Rubrica di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it
Numero 10, settembre 2008
NIM IN QUESTO NUMERO:
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.libri
Chris Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati p. 2 Pietro Barcellona, L’epoca del post-umano p.- 3 Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi p. 5
Giovanni Fiorentino L’Ottocento fatto immagine. Dalla fotografia al cinema, origini della comunicazione di massa p. 6 Henry Jenkins, Cultura convergente. Dove i vecchi e nuovi media collidono p. 8 Domenico Liggeri, Musica per i nostri occhi. Storie e segreti del videoclip p. 9 Claudio Marra, L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale p. 10 Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo p. 12 Guido Vitiello, La commedia dell’innocenza. Una congettura sulla detective story p. 13
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*** Chris Anderson LA CODA LUNGA. Da un mercato di massa a una massa di mercati (Ed. or. The Long Tail. Why the Future of Business is Selling Less of More, Hyperion Press, New York 2006) Traduzione di Susanna Bourlot Codice Edizioni, Torino 2007 ISBN: 9788875780630 pp. 235, €19,00 Recensione di Marco Parodi Nato da un articolo comparso su Wired, rivista americana di tecnologia di cui è direttore dal 2001 – e poi modificato e completato attraverso un blog dove condividere dati e opinioni con i suoi lettori – questo libro di Chris Anderson mette a fuoco i meccanismi di produzione, distribuzione e consumo degli odierni prodotti culturali in una società sempre più digitalizzata. Il termine “coda lunga” definisce una curva statistica e nasce dall’esperienza diretta di Anderson nell’elaborare i dati di vendita di alcuni grandi siti internet (tra cui Amazon, iTunes, Rhapsody) che si occupano del commercio online di prodotti culturali e d’intrattenimento. Il grafico che ne scaturisce evidenzia il peso assunto, nel volume di vendite totale, da parte di quei prodotti considerati “di nicchia” rispetto a quelli che Anderson definisce come prodotti di hit. Entro quest’ultima categoria si possono ascrivere tutti quei film, brani musicali, libri, videogiochi, dvd che l’industria culturale propone e che s’impongono come prodotti mainstream capaci di soddisfare un segmento di pubblico generalizzato e di meglio identificare la cultura di un’epoca, rispetto alla miriade di altre produzioni più specifiche o sorpassate, in grado di garantirsi solo un pubblico ristretto di cultori. La tesi di fondo è che la somma di tutte le vendite di questi prodotti “di nicchia” rappresenti oggi un business considerevole. Internet consente infatti di intervenire sui costi di distribuzione, liberando in tal senso il mercato verso una nuova frontiera: offrire lo stesso prodotto a milioni di persone nello stesso momento diventa costoso e inutile, quando si ha una rete distributiva ottimizzata per comunicazioni pointto-point, capace di offrire prodotti diversificati per ognuno dei consumatori. La sfida di domani è quella di un «mercato di moltitudini», globale, virtuale, fatto di tante differenti “nicchie” di pubblico: da un mercato di massa a una massa di mercati, appunto. È il modello della coda lunga, la curva che indica, in un tempo determinato, il volume di vendite in rapporto al numero di articoli disponibili in un dato assortimento. Ad esempio, il numero di titoli presenti in una libreria, o il numero di cd musicali in un negozio di dischi, e le relative classifiche di vendita. Nell’esperienza commerciale tradizionale, il 20% dei prodotti determina l’80% delle vendite. Un qualsiasi prodotto per giustificare economicamente l’occupazione fisica dello spazio espositivo a lui concesso deve “ruotare”: ponendo come rotazione fruttuosa quella di una vendita a trimestre, tutto quello che rimane per più tempo fermo sugli scaffali ruba spazio a prodotti più redditizi. Con questo meccanismo è facile che nel meccanismo attuale di distribuzione tenda ad imporsi il prodotto di hit, quello che ha indici di rotazione molto alti. È la “dittatura dello scaffale”. In un negozio virtuale, il catalogo, assai più vasto di quello che può contenere qualsiasi megastore, evidenzia percentuali di rotazione ben diverse: nell’arco di un trimestre quasi il 98% degli oltre 10.000 brani musicali presenti online sul jukebox digitale E-cast, sono stati scaricati e venduti almeno una volta. E anche Amazon, iTunes e altri siti di commercio online dove si possono comprare libri, scaricare musica, condividere video presentano dati analoghi. La teoria della coda lunga dimostra che le vendite sporadiche di quei prodotti considerati “di nicchia” nella nuova società digitale sviluppano margini di profitto interessanti, pari a quelli dei principali prodotti di hit: non esistendo materialmente lo scaffale (e nel caso di audio o video non esistendo nemmeno più un supporto “fisico” ma spostando solo flussi di dati) ed essendo questo virtualmente infinito il prodotto può restarvi indisturbato a disposizione dell’unico appassionato dall’altra parte del globo e garantire nonostante ciò un rendimento economico adeguato. 2
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Le conseguenze dell’abbattimento dei costi di distribuzione vengono spiegate con la metafora della marea che si ritira: il livello dell’acqua è la soglia economica di una certa categoria, ossia la quantità di vendite necessarie a soddisfare i canali di distribuzione tradizionali, fisicamente limitati (gli scaffali di un rivenditore al dettaglio, ad esempio). Questi sono come isole che svettano sul mare, vette visibili di terre sommerse; una volta che il livello dell’acqua, ossia i costi di distribuzione (produzione, stoccaggio, spedizione, vendita al dettaglio), vengono totalmente annullati, la marea si ritira lasciando emergere una nuova terra: la conseguenza è che un mercato prima invisibile diventa adesso visibile. Nella prospettiva teorizzata da Anderson queste nuove distese sconosciute risultano redditizie (e dunque giustificano la loro esplorazione e il loro sfruttamento) tanto quanto le vecchie terre emerse. Al di là della metafora ciò significa che nelle abitudini culturali si potrà osservare – grazie a una connettività di massa in continua espansione (banda larga, I-phone, mp3, shopping online) – l’accesso illimitato e senza filtri a contenuti culturali di ogni sorta, traducendosi tutto ciò in un continuum senza divisione fra prodotti mainstream e prodotti un tempo considerati underground. La democratizzazione della produzione culturale, la democratizzazione della distribuzione e il miglior collegamento fra domanda e offerta sono le tre potenti leve che in un’economia della coda lunga – dove si ragiona non sulla scarsità delle risorse, qui risorse culturali, quanto piuttosto sul loro “spreco” – si sintetizzano nel motto: «create di tutto, mettetelo in vendita e aiutatemi a trovarlo».
Chris Anderson, apprezzato giornalista scientifico americano, ha lavorato per riviste come Nature e Science, per poi approdare alle sedi di Honk Kong, Londra e New York del The Economist, occupandosi di tecnologia e del mercato economico americano. Dal 2001 è direttore di Wired, rivista di punta del settore dell’information communication technology.
