci Tempo di lettura previsto: 6 min.
La Pandemia può essere considerata come una wake-up call a tutte le componenti aziendali: imprenditori, manager e collaboratori per indicare che non cambiare non è più sostenibile per se stessi, per l’azienda, per il pianeta.
Non sviluppare la cultura del cambiamento sistematico, semplicemente, non è più un’opzione. Che fare? Diverse le strade per ogni azienda. Una è trasversale: agire sul cambiamento ed implementare ambienti manageriali efficaci ed efficienti, orientati a risultati sostenibili nel tempo, basati su: Cultura, Metodo, Merito. IBE 2021
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La Pandemia è stata sicuramente un evento unico e funesto con impatti negativi su economia, aziende, stili di vita e, non ultimo, morale delle persone. Ma dietro ogni minaccia, di solito, e questa non è un’eccezione, si può nascondere un’opportunità.
Massimo Fucci, CEO di Pentaconsulting
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e aziende devono cambiare dentro, se intendono perseguire i nuovi modelli di business di sviluppo sostenibile. Ma il cambiamento deve partire dal vertice, in un contesto in cui le linee di governance siano supportate da Comunicazione, Competenza, Condivisione, Collaborazione, Controllo.
Infatti, il COVID19 ha anche funzionato da detonatore che ha fatto esplodere una realtà latente, che, molto probabilmente, non voleva essere affrontata dalle aziende. Un po’ come avviene per la gestione dei costi nascosti di ogni azienda dovuti alle non conformità, agli sfridi interni alla presenza di processi non efficaci, alle NON decisioni e chi più ne ha più ne metta. Tutti li vedono, ma nessuno li contabilizza come tali. Ma, alla fine impattano sui margini. Tante sono le aziende che, nonostante l’evidenza di molti contorni negativi, hanno continuato a operare secondo la filosofia Bertiana del fin che la barca va, lasciala andare e hanno speso per acquistare strumenti, macchinari, software etc., ma, al tempo stesso, hanno omesso di spendere per poter generare gli adeguati benefici dagli investimenti fatti. Si è preferito dare importanza al singolo esercizio fiscale nel rispetto delle regole (obsolete) di governo, rispetto ad una più congrua visione di risultato di più ampio respiro e durabilità. In particolare, non sono stati programmati (o lo sono stati in maniera insufficiente) piani di sviluppo per il management, per l’organizzazione, per le persone. Tre elementi
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cardine che a parità di condizioni di mercato costituiscono il vero elemento differenziatore, quello su cui le aziende costruiscono la propria capacità di competere. In questo modo, a poco a poco, le aziende hanno perso di competitività. E, ad un certo punto, la barca ha smesso di andare, forse per l’intervento acceleratore a gamba tesa di un imprevisto, ma sarebbe comunque finita così. A tal proposito, è palese come molte aziende hanno ancora una gestione autoreferenziale a diversi livelli e, salvo rarissimi casi, stanno facendo una certa fatica a rimanere sul mercato: tutto è cambiato nel mondo esterno: relazioni, parametri, esigenze etc., e, non di poco. Queste sono le aziende che, in risposta alla pandemia, hanno adottato il lavoro a distanza come una sostanziale replica -malriuscita di ciò che già si faceva prima. Di contro, è dimostrato che le aziende, laddove hanno puntato sulla gestione manageriale responsabile, hanno imboccato la strada corretta per la crescita e la gestione delle opportunità. Sono queste le aziende che, grazie ad un lavoro già effettuato prima, sono riuscite ad applicare il vero SMARTWORKING: ristrutturazione dei flussi, ridefinizione della comunicazione e la salvaguardia dei percorsi di crescita. Un nuovo modo di operare che salvaguardia aziende e persone. Quindi, che fare? La risposta è necessariamente articolata e andrebbe personalizzata per ogni azienda, ma vi sono una serie di fondamentali
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assolutamente trasversali a cui poter fare riferimento e riflettere, per imboccare la strada del cambiamento, indipendentemente dal mercato e dalle dimensioni dell’azienda. Infatti, Il pericolo maggiore in tempi di turbolenza non è la turbolenza in sé stessa, ma il tentativo di affrontarla con la logica del passato (nda Peter Drucker): una risposta incrementale ad un evento così disruptive non è più sufficiente: le aziende debbono cambiare dentro, se intendono perseguire i nuovi modelli di business di sviluppo sostenibile. Il cambiamento parte dal vertice della catena decisionale. Per aziende medio grandi, focalizziamo la nostra attenzione su di un organo apicale come, ad esempio, il CDA. Una regia, un controllo che nella maggior parte dei casi si limita a ratificare quanto occorso. Forse se si riuscisse a dare ai componenti del CDA la dignità che meritano con funzioni di stimolo, controllo, aiuto! Domandiamoci, se nel CDA della nostra Azienda ci sono persone con competenze sulla gestione del rischio, la digitalizzazione, la sicurezza, l’internazionalizzazione, la sostenibilità, le implicazioni della 231 etc. (NB siamo nelle more del codice penale)! Ciascuno, guardando la propria realtà, può farlo meglio di me, trarne le dovute conclusioni e comprendere quali siano le azioni correttive. Certo si distruggono equilibri, ma ne vanno generati altri. Se consideriamo le PMI senza CDA, va assolutamente evidenziato -con
