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Anno I n. 0 - supplemento a www.newsimpresa.it diffusione gratuita Rivista di Economia, Mercati, Tecnologie, Management e Formazione
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Smart Working,
opportunitĂ o emergenza?
gennaio | duemilaventuno
We believe in change
Presto online il nuovo sito MindUp Pentaconsulting
www.pentaconsulting.it I percorsi ABC della crescita aziendale Pentaconsulting Srl Piazza Caiazzo, 2 - 20124 Milano Tel. 02 39523808 pentaconsulting@pentaconsulting.it
Edittoriale Ancora una volta controcorrente, ancora una volta… anticipatori, fautori del cambiamento… Si, sembrava ieri quando al tribunale di Milano, per primi, abbiamo depositato una testata on line con supplemento cartaceo. Un magazine digito cartaceo -mai visto- che rappresentava una svolta, un punto di non ritorno.
Dopo una decina d’anni eccoci ad un’altra svolta: nasce MindUP! Un Magazine multidimensionale rivolto a chi intende riflettere e, perché no, per approfondire. Un prodotto editoriale basato sul contenuto e su una modalità di diffusione multicanale e multimediale, non sugli inserzionisti. Un’altra scelta coraggiosa che svincola i contenuti dalla logica di mercato in auge alla data… un modello che d’altronde, siamo sinceri, non ha generato risultati molto soddisfacenti in nessuno dei componenti degli attori in scena: inserzionista, editore, lettore. Alcune cose verranno svelate cammin facendo... altre, come ad esempio la redazione giovane in grado di diffondere i contenuti del Magazine su tutti i canali digitali, social compresi… sono una realtà sulla quale costruire da subito un rapporto di tipo diverso. Un’iniziativa nuova che si palesa 4 volte l’anno sotto forma di magazine sfogliabile on line, ma che vi accompagnerà ogni settimana sui canali digitali mettendo a disposizione pillole, contenuti e post! massimo fucci Direttore Responsabile
Il viaggio è iniziato, accomodatevi: buon MindUP a tutti.
massimo.fucci@pentaconsulting.it
Massimo Fucci
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Edittoriale
Coronavirus e smartworking. Ogni problema nasconde un’opportunità
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InnovationLab
06 Smart Working opportunità o emergenza? 11 Le opportunità da non perdere
Trasformazione digitale come cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio
Editore Pentaconsulting Srl Piazza Caiazzo, 2 - 20124 Milano Tel. 02 39523808 pentaconsulting@pentaconsulting.it
Direttore Responsabile
Massimo Fucci massimo.fucci@pentaconsulting.it
Content Manager
Piero Macrì piero.macri@pentaconsulting.it
Progetto Grafico
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mcquadro studio creativo campanagrafica@gmail.com
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n. 01 gennaio 2021 - anno I supplemento a www.newsimpresa.it diffusione gratuita
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Punti di Svista
TechEconomy
TechFocus
Covid-19, l’inizio di un’era antifragile?
Supply Chain, come risolvere l’interdipendenza di un mondo globalizzato?
Smart Factory, da piattaforma di prodotto a piattaforma di servizio.
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SmartWorking
Il workplace digitale in uno scenario di lavoro distribuito
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TechTalks
MindUpFormazione Mappe Mentali per gestire la complessità dei dipartimenti di Information Technology
Robotica. Il cuore pulsante della fabbrica digitale Cerca i link clicca e approfondisci gli argomentii
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Smart Working opportunitĂ o emergenza? di Piero MacrĂŹ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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Lo Smart Working può essere vantaggioso e positivo a patto che vi sia un’organizzazione disponibile a introdurre i cambiamenti necessari perché il lavoro possa essere realmente distribuito, di nome e di fatto.
Significa affrontare questioni che riguardano automomia, indipendenza, fiducia, flessibilità. Se non si affrontano e si risolvono questi aspetti il rischio è essere travolti dalla sindrome del criceto. Stai lì dentro alla ruota, corri, corri, corri, perché la ruota si muove e perché fermo non sai stare, o perché ti hanno detto di fare così, o ancora perché non sapresti fare altro che quello: correre senza pensare che stai facendo solo quello!
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Nell’accezione comune smart working corrisponde al lavoro a distanza o agile. In una dimensione aziendale lo si può configurare come un rapporto di lavoro tra azienda e dipendente - concordato su base volontaria e all’interno di uno specifico quadro normativo oppure come modalità di lavo-
’adozione dello smart working non potrà MAI rivelarsi efficace se non esiste da parte dell'azienda un’apertura verso il cambiamento. Non parliamo, solo e soltanto, di predisporre l’infrastruttura tecnologica necessaria. Quello che deve esistere è innanzitutto un ambiente organizzativo in cui le persone possano avere un proprio spazio di autonomia, operativa e decisionale.
ro che intercorre tra azienda e collaboratore, sia esso lavoratore autonomo o professionista. Va da sé che nell’uno e nell’altro caso valgono regole diverse in funzione di un vincolo di lavoro subordinato. Per comprendere le implicazioni che comporta l’adozione dello smart working è utile fare una prima considerazione ovvero che per la maggior parte delle aziende la sua
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introduzione significa la gestione di un’organizzazione del lavoro distribuita, off e on-premise, fuori e dentro l’ufficio. E’ l’effetto della digitalizzazione che alla pari di quanto successo con l’affermazione del cloud per le risorse applicative si estende ora al mondo dei colletti bianchi e del lavoro intellettuale. Per quanto esistessero dei precedenti – un buon numero di aziende ha da tempo intrapreso un percorso di outplacing dei propri dipendenti in logica smart working – il lavoro a distanza è stata una misura emergenziale adottata nel periodo di lockdown. Sarà una modalità di lavoro che si estenderà in modo generalizzato e permanente? Lo vedremo. Le premesse perché questo possa succedere ci sono tutte. A questo punto è opportuno entrare nel merito delle problematiche legate al lavoro distribuito. Problematiche che riguardano innanzitutto l’organizzazione del lavoro. Perché lo smart working si traduca in aumento di produt-
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a disponibilità al cambiamento - diventata negli anni la bandiera dell’impresa innovativa - è una qualità scarsa tra il management. Difficile che si accetti di uscire dalla propria comfort zone, che preserva potere e identità. tività, una migliore esperienza del lavoro e di qualità della vita deve infatti esistere da parte dell’azienda la capacità di ripensare il proprio modello organizzativo, di relazioni e comunicazione. L’adozione dello smart working non potrà MAI rivelarsi efficace se non esiste da parte dell’azienda la disponibilità a mettere in atto tutte le misure perché questo possa accadere. Non parliamo, solo e soltanto, di predisporre l’infrastruttura tecnologica necessaria. Questo è un aspetto del tutto risolvibile. Quello che deve esistere è innanzitutto un ambiente organizzativo in cui le persone possano avere un proprio spazio di autonomia, operativa e decisionale. Le aziende ragionano per processi, rigidi per antonomasia. Importante è invece introdurre flessibilità fondata su una modalità di lavoro dinamica e non più statica. Certo, è indispensabile che vi siano regole, ma è altrettanto importante che le regole
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siano formulate in modo tale da rendere le persone più responsabilizzate e indipendenti. Insomma, per quanto paradossale, le regole rendono liberi. È un qualcosa che vale in qualsiasi contesto lavorativo ma assume senz’altro maggiore importanza in un contesto di lavoro distribuito. Il problema è che introdurre indipendenza e autonomia solleva questioni inerenti il rapporto di fiducia azienda/dipendente, mettendo in discussione la funzione di controllo esercitata dal management. Se non si trova un equilibrio su questi temi qualsiasi rapporto di lavoro è destinato a essere compromesso. Tutte le organizzazioni che hanno avuto la fortuna di avere un management illuminato, che si è speso per far prevalere principi di autonomia e indipendenza, ne hanno beneficiato: sono diventate consapevoli che il controllo deve essere sui risultati in funzione di responsabilità definite. Sembra facile. Purtroppo non lo è.