*** Pietro Barcellona L’EPOCA DEL POSTUMANO Città Aperta, Roma 2007 ISBN: 8881373076 pp. 62, € 8 Recensione di Antonio Tursi
Filosofo del diritto che non si tira indietro rispetto a temi che invece sono poco frequentati dai suoi colleghi (ricordiamo anche un recente volume sul linguaggio che non trascura di prendere in carico lo spazio dei flussi informativi che dopo William Gibson chiamiamo ciberspazio), Barcellona esplora in questo testo un tema di frontiera. Il gioco che l’autore ci propone è quello tra due categorie filosofiche antiche, necessità e contingenza: sono queste che articolano – con una certa ambiguità – l’argomentazione intorno a quattro elementi chiave. Diciamo subito che si è portati a condividere sufficientemente gli argomenti sul corpo e sulla politica, e a ritenere invece fuorvianti la stessa definizione di postumano e la deriva trascendente della proposta conclusiva. Il corpo è «il residuo irriducibile a partire dal quale la domanda su cosa è un uomo si ripropone integralmente». Non è questione di materialismo, ma di necessaria comprensione del corpo come segno distintivo del nostro esserci. Il corpo non è riducibile ad algoritmo e come tale non può essere visto come l’ultimo ostacolo verso la nostra smaterializzazione completa così come auspicano da tempo i transumanisti alla Hans Moravec. Ma il nostro corpo non è riducibile ad algoritmo non in quanto irriducibile a qualsiasi segno, ma in quanto – come ogni segno – esso non è dominabile, non è levigabile, è opaco. Barcellona attribuisce con efficacia questa caratteristica all’alterità: quell’essere altro rispetto alla potenza conoscitiva dell’io pensante, quell’irriducibilità che ci interroga e ci fa comprendere la nostra finitezza. Ma nell’epoca delle mutazioni genetiche possiamo ormai riconoscere quell’alterità anche in noi stessi: soggettività mutanti che restano opache a se stesse. 3
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La politica come progetto di emancipazione, come azione della libertà e per la libertà, fonda lo spazio dello stare-insieme, uno spazio diverso da quello biologico-naturalistico, «uno spazio della creazione del senso, delle mete individuali e collettive». Si legano a questa tesi due corollari. Il primo riguarda l’opera di naturalizzazione dell’economica politica: il capitalismo riduce l’uomo a soggetto di bisogni soddisfabili “naturalmente” tramite il mercato. Il turbocapitalismo del nostro tempo non lascia nessuna eccedenza, pervade ogni forma di vita, anche quelle attività una volta sottratte alla valorizzazione economica. Ecco perché il progetto politico oggi non può non farsi carico della sfera del bíos. Su questa si gioca tanto il tentativo di naturalizzazione dell’economico (la vecchia ideologia borghese), quanto l’attuale progettualità del politico. Il secondo corollario riguarda la connotazione della politica come “progetto umanistico della soggettività”: forse l’instabilità delle soggettività contemporanee avverte circa l’inopportunità di riferirsi al Soggetto politico, al Soggetto paranoico della civiltà, all’Uomo. Con questo si giunge alla definizione di postumano: l’essere generato dall’integrazione del cervello e del computer, dell’umanità e della tecnica, allo scopo di produrre una perfetta intelligenza immateriale, calcolante, selettiva, capace di tutto controllare. Il postumano è dunque il risultato di un riduzionismo informazionale, è il prolungamento dell’ideologia moderna dell’onnipotenza, dell’autocostituzione dell’umano come soggetto assoluto. Questa denuncia è fondata se riferita a Moravec ed epigoni, ma essa non coglie affatto la fecondità teorica e pratica del nuovo orizzonte filosofico. Con postumano deve intendersi il superamento dell’umanesimo tradizionale e cioè proprio di quell’ideologia moderna che Barcellona stigmatizza. Un’ideologia dell’onnipotenza che si è fondata su una barra, quella che ha distinto l’Umano da ciò che non ne faceva parte: gli animali, gli artefatti e non dimentichiamocelo i sotto-uomini. I “negri” senza anima, le donne invasate, i folli, i diversamente abili, ma anche quella classe operaia a cui si richiama Barcellona, non hanno sempre fatto parte dell’Umano. Inoltre, l’orizzonte postumano contempla l’irriducibilità del corpo: si tratta infatti di un orizzonte emancipativo di cui si avverte sempre più il bisogno in riferimento a diverse attuali questioni di bioetica. Il corpo del postumano non è garantito da alcuna istanza trascendente (anima, Dio) ed è perciò agente e luogo del conflitto per la sua stessa determinazione. Per opporsi al diavolo della Tecnica, Barcellona ricorre all’acquasanta di ciò che lui chiama “il sacro”. Il sacro evidentemente non è il religioso, ma è ciò «che coincide con la realtà», «uno spazio simbolico inappropriabile». Il movimento verso tale spazio è però governato da logiche trascendenti, da «un’altra fede», dal bisogno di credere, dall’«anelito spirituale di un rapporto con la divinità». Insomma, per combattere l’antropologia dell’autocostituzione assoluta dell’umano, l’autore ricorre ad un’antropologia fondata sulla trascendenza, in questo caso verso il cosmico. «Il ritorno del ‘sacro’, di ciò che non è nella disponibilità della Tecnica, è la sola resistenza alla dissoluzione dell’umano nel meccanismo dell’artificialità vivente». Ma se si ricordasse l’heideggeriano monito sull’essenza non tecnica della Tecnica, forse si comprenderebbe il ruolo e la responsabilità dell’umano. Barcellona ricerca il sacro, la trascendenza, il Padre amoroso, per rilanciare la politica e per salvarla dalla tenaglia tecnica-economia: in luogo della fede nella tecnica, propone la fede nello spirito cosmico. La politica resta però confinata ad intervenire sul mondo e non certamente sull’ordine cosmico. Il tentativo di rilanciarla su questa base rappresenta dunque uno scacco forte: la politica si ritrova, così, impotente rispetto a ciò che la fonda, il sacro. Chi potrà mai intervenire su questo nuovo, antico fondamento? Pietro Barcellona è professore di Filosofia del diritto nell’Università di Catania. A partire da un’analisi marxista degli istituti fondamentali del diritto privato, la sua ricerca si è orientata sulla attuale crisi della dialettica tra Stato, società e mercato. Tra le sue pubblicazioni La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio (Dedalo 2007), Critica della ragion laica (Città Aperta, 2006).