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buona pace per gli imprenditori - che il tempo del cosiddetto ‘one man band’ è assolutamente terminato e va considerato trapassato remoto che, se non superato, è in grado di far trapassare l’azienda! Certo la massima responsabilità di un’azienda rimane in capo alla proprietà ma se non si è in grado di costruire una cultura, una squadra, un ambiente manageriale efficace ed efficiente difficilmente si potrà affrontare la dinamica del cambiamento che impone tempi di risposta sempre più brevi e conoscenze articolate per operare in un contesto sempre più complesso e interconnesso. La risposta sta nell’implementazione di un ambiente manageriale efficace ed efficiente: un contesto in cui siano definite e chiare alcune linee di governance che devono essere supportate da: Comunicazione, Competenza, Condivisione, Collaborazione, Controllo. Un ambiente in cui non si può prescindere dalla definizione - per ogni manager- del dominio in cui questo deve operare in piena autonomia, nel rispetto dell’etica e degli obiettivi assegnati. Molti potranno esclamare che è un’affermazione lapalissiana. Bene, pensiamo a ciò che accade nelle nostre aziende e poniamoci una serie di domande: sono definite le posizioni e il ruolo del management? Sono chiari e condivisi gli obiettivi? La comunicazione all’interno all’azienda è chiara e strutturata? Quanto siamo allenati ad operare secondo il ciclo del valore (generare, traferire, capita-
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lizzare)? Abbiamo in essere un sistema di valutazione oggettivo collegato al sistema premiante? Competenze e responsabilità fanno scopa tra di loro? Diamoci le risposte del caso e riflettiamo: questo ci indicherà una serie di strade da percorrere. L’attivazione di un ambiente manageriale efficace ed efficiente va considerato come un reale fattore critico di successo, sul quale costruire il percorso di cambiamento orientato a risultati sostenibili nel tempo. Se non si fa leverage su un’intelligenza collettiva responsabile ed orientata, rimanere ad operare nel mercato sarà sempre più difficoltoso. In questo ambito conoscenza, competenza e motivazione fanno sì che i dipendenti diventino i facilitatori delle Operation e del raggiungimento dei risultati. Particolare attenzione va rivolta alle “competenze soft” in cui l’orientamento alla persona rimane una pietra miliare da cui non si può prescindere. In pratica, la messa in opera di ambienti manageriali efficaci ed efficienti necessitano di almeno due elementi. In primis, un forte convincimento da parte di chi decide in azienda che il cambiamento sarà l’unica condizione stabile e ne capisca l’immenso potenziale, magari facendo un piccolo passo indietro il quale, allo stesso momento, si traduce in un grande balzo in avanti nella capacità di competere della propria azienda. A seguire, altrettanto importante, rimane l’adozione di un METODO che funge da elemento catalizzatore, in grado di oggettivare (la posta in gioco
sviluppo contenuti
sviluppo/ realizzazione prodotti
sviluppo comunicazione
mappe mentali MIND UP
sviluppo marketing & vendite
sviluppo team
sviluppo management IL METODO MINDUP basato sulle mappe mentali: Atlante di impiego in azienda
non è chi ha ragione, ma cosa porta al miglior risultato, rispetto ad un obiettivo) e quindi di sfrondare/abbattere i filtri soggettivi dovuti a carattere e relazione.
Un METODO che consenta di definire e misurare obiettivi in maniera oggettiva e che sia la pietra miliare del Sistema di Valutazione e del Sistema Premiante.
Un METODO che consenta di coinvolgere, descrivere, pianificare, comunicare, gestire, misurare e prendere decisioni. Un METODO, accessibile a tutti, che fornisca auto responsabilizzazione (autocritica) e supporti lo sviluppo di una collaborazione orientata ai risultati nelle tre dimensioni, ossia nei confronti del responsabile, dei pares, dei collaboratori.
Ancora una volta si risponde al cambiamento… cambiando ed operando sulla cultura e su come si sviluppano le Operation.
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Certo un impegno superiore a quanto richiesto per acquistare, ma con risultati di medio e lungo periodo.
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Smart working? Smart warning! di marco Maiocchi Tempo di lettura previsto: 6 min.