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a centralizzazione, la mancanza di disponibilità alla delega, l’eccessiva burocrazia generata da una forma mentis process-oriented. Tutto questo può contribuire a deprimere l’ambiente di lavoro. Le conseguenze? Poca motivazione, tempi decisionali che risentono di una eccessiva centralizzazione, indici di produttività al ribasso. La disponibilità al cambiamento - diventata negli anni la bandiera dell’impresa innovativa - è una qualità scarsa tra il management. Difficile che si accetti di uscire dalla propria comfort zone, che preserva potere e identità. Ancor più difficile esser disposti ad essere parte di un’organizzazione orizzontale e non verticale. La centralizzazione, la mancanza di disponibilità alla delega, l’assenza di regole, l’eccessiva burocrazia generata da una forma mentis process-oriented. Tutto questo può contribuire a deprimere
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l’ambiente di lavoro. Le conseguenze? Poca motivazione, tempi decisionali che risentono di una eccessiva centralizzazione, indici di produttività al ribasso. Quindi, attenzione! Lo smart working può essere vantaggioso e positivo a patto che vi sia un’organizzazione disponibile a introdurre i cambiamenti necessari perché il lavoro possa essere realmente distribuito, di nome e di fatto. In assenza di ciò il rischio è essere travolti dalla sindrome del criceto: stai lì dentro alla ruota, corri, corri, corri, perché la ruota si muove e perché fermo non sai stare, o perché ti hanno detto di fare così, o ancora, perché non sapresti fare altro che quello, correre senza pensare che stai facendo solo quello!”.
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Letture Consigliate La mia organizzazione è Smart ..................... Dirigi lo Smart Working verso produttività e risultati ..................... Mappe Mentali, come creare un’intelligenza collettiva aziendale
Le opportunità da non perdere di Massimo Fucci
Il periodo economico appena passato e quello che ci attende non si possono certamente annoverare tra le stagioni più facili con cui ci siamo finora confrontati. L’imputato numero 1 è il COVID 19. Eppure, analizzando la situazione a mente fredda, il COVID 19 può essere anche una grande opportunità per ripensare le modalità e la cultura che le aziende utilizzano al proprio interno per sviluppare Business nel proprio mercato di riferimento. Cerchiamo di capire meglio quante e quali sono le opportunità. Cominciamo ad analizzare il lavoro a distanza. Non lo etichetto come Smart Working perché questa è la prima vera e propria opportunità. Abbiamo corso per attrezzare i
nostri collaboratori/dipendenti - laddove la tipologia di lavoro lo consentiva - con stazioni portatili e accessori per operare NON in azienda; abbiamo (forse) messo in sicurezza gli accessi informatici… Ma quanto abbiamo investito perché il management fosse in grado di governare quella che - di fatto- è (e rimarrà) una nuova modalità di lavoro? Quanto si è investito perché la nuova operatività fosse orientata alla collaborazione e allo stesso tempo alla gestione del cambiamento? Certo, qualcuno (magari chi vive di posizione e, in fondo in fondo, non lo vuole il cambiamento) potrà affermare che operare sulle persone non è immediato, che l’impegno è perlomeno a medio termine.
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CERTO! Però è bene ricordare che “Mai si inizia, mai si impara!”. Il vivere del cambiamento è un concetto, una modalità che si deve imparare, altrimenti risulterà sempre più difficile continuare a competere con successo. Un’altra opportunità – una volta imparato a operare in ambiente distribuito – riguarda le risorse umane da impiegare. Infatti, non solo si dà la facoltà agli attuali dipendenti/collaboratori di lavorare da ogni luogo, magari con un programma definito e incontri altrettanto predefiniti. Ma si possono cercare collaborazioni con persone SMART di interesse per l’azienda che abitualmente vivono in posti remoti e/o malserviti dai trasporti. Certo, operare in questo modo richiede: »» Imprenditori che hanno una vista anche nel medio e lungo periodo, che fanno leva su
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parte delle risorse ( diciamo) accantonate nei periodi di vacche grasse; »» Un management di primo livello illuminato e con una buona vision in grado di formare una classe di Middle Management (non è né una parolaccia né un giudizio diminutivo della funzione) in grado di operare come connettore tra collaboratori e Azienda; »» Un ambiente collaborativo in cui sia definito un metodo comune per operare, monitorare e misurare, dove non ci siano interventi contro qualcuno ma sempre a favore di qualcosa. La sfida è chiara, le opportunità interessanti. Si tratta di smettere di parlare di cambiamento ma di metterlo in atto anche a costo di eliminare tutta una serie di “comfort zone” a diversi livelli, magari introducendo percorsi formati-
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vi che portino alla consapevolezza necessaria per introdurre metodi, oggettività, obiettivi (NB Hard e Soft), misurazioni e relative gratificazioni. È il momento di riconoscere le nuove idee (spesso già ci sono in azienda, si tratta di intercettarle, oppure - meglio - mettere in auge un sistema per la loro continua intercettazione) ed implementarle, magari con nuove modalità e facendo riferimento anche a nuovi valori. E questa è un’ulteriore opportunità che le aziende possono cogliere. “Non è mai troppo tardi” recitava il primo programma di istruzione di mamma RAI. Vero, ma l’asse dei tempi è cambiato (sigh! anche lui) e il tempo rimasto è veramente poco. Non basta meditare… bisogna agire!
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Covid-19, l’inizio di un’era antifragile? di Piero Macrì Tempo di lettura previsto: 6 min.
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L’esperienza della pandemia ha evidenziato l’estrema vulnerabilità cui siamo soggetti, come società e come individui.
Il tutto porta alla ribalta il principio di antifragilità enunciato da Nicholas Taleb, filosofo e matematico libanese, nel suo libro “Antifragile”. Quali sono le possibili riflessioni? Ne abbiamo parlato con Marco Maiocchi. Fisico e un po’ designer, Marco insegna Design Industriale al Politecnico di Milano ed è membro del comitato scientifico Industry Big Event di Pentaconsulting
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“L’esperienza Covid 19 ha evidenziato le nostre fragilità individuali (paura, difficoltà a sopportare l’incertezza, bisogno trovare qualche colpevole…), sociali (egoismo vs solidarietà, accaparramenti, “io devo pensare a me”…), ma anche politiche (discussioni nazionali, europee, mondiali, separate da due culture: nordico-calvinista del denaro e del merito e latino-cattolica della solidarietà)”. Parte da questa prima considerazione l’interessante incontro con Marco Maiocchi. Ne è uscita un’immagine squallida di un’umanità incapace di affrontare un futuro incerto – prosegue Marco - e credo che ciò sia legato a un’aumentata sperequazione non solo economica, ma soprattutto culturale:
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siamo incapaci di elaborare criticamente cosa è successo, per mancanza di cultura. Cosa intendi per cultura? Quando insisto sulla cultura intendo dire che solo un’adeguata capacità critica (corredata dalla conoscenza della nostra storia, della storia del pensiero, di una chiara visione antropologica, di dove va la scienza, l’economia, di quali sono i diritti dell’uomo e i suoi fondamenti, … e corredata da capacità di pensiero analogico) può abilitare una corretta interpretazione del valore delle cose e delle persone. L’assenza di cultura insegue la semplicità percependo solo la complicazione; la cultura afferra la complessità e l’accetta.
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Essere antifragili non significa quindi essere capaci di confrontarsi con la prossima pandemia, ma contiene un valore più esteso: essere capaci di affrontare l’imprevedibile…. A differenza del concettto di resilienza che implica la capacitare di mantenere intatto il valore di un “sistema” al variare delle condizioni, l’antifragilità mette in primo piano la capacità di adattamento, ovvero essere disponibili a mettere in discussione lo status quo per rispondere nel migliore dei modi alle mutazioni. Insomma, in qualche modo la resilienza può essere vista come un comportamento conservativo – cambiare tutto perché tutto non cambi - mentre l’antifragilità è associata a un valore
evolutivo, di cambiamento che appartiene più a una logica darwiniana. La capacità di confrontarsi con l’imprevedibile implica dunque una disposizione antifragile. Quindi l’antifragilità implica un superamento del concetto di resilienza?
Certo. Un sistema resiliente resiste agli shock mentre un sistema antifragile è in grado di migliorare sulla base delle esperienze, casuali e del
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tutto imprevedibili. In questo senso stress ambientali e volatilità dei mercati, in una logica antifragile, sono delle opportunità. Se guardiamo a quanto successo negli ultimi vent’anni – vediamo che ha prevalso un principio di resilienza e non di antifragilità. La resilienza del nuovo capitalismo ha permesso di mantenere in essere un sistema fondato sulla sperequazione.
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differenza del concettto di resilienza che implica la capacitare di mantenere intatto il valore di un “sistema” al variare delle condizioni, l’antifragilità mette in primo piano la capacità di adattamento, ovvero essere disponibili a mettere in discussione lo status quo per rispondere nel migliore dei modi alle mutazioni.