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Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero SEMIOTICA DELLA FOTOGRAFIA. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi Guaraldi, Rimini 2006 ISBN: 88-8049-300-0 pp. 440, € 25,00 Recensione di Gerardo Regnani Ne La camera chiara Barthes ha affermato che “una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei”. Ciò che (non) vediamo, ha aggiunto Krauss, è una fotografia che può divenire, piuttosto che il fine di un esame, un pretesto per parlare d’altro. Per chi fa ricerca nel campo dei media, ma non solo, può essere dunque utile disporre di strumenti idonei a meglio comprendere cosa veicoli, “dentro” come anche “fuori”, una fotografia, data la sua connaturata ambiguità. Tra questi strumenti, può risultare certamente utile la lettura del ponderoso Semiotica della fotografia, curato da Pierluigi Basso Fossali e Maria Giulia Dondero. Dopo una prima parte dedicata ad un’ampia “geografia della ricerca” inerente riflessioni teoriche note sul medium, segue una sezione che, prendendo spunto dalla vocazione delle fotografie a dar luogo ad album, collezioni, archivi, è destinata ad alcune pratiche d’analisi (fotogiornalismo, teatro, turismo, arte). Questo libro è dunque un’occasione preziosa per il ricercatore che voglia avere, sia sul fronte della speculazione teorica quanto su quello dell’analisi, un quadro più aggiornato della ricerca semiotica sulla fotografia unito ad una prospettiva metodologica per l’analisi di specifici corpus. Uno dei possibili percorsi di lettura è quello consigliato ai lettori più vicini all’impostazione della semiotica strutturale che possono partire dalla già citata “geografia”, proseguendo la lettura con il successivo saggio riservato ad un’archeologia del pensiero peirciano. La seconda parte del testo è indirizzata, come anticipato, ad una “spendibilità metodologica” delle tesi patrocinate. In questa prospettiva la semiotica, operando non astrattamente ma nell’ambito di un determinato percorso culturale, è tesa a generare “perizie” che favoriscano l’accessibilità ai testi per mezzo di schemi negoziati in funzione del conseguimento di una comparabilità delle decodificazioni delle forme testuali stesse. Ciò detto, dalla lettura di questo testo non si otterranno affatto delle “ricette” universali che potranno essere utilizzate per qualsiasi analisi testuale. A proposito di modelli, una delle insidie forse più temibili della fotografia è, indubbiamente, quella connessa con la persistenza di alcuni luoghi comuni. Tra questi, vi è quello relativo all’idea che essa, grazie al suo “effetto di verità”, sia di una sorta di codice cristallino senza alcuna enigmaticità e, insieme, una vera e propria specie di lingua franca, valida universalmente. Nella fotografia, infatti, la “finzione” sembra sempre talmente assente da far pensare che non esista alcuna distanza tra l’effettivo (s)oggetto originario e la sua riproduzione visuale. I segni fotografici sembrano perciò agire come frazioni di un mondo apparentemente reale che, eludendo la semiosi, possono essere percepiti come porzioni della realtà concreta. Non è inoltre possibile pensare ad un unico sistema enunciazionale valido per qualsiasi fotografia, così come può essere altrettanto utile rammentare che sono le pratiche a contribuire alla costruzione del testo e, al suo interno, tracciare possibili percorsi interpretativi. Gli autori rilevano, infatti, come il soggetto interessato sia, tanto nella fase di enunciazione quanto in quella interpretativa, una figura molteplice immersa in una pluralità di tradizioni: linguistica e discorsiva, così come in pratiche e situazioni alle quali è incessantemente costretta a fare riferimento. Il senso, quindi, non è connaturato al testo, bensì alle pratiche interpretative. È la pratica, dunque, che indirizza la “lettura” di un testo, delimitandone i possibili confini interpretativi. Il contenuto di ciascuna fotografia è tale, conseguentemente, soltanto in una e per una specifica cultura, non potendo emergere ed affermarsi “in astratto” ma in specifici perimetri di senso e comunicazione. Senza dimenticarne, ovviamente, l’immanente “flessibilità pragmatica” di ciascuna immagine fotografica, che fa sì che essa si adatti alle più variegate strategie comunicative. Tra gli ambiti ove queste riflessioni possono trovare un’immediata applicabilità vi è certamente il fotogiornalismo. È un ambito esemplare, come sa bene chi si occupa di media, ove la fotografia è sovente utilizzata quale “prova” concreta di un accaduto e, al tempo stesso, paradigmatico esempio della sua incapacità di dimostrare nulla, prestandosi non di rado a possibili utilizzi arbitrari. La fotografia, astrattamente, non testimonia affatto qualcosa, semmai, consente di non smentire il discorso che veicola risultando questo “compatibile” con quanto è in essa raffigurato. 5
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Il “riciclo” dell’immagine in un diverso contesto può, inoltre, condurre verso formule interpretative anche diametralmente opposte e distanti da quelle preesistenti. La molteplicità delle espressioni della fotografia, a prescindere dalla prospettiva con cui vengano indagate, concorrono comunque a delineare un percorso composito di “trasformazione” del reale, agendo in definitiva in una prospettiva di complementarità anziché di generale antagonismo. In questo processo di modificazione della “verità” il patrimonio indiziario di una fotografia non viene di norma intaccato neanche in presenza di una falsificazione dell’interpretazione del “contenuto” della stessa. Infatti, pur potendosi eventualmente ricondurre tale mistificazione a fini ideologici è di norma difficile mettere in discussione l’autenticità apparente del “reale” raffigurato nell’immagine, per quanto il fare (fotografico) sia sempre implicato con plausibili strategie enunciazionali. Occorre infine aver anche presente che, come causticamente ha scritto Roche commentando Dubois: “ciò che si fotografa è il fatto che si scatta una foto”.
Pierluigi Basso Fossali (1969) ha insegnato Semiotica presso lo IULM di Milano e Storia del cinema, Semiotica della fotografia e Semiotica della moda presso l’Università di Milano. Ha svolto attività di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia ove è stato anche uno dei fondatori del LISaV. Ha scritto su riviste quali Versus, Semiotica, Rivista di Estetica, Visibile, Semiotiche. Tra i testi che ha pubblicato vi sono Confini nel cinema (Lindau 2003), Interpretazioni tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch (ETS 2006) Il dominio dell’arte (Meltemi 2002). Ha curato, nell’ambito della semiotica visiva, Modi dell’immagine (Meltemi 2002) e, in collaborazione con Lucia Corrain, Eloquio del senso (Costa&Nolan 1999). Maria Giulia Dondero (1975), dopo il dottorato di ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie (Università IULM di Milano), ha proseguito l’attività di ricerca presso l’Università di Limoges e di Liegi. Ha insegnato Semiotica delle Arti all’Università di Bologna. Ha scritto su riviste quali Nouveaux Actes Sémiotiques, RS/SI, Comunication et Languages, Locus Solus, Voir, Visible. Ha pubblicato Sovraesposizione al sacro. Semiotica della fotografia tra documentazione e discorso religioso (Meltemi 2007).