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Marco Maiocchi, socio e fondatore di Opdipo
Il cambiamento
L’importanza della domanda
Tutti noi, nell’arco della nostra vita, abbiamo sperimentato l’occorrenza di qualche evento “eccezionale”, cioè di una situazione a cui non eravamo preparati. A tali eventi abbiamo risposto con reazioni che tendevano a riportare le condizioni al contorno su una strada di “normalità”.
A fronte di un evento che ci coglie impreparati, come quello della pandemia, cerchiamo risposte a una domanda che non ci poniamo come tale, ma che costituisce una risposta precostituita: eravamo nella situazione corretta. La domanda diventa allora: come tornare allo status quo?
Ovviamente, ambedue i termini eccezionale e normalità sono privi si oggettività: eccezionale vuol dire che non eravamo in grado di prevedere, e per normalità intendiamo che permettesse di non cambiare il nostro comportamento.
Ma l’evento eccezionale che ci ha strappato “momentaneamente” dalla normalità, e che ora ci vedrebbe più consapevoli, e conseguentemente più preparati, non sarà il prossimo cigno nero: altro si presenterà, cogliendoci ancora impreparati. Allora, è opportuno porci altre domande, più basilari: quali organizzazioni abbiamo costruito, che ci hanno reso così fragili? Quali elementi nuovi e imponderabili ci hanno portato lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione? In altre parole: quale società vorremmo progettare per il nostro futuro?
In realtà gli eventi eccezionali sono la norma (basti pensare alle mutazioni del DNA, ai comportamenti caotici che governano gran parte dei fenomeni fisici, dall’ebollizione dell’acqua per il the, all’acquazzone che ci sorprende senza ombrello, agli andamenti borsistici, e così via), ma noi tendiamo a dimenticarli rapidamente, cercando certezze in una stabilità ingiustificata. Allora tendiamo ad autoingannarci, anche attraverso un sapiente (o scriteriato) uso delle parole. Ad esempio, la recente (o attuale) pandemia ci ha fatto coniare il termine di smart working, locuzione inglese inesistente e di dubbia interpretazione (visto che l’etimologia di smart è la stessa del tedesco Schmerz, dolore, e che tale è sovente il significato con cui un inglese usa quell’aggettivo), intesa in genere come soluzione intelligente, invece che come dolorosa costrizione.
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La cultura corrente Domande troppo difficili. Più facile un comportamento acquiescente che si basi su paradigmi facili da non discutere: studiare per lavorare, lavorare per guadagnare, guadagnare per consumare. In fondo, la storia dell’umanità è stato un continuo aumento della ricchezza prodotta, che ci ha allungato l’aspettativa di vita e il “benessere”. Il futuro che oggi impariamo di dover desiderare è scritto nei primi livelli della piramide di Maslow: vogliamo non avere alcun problema
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fronte di un evento che ci coglie impreparati, come la pandemia, è opportuno porsi alcune domande: cosa abbiamo costruito che ci ha reso così fragili? Quali elementi nuovi e imponderabili hanno portato lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione? Quale società vorremmo per il nostro futuro?
di sopravvivenza fisiologica, vogliamo non avere problemi di sicurezza, vogliamo essere apprezzati dagli altri (magari anche solo perché ci vedono in televisione o perché abbiamo un costoso orologio al polso); per l’autorealizzazione… c’è tempo. Spesso, parlando con ventenni, sento dire che “il rap è la vera musica democratica, perché è comprensibile da tutti”. Cioè, democrazia è fornire a tutti i livelli più beceri del sapere, senza occuparsi di qualunque “crescita”. Qualcuno grida alla decrescita, ma non c’è un solo governo che non pensi alla crescita del PIL (anche se questa misura la ricchezza prodotta, ma non indica se e come questa venga distribuita tra le tasche dei vari cittadini). La complessità E allora torniamo alla complessità e al caos. La scienza ci insegna che il caos regola la maggior parte dei comportamenti che osserviamo, e che caos non vuol dire confusione, anzi. Caos è incapacità di prevedere, è consapevolezza che differenze infinitesime nelle condizioni di partenza possono determinare distanze colossali nelle condizioni d’arrivo. Complessità è interrelazione fra tutte le cose che osserviamo, tra i fenomeni della finanza e quelli del lavoro, quelli della salute, delle amicizie, delle infrastrutture tecnologiche. Complessità è ciò che fa sì che la ricchezza mondiale aumenti, che il numero di ricchi diminuisca e quello dei poveri aumenti. Complessità è ciò che mette in contatto tutte le borse del mondo, così che un evento
