NIM.libri . Numero 5 . Giugno 2006

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Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it/bookreview/ Numero 5, giugno 2006

IN QUESTO NUMERO: AA.VV. Little Nemo. 1905-2005 Un secolo di sogni p. 2 Jean Baudrillard Il patto di lucidità o l'intelligenza del male p. 3 Fulvio Carmagnola Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy p. 4 Noam Chomsky, Michel Foucault Della natura umana. Invariante biologico e potere politico p. 6 Maria Rosaria Dagostino Cito dunque creo. Forme e strategie della citazione visiva p. 7 Jaime D’Alessandro Play 2.0. Storie e personaggi nell'era dei videogame online p. 8 Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di) Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti p. 9 Marcello Pecchioli (a cura di) Neo televisione. Elementi di un linguaggio catodico glocal/e p. 11 Giovanni Ragone L’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo p. 12 Elisabetta Sibilio Lautréamont lettore di Dante p. 13


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*** AA.VV. LITTLE NEMO. 1905-2005 Un secolo di sogni Coconino Press, Bologna, 2005. pp. 104, € 24 ISBN: 88-7618-021-4 Recensione di marcello serra Mi si perdoni la premessa, ma forse non tutti conoscono Little Nemo. Si tratta di un fumetto di Winsor McCay che venne pubblicato dal 1905 al 1914 e poi dal 1924 al 1927 nel formato della tavola domenicale a colori allora in voga nei quotidiani. Le avventure raccontate avevano luogo nel meraviglioso mondo dei sogni di Nemo, un bambino che, immancabilmente, alla fine della tavola e degli eventi si risvegliava nel suo letto. Nella storia del medium si tratta di un’opera paragonabile per importanza a quella di Griffith nel cinema, ma che conserva una freschezza molto superiore; i ritmi del racconto si mantengono infatti assolutamente moderni e ancora oggi si resta incantati dalla maestria grafico-narrativa che lo contraddistingue. Questo libro ne celebra il centenario. Ma che cosa c’è dentro questo elegante volume? Com’è organizzata la festa e chi sono gli invitati? Il percorso è duplice: visivo e testuale, ovvero, seppur con sconfinamenti, artistico e critico. Sul primo versante, e spesso a commento dei testi, possiamo leggere – ma si tratta poi di una lettura? – alcune tavole di Little Nemo, con i colori smaglianti di un ottimo restauro digitale ed un formato abbastanza grande per farcele apprezzare. A queste sono accostati gli omaggi di alcuni dei più grandi fumettisti contemporanei, che si confrontano con l’opera di McCay secondo il proprio stile ed immaginario. In alcuni casi ci si trova davanti ad autentiche perle (a parte quelle di McCay segnalo su tutte le tavole di François Schuiten) e dispiace davvero non potercisi soffermare. Doverosamente andiamo invece ai brevi saggi che completano il libro, a firma di studiosi prevalentemente franco-belgi e di provenienza intellettuale eterogenea. L’opera di McCay viene analizzata secondo le sue caratteristiche linguistiche oppure ideologiche, nelle connessioni tra il sogno e il linguaggio del fumetto, nelle sue differenze rispetto al tema con il nascente approccio psicoanalitico, nei suoi sconfinamenti nell’animazione – di cui McCay fu uno degli inventori oltreoceano – oppure nella sua fortuna critica. Non ci si attenda dunque un discorso e un metodo omogenei, poiché la forma è piuttosto quella di una collezione ed il modello a mosaico ricorda, per certi versi, quello della vetrata (o della vetrina): lo stesso delle tavole del nostro Piccolo Nessuno. Peraltro, è proprio per questa ragione che l’approccio più interessante si rivela quello del bel saggio d’apertura, ad opera di Thierry Smolderen, che ripercorre attraverso la vita di McCay i luoghi e le esperienze all’origine della sua arte come dell’industria culturale novecentesca. È alla sua esperienza formativa come artista ambulante, a stretto contatto con i mostri più o meno autentici che popolavano le fiere ed i luoghi del divertimento popolare, che si devono infatti le sue anticipazioni di temi centrali per la cultura di massa come quello del pianeta delle scimmie o dell’animale che distrugge la città. Allo stesso modo risulta fondamentale nel suo percorso l’Esposizione Universale di Chicago del 1893 e la sua architettura “da vacanza”, la sua illusione, il suo statuto festivo e temporaneo come i media su cui McCay deciderà di esprimere la propria arte: quotidiani, ritratti-lampo, manifesti per il circo, illustrazioni pubblicitarie, spettacoli di