*** Giovanni Fiorentino L’OTTOCENTO FATTO IMMAGINE. Dalla fotografia al cinema, origini della comunicazione di massa Sellerio, Palermo 2007 ISBN: 88-389-2241-1 pp. 184, € 15,00 Recensione di Gerardo Regnani Per chi studia le relazioni tra i media e l’immaginario, ma non solo, il testo di Giovanni Fiorentino rappresenta un contributo di grande interesse. In una prospettiva mediologica, la fotografia è infatti indicata come un paradigmatico strumento interpretativo dell’Ottocento che, sulla scorta di una sensibilità “archeologica” mutuata da Walter Benjamin e Michel Foucault, diviene anche un punto di riferimento imprescindibile per comprendere meglio l’essenza e la sorte delle immagini del Novecento. Nata nel secolo dell’evoluzione dell’urbanizzazione metropolitana e della fantasmagoria delle merci nelle Grandi Esposizioni Universali, la fotografia è divenuta un fondamentale mass medium per la costruzione della storia e dell’immaginario dell’universo borghese, ampliando progressivamente nel tempo la sua strategica funzione di medium tra i media. Ruolo nodale che non sempre è risultato evidente, offuscato da una radicata convinzione sull’apparente semplicità (d’uso) del mezzo che non ha ovviamente tenuto conto della complessità delle riflessioni che questo «oggetto antropologicamente nuovo» (Calvino) ha più volte indotto. La fotografia, oltre che nuova, si è distinta anche per la sua natura di “medium” (Barthes) che ha assunto la forma di un’ulteriore quanto mitigata forma di collettiva. Malgrado i suoi (non sempre ben visibili) “difetti”, è nella nuova metropoli industriale che lo «specchio dotato di memoria” (Holmes) ha trovato 6
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un humus certamente favorevole che gli ha consentito di divenire una delle basi evolutive della comunicazione visiva moderna, grazie alla sua capacità trasformare il mondo intero in immagine. La fotografia risulta, in ogni caso, piena di insidie a causa dell’indeterminatezza che la contraddistingue in fase di ricezione rendendola una sorta di “segno selvaggio” difficile da interpretare e, perciò, sempre diverso per ciascun ricevente (Schaeffer). La natura “selvatica” di questo prototipo dei maggiori media moderni non gli ha comunque impedito un’incessante rimediazione, un costante confronto dialettico tra la sua espressione contingente (numerica) e quella tradizionale (analogica) del passato. Ha attraversato un guado tecnologico epocale rimanendo sempre un medium onnipresente, la cui modalità di utilizzo più diffusa non è quella “alta”, emergente da una dimensione autoriale, cultuale e auratica, bensì quella quotidiana, “bassa”, sostanzialmente di massa, fatta di brandelli visivi ovunque dispersi in una «pratica di consumo interstiziale». Il processo di rilettura del mondo che ha consentito la fotografia ha preso avvio, si è detto, nella dimensione metropolitana e borghese del XIX secolo e si è espresso e alimentato attraverso alcuni eventi e momenti topici, che hanno caratterizzato la dimensione visiva dell’Ottocento segnandone, conseguentemente, il relativo destino nel secolo seguente. Di queste emblematiche frazioni, Fiorentino offre un’interessante genealogia integrata da un’adeguata trattazione dell’evoluzione tecnica del medium. Non meno interessante appare la riflessione dedicata al percorso che conduce verso la progressiva e inarrestabile “volgarizzazione” del medium. Lungo questo cammino sulle tracce di quella che Nadar ha definito la “scoperta meravigliosa”, l’autore si sofferma su alcuni prototipi dei moderni mass media visuali. Tra le tappe fondamentali dell’anzidetto percorso “archeologico” alle fonti della moderna industria visiva, è stata illustrata quella, emblematica, relativa all’unicum dagherrotipico e la sua breve quanto fortunata stagione, in particolare negli Stati Uniti. Oltre alla dagherrotipia, la riflessione di Fiorentino non tralascia neanche i riflessi sulla costruzione dell’identità borghese connessi con l’avvento di altri storici mass media visuali quali le stereografie, le carte de visite e le cronofotografie. Le carte de visite, in particolare, diedero inoltre avvio a un autentico fenomeno di massa, la “cardomania”, una “nuova industria” – contro la quale si era già scagliato con sdegno Baudelaire nei suoi scritti per il Salon del 1859 – interessata a nuove tipologie di merci visuali, quali i ritratti dei militari famosi e, naturalmente, dei reali. Ed è proprio a un ritratto “reale”, quello della leggendaria principessa Elisabetta d’Austria (“Sissi”), che è dedicata una delle ultime analisi di Fiorentino. Intenso cliché visivo ammantato di un’aura praticamente sacrale veicolato da una fotografia che si è delineata come un linguaggio tangibilmente immerso nella quotidianità (Abruzzese) e, insieme, un’estensione intellettuale, una protesi del sé capace di influire tanto sul comportamento esteriore quanto sul “dialogo” interiore (McLuhan). Quale che sia il contesto e le relative modalità di utilizzo della fotografia, essa si connota tuttora come un particolare medium intermedio che da sempre influenza il consumo visivo e l’immaginario offrendosi come strumento di conoscenza capace liberarci dal legame con la realtà di primo grado. L’esito, come evidenzia chiaramente Fiorentino, è il seguente: «Il territorio dell’immagine tecnica moltiplica le possibilità di realtà, delinea la costruzione di un universo simulacrale completamente autoreferenziale e autosufficiente, una sorta di seconda pelle del mondo che interagisce con esso». Immerso in questa “realtà” secondaria, l’individuo moderno, ormai distante dalla dimensione borghese coeva della mitica Alice di Lewis Carroll, dovrà tentare di trovare un bilanciamento tra l’esigenza di logicità dello sguardo umano e il “turbamento” insito negli interstizi talora invisibili che possono emergere dall’inconscio ottico (Benjamin) e/o tecnologico (Vaccari) veicolato da questo peculiare medium inter media, «naturalmente artificiale, artificialmente naturale». Giovanni Fiorentino è docente di Sociologia della comunicazione presso l’Università della Tuscia. Si interessa di storia e cultura dei media e analizza le relazioni tra media digitali e apprendimento, studiando le connessioni tra l’immaginario e la fotografia. Ha pubblicato, tra l’altro: Il valore del silenzio (Meltemi, 2003) L’occhio che uccide. La fotografia e la guerra (Meltemi, 2004). Per le Grandi opere Einaudi ha scritto i saggi Dalla fotografia al cinema in Storia del cinema mondiale (2001) e Gli occhi del luogo in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia (2006). *** 7