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anomalo in una di esse si ripercuota su tutte le altre. Complessità è ‘aumento di interconnessioni tra le infrastrutture che ne determina l’imprevedibilità di comportamenti (basterebbe osservare l’aumento della frequenza dei black out nelle reti elettriche dei paesi sviluppati, negli ultimi cinquant’anni: a dispetto dei miglioramenti tecnologici e dell’attenzione alla sicurezza, le crescenti interconnessioni hanno fatto sì che anche la semplice caduta di un albero in Svizzera determini un blackout in gran parte dell’Italia per ore e ore, come è successo nel 2003; di più. I blackout che esponevano a danni qualche centinaio di migliaia di persone negli anni ’60, sono in grado di impattare su centinaia di milioni di persone oggi, come è successo in India nel 2012; blackout non vuol dire banalmente assenza di luce, vuol dire niente trasporti, niente ospedali, niente banche, …). Il rischio Il rischio di un acrobata che cammina sul filo è quello di cadere. Allo scopo, il funambolo si dota di un’asta che lo aiuti a mantenere l’equilibrio, e di una rete di sicurezza. E si assume il rischio. Se leggiamo i giornali, nelle pagine di politica, economia, finanza, e non solo, è raro trovare qualcuno che si assuma rischi. Quando l’evento catastrofico occorrerà, sarò colpa del caso, e non ci saranno colpevoli. Ma senza qualcuno che si assume rischi, cioè che prende decisioni consapevoli, la catastrofe travolgerà, perché
della rete sia nei social media sia nella “cultura delle piattaforme”. Quindi, insisto sempre, più che sulle strade di tecnologie e modelli, sulla necessità di miglioramento della “tecnologia basilare”: l’uomo. Dobbiamo costruire una scuola che insegni a pensare, prima ancora che a imparare una professione. nessuno sarà preparato all’evento. Ciò di cui c’è scarsità oggi è di persone lucide, con capacità critica, con coraggio, che prendano decisioni ponderate e consapevoli. La responsabilità In questi convegni vengono spesso mostrate le strade che, attraverso tecnologie e modelli di comportamento, permettano sviluppo, crescita, benessere; insomma, un futuro migliore. Sono convinto che tutto ciò, assolutamente fondamentale, abbia bisogno alle spalle persone di grande capacità critica e di pensiero. Sono pure convinto, ahimè, che non sia questa la situazione attuale, in cui i modelli valoriali sono forniti da una visione alla Robinson Crusoe (devo cavarmela, devo costruire le mie difese, devo uccidere il nemico, sottomettere il debole, accumulare oro), derivante da una residuale cultura puritana del mercante inglese e corroborata e spinta da televisioni commerciali (apparire, avere successo in breve tempo e con alti ritorni, consumare per mostrare la potenza, ecc.) e, soprattutto, dai meccanismi
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Dobbiamo costruire imprese che si ispirino a una visione complessiva del loro ruolo sociale, e non all’aumento del valore in borsa, o all’ultima riga del bilancio del prossimo trimestre. Dobbiamo costruire consumatori consapevoli, non solo per un consumo equo e sostenibile, ma soprattutto per un benessere personale, che non abbia a che fare con l’immagine da fornire agli altri. Dobbiamo costruire una classe politica capace di prendersi responsabilità e prendere decisioni consone con uno sviluppo orientato ai tre punti precedenti. Purtroppo, la classe politica e quella imprenditoriale dipendono da una classe sociale di consumatori e dalle scuole che oggi sfornano individui di ben diversa statura. Ma se ci mettiamo all’opera, entro una generazione potremo forse costruire scuole che sfornino educatori eccellenti, cosicché si passa avere, tra due generazioni, una classe di consumatori e di imprenditori che cambino il tessuto valoriale, abilitando, tra tre generazioni la costruzione di un’eccellente classe politica. Signori, diamoci da fare!