music hall. Poi, in un percorso che collega l’archeologia dei media all’esperienza del virtuale, troviamo il nostro autore affascinato dai parchi dei divertimenti, il cui mondo di trucchi, destinato a provocare il massimo delle sensazioni corporee, influenza la sua evoluzione fumettistica da uno schema rigido e immutabile, cinematografico, all’immersione in uno spazio fluido ed in continua trasformazione. Così, osserva Smolderen, egli giunge ad «una concezione della pagina capace di riportare su carta i bruschi cambiamenti di livello e certi scarti del terreno tipici dello Steple Chase Park. [...] Non si tratta più di assistere passivamente a uno spettacolo rappresentato su una scena o uno schermo (e dunque iscritto in uno schema immobile), ma di invitare il lettore a tuffarvisi, per vivere le avventure “in prima persona”». È il modello del fumetto come parco dei divertimenti ed un esempio di lettura immersiva di estrema attualità. 2


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Del resto, per concludere citando il brillante contruibuto di Henri Van Lier a questo volume, se «ammettiamo che a caratterizzare antropologicamente un secolo non siano tanto delle opere particolari, anche se insigni, quanto i nuovi mezzi [...] allora le rivoluzioni antropologiche maggiori del Ventesimo secolo sono, senza dubbio, più che Joyce o Picasso, la Fotografia (Talbot, 1840) e il fumetto (McCay, 1905), entrambi granulari, quantiche, digitali anche se ancora analogiche».

*** Jean Baudrillard IL PATTO DI LUCIDITÀ O L’INTELLIGENZA DEL MALE [Ed. or. Le Pacte de lucidité ou l’intelligence du Mal, Editions Galilée, 2004] Traduzione di Alessandro Serra Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006. pp. 185, € 19,00 ISBN 88-6030-003-7 Recensione di Luca Massidda Che succede quando il mondo diventa matrice? O, per dirla con le parole usate dallo stesso Baudrillard, quando la realtà, satura del suo stesso principio, si fa Realtà Integrale, potenza assoluta, progetto operazionale senza limiti? Succede che, per rimanere alla “metafora matriciale” da cui siamo partiti, dobbiamo cominciare tutti a fare il tifo per l’agente Smith, stringere con questo genietto maligno un patto di lucidità, condividere l’intelligenza del Male di questa sorta di agente virale e autodistruttore. Dobbiamo metterci dalla Parte del Male, partecipare alla disgregazione suicida che la Potenza rivolge contro se stessa, assumerci la responsabilità di quella denegazione radicale che il Sistema sta spontaneamente germogliando. È questo l’annuncio che viene oggi a recarci colui che già fu il messaggero del simulacro. Visto che il tono che stiamo prendendo è assolutamente – e non metaforicamente – apocalittico converrà precisare subito che lo strumento principale di questa violenta abreazione, di questo irriducibile antagonismo è l’Ironia («una gigantesca ironia obiettiva, […] un’intuizione superiore dell’illusione di questo processo», scrive Buadrillard), il suo ambito è il Gioco, la sua filosofia la Patafisica. Ora, non credo sia possibile restituire la ricchezza, a volte irritante, più spesso affascinante, con cui Baudrillard ci sommerge (anche) in questa occasione. Possiamo però provare a focalizzare l’attenzione su quegli aspetti o fenomeni della Realtà Integrale che meglio ce ne restituiscano l’ambigua complessità. Il primo tema è quello delle immagini e dell’immaginario. Viviamo in un’epoca dall’immaginario ipertrofico, obeso e onnivoro, straripante e totalizzante. Gli schermi ci grandinano addosso una quantità inimmaginabile di immagini. Le consumiamo con una voracità inferiore soltanto alla frenesia con cui le produciamo. Nulla accade senza che si trasmuti in una immagine. A nessuno è preclusa l’opportunità di produrre immagini. È uno dei grandi doni del digitale. Eppure siamo iconoclasti, ci dice Baudrillard: «malgrado il nostro culto degli idoli, noi siamo sempre degli iconoclasti: distruggiamo le immagini sovraccaricandole di significato, uccidiamo le immagini attraverso il senso». Assurdo. Ma di un’assurdità condivisibile. E condivisa: «Dovremo forse concludere che la condizione postumana è una condizione in cui e di cui non si danno immagini ?» (Franco Rella, Pensare per Figure). Non si danno immagini perché non ci sono immagini. La Realtà Integrale, uccidendo il reale e il suo principio, il suo senso e la sua rappresentazione, si macchia anche dell’omicidio dell’immagine. È esattamente – e inevitabilmente – lo stesso destino che tocca in sorte all’arte contemporanea: «è inesistente, perché tra essa e il mondo si ha solo un’equazione perfetta». Quest’arte ormai contemporanea solo a se stessa, si rispecchia perfettamente nel non-godimento di uno spettatore che “consuma letteralmente il fatto di non capirci niente e di non vedere alcuna necessità in tutto questo – nessuna, se non l’imperativo della cultura, dell’affiliazione al circuito integrato della cultura”. Proprio come Remo e Augusta (Alberto Sordi e Anna Longhi) nelle loro vacanze intelligenti alla Biennale, ma meno consapevole, forse più chic, magari meno inadeguato, sicuramente meno ironico. 