Esiste oggi la disponibilità verso un capitalismo antifragile in grado di rispondere alla complessità del mondo?
Consideri l’antifragilità come una sfida primariamente culturale. Quale il ruolo della tecnologia?
A settembre, in epoca precovid, il Financial Times ha titolato la sua copertina “Capitalism, time for a reset”. Che si stia vivendo un momento particolare e unico trova concordi molti ed esperti e osservatori. Sono gli stessi protagonisti del libero mercato a chiedere quella che un tempo era un’eresia ovvero la riforma dei principi del capitalismo stesso. Un processo che sembra diventare ancora più reale alla luce delle disfunzioni globali prodotte dal Covid-19. Potrebbe esse un nuovo inizio. L’inizio di un’era antifragile.
Non possiamo negare l’evidenza del fatto che, in questo periodo, la tecnologia ci ha profondamente aiutato: non abbiamo modificato i nostri obiettivi, ma in gran parte ne abbiamo modificato il modo di raggiungerli. Forse è la vera strada per l’antifragilità. Ma dobbiamo stare attenti: la tecnologia informatica, con la sua velocità di evoluzione e la sua capacità di autosostenersi e autoevolversi, diventa fragile di per sé. Affidandoci mani e piedi alla tecnologia rischiamo, a un suo crollo da Cigno Nero, di cadere in modo da non poterci più rialzare. Credo proprio che non ci sia alternativa alla cultura.
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Letture Consigliate Il riscatto economico può nascere da una nuova globalizzazione? ..................... La nuova normalità
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Covid-19, il digital divide è culturale
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Supply Chain, come risolvere l’interdipendenza di un mondo globalizzato? di Piero MacrÏ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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e supply chain che nel tempo si sono generate sono caratterizzate sia da un numero elevato di interconnessioni sia da grandi concentrazioni geografiche.
La pandemia ha reso manifeste tutte le criticità delle supply chain, divenute nel corso degli anni e della globalizzazione sempre più ramificate e poco controllabili. Prima il lockdown in Cina, poi l’epidemia in Europa e resto del mondo hanno messo in difficoltà molte imprese. Per comprendere gli impatti che Covid19 ha generato sulle imprese, il Laboratorio RISE dell’Università degli Studi di Brescia - in collaborazione con ASAP Service Management Forum e IQ Consulting - ha effettuato un’indagine volta ad analizzare le conseguenze sul sistemi logistico produttivo e sul business delle aziende manifatturiere e di servizi al prodotto. L’indagine ha coinvolto 180 aziende, di cui 145 classificate come “prodottocentriche”, manifatturiere o di distribuzione e servizio su prodotti fisici.
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Dalla ricerca emerge che solo poco più del 50% delle aziende italiane ha un sistema di monitoraggio del rischio di fornitura. E quando esiste, non sempre si dimostra strutturato e completo: solo un’azienda su 3, infatti, monitora più dell’80% dei fornitori. Ma veniamo all’analisi che il RISE ha realizzato in merito all’attuale fragilità della supply chain ereditata da oltre un ventennio di globalizzazione. Le supply chain che nel tempo si sono generate sono caratterizzate sia da un numero elevato di interconnessioni sia da grandi concentrazioni geografiche nei paesi più colpiti come la Cina, e più in generale il
sud est Asiatico. La grande criticità, tuttavia, non riguarda tanto la localizzazione geografica del fornitore ma la distribuzione degli attori sull’universo planetario: il contagio e il conseguente lockdown non sono circoscritti, come in altri tipi di crisi, ad un solo territorio e ad un solo gruppo di imprese, con il risultato che l’impatto avviene a ruota, su una buona parte delle filiere, in tempi diversi e con effetti diversi. Se nel passato, con l’adozione di leve “singole” era possibile superare la crisi perché un attore poteva essere facilmente sostituito, la parola d’ordine in questa fase è “collaborazione”: solo così l’intera filiera può galleggiare nell’attesa di riprendere a remare a pieno ritmo.
Supply Chain Disruption La moderna evoluzione delle catene del valore ha spinto le aziende a deverticalizzare la propria supply chain, delegando parti crescenti delle proprie attività core a fornitori di primo, secondo e terzo livello,
capaci di realizzare in tali attività considerevoli economie di scala o di scopo. Il fenomeno di progressiva apertura delle imprese anche medio-piccole ai mercati internazionali, noto con il nome di globalizzazione, ha inoltre portato le imprese ad adottare politiche di global sourcing proprio per reperire a livello mondiale quei fornitori capaci di assicurare le economie sopra rammentate. Come conseguenza di questi fenomeni non è infrequente trovare aziende (non necessariamente commerciali) dove il 60, 70 o addirittura 80% del fatturato è costituito da materiali acquistati da fornitori localizzati anche in aree molto remote del pianeta. Queste progressive trasformazioni delle supply chain hanno però anche impattato sulla loro stabilità, generando filiere lunghe e quindi intrinsecamente poco trasparenti e controllabili. Tutto ciò ha contribuito a ridurre le alternative di fornitura,
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e quindi la resilienza delle catene del valore rispetto alle perturbazioni, rendendo inevitabilmente meno ripetitivi e prevedibili i mercati ed infine aumentando la dipendenza delle imprese da infrastrutture critiche, come quelle che generano, raccolgono e condividono i dati. Non è un caso se questi sono stati anni caratterizzati da una crescente instabilità. La fragilità di queste filiere diventa evidente soprattutto in periodi di crisi: il Covid19 sta mettendo in luce i limiti di questo tipo di gestione. Tra le altre leve, le aziende troverebbero nella gestione del rischio di fornitura un importante strumento per conoscere preventivamente gli impatti
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l fenomeno della globalizzazione e la rincorsa sempre più serrata alla competizione sul prezzo hanno spinto numerose aziende alla delocalizzazione della produzione
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che potrebbero generarsi in momenti di simil crisi, ma non tutte le mettono in atto.
del global sourcing, che implica di ricercare fornitori anche molto lontani per accedere a vantaggi di prezzo.
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Il modello Global Sourcing, soprattutto se non supportato da un adeguato livello di integrazione a base informativa, è penalizzato da lead time più lunghi ed incerti, da scarsa flessibilità, a causa dell’esigenza di procedere al trasporto via mare, e da scarsa trasparenza e visibilità sulla filiera.
Il fenomeno della globalizzazione e la rincorsa sempre più serrata alla competizione sul prezzo hanno spinto numerose aziende alla delocalizzazione della produzione o, ancora più in larga parte, alla pratica
e imprese devono riuscire a coordinare le forniture che provengono dai diversi Paesi, valutando correttamente il rischio connesso a ciascuna di esse.
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Per compensare questo svantaggio bisogna potersi fidare dei propri partner: a questo scopo il fornitore deve essere valutato a tutto tondo, poiché i frutti vincenti della relazione,
Letture Consigliate il contenimento degli impatti negativi e la velocità di ripresa in caso di disruptions dipendono proprio dall’affidabilità che la singola relazione può garantire. Analizzare per esempio il rischio del Paese in cui il l’azienda fornitrice si trova può evidenziare la necessità non solo di adottare un fornitore di backup, ma anche di ricercarlo e di attivarlo in un Paese diverso da quello del fornitore principale: l’attuale emergenza coronavirus ci spinge ad immaginare ad un mercato contraddistinto dal fenomeno dance, in cui si alterneranno lock-down a macchia di leopardo, mirati a contenere
i nuovi focolai. Il trend sarà quindi molto altalenante poiché costituito da microfasi in cui ogni elemento della filiera potrebbe interrompere la propria attività in modo asincrono e non prevedibile sulla base del contagio che si amplia o si riduce. La difficoltà consisterà nel coordinare le forniture che provengono dai diversi Paesi, valutando correttamente il rischio connesso a ciascuna di esse. In questo caso, il rischio complessivo sarà tanto minore quanto più flessibile e strutturata sarà la rete di fornitura.
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Economia in ottovolante. Domina l’incertezza ..................... Economia 2020 e Covid 19, “Time for a reset” ..................... La rivoluzione industriale post-covid-19 per un’impresa ad autonomia avanzata
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Supply Chain e Logistica: la fine della globalizzazione? gennaio 2021
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Smart Factory, da piattaforma di prodotto a piattaforma di servizio di Piero MacrĂŹ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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La necessità di dare vita a nuovi modelli di business coerenti con la trasformazione digitale dei mercati ha fatto sì che la produzione sia sempre più focalizzata sulla catena del valore.