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Ciao Umberto, non ho un altro incipit. Ripescare nei ricordi di tutto il cammino fatto insieme è arduo per volume ed emozioni che inevitabilmente irrompono dentro di me. Ci siamo conosciuti a Disegno di Macchine (per i cultori del Politecnico la ex Nave) era il 1976 e si parlava di argomenti di computer grafica, era il momento in cui tu e Piero Mussio (un altro grande che ci ha lasciato troppo presto) volevate dimostrare che il processo di generazione e quello di riconoscimento delle forme grafiche avessero più di un punto in comune. Ero un giovane iscritto a Fisica -quasi imberbe… rimasi affascinato da tanta concretezza e decisi di seguire il filone della computer graphics fino a generarne una tesi nel 1979, in cui tu hai fatto la parte del RELATORE. Un’esperienza unica di conoscenza culminata nell’organizzazione del mitico EUROGRAPHICS 79 a Bologna. Il primo evento in Italia in cui con una macchina Polaroid (in comodato) si producevano i badge con tanto di fotografia, in tempo reale. Ricordo il tuo commento “serve a certificare le facce da Pirla”. L’ultima sera, ricordi, per ringraziarci per il mazzo che ci eravamo fatti, siamo andati dal mitico Arnaldo, la clinica gastronomica di Rubiera. Da allora per 44 anni abbiamo sempre collaborato fino a quando da lassù ce lo hanno consentito con l’obiettivo di far capire alle aziende quanto fosse importante utilizzare le
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nuove tecnologie a supporto dei modelli di business per impedire che il paese -come tu spesso affermavi- diventasse un terzo mondo. Per ottenere risultati in questa direzione, ci siamo inventati le più disparate formule di divulgazione: convegni, tavole rotonde, meeting con associazioni industriali, cene con gli industriali… Ogni volta ci incontravamo e pignoli come pochi cercavamo cosa migliorare. Mi ricordo quando si parlava di generare qualcosa di nuovo e tu affermasti: “dobbiamo scaravoltare, mettiamo la cultura al centro e a lato gli abilitatori, è tempo che le aziende lo capiscano. Così nacque l’avventura Industry Big Event (IBE). Non posso citare 44 anni di strada fatta insieme, ma voglio affermare ancora due cose la tua dignità e serenità nel dirmi: ”Massimo la mia agenda è sempre più stretta” e non ultimo il tuo sorriso e “sono stato fortunato di aver incontrato una persona come te” parole dette alla presenza delle figlie Marta e Margherita prima che io uscissi dalla loro abitazione. Conoscendo quanto fosse orso, compresi che eravamo arrivati al capolinea. Cosi è stato. Grazie Umberto sei stato per me un secondo padre (lo sai te lo ho detto più volte) Un abbraccio Massimo PS. scusa le lacrime, ma non sono riuscito a trattenerle
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Erano gli inizi degli anni ’80. Progetto Finalizzato “Informatica” del C.N.R. Tu nel CAD/CAM, io con i metodi. Due settori limitrofi eppure lontani. Ma ci siamo intesi subito. Non disciplinarmente, ma su una visione del mondo. Ho subito apprezzato la tua consapevolezza, la tua onestà, la tua competenza, la tua passione, e, soprattutto, la tua curiosità. Come dovrebbe essere un vero Maestro in un’università. Da allora abbiamo fatto un percorso di quarant’anni, senza mai una stretta collaborazione, ma sempre in continuo dialogo, mai perdendosi di vista. E così da te ho imparato tante cose, dai vantaggi dell’additive manufacturing, alle tecniche di trasformazione delle curve meccaniche in suono per una valutazione delle imperfezioni, ai gemelli digitali per anticipare soluzioni progettuali, alla scelta dei “culatelli di centro”, alla degustazione di olii d’oliva. La tua competenza disciplinare è sempre stata immensa, ma quello che io ricordo con più piacere e affetto sono i gruppi di lavoro quasi paradossali che abbiamo organizzato insieme, da Adesso pasta! (per la progettazione di nuovi formati di pasta dedotti sulla base di principi di emotional design) a Libertà va cercando ch’è sì cara… (con gli amici d’Abruzzo, ove mirabilmente presentavi i problemi etici della libertà basandoti sull’assunto di vincoli che danno le giuste libertà, come i cardini di una porta). Grande Maestro. Anche nei momenti più difficili. Consapevolezza, serenità per te e preoccupazione per gli altri. Sei stato e resterai sempre un grande uomo! Grazie di tutto quello che mi hai dato, e che mi hai insegnato, anche solo con l’esempio. MARCO MAIOCCHI
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Il mio primo ricordo di Umberto risale a quando l’ho conosciuto, alla fine degli anni ’80. Dovevo scegliere il mio ultimo esame prima di iniziare la tesi di Laurea; il gruppo di amici con cui studiavo decise per informatica grafica, ed io, che non avevo particolari preferenze, avendo già dato gli esami che mi interessavano maggiormente, mi accodai.