3


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A questa crisi radicalmente moderna del sistema mondo non può sfuggire il tempo. Ammalatosi già a partire dal XIX secolo, ma di una schizofrenia lucida e folle, il tempo sembra oggi sul punto di precipitare in un coma profondo, privo di sussulti, assoluto. Un tempo in cui nemmeno l’istante, lo choc ha più senso; un istante in cui non si consuma più il non-ancora/non-più di un presente inafferrabile ma soltanto l’astrazione assoluta di un tempo ironicamente definito reale. Un tempo che cerca di anestetizzare il mondo annullando la potenzialità dell’evento. Ma l’anomalia è paradigmatica e nuovamente mette in scacco ogni pretesa di totalità. L’evento precipita nel tempo come un fulmine, come un aereo scagliato contro una torre. Il terrorismo come doppio mostruoso clonato da un sistema ormai troppo vicino alla sua formula definitiva, un malefico fiore che la potenza ha premurosamente coltivato contro se stessa. Questo di Baudrillard è dunque un libro compiutamente moderno perché animato da una tensione costante ad esporre l’inferno, a mostrare l’ambivalenza irrisolvibile di un mondo che voleva essere principio e fine di stesso. A ogni imperativo di questo mondo che si illude di poter essere Assoluto e Integrale Bartleby-Baudrillard risponde I would prefer not to, annunciandoci così l’indefettibile trionfo della dualità: “è la dualità che frantuma la Realtà Integrale, che spezza ogni sistema unitario o totalitario attraverso il vuoto, il crash, il virus, il terrorismo”. Crash, virus, terrorismo. Agente Smith… Jean Baudrillard, eminente figura del panorama culturale internazionale, è filosofo e sociologo. Tra le sue opere tradotte in italiano, Il sistema degli oggetti (Milano 1972), Lo scambio simbolico e la morte (Milano 1984) e, per Raffaello Cortina, Il delitto perfetto (1996), Lo spirito del terrorismo (2002) e Power Inferno (2003).

*** Fulvio Carmagnola IL CONSUMO DELLE IMMAGINI. Estetica e beni simbolici nella fiction economy Bruno Mondadori, Milano 2006. pp. 240, € 19,00 ISBN 88-424-9313-9 Recensione di Stefano Mizzella Benvenuti nel deserto della fiction economy. Un ossimoro seducente quanto problematico costituisce il nucleo centrale dell’ultimo lavoro di Fulvio Carmagnola. Consumare le immagini significa accettare un paradosso, prendere parte al gioco perverso per cui l’aspetto simbolico della merce diviene il metro valoriale della merce stessa. La moneta sonante dell’economia finzionale è dunque un simbolo opaco, immaginario, privo della sua antica funzione di rappresentanza. L’economia dei beni simbolici (Bourdieu) trova la propria ragion d’essere in un’inedita tipologia di merce immaginaria o finzionale, nella quale è il virtuale a prevalere sul reale, il fantasma sulla materia. All’estetica non rimane che confrontarsi e confondersi con l’economia, mutare il proprio codice di appartenenza per adeguarsi al potere fantasmatico della brand. È questo il punto di non ritorno del passaggio dalla merce marxiana all’economia libidinale (Lyotard). Un processo che condurrà, attraverso la definitiva legittimazione del desiderio nel piano dello scambio economico, alla presa d’atto di una struttura immaginaria della merce. Carmagnola entra nel vivo della discussione con l’accuratezza a cui ci hanno abituato le sue precedenti produzioni. Il suo sguardo è come al solito capace di tenere uniti, proprio come nell’ossimoro che pervade tutto il testo, elementi apparentemente inconciliabili. Il suo modus operandi risente delle influenze di quei pensatori – primo tra tutti lo Slavoj Zizek a cui l’autore dedica l’appendice – che si trovano a proprio agio nel mandare in corto circuito qualsiasi presunta coordinata culturale. Alto e basso si annullano in una trattazione che mischia seducentemente la filosofia e la fantascienza, la psicoanalisi e le strategie di marketing, la cultura del libro e quella dell’audiovisivo. 