L’obiettivo è rispondere alle esigenze attraverso una logica di servizio e non più esclusivamente di prodotto. Una gran parte della produzione avviene all’interno di stabilimenti che si ispirano a un modello “smart factory”. Grazie all’integrazione della componente Automation e Digital, le aziende più innovative stanno sviluppando architetture di fabbrica complesse il cui obiettivo è gettare le fondamenta per la digitalizzazione dei processi produttivi migliorandone la gestione e il workflow. I building blocks di queste architetture sono sistemi cyberfisici che integrano componenti meccaniche, elettroniche e digitali. 25
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TechFocus Come emerge da inchieste effettuate dalle maggiori associazioni di categoria le aziende più all’avanguardia hanno effettuato nel corso degli ultimissimi anni ingenti investimenti per conseguire un allineamento al nuovo modello di business, non più basato sul prodotto ma sul servizio. E’ un processo di trasformazione che da un punto di vista organizzativo richiede una reale ed efficace convergenza tra Operational Technology e Information Technology, tra Mes ed Erp, tra Produzione e Supply Chain. Uno dei principali punti di forza della fabbrica digitale risiede nell’abilità di trasformare, in tempo reale, mediante sofisticati algoritmi proprietari, le informazioni raccolte nello “shop floor” per acquisire report di diagnostica dettagliata. E’ così possibile monitorare costantemente le performance dei processi produttivi, pianificandone in modo più efficace ed efficiente le attività di manutenzione, riducendo notevolmente i tempi di inattività e i costi di esercizio.
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Ogni singolo dato raccolto on field diventa linfa vitale per controllare e gestire i cicli e gli aspetti produttivi con un triplice obiettivo: ottimizzare il processo e la qualità dei prodotti finiti; implementare algoritmi di calcolo sempre più precisi e affidabili; creare un reale valore aggiunto nella digitalizzazione dei propri processi interni. Grazie a piattaforme Iot dedicate – sviluppate in house o in collaborazione con partner esterni – nell’ambiente di fabbrica vengono così messe a punto soluzioni di manutenzione predittiva con l’obiettivo di evitare fermi macchina, risolvere criticità di processo e assicurare piena continuità operativa.
La ricerca di efficienza trasversale a tutte le aree aziendali Per quanto riguarda la sostenibilità futura è oggi importante avere consapevolezza che la trasformazione è sì una strada obbligata ma allo stesso tempo un’opportunità. Non
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si deve però compiere l’errore di concentrare gli sforzi e gli investimenti sulla sola componente di produzione. Avere una linea di produzione efficiente, allineata alla logica 4.0 con tanto di intelligenza artificiale a supportare manutenzione predittiva a garanzia della continuità operativa è importante a patto di sapere estendere l’efficienza a tutte le aree aziendali. Solo così è possibile valorizzare il prodotto ed essere competitivi sul mercato. La trasformazione digitale si esplica quindi in un processo di cambiamento che implica la ridefinizione del modello di business, nei modi in cui ci si relaziona con il cliente e con il mercato. Va da sé che l’accesso massivo alla rete,
la diffusione di strumenti di tecnologie mobili, la fruibilità sempre più massiccia di dati e le soluzioni cloud sono una serie di fenomeni all’interno dei quali le aziende devono saper confrontarsi per operare un riposizionamento sul mercato e poter continuare a essere rilevanti.
Affrontare il cambiamento in modo dinamico e reattivo Dall’analisi di Idc emerge un chiaro segnale: coloro che hanno avuto successo non sono tanto le grandi aziende dell’automotive, del farmaceutico e dell’oil & gas. Sono piuttosto aziende che, in virtù di una maggiore flessibilità – caratteristica dominante della media impresa - si sono
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dimostrate: più capaci nell’affrontare il cambiamento in modo dinamico e reattivo; più efficaci nell’implementare un approccio integrato in termini di visione e di execution. La trasformazione non è un processo legato alla tecnologia, ma un processo che innesca un nuovo modo di fare azienda. Se la prima fase della trasformazione digitale ha impattato essenzialmente sul mercato B2C, il paradigma Industria 4.0 sta ora determinando la trasformazione del mercato B2B. In questo nuovo contesto serve entrare in contatto con il cliente che diventa parte integrante e attiva del processo di creazione del valore. Con l’affermazione della dimensione d’impresa 4.0 viene
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TechFocus Lean production Tre i fattori che condizionano l’operatività di fabbrica in tempi di trasformazione digitale: »» Il fattore tempo - Si deve riuscire a innovare e sperimentare nel più breve tempo possibile per arrivare rapidamente sul mercato con soluzioni vincenti. »» Il fattore competitività – Per continuare a essere rilevanti è necessario competere in maniera diversa rispetto al passato. Non più il prodotto come faro guida, ma il servizio al cliente. »» Il Fattore spazio – È cambiato il perimetro di riferimento, sono saltate le barriere nazionali e si compete in un mercato globale. Per affrontare il nuovo scenario significa incidere sul modello di business. Tutti stanno investendo tantissimo in questa direzione ma secondo quanto evidenziato in un recente report Idc solo il 16% delle aziende ha tratto beneficio da questo processo di trasformazione, quanto meno se si ragiona in termini di performance e competitività.
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ribaltato lo stesso concetto di supply chain. Il focus è ora sulla catena del valore e l’obiettivo è rispondere alle esigenze attraverso una logica di servizio. È questo il punto centrale in riferimento ai processi di trasformazione che più influiscono – direttamente e indirettamente - sui cambiamenti di produzione di fabbrica. Insomma, non è la tecnologia determina il cambiamento, questa è solo una conseguenza. Il cambiamento si determina per la necessità di passare da una logica di piattaforma di prodotto ad una di piattaforma di servizio. E’ un processo di trasformazione che è solo alle prime battute e che investirà progressivamente e in modo sostanziale gran parte delle aziende. E’ già evidente nel mondo automotive, dove le big del settore veicolano la propria offerta attraverso finanziarie. Ed è un modello che si estenderà al mondo del manufacturing, anche delle piccole e medie imprese.
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Più spazio alla robotica, ma il governo della trasformazione dipende dall’uomo Niente di più sbagliato credere che la digitalizzazione corrisponda a una perdita di centralità della componente umana. Industria 4.0 non corrisponde a un’ineluttabile supremazia della macchina sull’uomo. I robot, anche nella versione cobot utilizzata oggi in contesti di manufacturing collaborativo, sono soltanto strumenti: per quanto utilissimi continuano a operare per logiche associative e commutative. In buona sostanza: l’uomo sarà sempre artefice dei cambiamenti. È l’uomo il vero protagonista della trasformazione grazie a conoscenze e competenze in termini di capacità cognitive e relazionali che non sono trasferibili ad alcuna macchina. La sfida si traduce nel governare un modello di cambiamento che tende a valorizzare le competenze più qualificanti presenti in fabbrica.
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manutenzione predittiva La manutenzione predittiva è una soluzione irrinunciabile per acquisire una piena e ottimale continuità operativa in quanto rende possibile: »» rilevare possibili scostamenti rispetto ai parametri di produzione ottimali; »» determinare le probabilità e le tempistiche di un eventuale guasto o malfunzionamento; »» mettere gli operatori nella condizione di intervenire preventivamente sul danno e sulle criticità di processo.
Ne consegue che l’automazione estrema introdotta dalla robotica è solo un vantaggio per l’uomo: metabolizza attività a basso lavoro aggiunto, dando la possibilità all’uomo di dedicarsi ad attività più qualificanti che comportano il miglioramento di qualità e produttività.
Cambiamento collaborativo e condiviso Quello si va realizzando è fondato su un approccio al cambiamento condiviso e collaborativo: il successo dipende dalla capacità di
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generare motivazione e attenzione. La maggiore automazione di fabbrica – anche con una quota sempre più rilevante di robotica – verrà quindi accolta con sempre maggiore entusiasmo poiché rimuove la componente di lavoro ripetitivo dando la possibilità ai singoli di dare un contributo più qualificante. Nel processo di creazione di una fabbrica digitale sono presenti robot collaborativi che interagiscono in fase di montaggio con l’operatore. In questo modo il robot non è più confinato in celle dedi-
no dei principali punti di forza della fabbrica digitale risiede nell’abilità di trasformare, in tempo reale, mediante sofisticati algoritmi proprietari, le informazioni raccolte nello “shop floor” per acquisire report di diagnostica dettagliata.