Il titolare del corso era il Prof. Valle, con cui Umberto collaborava; quindi, mi ritrovai a svolgere la tesina in via Ampère, nei laboratori del CNR, dove Umberto era direttore del Progetto Finalizzato Robotica. A quel tempo non sapevo ancora che quella decisione, presa in maniera del tutto casuale, avrebbe indirizzato la mia vita. Dopo la tesina venne la tesi, poi le borse di studio, l’esperienza in Giappone ed infine il dottorato a Parma, dove nel frattempo Umberto si era trasferito. Il filo conduttore è sempre stato Um-
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berto, insieme a tutti i colleghi ed amici che lavoravano nel suo gruppo. L’entusiasmo e la visione di Umberto hanno fatto sì che il lavoro nel suo gruppo fosse sempre stimolante ed eccitante; c’era sempre qualche cosa di nuovo da imparare e con cui misurarsi. Non so cosa avrei scelto di fare nella vita se non avessi avuto l’opportunità di intraprendere la carriera universitaria; so con certezza che se non avessi incontrato Umberto, la mia strada sarebbe stata un’altra. FERRUCCIO Mandorli
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Ho conosciuto Umberto nel 1989. Lui era Professore Ordinario al Politecnico di Milano, Direttore del Progetto Finalizzato Robotica nella sede del CNR di via Ampere e tante altre cose ed io… un nessuno, studente di Scienze dell’Informazione, che iniziava la tesi sulla modellazione solida, argomento che stava emergendo proprio in quegli anni. Un giorno Umberto entra in laboratorio con un signore e mi fa “Stefano, ti presento Charles, diamo un’occhiata a quel che sta sviluppando e vediamo se riusciamo a dargli una mano”. Charles era… Charles Lang, e “quel che stava sviluppando” e su cui “vedevamo se riuscivamo a dargli una mano”… era il Test Harness ACIS, embrione di quel che sarebbe diventato di lì a poco Solid Edge, il pacchetto software CAD usato ancora oggi in tutto il mondo. Qualche mese dopo ho accompagnato Umberto ad una conferenza negli Stati Uniti, proprio nel momento in cui, nella tesi, stavo affrontando gli operatori di Eulero e la struttura dati “halfedge” per la codifica dei modelli CAD, struttura sviluppata dal Prof. Mantyla, uno dei pionieri nel settore. Durante un coffee break Umberto saluta cordialmente una persona e poi, rivolgendosi a me, dice “Stefano, magari potresti aver bisogno di chiedere qualcosa a Martti”. Martti era, “semplicemente”… Martti Mantyla.
per sei mesi nel laboratorio diretto dal Prof. Kimura. Al di là di questi tre aneddoti, non si contano le persone che ho conosciuto grazie ad Umberto, i luoghi che ho visitato, le esperienze di altissimo livello che ho vissuto in prima persona lavorando in un gruppo di ricerca affiatato, eterogeneo e variegato che solo le persone come Umberto sono in grado di creare. Umberto anteponeva alle sue indubbie qualità e potenzialità la voglia di condividere, di offrire occasioni di crescita, di creare opportunità in maniera disinteressata ed incondizionata. Umberto è stato tutto questo per me. Senza i suoi insegnamenti e senza le opportunità che mi ha offerto le cose sarebbero andate diversamente e non sarei all’Università di Udine, considerandolo un modello e cercando di onorarne la memoria con il mio impegno quotidiano nella ricerca e nella didattica. Stefano Filippi Prof. Ordinario di Disegno e Metodi dell’Ingegneria Industriale
Trascorso un anno, all’inizio del mio dottorato, un sabato mattina, di ritorno dal Parco Forlanini dove andava a fare jogging per tenersi in forma, Umberto passa in laboratorio in tuta e asciugamano al collo e, tutto sudato e in debito d’ossigeno, butta lì un estemporaneo “perché’ non vai un po’ da Fumihiko? Sta sviluppando le cose che stai affrontando anche tu e potrebbe essere interessante”. Qualche settimana dopo ero all’Università di Tokyo, la più prestigiosa del Giappone, ospite
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É strano pensare di raccogliere dei pensieri su Umberto Cugini, o meglio è strano pensare al fatto che Umberto non è più raggiungibile, lui che era sempre disponibile ad una chiamata, ad un confronto, ad una sfida, … Come spesso accade, si rischia di dare per scontato un rapporto che scontato non è.
Il primo incontro è illuminante. Si intuisce che non è il classico corso sin dall’introduzione, dalla definizione di calcolatore: qualcosa di simile ad un frigorifero (CPU) e una lavatrice (disco), si tratta cioè di un “Try & Learn”, dell’informatica spiegata ai meccanici e finalizzata all’obiettivo.
È così che si susseguono diverse esperienze di collaborazione Università-Azienda, ospitando tesisti, ipotizzando qualche soluzione innovativa e sperimentando nuove tecnologie. Ed anche scontrandosi con le inerzie non solo dell’università, ma anche del mondo aziendale.
Si tratta di un rapporto che è nato tanti anni fa e che è evoluto nel tempo. Già da studente del primo anno del Politecnico ho avuto occasione di incontrarlo come professore e sin dall’inizio ho intuito qualcosa di particolare, un modo di insegnare una materia apparentemente banale, o almeno non blasonata come altre, in un modo che allora non sapevo definire, ma che appariva comunque “diverso” dal solito. La vera conoscenza inizia però tre anni dopo, in modo casuale. Mi iscrivo ad un corso CAD; non fa parte del piano di studi, ma la presentazione sembra interessante.
nuove metodologie (IDEF: quasi ignoto a quei tempi!), e continuare poi nell’esperienza professionale. Il rapporto evolveva nel tempo in modo naturale, ti faceva sempre sentire “all’altezza”, anche se sapevi che ogni opportunità di incontro era arricchente, e non solo professionalmente.