4


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D’altra parte non potrebbe essere diverso l’approccio di chi voglia davvero entrare in quel magma indefinito che abitualmente definiamo nei termini di immaginario collettivo. Un immaginario, precisa l’autore, il quale oggi più che mai «non appartiene più all’altrove creato dalla facoltà creativa dell’immaginazione ma piuttosto è diventato la forma estetica portante di un’economia fondata sulla comunicazione mediale». Un’economia, quest’ultima, in cui il tempo del consumo è direttamente partecipe della generazione di valore e in cui i simboli devono perdere il loro primitivo vincolo sociale e culturale (Nancy) per divenire logo, brand. La pillola rossa offertaci da Carmagnola è il viatico necessario per oltrepassare l’ambiguità e la pervasività dei “simboli immaginari” che caratterizzano il nostro tempo. L’opacizzazione del simbolico, accompagnata a una parallela dislocazione del simbolo sul piano economico, sono le cause principali dell’utilizzo commerciale e transpolitico del simbolo stesso, processo leggibile tanto nelle magliette con l’effigie del “Che” quanto nell’orecchino a forma di croce indossato da Madonna. La “seconda démarche” è dunque il passaggio catastrofico dal dominio del Simbolico all’affermazione attuale dell’Immaginario. Laddove il primo è ordine e stabilità, il secondo è confusione e frammentarietà. Si parla di “management dell’immaginario” nel momento in cui i simboli si trasformano in icone opache, “artefatti maneggevoli” che cambiano continuamente natura (fumetto, cinema, videogame, romanzo) all’interno dell’attuale ambiente narrativo. I fantasmi di un certo situazionismo si dissolvono tuttavia di fronte alla presa d’atto dell’impossibilità di sottrarsi al gioco dell’immaginario così come non vi è possibilità di sottrarsi al gioco delle merci. L’immaginario non deve più essere allora letto solo come perversione del simbolico, bensì come la presa d’atto della sua consapevolezza definitiva. L’esito è confortante: «forse i simboli sono sempre stati immaginari. Il fatto che ora ce ne accorgiamo, grazie all’avvento della cultura mediale, può essere fonte di lutto ma anche di liberazione». È proprio su questo terreno, per certi versi ancora poco battuto, che si muovono i tanti esempi di cui si serve Carmagnola che attinge, come detto in precedenza, da ambiti e discipline tra loro diversissime. Basti qui ricordare la rilettura in chiave post-human dell’Antigone di Judith Butler o la reinterpretazione del Barocco in chiave cyberpunk operata dalla letteratura e dal cinema di fantascienza degli ultimi anni. In entrambi i casi, simboli immaginari di una confusione di piani, di una mescolanza di livelli capace di distruggere il senso ma, allo stesso tempo, di generare nuovi codici interpretativi, nuovi simboli, nuovi immaginari. Inediti scenari in cui viene meno qualsiasi illusorio e nostalgico tentativo di separare il piano della fiction da quello della presunta realtà. La medesima “realtà virtuale” che caratterizza, seppur in modi diametralmente opposti, il feticismo di Victor e l’ossessione per il gusto di Cayce, protagonisti rispettivamente di Glamorama (Brett Easton Ellis) e di Pattern Recognition (William Gibson). Non casualmente il percorso di ricerca proposto dall’autore si chiude con la figura di Xiao-xiao, lo Stickman creato da un giovane artista cinese che, nato nell’underground della rete, è diventato non solo testimonial pubblicitario, ma anche esempio perfetto delle dinamiche più moderne di marketing virale. «Xiao-xiao gioca con la merce nel suo stesso terreno», ibridando tra loro il piano estetico e quello economico. È questo il monito decisivo che Carmagnola ci lancia in chiusura del suo lavoro. Il comportamento estetico all’interno dell’economia finzionale può e deve essere un comportamento critico: giocare la merce e le sue immagini sul loro stesso terreno. Strategie tricky, dunque, attuabili purché il gioco non si svolga al di fuori del dominio della merce bensì al suo interno, generando nuove e inaspettate potenzialità di senso nelle stesse pieghe della merce. Fulvio Carmagnola insegna Educazione estetica presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pulp Times. Immagini del tempo nel cinema d’oggi (con Telmo Pievani, Meltemi, Roma 2003); Plot, il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura (Meltemi, Roma 2004); Synopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Marco Senaldi, Guerini e Associati, Milano 2005).