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razie a piattaforme Iot dedicate è possibile creare soluzioni di manutenzione predittiva con l’obiettivo di evitare fermi macchina, risolvere criticità di processo e assicurare piena continuità operativa
cate ma diventa una presenza complementare al lavoratore. Ecco quindi a fianco dell’operatrice piccoli cobot dedicati a operazioni di carico scarico e posizionamento.
Da piattaforma di prodotto a piattaforma di servizio In una fabbrica digitale non si ragiona più in una logica lineare - fornitore, fabbrica, cliente -. Oggi il tutto si sposta su quella che è la catena circolare del valore, basata sostanzialmente su una piattaforma di servizio dove le competenze digitali giocano un ruolo chiave per rispondere alle esigenze delle aziende. È un processo di trasforma-
zione graduale che comporta un importante cambiamento culturale poiché il personale deve essere preparato a presidiare le principali aree di competenza in termini di Conoscenze, Competenze, Comunicazione, Creatività e Self Empowerment. Gran parte delle imprese hanno ormai una consapevolezza della trasformazione digitale come processo irreversibile. Essere consapevoli che il mondo è cambiato è fondamentale per far sì che le persone partecipino a un processo di cambiamento. La tecnologia è sempre e solo un mezzo e non un fine. La persona è e rimarrà al centro dello sviluppo della fabbrica digitale»
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Letture Consigliate Digital Twin: cosa, come e perché ..................... La simulazione come nuovo paradigma della progettazione
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TechTalks
Digital Twin: cosa, come e perchĂŠ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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di Umberto Cugini
Oggi si sente sempre più spesso parlare di “Digital Twin” ma come, dove, quando e perché utilizzarlo? Chi lo realizza e con quali tecnologie? Ma soprattutto: cos’è questo Digital Twin di cui tanto si favoleggia? L’idea del Digital Twin è concettualmente semplice: un gemello digitale che è collegato e coesiste con il gemello fisico, cioè un sistema, un apparato, una macchina collegati o collegabili con i contesti IOT in cui operano. Poiché l’immagine è molto suggestiva e chiara, è ovviamente sempre più usata da chi si occupa di comunicazione, magari riferendosi a strumenti software utilizzati per agevolare e supportare le varie fasi della progettazione o del controllo (quello che una volta veniva chia-
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mato CAD e poi PLM). Ma se non si chiarisce bene cosa è o può essere e, soprattutto, cosa non è né può essere un digital twin, possono nascere enormi fraintendimenti e aspettative irrealistiche, rischiando di non vedere e non utilizzare le notevoli potenzialità dello “strumento”. In senso strettamente tecnico il DT non è nient’altro che il sistema integrato di modelli (i vari VP per intenderci) realizzati e usati nella fase di progettazione/ validazione per arrivare alla definizione del prodotto
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TechTalks
fisico, che è inserito e connesso nell’ambiente reale di utilizzo attraverso il gemello fisico. Quest’ultimo, a sua volta, è strumentato in modo da misurare le grandezze fisiche, quelle simulate in fase di progettazione per esempio, e convive con la vita reale del prodotto (Physical Twin) nel suo contesto di utilizzo. Quindi, i gemelli, che esistono solo in coppia e integrati, costituiscono un insieme connesso di modelli e sistemi di simulazione che permettono in ogni momento, e a richiesta, di simulare il risultato/conseguenza di un’azione/manovra del sistema reale connesso con il duale digitale. Avere in linea il DT
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l Digital Twin è la rappresentazione digitale di un “oggetto” fisico, cioè di un sistema, un apparato, una macchina che operano in ambienti IOT
permette quindi di poter verificare (tramite simulazione di complessi, e non previsti a priori, fenomeni fisici derivanti da potenziali manovre “non standard”) le conseguenze di azioni/ situazioni straordinarie prima di attivarle. Questo vuol dire poter rispondere a qualsiasi domanda del tipo “what if?,” quando si vuole e in tempo reale, prevedendone le conseguenze prima di agire. La simulazione è da sempre la modalità progettuale per eccellenza. Quando si è messa a punto una teoria che spieghi in modo più o meno approssimato il perché di certi comportamenti fisici (verificabili e sperimentabili nella realtà) si è subito definito un modo per costruire un
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modello per la schematizzazione del fenomeno fisico stesso in termini matematici e per poterlo usare in simulazione come modalità predittiva del comportamento in situazioni simili. E questo approccio viene usato da sempre nelle procedure di progettazione classiche per verificare l’adeguatezza e la resilienza a possibili eventi accidentali. Poiché si è ben consci che questo modello è una “spiegazione” semplificata, a volte molto semplificata, del fenomeno fisico reale, nelle applicazioni pratiche si costruisce sempre, alla fine del processo di progettazione, un prototipo fisico per sperimentare e verificare nella realtà il comportamento previsto e per individuare le differenze tra calcolato e reale da cui eventualmente derivare
delle correlazioni empiriche che permettano di migliorare (ma in modo euristico) la capacità predittiva del metodo analitico. Poiché costruire prototipi fisici e fare la verifica sperimentale è molto lungo e costoso l’avvento degli elaboratori elettronici ha portato naturalmente a sviluppare e sempre più adottare la pratica della prototipazione numerica (virtuale) per sostituirla alla prototipazione fisica, ma sempre a posteriori (CAE), cioè per la verifica. Tutte queste simulazioni hanno portato all’approccio più recente, supportato dai software più aggiornati noto come Simulation Driven Design che costituisce allo stesso tempo una metodologia e una tipologia di strumenti di software di supporto ad essa.
Il mercato, anche nei settori tecnici, è sempre più definito e pilotato da esigenze o nuovi gusti dei “potential customers” che di fatto costituiscono il punto di partenza dei processi di progettazione quindi corrisponde all’obiettivo dei progettisti ma declinato in termini di: cosa progettare, come e con cosa? Per quanto concerne i prodotti/servizi di tipo consumer si parte sempre più spesso analizzando l’interazione del potenziale customer con quelle forme di documentazione ritenute “free” e autonome, che invece costituiscono la base per la inconsapevole, automatica autoprofilazione orchestrata, gestita e monetizzata da parte di chi gestisce e monitora le piattaforme con cui il singolo “potential customer” interagisce.
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TechTalks In questa situazione il lavoro dei responsabili dell’innovazione e dello sviluppo prodotto, sotto la spinta delle “rivoluzioni” e dei cambiamenti del mercato, che avvengono in real time, si fa sempre più complesso e pressante anche perché le tecnologie abilitanti e/o di supporto, evolvono e cambiano con lo stesso ritmo frenetico. La domanda essenziale di chi deve decidere a capo di aziende fornitrici di prodotti e/o servizi è quindi: «Qual è la reale situazione delle tecnologie abilitanti disponibili “on the shelf”
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stabili, robuste, supportate, e come queste impattano sul metodo di progettazione e le competenze del mio team di progettazione?» Negli ultimi 50 anni siamo passati attraverso varie generazioni tecnologiche dei ben noti sistemi CAD, nelle loro varie evoluzioni: 2D, 3D, più o meno flessibili, parametrici, intelligenti (ICAD, KAD), orientati o condizionati dalle tecnologie di produzione (CIM) e/o di gestione del processo e delle informazioni relative alla intera vita del prodotto (PLM) a ritmo crescente.