Inizio a capire lo stile “Cugini”, non c’è il docente, ma la convergenza multidisciplinare e la collaborazione alla base dell’insegnamento, non c’è chi è sulla cattedra e chi ascolta, ma uno scambio continuo arricchito da esperienze diverse: università, fornitori di tecnologie, aziende. Diventa quindi naturale sviluppare la tesi nello stesso ambito e approcciare
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Mi pare che una sua frase, al termine di un’intervista di qualche anno fa, sintetizzi molto bene lo spirito che animava la sua azione: “nonostante tutto, continuo a fare ricerca in Italia”. Mi mancheranno le chiacchierate, gli spunti e la sua “vision”, ma rimangono non solo il ricordo, ma anche lo stile e il metodo. Grazie, Marco COLOMBO
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Umberto Cugini lascia un enorme vuoto nella comunità politecnica ed in tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e lavorare insieme a lui. Ho conosciuto Umberto nel 2003, quando è stato nominato Presidente del Consorzio Politecnico Innovazione. Ricordo che fu presentato a tutti noi, allora giovani project manager del trasferimento tecnologico, come “uno che sa costruire importanti progetti europei e che già in passato è stato in grado di sviluppare reti di ricerca industriale di rilevanza internazionale”. Negli anni successivi, ho avuto modo di conoscere meglio Umberto, collaborando con lui a costruire il Centro per l’Innovazione Sistematica, di cui era orgoglioso e attivo Presidente, e ad organizzare con Massimo Fucci il tradizionale convegno annuale sulle innovazioni disruptive nelle imprese italiane. In Fondazione Politecnico di Milano è stato consigliere di amministrazione nel primo mandato dopo la costituzione della Fondazione, il suo contributo è sempre stato teso a costruire iniziative, in modo proattivo e competente come era nello spirito visionario di un docente universitario che voleva calare nel mondo esterno all’università i risultati delle sue ricerche
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in tutte le possibili applicazioni che potessero migliorare i sistemi di produzione. Ricordo Umberto far parte di una missione in India nel 2004 della Fondazione, insieme ad altri enti lombardi, per cercare di costruire alleanze per un progetto sul tessile Negli ultimi anni, Umberto veniva periodicamente a trovarmi, per approfondire possibili iniziative del Centro per l’Innovazione Sistematica. Mi stupiva ogni volta per sua la cortesia, quasi timidezza, con la quale tutte le volte compariva davanti al mio ufficio, spesso di primo mattino, chiedendomi prima se disturbasse, (caratteristica abbastanza rara per docenti del suo livello) e tutte le volte mi dicevo che già solo per questa cosa, meritasse grande rispetto. Penso che quando viene a mancare una persona così, con cui lavoriamo a stretto contatto, ancora più del dolore, è il senso di vuoto che ci lascia, che ci rende sgomenti. Il senso di vuoto di quello che sappiamo è destinato a non tornare più. E questo senso di vuoto è però in parte bilanciato da quello che persone come Umberto ci hanno lasciato e che hanno portato noi ad essere quello che siamo, nel nostro modo di lavorare e di essere. Questa eredità, che ci ha lasciato e che portiamo avanti, è quello che permette a Maestri come Umberto di essere ricordati per sempre. Eugenio GATTI
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Ricordo la prima volta che incontrai Umberto nel settembre del 1985. Mi ero laureata da poco in Fisica e Umberto stava cercando giovani laureate o laureati per due borse di studio nell’ambito del Progetto Finalizzato Tecnologie Meccaniche – CADME. Io e la mia amica eravamo state presentate da Piero Mussio, nostro correlatore di tesi e amico di Umberto. Dopo averci descritto l’attività di ricerca concluse dicendo: “guardate che qui si lavora”; io, da buona bergamasca, lo guardai perplessa e gli dissi che mi sembrava ovvio e che lo davo per scontato. Dopo un primo anno di prova per entrambi, gli dissi che mi sarebbe piaciuto continuare a lavorare con lui e il suo gruppo di ricerca e da allora abbiamo collaborato per più di 30 anni, anche quando eravamo in Atenei diversi. Un gruppo di ricerca già allora multidisciplinare: laureati in fisica, in matematica, in informatica, in ingegneria mecca-
nica e architetti che lavoravano insieme. Quando eravamo alla Nave del Poli e poi all’IMU (Istituto di Macchine Utensili) del CNR, venivano visitatori dal mondo accademico e dal mondo industriale per vedere il suo laboratorio e le applicazioni che sviluppavamo: lui presentava le attività di ricerca e noi facevamo le demo. Era così bravo a spiegare che alla fine di ogni visita ci guardavamo e dicevamo: però che belle cose che facciamo!