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Henry Jenkins CULTURA CONVERGENTE. Dove i vecchi e nuovi media collidono (Ed. or. Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, 2006) Apogeo, Milano 2007 pp. XLVIII, 368, € 22,00 Recensione di Daniele Vazquez Il medium è McLuhan. Non ricordo chi l’abbia detto per primo ma, senz’altro, ha colto profondamente nel segno. Il discorso di McLuhan è ovviamente un medium come un altro e chi parla, scrive e orienta le proprie strategie di comunicazione o di affari con questo discorso annasperà nel vuoto, perché l’uso e il contenuto, per quanto personali e originali, sono ben poca cosa dentro quel particolare medium. McLuhan sarà la buccia di banana di cui lo stesso McLuhan scriveva. Quanti esperti di comunicazione hanno fatto la staffetta percorrendo un tratto e consegnando il testimone a qualche giovane e volenteroso mediologo amplificando quel discorso in modo tanto mostruoso fino a renderci incapaci di svegliarci da questa particolare forma d’ipnosi che confonde le idee e tiene imbrigliato il pensiero? Molta mediologia non è che stanca ripetizione di quel vecchio schema di cui peraltro si ignorano alcuni aspetti ben nascosti in angoli poco frequentati delle sue pagine. Galassia Gutemberg? Galassia Internet! Chi dirà “McLuhan non è né buono né cattivo, l’importante è come lo si usa” si sarà ovviamente risposto da solo. È il medium che ti risponde. Diciamo per stare ancora dentro questo medium cui siamo così poco avvezzi che McLuhan ha raggiunto un grado di surriscaldamento tale da rovesciarsi nel suo opposto. E che quindi discorsi che apparivano ridicoli negli anni Sessanta oggi sono pregnanti e discorsi che allora erano pregnanti oggi sono banali. Man mano che si reagisce in profondità alla vita sociale e ai problemi del villaggio globale si diventa reazionari. Diceva McLuhan che la partecipazione attraverso le nuove tecnologie trasforma persone socialmente avanzate in conservatori. Oggi è solo stando al di fuori del medium che si possono individuarne i principi e le linee di forza. Questo inizio tanto per cercare di trarre giovamento dal rovesciamento inevitabile di un discorso egemone della mediologia e per dare forza a una conclusione cui il libro di Jenkins ci ha portati e che si considera, invece, da sempre debole. Quanto all’altro profeta cui viene spesso accoppiato McLuhan, cioè Debord, non è stato altro che il mezzo con cui i marxisti sono riusciti ad assorbire lo choc dell’esperienza cui si accedeva con i nuovi dispositivi. I marxisti hanno sempre saputo che il medium è il messaggio, ben prima di McLuhan. In ogni dispositivo è incorporata l’ideologia dominante della società che l’ha prodotto. Puoi dire qualsiasi cosa, ma il mezzo veicolerà sempre un’ideologia ben precisa. Scuole differenti, accomunate dal buon vizio di non separare la forma dal contenuto. Abbiamo visto però anche il marxismo raggiungere un tale grado di surriscaldamento da spostare l’attenzione sull’immateriale, lo spirituale e la fantasmagoria. In entrambi i casi a forza di voler rimanere fedeli ad un modello si finisce per salvare la forma e sacrificare il contenuto. Il contenuto, ovviamente, è un altro medium, e non vedo proprio perché dovrebbe essere sacrificato, poiché la famosa massima di McLuhan era solo un invito a non distinguere forma e contenuto e non a demolire i significati o, per lo meno, era abbastanza ambigua da permetterci di metterla anche così (e magari aprire un dibattito). Ciò che era ridicolizzato, lo diciamo subito, era il concetto di “uso”. Oggi occorre un modo di affrontare la mediologia radicalmente differente, o almeno di frequentare quegli angoli poco esplorati di cui sopra. Occorrerebbe cambiare medium, e non è detto sia un nuovo profeta individuale. Piuttosto, a leggere Jenkins, sembrerebbe che questo profeta già ci sia. Non è lui, ma tutti quelli come lui. I fan. E questo non tanto perché i fan abbiano da dire qualcosa di sconvolgente, ma perché nel tanto ridicolizzato o sottovalutato uso diffuso che si fa delle nuove tecnologie, che i fan prima di tutto fanno delle tecnologie, vi è in nuce un nuovo paradigma. Oggi potremmo benissimo dire che una tecnologia non è buona né cattiva, ma che è il suo uso che conta, senza per questo passare per scemi. Perché si è arrivati al punto di non poter deridere gli zimbelli di McLuhan? Tutto ciò porterà a un’improvvisa virata moralista del discorso sui media? No. È proprio la guerra civile tra media, o la loro convergenza o divergenza, se si preferisce, che ha portato l’uso, l’uso comune, ad avere lo statuto di forza sociale che trasforma il medium. Noi non negoziamo più solo il messaggio, ma lo stesso medium. L’uso popolare dei media partecipa del destino della loro evoluzione. Forse non era questa la rivo8
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luzione digitale che ci si aspettava, ma senz’altro è un nuovo campo di forze. Jenkins non sarà stato tra i primi a capire che la convergenza non stava avvenendo nel dispositivo (la famosa scatola nera), ma nel cervello, non sarà stato il primo a ibridare il discorso dei media con le categorie analitiche degli studi di cultura popolare, ma senz’altro il suo discorso spezza una consuetudine: quella di considerare banale il discorso sugli usi delle tecnologie. E Jenkins in certi passaggi sembra proprio dirci che se ne può fare un uso buono o cattivo. Certo, non riuscirà a convincerci che i seguiti di Matrix non ci sono piaciuti perché non siamo saltati da una piattaforma all’altra, ma è l’esempio che conta. Nei media che verranno sarà incorporata anche la visione dell’utente, del dominato, della classe popolare e non solo del dominante. Queste sono riflessioni a freddo di un libro che abbiamo trovato davvero interessante, forse per ragioni e interessi diversi da quelli dello stesso Jenkins. Ci sono le premesse per nuovo dibattito. Ma vorremmo armare il lettore, oggi non si tratta di dire se l’uso è buono o cattivo, i moralisti che verranno la metteranno in modo diverso, diranno: si può usare e non si può usare. Henry Jenkins è direttore del Comparative Media Studies Program del MIT. Autore e curatore di molti libri su vari aspetti dei media e della cultura popolare, tra cui Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale (Franco Angeli 2008), From Barbie to Mortal Kombat: Gender And Computer Games (MIT Press, 2001). Collabora ai mensili Technology Review and Computer Games. *** Domenico Liggeri MUSICA PER I NOSTRI OCCHI. Storie e segreti del videoclip Bompiani, Torino 2007 pp. 855, € 16,50 ISBN: 88-452-5821-1 Recensione di Emanuela Gatto La porosità del sottile margine che separa da sempre immagine e musica trova finalmente consistenza in questo ultimo lavoro di Domenico Liggeri, punto di riferimento e vera e propria antologia di un settore ad espansione incontrollata, qual’è quello del videoclip. Proveniente dai fermenti esplosivi del mutante universo videomusicale, l’autore ricostruisce il profilo di uno dei più cruciali, universali e – al solito – bistrattati prodotti della postmodernità, scavando nelle origini del cinematografo fino a delinearne le evoluzioni, attraverso la ricollocazione spazio-temporale dei suoi frammenti impazziti. Musica per I nostri occhi si apre su una definizione di estrema labilità – quanto verità – dell’oggetto in questione: «Il videoclip è tutto quello che voi volete che sia», come a suggerire una definitiva maniera di “stare dentro” un’epoca, abbandonando senza troppe nostalgie la ricerca di contenitori entro cui classificare il nostro senso lato di lettura. Un punto di vista dislocante come dislocante è l’attività multitasking dello spettatore odierno, il rimpallo infinito di possibilità di chi produce attraverso la digitalizzazione del referente, il consumo autoriale dell’utente del nuovo millennio. Sul fondo di questa analisi, dunque, l’assoluta fantasmagoria dell’oggetto a rappresentanza di una trasformazione in atto – quella sublimazione del concreto tutta novecentesca – e davanti alla quale non ci si può più presentare con obsolete unità di misura. Da Richard Wagner a Michael Jackson, da Thomas Edison a Abel Ferrara, questo testo riesce nell’impresa di riconsegnare al lettore una mappa di punti focali lungo i sentieri di attraversamento dell’industria culturale, regalandoci il giusto profilo del videoclip come insieme di contaminazioni e commistioni, luogo di sperimentazioni tutt’altro che asettico. Piuttosto, meraviglia infantile di creature mutanti svincolate dalle leggi di gravità. Il videoclip come oggetto d’analisi mostra così tutta la sua strafottenza linguistica, semiotica, antropologica: zona liminale di attraversamento delle intenzionalità comunicative della produzione musicale come del broadcasting televisivo, esso è principalmente l’incarnazione della merce immaginifica di fine secolo, capace di svincolare il corpo dalla costruzione del senso, come di rielaborare il mito sulle leggi del consumo tribale televisivo. 9