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Noam Chomsky, Michel Foucault DELLA NATURA UMANA. Invariante biologico e potere politico [Ed. or. Della nature humaine: justice contre pouvoir, Editions Gallimard, Paris, 1994] Traduzione di Ilaria Bussoni e Marco Mazzeo DeriveApprodi, Roma, 2005. pp. 144, € 12,00 ISBN 88-88738-70-3 Recensione di Manolo Farci «Signore e signori, benvenuti al terzo appuntamento dell’International Philosopher’s Project. Gli invitati di questa sera sono Michel Foucault del Collège de France e Noam Chomsky del Massachusetts Institute of Technology. I percorsi dei due filosofi convergono su alcuni punti e divergono su altri. Forse potremmo paragonarli a due operai che stanno scavando un tunnel alla base di una montagna, ciascuno da un lato e con strumenti diversi, senza sapere che si incontreranno». Nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault si incontrano a Eindhoven per partecipare ad un dibattito televisivo organizzato dal giornalista Fons Elders. L’argomento su cui sono invitati a confrontarsi è il concetto di natura umana: siamo il prodotto di fattori esterni oppure possediamo delle facoltà intrinseche che ci consentono di riconoscerci nella specificità di essere umani? Di fronte ad un tema così vasto, i due giovani filosofi si muovono in parallelo, scavano due tunnel che sembrano solo sfiorarsi: troppo distanti gli approcci, troppo differenti gli strumenti d’analisi utilizzati. Chomsky, studioso di scienze cognitive, trova il fondamento della natura umana nell’insieme di quei principi organizzativi innati che consentono all’uomo di sviluppare, a partire da un numero limitato di conoscenze di base, una struttura altamente complessa come il linguaggio: esiste un dato biologico immodificabile che costituisce il fondamento delle nostre attitudini mentali. Foucault, al contrario, non accetta l’idea che possa esserci un concetto naturale e innato come la natura umana; per il filosofo francese, l’idea di natura umana non ha fondamento ontologico, ma è semplicemente un indicatore epistemologico nato da una particolare predisposizione delle conoscenze che ha consentito alla biologia del XVIII secolo di affermarsi come dominio scientifico. La posizione dei due filosofi non può essere più distante: Chomsky punta a ritrovare quegli schemi normativi fissi che consentono alla nostra mente di sviluppare la creatività linguistica, mentre Foucault è interessato a definire la dimensione storico-sociale di ogni forma di conoscenza, per ritrovare quell’insieme di regole ed enunciati – l’episteme – che andranno a definire la specificità scientifica di un qualsiasi concetto. Si tratta di due prospettive differenti: Chomsky volge lo sguardo all’interno per ritrovarne una condizione umana metastorica, Foucault guarda all’esterno, alle griglie storiche che consentono all’uomo di concettualizzare come tale una sua presunta natura. Se sulle prospettive teoriche i due filosofi sembrano sfuggirsi, le cose cambiano nel momento in cui si discute su «la possibilità di ricavare un modello di società giusta da certe prerogative biologiche dell’animale umano». Qui inizia l’attrito. Chomsky considera la lotta politica direttamente legata alla necessità di giungere a una forma di giustizia più alta, dove l’uomo possa dispiegare liberamente quelle facoltà creative e quei principi di libertà, dignità e comprensione reciproca che gli sono innati. È possibile, cioè, creare una teoria sociale umanistica che sia basata su una certa concezione della natura umana. Foucault è in totale disaccordo: la natura umana non può essere né definita, né quantomeno utilizzabile come base assoluta su cui fondare una nozione di giustizia autentica. Giustizia che funziona sia come uno strumento di potere per gli oppressori, sia come arma di lotta sociale degli oppressi. Il filosofo francese parla chiaro: «non può impedirmi di pensare che le nozioni di natura umana, giustizia, realizzazione dell’essenza umana siano termini e concetti che si sono costituiti all’interno della nostra società, del nostro tipo di sapere, nella nostra filosofia» e che dunque non si può pretendere di utilizzarli come arma per abbattere le fondamenta di quella stessa civiltà che li ha definiti. Chomsky e Foucault non avranno più occasione di incontrarsi e confrontarsi. Ma le questioni emerse da quel lontano dibattito continuano ancora a interrogarci con la loro stringente attualità. Ne è un chiaro esempio – e lo sostiene Paolo Virno con un saggio in appendice al libro – la vicenda dei movimenti di contestazione no global. Estranei a tematiche classiste e di stampo marxista, le nuove forme di contestazione paiono seguire le idee di Chomsky e lottare «più per la giustizia che per il potere», in dife6