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Ma ora, quando la richiesta pressante che viene dal mercato è di prodotti innovativi, integrati, emozionali, affidabili, sostenibili, ottimizzati, quali sono gli strumenti a disposizione e da usare per progettare questi nuovi prodotti o servizi? Dimenticato il CAD, tristemente obsoleto anche se onnipresente, abbiamo già assimilato, anche se non completamente attuato, il concetto di Virtual Prototyping per il Virtual Testing che riduce tempi di sviluppo e costi; abbiamo, solo molto parzialmente, fronteggiato il passaggio all’ iVP ( interactive VP ), cioè un Virtual Prototype usabile attraverso interfacce
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l Digital Twin è un insieme connesso di modelli e sistemi di simulazione che permettono in ogni momento di simulare il risultato di un’azione/manovra del sistema reale
fisiche, “reali” o assimilabili, per poter validare in anticipo, in linea con un approccio agile, un uso e una interazione fisica o qualunque da parte di reali utenti prima di congelare le specifiche e far partire la progettazione funzionale dettagliata e la produzione del “Prodotto Innovativo TO BE”. Oggi è la volta del Digital Twin (DT), diventato ormai essenziale in settori di riferimento trainanti come l’Aerospace e l’Impiantistica più integrata, dove la sua introduzione e il suo uso ha evidenziato enormi potenziali di cambiamento dei rapporti nella catena che connette chi ha un problema e quelli
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che contribuiscono a dare una soluzione. In sostanza la caratteristica più evidente di un DT è quella di verificare, attraverso la simulazione, le conseguenze di un qualsiasi “what if ...?” nel contesto reale. Nella fase di progettazione il VP viene usato per le varie simulazioni, singolarmente e/o integrate, per verificare/validare e ottimizzare il progetto rispetto a target di performance relativi a efficienza e efficacia, in situazioni limite definite a priori utilizzando come dati di riferimento (che caratterizzano il contesto di utilizzo) i valori massimi e/o minimi previsti e/o imposti da regole di omologazione e certificazione. Ecco, il DT è il VP usato però come sistema aperto, connesso con
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tutta la sensoristica interna del Physical Twin funzionante nella situazione reale, disponibile in linea per poter attivare simulazioni utilizzando anche dati reali che arrivano dal contesto reale, sempre più infarcito da oggetti e sensori smart che monitorano e trasmettono o possono trasmettere dati, se interrogati, sullo stato della situazione reale. Quindi, avere un DT in linea e in parallelo al Physical Twin - in situazioni eccezionali e/o non previste nelle specifiche di progetto o di omologazione, o nella pratica d’uso prevista - vuol dire avere la disponibilità integrata di modelli interconnessi di simulazione pilotabili da dati che rappresentano qualsiasi situazione interna ed esterna. Questo permette quindi, in real time (se si ha la potenza di calcolo necessaria), di attivare processi di simulazione del tipo “what if?” impensa-
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bili e impensati fino a quel momento. Una situazione, quella appena descritta, che permette di ottimizzare manovre non standard e relative conseguenze quando questo si renda necessario per situazioni impreviste. Gli evidenti e ovvi vantaggi dell’utilizzo del DT in situazioni critiche sono solo una questione di tempo di risposta della simulazione e ottimizzazione rispetto al tempo a disposizione per decidere cosa fare (e non previsto a priori). Ma ricordiamoci che l’evoluzione esponenziale delle tecnologie, che stanno alla base di tutto il mondo della simulazione, gioca clamorosamente a favore e a costo zero. Le tecnologie abilitanti alla base del DT non sono sostanzialmente nuove e si sono via via sviluppate come un insieme eterogeneo di sistemi di modellazione: geometrica e fisica intesa nelle sue singole e diverse com-
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ponenti (statica, cinematica, dinamica, fluidica, elettrica, magnetica, energetica, termica, etc). L’insieme integrato di tutti questi modelli, più le varie modalità di simulazione dei singoli fenomeni modellati, più i sistemi vari di ottimizzazione, il tutto aperto alla comunicazione con una realtà esterna sempre più IOT costituisce l’architettura, la sostanza e il dirompente potenziale del Digital Twin. Tutto si basa su tecniche di modellazione e simulazione numerica che permettono di modellare situazioni e/o fenomeni singoli (Monophysics ) che si riferiscono a situazioni limite definite a priori sulla base
della conoscenze dovute ad esperienza, norme definite per la sicurezza, ipotesi di situazioni estreme etc. che vengono individuate definite e quantificate da progettisti per fare delle verifiche di performance (tipicamente di “non failure”) atte a validare a priori il “prodotto to be” progettato al momento rispetto a requisiti minimi generali. Tutto questo per fare in modo numerico (non fisico) una verifica sperimentale con tutti i tempi, costi e vincoli fisici che esistono.
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a caratteristica più evidente di un DT è quella di verificare, attraverso la simulazione, le conseguenze di un qualsiasi “what if ...?” nel contesto reale
Gli obiettivi, le modalità di simulazione e quanto avviene durante la simulazione è definito nel dataset iniziale della simulazione. Quando queste vengono definite
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vengono scelte le situazioni più estreme e a rischio di failure per ogni singola performance. (rottura statica, fatica, collasso, usura, vibrazioni, crash, etc.) definendo in maniera precisa e quantificata la situazione esterna e il suo evolversi. Non necessariamente simulando anche l’evoluzione del mondo esterno, che richiederebbe una modellazione altrettanto fedele della realtà, che non
l Digital Twin implica la disponibilità integrata di modelli interconnessi di simulazione pilotabili da dati che rappresentano qualsiasi situazione interna ed esterna si conosce né si conoscerà mai a priori. Queste simulazioni singolarmente e nel loro insieme richiedono di solito
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consistenti potenze di elaborazione e tempi lunghi. Ma la legge di Moore e le sue più che prevedibili conseguenze (da più di 50 anni) permette di prevedere con precisione quando queste simulazioni potranno essere in real time relativamente al fenomeno in esame. L’uso di queste tecnologie e strumenti Model-Based esistenti e robusti implicano però un cambiamento non incrementale di paradigma: non più semplicemente orientato a progettare prodotti fisici e/o servizi basati su questi prodotti ma a sviluppare, per poi rendere disponibili e gestire, dei Twin (Digital & Physical) che come Simulation-Driven Systems vivranno in un mondo/
contesto IOT sempre più sensorizzato e capace di condividere informazioni sul suo stato reale e istantaneo permettendo di ottimizzare il funzionamento e il comportamento del gemello fisico che agisce, funziona e interagisce all’interno di questo mondo. In un mondo sempre più IoT cioè popolato da cose smart che “sentono”, misurano e trasmettono, il contesto in cui avvengono tutti i fenomeni risulta essere sempre più monitorato in tempo reale. Quindi, in situazioni eccezionali in cui il nostro nuovo prodotto fisico verrà a trovarsi, si potrà attivare la simulazione per sapere cosa succederà in queste impreviste situazio-
ni. Basterà inviare queste informazioni al Digital Twin sempre acceso per attivare un processo di What if? coerente con la situazione per poi scegliere l’azione non prevista dalle procedure certificate a priori che è meno rischiosa e/o letale. Dipende tutto dal tempo a disposizione per prendere una decisione rispetto al tempo di simulazione necessario con il Digital Twin. Con in più il non marginale vantaggio che, gestendo in modo condiviso le risorse di elaborazione e simulazione, si possono aggregare in modo coerente e riusabile in tempi brevi le varie eterogenee esperienze di tutti i digital twin in azione.
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Letture Consigliate La robotica avanzata per la produzione industriale ..................... IoT, la digitalizzazione apre le porte a nuovi modelli di business
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La crisi accelera l’adozione della robotica e delle macchine intelligenti collettiva aziendale gennaio 2021
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InnovationLab
Trasformazione digitale come cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio di Piero MacrĂŹ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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La trasformazione digitale si deve intendere non solo come efficientamento dei processi, della riduzione dei costi e del miglioramento della produttività, ma come opportunità per ripensare i prodotti e per creare nuovi servizi pre- e postvendita.
Le singole imprese si devono quindi concentrare non solo sull’innovazione tecnologica di processo e prodotto, ma soprattutto sull’innovazione strategica di modello di business. Industria 4.0 può essere infatti un importante driver per disegnare nuovi modelli di business, a condizione che si accetti di cambiare le “regole del gioco” a proprio vantaggio.
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InnovationLab La sfida strategica da vincere non è tanto fare meglio, ossia più efficacemente ed efficientemente, le stesse cose, ma fare cose diverse o farle in modo diverso. In qualche modo potremmo anche dire che un alto indice di digitalizzazione mette le aziende nella condizione di reagire rapidamente alle esigenze del mercato e alla sua inevitabile imprevedibilità e volatilità. Adottare soluzioni di Industry 4.0 è quindi sinonimo di innovazione strategica del modello di business. Significa poter pensare di introdurre nuovi fattori competitivi così come ipotizzare nuovi mercati partendo dalla soddisfazione di bisogni emergenti. Il percorso di trasformazione digitale pur avviato da tempo in molte aziende manifatturiere italiane non può essere interrotto e deve riuscire a coinvolgere un numero sempre più alto di
imprese. Certo, la crisi Covid ha scombinato molti piani e progetti che erano stati messi in cantiere. Si è data priorità all’immediato, focalizzandosi sui bisogni delle proprie persone, dei clienti e dei fornitori, e sulla gestione efficace delle discontinuità della Supply Chain.
più probabilmente aprirà un decennio di “Never Normal”, una nuova era definita da rapidi cambiamenti nelle norme culturali, nei valori della società e nei comportamenti, come l’accresciuta domanda di politiche aziendali più responsabili e un rinnovato brand purpose.