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La ricostruzione dell’autore è dunque un collage warholiano di volti della musica e non, di Peter Gabriel e Sean Penn, di Stanley Donen e Madonna, di John Landis e i Village People, passando attraverso A Hard Days Night, Smells Like Teen Spirits, Walking On The Moon, e arrivando a scalzare Bohemian Rhapsody dal podio del primo clip della storia: ripercorrendo a ritroso i battiti della videomusica, ecco i primi sarcofaghi dediti alla trasmissione a pagamento delle “vedute” musicali – Cinebox, Scopitone e Panorama Soundie –; le prime animazioni di Minnie The Moocher e di Oskar Fischinger; il cinema delle origini e i primi tentativi di supportare l’immagine in movimento con la presenza di una fonte sonora. Ma è senz’altro attorno al concetto di videoclip come merce veicolante merce, come strumento di promozione del disco e del divo, che si concentra a spirale il filo conduttore di questo discorso di ampio respiro su un prodotto capace di far confluire narratività cinematografica, semantica dello spot, infinite possibilità visive del fumetto, fino a mescolare il tutto nell’iperrealtà del digitale. Non bastasse, Liggeri ci ricorda il ruolo di sostanziale necessità generazionale del clip come linguaggio al di fuori delle regole del mezzo, oltre che di quelle del senso: l’alfabetizzazione del nuovo pubblico alla sua illogica terminologia e alla sua irriverenza verso i contenuti dell’immaginario collettivo (indistintamente di massa e underground, commerciale e d’avanguardia), lo rende attualmente uno dei prodotti più consumati del cyberspazio e un vero e proprio linguaggio adattato alla trasmissione del proprio sé virtuale. YouTube, del resto, dimostra proprio quanto la dialettica del clip sia ormai introiettata e tesa a rielaborare le produzioni culturali sulla base di quello stesso principio di menefreghismo rivolto a intaccare il meccanismo di perversione autoriale autoritaritaria. Proprio a voler rimproverare qualcosa a Musica per i nostri occhi si potrebbe dire, ad una prima lettura, che in certi momenti il testo sembra soffrire di una strutturalità a compartimenti difficilmente comunicanti, e che la ricostruzione in schede dei profili o dei generi fatichi a riconnettersi ad un quadro socioculturale oltre che storico. Ma siamo di fronte ad un’analisi attenta del videoclip come percorso in costante movimento, riconsegnataci nel dettaglio con dovizia di particolari e senza pretese di azzardate conclusioni scientifiche sulle metafisiche di uno spazio definitivamente eterotopico. Anzi, si dovrebbe piuttosto sottolineare quanto, sulla base di una struttura di pensiero ipermediale, Musica per i nostri occhi possa essere letto in senso cronologico ma anche a salti – da sinistra a destra e per contenitori linkati – a dimostrazione del fatto che ad impugnare la tastiera è quella stessa generazione liquida cresciuta sulla schizofrenia del tubo catodico e totalmente svincolata dalla linearità del rapporto di comunicazione, non più orizzontale e meno che mai verticale.
Domenico Liggeri è autore televisivo, giornalista professionista e critico cinematografico, saggista, regista e sceneggiatore di cortometraggi per il cinema. Nel mondo dei videoclip ha operato, creato e realizzato in tutti gli ambiti: docente della materia in varie Università e istituti d’arte, regista, ideatore e direttore artistico dal ’99 della più importante manifestazione del settore (il PVI, Premio Videoclip Italiano). *** Claudio Marra L’IMMAGINE INFEDELE. La falsa rivoluzione della fotografia digitale Bruno Mondadori, Milano 2006 pp. 195, € 14,00 ISBN: 88-424-9243-4 Recensione di Gerardo Regnani
La fotografia digitale è un nuovo medium? A tale domanda, prima o poi, chiunque si occupi di media, ma non solo, potrebbe dover fornire una risposta plausibile. Claudio Marra ci offre intanto la sua visione della questione, ovvero quella che potrebbe sembrare a prima vista come una mera speculazione contro la fotografia digitale. In realtà, lo è semmai verso una sua certa interpretazione, inerente in sostanza al discorso connesso con il peculiare rapporto del medium con il reale. 10
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Non si tratta, questo, di un nostalgico lamento per la fotografia (analogica) che fu, alla quale può comunque essere attribuito una specie di primato cronologico nel percorso storico delle immagini della specie, potendo concordare con Pierre Sorlin riguardo al fatto che il periodo dell’avvento del mezzo è stato sicuramente “il secolo dell’immagine analogica”. E non è neanche l’ennesima puntata dell’annosa disputa fra “apocalittici” e “integrati”. Il motivo è semplice: la fotografia continua a svolgere le funzioni che ha sempre svolto in passato, tra le quali quella di “esercizio della memoria”. Tuttavia, la “questione del referente” è un nodo problematico intorno al quale su intrecciano etica, estetica e, tra queste, la figura dell’autore. Quest’ultimo è costretto a interagire con un sistema tecnico che, essendo apparentemente fondato esclusivamente sull’automatismo e sull’oppressione dell’indicalità, parrebbe escluderne qualsiasi altra possibilità espressiva. Ne consegue l’idea (temibile!) che la fotografia non possa mentire, come potrebbe fare invece il linguaggio, o, per lo meno, che il mezzo non sia in grado di farlo con la stessa semplicità che connota altri ambiti culturali. Ove c’è segno, secondo la prospettiva linguistico-semiotica, emergerebbe infatti la possibilità di un’eventuale manipolazione del senso a questo connesso. Si delineerebbe, conseguentemente, uno scenario contraddittorio, per cui la fotografia non può mentire, quindi non è un segno, ma se non è tale non è neanche lingua e, cioè, non è un “atto culturale”. Il fotogiornalismo rappresenta, al riguardo, un caso esemplare e, in modo particolare, lo è quello che Marra definisce “fotogiornalismo d’autore”, ove la lettura del reale si configura, in definitiva, come una vera e propria forma di interpretazione. Dando per conclusa la “dittatura del referente” nel panorama del dibattito sulla natura del mezzo, l’avvento del digitale è stato quindi salutato da qualcuno come la definitiva affermazione delle potenziali capacità mistificatorie della fotografia. Ma questa non è affatto una novità per il medium e, pertanto, non ci si troverebbe di fronte ad alcuna evoluzione di portata epocale nel passaggio tra la fotografia e la postfotografia, bensì ad una versione rivisitata della funzione di sempre, che Marra analizza in una prospettiva mcluhaniana. La riflessione sull’ambiguità della fotografia chiama in causa, come già accennato, anche il discorso semiotico, trattandosi di forme differenti di rappresentazione delle relazioni tra i segni raffigurati e la “realtà” alla quale le immagini potrebbero fare eventualmente riferimento. Tra