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sa di quelli che considerano elementi di fondo e prerogative del genere umano. Ma qualsiasi linguaggio che parli in nome di una solidarietà e di una forma di giustizia più pura – come ci ricorda Foucault – non dovrebbe mai dimenticare le identità che ne costruiscono gli statuti e i campi di riferimento. Leggendo quel lontano dibattito potremo fare riferimento anche alle tematiche relative al postumano, con il suo tentativo di riscrivere la storia dell’uomo come una storia dell’abitare tecnico dei corpi. Dovremo allora domandarci se invece di seguire Foucault nella sua “morte dell’uomo biologico” non sia necessario ritrovare un invariante biologico nella nostra specifica storia filogenetica e nei suoi processi di adattamento empirico all’ambiente e farne un fertile indicatore per immaginare i possibili sviluppi di una umanità futura. Noam Chomsky è conosciuto in tutto il mondo per i suoi numerosi saggi di linguistica e scienze cognitive. Docente del MIT di Boston è altresì noto per le sue numerose critiche alle politiche statunitensi e ai fenomeni di globalizzazione economica. Michel Foucault è stato tra i maggiori innovatori del pensiero filosofico del Novecento. Si è occupato di sistemi disciplinari, modelli punitivi, storia della sessualità, pratiche mediche.

*** Maria Rosaria Dagostino CITO DUNQUE CREO. Forme e strategie della citazione visiva Meltemi, Roma, 2006. pp. 216, € 18,50 ISBN: 88-8353-450-6 Recensione di Alessandro Imbriano L’indagine sociosemiotica di Maria Rosaria Dagostino sulla citazione visiva (cit-azione per l’autrice) si innesta sul discorso inaugurato da Franco Speroni nel suo straordinario, elegantissimo e utilmente inutile saggio sulla rovina simmelliana. Contrariamente a quanto accadeva in La Rovina in scena, però, Cito dunque creo rilancia l’appeal dei linguaggi del Sapere, lascia che “il presente del ricordo” si areni sugli scogli del “ricordo del presente”, si risolve in un perentorio elogio del comb-attante, si autopreclude alla fascinosa e irrisolvibile (fascinosa forse proprio perché irrisolvibile) enigmaticità delle forme di vita post-storiche o della Quotidianità, lascia che una Donna, nevroticamente, parafrasando Paolo Virno (“Il ricordo del presente”, Bollati Boringhieri), rimanga amata solo in virtù di ciò che questa possiede di Amabile (ma non si ama solo ciò che non è?). Ostinatamente Moderno manca di mancare il Bersaglio: questo il limite ma anche la ragione dell’interesse – qualora si decretasse importante il destino del discorso universitario più che dell’università – che suscita questo gustoso passo falso di cui si arricchiscono i visual studies. Eppure il libro i luoghi topici della fioritura contemporanea del senso e del suo sottrarsi li frequenta tutti: dalla pubblicità all’anti-pubblicità, dal marketing delle multinazionali al de-marketing, dalle strategie di sopravvivenza dei piccoli centri di autoproduzione del neorealismo pubblicitario e dal tema della morte del concetto di autore al culture jamming, dalle périgraphie (ovvero le soglie come luogo simbolico del né fuori né dentro, secondo Compagnon) al vuoto come plurireferenza, dal discorso indiretto libero alla computer art, dalla cultura popolare dei proverbi agli stereotipi, alla mitologia. A fare da collante il concetto di cit-azione, il cui statuto semiotico è scrupolosamente indagato nella prima parte del libro, e la cui funzione è delucidata soprattutto metaforicamente da Dagostino nella spiegazione del funzionamento della frizione, cioè «il meccanismo che nelle nostre autovetture permette una solidarietà tra gli alberi coassiali che si trasmettono reciprocamente la potenza del motore e il moto della rotazione». Come in meccanica la frizione così la citazione è «urto tra più testi che scrivono le loro somiglianze perché si leggano le loro differenze». La scintilla prodotta dallo sfregarsi di due testi è la stessa da cui sortisce se non la rivoluzione per lo meno lo spirito critico con cui restituire «all’ideologia sottesa alla multinazionale di turno la creatività della risposta personale». «Fermarsi, guardare all’indietro