L’andamento dell’economia è difficile da prevedere e la ripresa potrebbe avvenire in tempi lunghi. Occorre però riflettere su quello che potrà essere il dopo covid. Come affermato da Accenture, la nuova fase non sarà un semplice ritorno al business pre-COVID, ma
Si deve perciò avere la capacità di sostenere un periodo di incertezza nella consapevolezza che il down dei mercati può anche offrire opportunità di crescita. Opportunità che vengono dettate da uno stato di necessità ma che possono prefigurare un rinnovamento qualitativo dell’industria italiana. I CEO, affermano in Accenture, dovranno considerare i passi intrapresi per la riapertura come l’inizio di un percorso più
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n alto indice di digitalizzazione mette le aziende nella condizione di reagire rapidamente alle esigenze del mercato e alla sua inevitabile imprevedibilità e volatilità.
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lungo di profonda trasformazione. Creare per esempio quelle competenze in cui si sarebbe dovuto investire prima della pandemia: essere più digitali, data-driven e sul cloud; avere più strutture di costo variabili, operations più agili e più automazione; avere capability più robuste nell’e-commerce e nella security.
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i deve avere la capacità di sostenere un periodo di incertezza nella consapevolezza che il down dei mercati può anche offrire opportunità di crescita.
Nell’affrontare nuovi target e sfide future si possono identificare alcuni driver primari. Il primo e più dirompente è appunto quello di migliorare il modello di business esistente. Le aziende sembrano averlo compreso: la trasformazione digitale del manifatturiero modifica il modo di fare industria. Soluzioni avanzate consentono alle imprese di re-interpretare il loro ruolo, impattando lungo tutta la filiera produttiva. Dalla progettazione e disegno del prodotto, per renderlo più intelligente, ma anche gestirne l’intero ciclo di vita, ai rapporti di fornitura e sub-fornitura, per permettere lavorazioni in real time. Dai processi produttivi gestiti come spazi cyber-fisici, ai sistemi di logistica e magazzinaggio, fino
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al contatto fisico e digitale con il cliente finale, in cui il confine fra fornitura di beni e servizi diventa sempre più labile. Tecnologie disruptive permettono alle imprese di creare con successo modelli di business digital first, dove centrale è il ruolo abilitante il flusso di dati sia all’interno che all’esterno dell’impresa. Tutto ciò deve prevedere la capacità di coinvolgere nuovi attori e nella progressiva eliminazione dei confini fisici dell’impresa. La collaborazione è fondamentale per intercettare la spinta d’innovazione tecnologica di Industria 4.0. Ecco, quindi che assume sempre più importanza l’aggregazione delle PMI in network di imprese interconnesse, un processo che può facilitare l’accesso alle risorse sia finanziarie, che tecnologiche e, più in generale, l’accesso alle fonti di conoscenza. Insomma Industria 4.0 può essere un importante driver per disegnare nuovi modelli di business a condizione che si accetti di cambiare le “regole del gioco” a proprio vantaggio.
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InnovationLab I 4 driver della tech-economy manifatturiera: Smart Factory, As-a-service, Data driven e Platform Smart Factory è un modello di business che punta all’eccellenza operativa, impiegando le tecnologie per abilitare un network di connessione tra le varie parti della catena di fornitura, formando altresì una catena del valore smart, che raccoglie e gestisce informazioni in real-time e permette di prendere decisioni in maniera più trasparente. L’As-a-service è un modello di business che risponde alla disciplina di leadership di prodotto, puntando alla distribuzione di servizi sempre più customizzati al cliente, nascenti dai dati che esso comunica tramite smart product . Al prodotto fisico quindi vengono affiancati servizi su misura per il singolo cliente, che gli permettono di personalizzare la sua esperienza d’uso.
re dei Big data per acquisire maggiore conoscenza sul cliente finale e quindi riuscire ad essere più vicini ad esso, rimandando alla disciplina del valore dell’intimità con il cliente. I dati che provengono dai sistemi intelligenti non solo possono essere reintrodotti nel processo di creazione di valore, ma costituiscono altresì una fonte di ricavo aggiuntiva, attraverso la loro vendita. Platform è un modello di business che punta a creare un ecosistema in cui l’azienda è la protagonista e connette persone, imprese e risorse mettendo a disposizione un’infrastruttura aperta e partecipativa che, grazie alle tecnologie digitali, abilita l’efficace ed efficiente interazione tra produttori e consumatori. La disciplina del valore a cui attiene è la leadership ecosistemica, che si concretizza con la soddisfazione dei bisogni dei clienti attraverso l’offerta di prodotti condivisi e quindi sostenibili.
Il Data driven è un modello di business che sfrutta il pote-
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Letture Consigliate L’impresa digitale del Gruppo Camozzi ..................... Distanziamento sui luoghi di lavoro. Come rendere sicuro l’ambiente di produzione
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Collaborazione Moog - Politecnico di Torino per la produzione di energia da moto ondoso
SmartWorking
Il workplace digitale in uno scenario di lavoro distribuito di Piero MacrĂŹ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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SmartWorking Le aziende più innovative sfrutteranno l’esperienza del lockdown per gestire in modo permanente un’organizzazione del lavoro “on e off premise”, dislocata all’interno e all’esterno del perimetro fisico aziendale. Di fatto, quanto sta accadendo rappresenta un’ulteriore spinta al processo di digitalizzazione che si è andato ad affermare negli ultimi vent’anni e che ora si estende alla dimensione del virtual workplace. A questo riguardo mai dimenticare che è grazie alla disponibilità di un’infrastruttura digitale diffusa che viene reso possibile assecondare le attività di lavoro a distanza. Ciò vuol dire che lo smart working potrà diffondersi su tutto il territorio soltanto se si continuerà a investire in infrastruttura. Da parte dello Stato deve quindi esistere un impegno costante per risolvere quelle sacche di digital divide che ancora limitano o rendono precario l’accesso a internet. Si diventa sempre più consapevoli che uno scenario di lavoro interconnesso – on e
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off premise – può generare un miglioramento complessivo delle performance aziendali. Ma perché questo si realizzi è necessario comprendere a fondo le esigenze che si vanno evidenziando. L’introduzione di una modalità di lavoro differente dalle precedenti non può infatti ispirarsi alla cultura alle regole e ai metodi che hanno sinora prevalso nei diversi contesti aziendali. Il punto cruciale da tenere presente – come sottolinea Kristine Dery, research scientist and program manager for the MIT Center for Information Systems Research.– è che il lavoro ibrido sollecita un cambiamento del quadro di riferimento organizzativo generale. Essere operativi a distanza non significa infatti soltanto integrare in un ambiente connesso e digitale persone con responsabilità diversificate. L’obiettivo di
un una dimensione di lavoro “smart” lo si può acquisire solo se si mettono in discussione modelli relazionali e di comunicazione. Ciò che sottende questa affermazione è che la leva per creare un ambiente di lavoro ibrido, distribuito e integrato, – in grado di funzionare coerentemente con gli obiettivi aziendali e allo stesso tempo di migliorare la qualità della vita di dipendenti e collaboratori – non è più rappresenta dal sistema hardware. Quest’ultimo, per quanto irrinunciabile e indispensabile, non è nulla più che uno strumento. La leva per la sostenibilità di un’organizzazione smart diventa la creazione di una nuova cultura di management che deve mettere al primo posto un ingrediente il più delle volte assente: l’empatia o, ancora, il lavoro inteso nella sua vera essenza collaborativa.
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a connessione a Internet è un diritto universale che riguarda ogni cittadino ed è il principio base per poter garantire uno sviluppo e modernizzazione della dimensione sociale ed economica nonché di uno stile di vita e benessere complessivo superiore. Lo dimostrano quei Paesi che hanno fondato la propria crescita su un modello fortemente digitale.