queste riflessioni, un contributo senza dubbio utile all’evoluzione del dibattito inerente l’essenza del medium è stato, e per Marra potrebbe ancora essere, quello con cui Barthes, nel suo saggio Il messaggio fotografico, pubblicato agli inizi degli anni Sessanta, definì la fotografia un paradossale «messaggio senza codice». Il digitale avrebbe poi in qualche modo colmato questa sorta di “assenza”, facendo anche evolvere da “continua” a “discontinua” l’identità del relativo messaggio e collocando la fotografia, secondo la tassonomia peirciana, nell’ambito delle icone piuttosto che degli indici. Ne deriverebbe, quindi, che con l’avvento del digitale le immagini fotografiche, sebbene appaiano sempre più immerse in una dimensione prettamente tecnologica, paradossalmente, sembrano invece continuare a “funzionare” come una qualsiasi e tradizionale raffigurazione manuale, la madre di sempre di tutte le “immagini sintetiche” (o sinottiche). Il dibattito che anima le riflessioni inerenti l’evoluzione della fotografia verso il digitale non è, però, semplicemente riducibile alla sola questione tecnica, e comprende, piuttosto, anche aspetti connessi con il rapporto tra l’uomo e la macchina, ovvero tra una produzione che veicoli eventuali tracce dell’autore o, all’opposto, di un processo riproduttivo automatico, realizzato in piena autonomia da una macchina. E relativamente, ancora, al rapporto tra la realtà e il mezzo fotografico, è stimolante anche la lettura dell’appendice intitolata “L’asse Rose/Duchamp” e dedicata a ribadire il ruolo di “reliquia”, di frammento del reale, della fotografia. Non mera rappresentazione, dunque, ma frazione ri-proposta del mondo concreto, una vera e propria “resurrezione” del reale. In questa prospettiva, il possesso dell’immagine di un qualunque (s)oggetto equivarrebbe, pertanto, alla “tangibile”, quanto contraddittoria, disponibilità del modello riprodotto. Una paradossalità, quella della fotografia – un’icona, all’apparenza, che però funziona come un’indice – che la porta ad assomigliare ad un quadro benché agisca al pari di un ready made di duchampiana memoria, ovvero come una sorta di richiamo “diretto” di un pezzo di reale. Anche con il passaggio al digitale, dunque, è sempre il rapporto (problematico) del medium con il reale uno dei fondamentali nodi critici dell’annosa querelle sull’ambigua natura di un medium che, pur non essendo la realtà, ne è se non altro un apparente «analogon perfetto» (Barthes). Una fotografia, appunto. Perché, come ben riassume Marra, le immagini fotografiche sono vere e proprie «realtà parallele con le quali concettualmente ci rapportiamo come se ci trovassimo nel reale fisico di primo grado». 11
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Claudio Marra, insegnante presso il DAMS dell’Università di Bologna di Storia della fotografia, ha pubblicato, per le edizioni Mondadori, anche: Fotografia e pittura nel Novecento (1999), Le idee della fotografia (2001 e 2005) e Nelle ombre di un sogno. Storie e idee della fotografia di moda (2004). *** Tzvetan Todorov LA LETTERATURA IN PERICOLO Traduzione di Emanuele Lana Garzanti, Milano 2008 pp. 84, € 11 ISBN: 8811600731 Recensione di Simona Calissano «Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente». Si entra in libreria, si nota un nome, si prende il piccolo libro fra le mani e lo si volta: la quarta di copertina cattura immediatamente la nostra attenzione, accompagnandoci verso il cuore del testo. I lettori appassionati si sentiranno a casa fra queste parole, ma pur essendo rivolto naturalmente anche a loro, il saggio di Todorov intende stabilire un contatto soprattutto con chi non ha mai sentito distintamente, fra i banchi di scuola, nascere e crescere l’amore per i libri. Tzvetan Todorov, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, fine critico letterario, apre uno spaccato vivido e appassionante del mondo della letteratura, fra ricordi personali e teorie estetiche, con un linguaggio dal taglio divulgativo, sobrio ed emozionante. Partendo dai formalisti della Bulgaria degli anni Cinquanta sino all’incontro con Barthes e Genette nella Parigi della metà degli anni Sessanta, Todorov racconta il proprio percorso di studioso per tentare di rispondere a domande importanti, anzi ad una in particolare: a cosa serve la letteratura? La crescente diffusione di uno stile letterario intimistico, tutto ripiegato sull’io, o di puro intrattenimento, lontano da quelli che chiamiamo “classici” perché ci sanno spiegare ieri come oggi i grandi temi dell’uomo, ha contribuito, secondo l’Autore, a sviluppare una concezione riduttiva della letteratura. Quest’ultima risulta infatti svilita tanto nel messaggio quanto nel fine principale, cioè l’edificazione del lettore, la maturazione di una visione più complessa e profonda di tutto ciò che lo circonda. Allo stesso tempo, la scuola strutturalista, incentrata sulla storia letteraria e lo studio “tecnico” della disciplina ha fatto sì che ormai da anni nelle scuole e nelle università venga preso in esame ciò che circonda un’opera e non l’opera stessa, dimenticando o non volendo più riconoscere la particolare interpretazione del mondo in essa racchiusa. Se ciò che un autore intende comunicare viene messo in secondo piano o del tutto in ombra, non solo il lettore perde la possibilità di comprendere e di realizzarsi pienamente, ma svanisce lo stesso piacere della lettura. Un’antica libreria di Genova ha scelto come proprio motto una citazione di Orazio (Ars poetica): «Aut prodesse volunt aut delectare poetae». I poeti vogliono o giovare all’animo dei lettori o dilettarli. Todorov ci ricorda che gli scrittori possano insegnare, comunicare, emozionare, allargare i nostri orizzonti. Naturalmente lo studio analitico di un’opera contribuisce a una sua più profonda comprensione, ma se esso diventa l’aspetto preponderante, corre il rischio di divenire controproducente. Non si deve invece dimenticare che la letteratura ci aiuta ad esprimere i sentimenti che proviamo, a comprendere gli altri esseri umani e, alla pari della filosofia e delle scienze umane, ci permette di conoscere la realtà. Come ben sottolinea Todorov, un autore propone, senza imporla, la propria visione del mondo, lasciando libero e al tempo stesso partecipe il lettore. Lungi dall’essere una riflessione isolata, quest’opera s’inserisce in un filone recentemente fiorito in Francia – basta pensare agli studi di Antoine Compagnon, docente di Letteratura alla Sorbona, e al controverso saggio Désenchantement de la littérature (2007) dello scrittore Richard Millet – tutto incentrato sulla crisi della letteratura e della perdita del suo ruolo educativo. 12
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Qualcuno storcerà il naso, ma Todorov ritiene che la lettura vada sempre stimolata, anche nei confronti di libri non particolarmente apprezzati dalla critica o visti con sufficienza, compreso il fenomeno Harry Potter. Solo avvicinando i giovani alla letteratura si potrà successivamente fondamentare il metodo d’insegnamento: lungi dallo sviscerare i testi dal mero punto di vista linguistico-teorico, ci si deve sforzare di andare al cuore dei libri e della visione personale dell’autore, per comprenderne il significato ed arricchire la conoscenza. Insegnare è un modo per generare esperienza. Non a caso così conclude Todorov: «avere come maestri Shakaspeare e Sofocle, Dostoevskij e Proust non sarebbe come approfittare di un insegnamento eccezionale?».