e saltare per iniziare qualcosa di nuovo, fermarsi, dover creare ma avendo a propria disposizione il certo del passato. Saltare nel precipizio, allora, volgendo le spal7


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le al vuoto e rivolgere lo sguardo al frastuono, alle armi, agli eserciti, al passato che porteremo con noi precipitando in un mondo nuovo, fatto di sguardi passati. Ma comunque agire…». Commentando il motto celebre apparso su una lavagna della Sorbona nel 1968, vergato da un anonimo casseur ante litteram, secondo cui: “Le strutture non scendono in piazza”, Jacques Lacan, il famoso clown de “la vita non vuol guarire”, intervenendo in una conferenza dedicata alla questione dell’autore tenuta da Michel Foucault, ebbe a esprimere genialmente una glossa che può costituire un’utile obiezione a Cito dunque Creo: «non ritengo – disse – che sia in alcun modo legittimo aver scritto che le strutture non scendono in piazza perché se c’è qualcosa che gli eventi del Maggio dimostrano, è proprio lo scendere in piazza delle strutture». Aggiungendo poi che l’iscrizione di questa frase faceva precisamente vedere che «un atto misconosce sempre se stesso». A tal destino pare votarsi il libro di Dagostino che permette che il suo discorso naufraghi rovinosamente sulle Certezze della Militanza e dell’Attivismo anticonsumista e della critica alla società dello spettacolo. In un saggio scritto da Michel De Certeau in ricordo dello stesso Lacan, lo storico francese, rifacendosi a Freud, si chiede: «se è vero che la tradizione non smette mai di ingannare il suo fondatore, la parola di Lacan sarà compresa là dove si pretende di possederne l’eredità e il nome o finirà invece per fare la sua ricomparsa sotto altri e inauditi nomi?». Il senso è nel suo sottrarsi: i visual studies e gli studi sull’industria culturale in generale sembrano i soli capaci di riproporre gli scacchi del “maestro” che parlava per sottrarsi. Un punto di partenza per ripensare l’università potrebbe essere ancora questo: la vita non vuol guarire. Maria Rosaria Dagostino è dottore di ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni. Insegna Sociolinguistica nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Bari (sede di Taranto) e collabora con il Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di testi dell’Università di Bari. Si occupa di visual culture e analisi del linguaggio pubblicitario. Ha tradotto Il sogno di butterfly di Rey Chow, a cura di Patrizia Calefato (2003). *** Jaime D’Alessandro PLAY 2.0. Storie e personaggi nell’era dei videogame online BUR, Milano, 2005. pp. 247, € 13,00 ISBN 88-17-00629-7 Recensione di Stefano Mizzella Millequattrocento ore in due anni. Questo il tempo che Jaime D’Alessandro, o meglio il suo avatar digitale, l’elfo Duedi, ha trascorso tra i boschi di Hibernia, reame di Dark Age of Camelot. Un arco di tempo sufficientemente ampio per spingere l’autore ad analizzare in prima persona il fenomeno sempre più consistente dei videogiochi online, ovvero la «forma più evoluta e affascinante di narrazione collettiva nell’era delle reti informatiche». La tradizionale fruizione solipsistica si è evoluta e radicata in un’esperienza di gioco che rende ancor più problematica e seducente l’interazione con gli altri giocatori: «è la stessa differenza che passa fra la complessità di un individuo e la complessità di una società». L’evoluzione degli ecosistemi digitali porta con sé un interrogativo di fondo che ha investito l’autore lungo il suo percorso di ricerca: come e perché si è arrivati ai mondi digitali online, quali sono i processi che hanno spinto così tante persone a vivere una sorta di doppia esistenza virtuale. Un percorso diacronico, questo, lungo il quale D’Alessandro si diverte a pescare nella memoria storica le tappe più significative di un processo che ha caratterizzato tanto il piano scientifico-tecnologico quanto quello immaginifico. La messa in orbita dello Sputnik, lo sbarco sulla Luna, la conquista dello spazio e la paura di un’imminente invasione aliena rappresentano i prodromi di quel magma indefinito i cui memi hanno contagiato in maniera virale le prime generazioni di hacker cresciuti nelle stanze buie del MIT. È uno di loro, Steve Russell, il creatore di Spacewar, quello che viene comunemente considerato il primo videogame della storia. Una storia che inizia col flipper, passa per i labirinti Dungeons&Dragons per giungere sino alle ultime generazioni 8