stessa ora: io perché mi dimentico di averne già fissato uno, lui perché sosteneva che qualcuno sarebbe “saltato” e, se necessario, saremmo andate noi. Era un visionario ed è stato un pioniere della computer graphics e del computer aided design, specialmente in Italia. Ha promosso numerosi filoni di ricerca innovativi precorrendo i tempi, tra i quali i sistemi CAD parametrici, feature-based e knowledge-based, la modellazione physics-based, l’interazione uomomacchina, la prototipazione virtuale, la realtà virtuale ed aumentata, ed i dispositivi tattili sempre con un approccio centrato sul problema e sull’utente.
Ricordo i primi viaggi in Europa per i progetti finanziati dalla Comunità Europea, fu uno dei primi a partecipare ai bandi dei primi programmi quadro, e, in seguito in tutte le parti del mondo per presentare i nostri lavori in numerosi convegni.
Era una persona con una forte personalità e senso dell’umorismo che non dimenticherò mai ed ancora oggi quando vado al Poli in Bovisa mi viene naturale passare dal suo ufficio per salutarlo e chiedergli se viene a pranzo con noi.
Ho imparato moltissimo da lui, anche a fissare più appuntamenti alla
Caterina RIZZI
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Si intitola “How to represent design rules in a parametric CAD system” ed è il mio primo lavoro scientifico, con coautori Umberto e “Meca” Ferretti, una laureata in Informatica che a quei tempi lavorava nel gruppo di Umberto con me e Franco Folini sul CAD parametrico. L’articolo lo presentò Umberto, all’International GI-IFIP Symposium ’89, che si tenne al Production Technology Centre di Berlino, nei giorni tra l’8 e il 10 Novembre del 1989. C’ero anch’io, perché Umberto aveva organizzato una demo del CAD parametrico che stavamo sviluppando, che si chiamava GIPS (Graphic Interactive Parametric System), per Jean Marc Brun, uno degli sviluppatori di Euclid, e io avevo il ruolo di dimostratore. È il mio primo articolo e fu il mio primo convegno, all’estero per di più; il ricordo è vivo, anche perché il 9 Novembre 1989 è una data storica, quella sera infatti cadde il Muro di Berlino. Eravamo arrivati nella tarda mattinata, Umberto e io, in aereo, da Milano via Francoforte; nel pomeriggio Umberto aveva presentato l’articolo, poi aveva parlato con un po’ di gente, la demo era prevista la mattina seguente. Eravamo andati in taxi all’albergo, lo Steigenberger Berlin in Los-Angeles-Platz, a quattro passi dalla Kaiser Wilhelm Memorial Church in Breitscheidplatz, il centro di Berlino Ovest. A colazione Umberto mi disse che avevano aperto il muro, l’aveva sentito al tg inglese; riuscimmo ad andare in taxi al convegno con difficoltà, perché nelle vie centrali si era riversata una folla incredibile. Tant’è che dovetti rientrare a piedi all’albergo, perché non circolavano più bus e taxi.
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A Umberto davo del Lei allora e ho continuato a dargli del Lei per tanti anni, non lo chiamavo per nome proprio ma solo con il titolo: Professore. Non ero intimidito ma rispettoso, e per questo formale, era il mio relatore di tesi e c’era una specie di muro di rispetto da me a lui. Per trent’anni abbiamo collaborato o almeno lavorato nello stesso posto, prima a Parma, poi a Milano; negli ultimi anni parlavamo parecchio, tutti i giorni, dei corsi, del Poli, di cosa succedeva nel mondo, anche delle cose personali, poco di queste ultime, perché nessuno dei due era loquace sul tema. Umberto andava regolarmente ai convegni internazionali, in USA, in Giappone, dove valeva la pena andare, per sentire le novità nel modo della ricerca e parlare con la gente che si occupava di ricerca. Era critico e con lo sguardo sempre avanti; ha lavorato nel mondo della Computer Graphics, del CAD, delle GUI, della Robotica, della Virtual Reality, dei dispositivi tattili, dell’interazione uomo-macchina. Sempre temi nuovi, sempre prima di tanti altri. Potrei dire ancora tante altre cose di Lui ma la cosa più importante, per me, è che non sarei come sono se non lo avessi incontrato, ormai trentacinque anni fa, nel suo ufficio alla Nave, per chiedergli con un compagno di corso una tesi sul CAD, e di questo non potrò mai dimenticarmi. Giorgio colombo
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