Tzvetan Todorov è nato a Sofia nel 1939. Dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all’Ecole pratique des hautes études e alla Yale University e diventa direttore del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi (CNRS). Attualmente è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi. Fra le sue ultime opere: Il nuovo disordine mondiale, Garzanti, 2003; Benjamin Constant. La passione democratica, Donzelli, 2003; Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, 2004; Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione con S.Sontag e M.Ignatieff, Mondadori, 2005; La conquista dell’America, Einaudi, 2005; Lo spirito dell’Illuminismo, Garzanti, 2007. *** Guido Vitiello LA COMMEDIA DELL’INNOCENZA. Una congettura sulla detective story Luca Sossella, Roma 2008 pp. 159, € 15,00 ISBN: 978-88-89829-39-4 Recensione di Emiliano Ilardi
Alzi la mano chi non ha mai letto almeno un giallo di Agatha Christie o Ellery Queen magari “rubandolo” dalla libreria di qualche noiosissima zia a cui siete stati obbligati a far visita, oppure sul treno, aspettando la partenza di un volo, di nascosto sotto un ombrellone come unico possibile rimedio a un afoso pomeriggio estivo. E siate sinceri. Non dite che, se proprio dovete leggere un giallo, allora preferite le arzigogolate, inverosimili e spesso incomprensibili storie di Raymond Chandler (alla faccia del realismo tanto sbandierato dall’autore americano) quando magari invece Philip Marlowe l’avete conosciuto solo con la faccia di Humphrey Bogart. E soprattutto non dite che non vi siete divertiti a giocare al detective, a raccogliere indizi, a risolvere l’enigma, a seguire i ragionamenti di Hercule Poirot o Ellery Queen. A sentire i teorici della puzzle theory il piacere del giallo sta tutto qui: nella stimolazione delle facoltà razionali del lettore, nella sfida intellettuale che quest’ultimo riceve dall’autore. Secondo Guido Vitiello questa «lettura ludico-illumistica» non è sufficiente a spiegare lo straordinario successo geografico e temporale del giallo classico a enigma, soprattutto quello del periodo tra le due guerre, la cosiddetta golden age (Agatha Christie, Ellery Queen, S.S. Van Dine, John Dickson Carr). Intanto, se il giallo è semplicemente un gioco intellettuale, allora perché scorre tanto sangue? Che bisogno c’è dell’omicidio, spesso plurimo? Se il piacere del lettore è puramente razionale è sufficiente dargli in pasto un furto di gioielli, la misteriosa scomparsa di un’opera d’arte o una rapina in banca. «La complessità del crimine e non la sua natura, dovrebbe soddisfare le esigenze dell’intelletto». Insomma, per ideare un enigma non è mica obbligatorio ammazzare qualcuno. E invece nella detective story l’omicidio sembra essere una necessità… antropologica. La tesi di Vitiello è secca (e si apprezzano quei saggi in cui una tesi è espressa così chiaramente e senza troppi distinguo tanto per coprirsi le spalle da eventuali critiche): il giallo è la rifunzionalizzazione in epoca moderna degli antichi riti basati sull’espulsione di un capro espiatorio dalla comunità per riportare la pace e il senso di innocenza tra i suoi membri. Il modello è semplice, ripetitivo ma tremendamente efficace: c’è 13
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uno spazio chiuso (una villa, una stazione, un appartamento, un treno), viene commesso un omicidio, l’assassino non può che essere uno dei membri della comunità, un investigatore venuto da fuori si trasforma in una specie di sacerdote, individua il colpevole, lo sacrifica davanti a tutta la comunità, le restituisce l’innocenza, riconsacra lo spazio e poi è costretto ad andarsene perché in qualche modo anche lui si è macchiato di sangue, è infetto. Il giallo, dunque, svolge una funzione simbolica fondamentale: riduce la complessità del mondo, il male non è frutto di anonime forze sociali, è sempre circoscrivibile, gli si può dare un nome e cognome, ed espellerlo attraverso semplice un rito. Semplice, sì, ma anche piuttosto brutale e che fa a cazzotti con i principi basilari dello stato moderno di diritto che, per definizione, deve detenere il monopolio della violenza e al rito sacrificale ha sostituito il processo penale. Ecco perché tale brutalità di fondo secondo Vitiello va nascosta dietro la maschera dell’indagine, di lunghi, raffinati e spesso macchinosi ragionamenti investigativi che convincano il lettore che almeno in quello specifico caso si può fare giustizia senza ricorrere alle lungaggini del tribunale. La confessione finale dell’assassino vinto dall’intelligenza dell’investigatore è un motivo narrativo obbligatorio in quanto scarica la comunità del dubbio di star sacrificando un innocente. L’investigazione trasforma un sacrificio umano in una commedia, La commedia dell’innocenza. La tesi del libro è sicuramente convincente ma è lo stesso autore ad ammettere che funziona solo per la detective story classica, il giallo all’inglese soprattutto del ventennio tra le due guerre; funziona solo fuori dalla metropoli in quanto unicamente in una comunità spazialmente e socialmente delimitata è possibile un rito di questo tipo; funziona soprattutto in ambito protestante e non è un caso che il tema dell’espulsione violenta del male dalla comunità è uno dei tratti tipici dell’immaginario puritano (e di buona parte dell’immaginario americano). Insomma, se Vitiello vede nel giallo della golden age una funzione simbolica e sociale così importante, perché questo modello è durato così poco e ha interessato un sottogenere (il giallo all’inglese) di un genere (il poliziesco)? Difficile pensare che un rito così efficace come l’espulsione di un capro espiatorio sia improvvisamente scomparso nel dopoguerra dalle dinamiche sociali. Evidentemente ha trovato nuove forme e nuovi linguaggi. O forse neanche tanto. A guardare la serie televisiva C.S.I. sembrerebbe di trovarsi ancora una volta di fronte al classico «dramma rituale intorno a un cadavere» (per di più trasportato nella metropoli). Solo che questa volta il grande sacerdote del rito non è più il detective con le sue facoltà razionali ma la tecnologia con i suoi software. Guido Vitiello è dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione. Collabora con le pagine culturali di Internazionale e del Riformista. Ha scritto Dall’Lsd alla Realtà Virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Lavieri 2007) e Una stagione all’inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la questione della colpa nel cinema tedesco (Ipermedium libri 2007). Cura il sito www.unpopperuno.net
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http://www.nimmagazine.it Redazione: Mario Pireddu (mario.pireddu@gmail.com) Marcello Serra (serra.marcello@gmail.com)
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