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SmartWorking Quali le chiavi interpretative di questo nuovo paradigma di lavoro collaborativo? Innanzitutto meno comunicazione e più dialogo. In altre parole, significa passare da un mindset transazionale a uno relazionale: non assecondo il processo di per sé, ma lo interpreto in funzione di quelli che sono gli obiettivi. Tutto ciò non è assolutamente semplice poiché il suo succes-
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e fino a ieri il ruolo da protagonista della digitalizzazione è stato l’IT, iniziamo ora a renderci conto che l’infrastruttura ne rappresenta solo il presupposto abilitante. Sotto questo aspetto è estremamente incisiva l’espressione “from hardware to heart-ware” usata da Kristine Dery, espressione che di fatto introduce un paradigma People-First nell’organizzazione del lavoro, che mette al centro di tutto la persona. so implica una grande disponibilità. Per realizzarlo serve creare una relazione non più fondata sul controllo ma sul coinvolgimento della persona (Checking In vs Checking Up). E’ un qualcosa che può essere raggiunto quando entrambi le parti – management e dipen-
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denti – accolgono il valore che sottende per l’appunto il passaggio “from hardware to heartware”. Quanto sinora affermato trova una corrispondenza nelle evidenze emerse dall’indagine realizzata dagli analisti americani Donald Sull, Charles Sull, and Josh Bersin, in collaborazione con l’MIT School Sloan of Management nel corso del mese di aprile su un campione globale di 350 direttori delle risorse umane (Vedi infografica a pagina successiva). Ultimo, ma non meno importante, accettare la flessibilità poiché i principi che mette in moto un lavoro distribuito – ben organizzato e giocato su un modello di relazione realmente efficace – sono legati a una filosofia di lavoro dinamica e non statica, il che presuppone un apprendimento continuo. Se questo è il modello organizzativo cui ispirarsi qual è l’azienda che può implementarlo con maggiore successo? Ebbene, se da un punto di vista funzionale un assetto gerarchico e process oriented può benissimo essere trasla-
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Communicate frequently and well 23% High-quality communication 12% Frequent communication 5% Solicit input from employees 3% Provide clear guidance on policies 2% Transparent communication 2% Central repository of COVID-19- related information
29% 24%
Provide emotional & social support
Maintain productivity & engagement
11% Check in on employees
7% Share remote work best practices
6% Support employee mental well-being 5% Provide emotional support
4% Organize virtual social activities
2% Senior leaders support employees
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Provide technology for remote work
25% Provide or subsidize technology
for remote work
12% Provide or subsidize collaboration
platforms 6% Provide or subsidize home WI-FI 1% Provide furniture for home office
6% Help employees remain productive 4% Frequent virtual meetings 4% Focus on keeping employees engaged 2% Empower employees to work remotely 1% Set clear performance expectations
18% 15% Promote work-life balance
Ensure well-being
10% Allow for flexibility in schedule
11% Promote physical well-being
4% Support working parents
2% Extend time-off policies 2% Help employees manage their workloads
to in una configurazione del lavoro ibrida e distribuita, sono le organizzazioni dove prevale una propensione a una forma organizzativa orizzontale ad avere più possibilità di generare un’innovazione diffusa. Per un semplice motivo poiché sono quelle che più di altre tendono in modo spontaneo verso l’empowerment della persona, facilitando la nascita di nuove idee che possano contribuire più rapidamente alla soluzione dei problemi, all’individuazione di percorsi innovativi e alla crescita dell’ecosistema aziendale nel suo complesso.
4% Extend health benefits 2% Ensure onsite employees’ safety
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a leva per la sostenibilità di un’organizzazione smart diventa la creazione di una nuova cultura di management che deve mettere al primo posto un ingrediente il più delle volte assente: l’empatia o, ancora, il lavoro inteso nella sua vera essenza collaborativa.
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Letture Consigliate Smart Working… e vivere bene ..................... Il modello MinUp per la collaborazione in azienda gennaio 2021
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MindUp Formazione
Mappe Mentali per gestire la complessitĂ dei dipartimenti di Information Technology di Piero MacrĂŹ Tempo di lettura previsto: 9 min.
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Cosa importa a un CIO delle Mappe Mentali? Apparentemente nulla. Invece non è cosÏ.
Le Mappe Mentali hanno dimostrato nel tempo di essere uno strumento potente per organizzare attività lavorative complesse che coinvolgono persone e gruppi di lavoro anche numerosi. In sintesi, le Mappe Mentali rappresentano la leva per realizzare un modello smart working in grado di supportare le organizzazioni IT nella definizione di metodi, regole e competenze la cui finalità è dare vita a una potente dimensione di collaborative working.
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MindUpFormazione
Il metodo MIND-UP Consulenza e percorsi formativi basati sulla metodologia delle Mappe Mentali Da quanto finora vi abbiamo raccontato avrete quindi compreso che le organizzazioni IT interessate a migliorare la propria operatività possono oggi avere un potente alleato: le Mappe Mentali. Come procedere perché tutto questo si possa realizzare? Attraverso il percorso formativo MIND-UP dedicato ai dipartimenti IT e messo a punto
da Pentaconsulting, società leader nella formazione delle Mappe Mentali. I corsi di Mappe Mentali per i dipartimenti IT vengono organizzati a partire da un’analisi dei requisiti e con una definizione degli obiettivi in funzione della specificità dell’organizzazione: innovazione, efficacia, interazione con “clienti” (interni e/o esterni) e fornitori. Una volta definita una mappatura delle esigenze viene avviata un’attività di formazione specifica seguita da esercitazioni che contemplano l’adozione della metodologia. Il tutto affiancato dalla definizione e dalla misurazione di parametri quantitativi.
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’obiettivo della Mappe Mentali è rendere strutturato il caos. Portare razionalizzazione in ambienti dove spesso il limite è costituito dalla frammentazione della comunicazione e interazione tra persone e gruppi di persone.
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La sfida di un’organizzazione IT – caratterizzata da un alto livello di interazioni – è rappresentata dal superamento del “modello a silos”: le informazioni devono diventare una risorsa condivisa, passando dal concetto di Possesso a quello di Accesso. Perché tutto questo possa realizzarsi servono strumenti – concettuali e operativi – abilitanti. Ed è qui che entrano in gioco le Mappe Mentali. Perché proprio le Mappe Mentali? Perché rispetto ad altri strumenti di supporto a modelli organizzativi, tendenzialmente “lineari”, hanno una struttura “radiale” che meglio si adatta a rendere dinamici, flessibili ed efficienti processi tradizionalmente strutturati.
Risultati misurabili Le Mappe Mentali non sono una bacchetta magica. Eppure, se ben comprese, possono essere uno strumento molto potente. A patto che esista una visione condivi-
sa. Le esperienze fatte in altri settori aziendali hanno portato a risultati estremamente positivi. L’aspetto più interessante è che i risultati ottenuti, conseguenti l’adozione di questa metodologia, sono sempre misurabili. Anzi, la definizione a priori di obiettivi precisi associati a indicatori quantificabili e misurabili fa parte del modello di adozione della metodologia.
Mappe Mentali per la gestione della complessità L’IT di un’azienda è un’organizzazione che, per sua stessa natura, deve gestire due ordini di complessità: quella interna (problemi di integrazione, aggiornamento, consolidamento) e quella esterna (dovuta all’eterogeneità delle esigenze che emergono dai diversi interlocutori aziendali). Gestire questa complessità porta inevitabili incomprensioni, ricicli, aggiornamenti che a loro volta generano un proliferare di riunioni, SAL, rapporti,
relazioni ecc. In contesti IT è stato dimostrato che un Modello di razionalizzazione dei processi basato sulle mappe mentali porta a una riduzione drastica di questi inconvenienti e, di conseguenza, a un utilizzo migliore di risorse umane estremamente preziose.
I vantaggi delle Mappe Mentali in una organizzazione IT In ambito IT esistono contesti di relazioni “interni” ed “esterni”. Nel primo caso pensiamo a tutti i processi di interazione fra team diversi, relativi ad aspetti di integrazione (di sistemi o di progetti) o di consolidamento di infrastrutture e piattaforme. Nel secondo caso consideriamo l’interazione con i diversi enti aziendali (demand management) o la pianificazione delle emergenze. Quali sono i vantaggi? Sicuramente quelli generici che nascono da una migliore integrazione dei gruppi e dei singoli: maggiore efficienza, minore conflittualità, riduzione dei tempi di turn-around, minore
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durata delle riunioni, ecc. A questi se ne aggiungono però altri, specifici del mondo IT: diminuzione dei malfunzionamenti, minore durata dei progetti, riduzione dei ricicli, maggiore customer satisfaction. Ovviamente nulla è gratis perciò, per ottenere risultati concreti, è necessario un preciso committment all’interno della struttura IT e, possibilmente, anche all’esterno.
Letture Consigliate Think Positive, Think Open
gennaio 2021
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Rivista di Economia, Mercati, Tecnologie, Management e Formazione
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