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di MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game). D’Alessandro racconta questa storia con aneddoti e dovizia di particolari incrociando nomi, date e avvenimenti di un universo in cui confluiscono senza soluzione di continuità computer, fumetti, anime, film di fantascienza e racconti fantasy (i capisaldi della cultura otaku, per intenderci). Fin qui un libro come tanti, sicuramente ben scritto e ben organizzato, ma incapace di mordere il lettore, di catturarlo in quella spirale immersiva che avvolge la sensorialità del videogiocatore a tal punto da cortocircuitare i versanti del reale e del virtuale. Le cose cambiano radicalmente nel preciso istante in cui il riassunto delle “puntate precedenti” si interrompe per lasciare il posto al cuore pulsante della trattazione, l’esperienza videoludica dell’autore. È qui che D’Alessandro si toglie la maschera dello studioso per indossare i panni di chi ha effettivamente vissuto sulla propria pelle le emozioni e gli effetti di tale esperienza. Il suo sguardo non ha e non può avere il distacco e la freddezza di un antropologo seminascosto tra i cespugli desideroso di scoprire i segreti di una tribù indigena. La sua (auto)analisi corrisponde all’espiazione di un peccato, è la catarsi di un’allucinazione non certo individuale bensì collettiva, stratificata, eterogenea e proteiforme. Come nel mito di Edipo il detective arriva a convivere con l’assassino ma attenzione, non aspettatevi di trovarvi di fronte alle confessioni di un ex alcolizzato all’interno di un centro di recupero per alcolisti anonimi. Assolutamente no. Le pagine iniziali del testo sono solo quel necessario messaggio di loading che rende ancor più entusiasmante l’inizio del gioco, la sfida del primo livello in cui affrontiamo per la prima volta i nostri nemici. La partita può ora iniziare. Lo stile narrativo assume da questo punto in avanti le sembianze di un first person shooter. La narrazione è un lungo piano sequenza alla De Palma in cui D’Alessandro fa coincidere il suo sguardo con il nostro. Quasi senza accorgercene veniamo catapultati di colpo nell’arena digitale di Unreal Tournament e capiamo quanto in certi casi sia meglio pensare a sopravvivere piuttosto che sferrare il colpo di grazia al nostro avversario. Nell’attimo successivo ci ritroviamo tra le terre di Hibernia (Dark Age of Camelot), pronti a difendere i nostri alleati nella battaglia decisiva per le sorti del reame, prima di venire telestrasportati sul pianeta Tatooine (Star Wars Galaxies), dove un giocatore svedese ha avuto la geniale idea di aprire un gigantesco centro commerciale chiamandolo Ikea. Niccolò Ammaniti ci avverte nelle pagine introduttive che questo saggio può essere utile quanto un manuale sulle droghe e le sostanze psicotrope. Il discorso è un altro. Lo sguardo in soggettiva dell’autore va oltre i confini di una cyber-dipendenza. Il videogame non è una droga, ma l’esemplificazione della nostra identità, del nostro io, della nostra corporeità intrisa tanto di materia quanto di bit. Forse è proprio per questo che D’Alessandro ogni tanto, prima di addormentarsi, racconta di pensare a cosa stia facendo il suo vecchio amico Josh, sempre impegnato a organizzare feste e a provarci con la moglie del suo vicino di casa. Il mondo di Josh è quello di The Sims, ma la sua vita è così reale perché fatta della stessa materia dei sogni. Jaime D’Alessandro (Roma, 1969), giornalista, dal 1997 si occupa di tecnologia e videogame per varie testate tra cui “La Repubblica”, “Diario”, “Il Sole 24 Ore”. È stato direttore creativo della sezione videogame del CWT Festival presso la Triennale di Milano del 2001 e curatore della prima mostra europea dedicata ai giochi elettronici, Play: Il mondo dei videogiochi, a Roma nel 2002. Nel 1994 ha pubblicato, nella raccolta La giungla sotto l’asfalto, il racconto Nuovo Cinema Paradiso, e nel 1998, con Niccolò Ammaniti, Enchanted music&light records, in Il fagiano Jonathan Livingston. Manifesto contro la new age. *** Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di) DOPO LA DEMOCRAZIA. Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti Apogeo, Milano, 2006. pp. 200, € 13,00 ISBN 88-503-2479-0 Recensione di Rony Medaglia La raccolta di saggi proposta da Derrick de Kerckhove ed Antonio Tursi (ambedue anche autori di due contributi all’interno del volume) si presenta con l’ambizione di “fare il punto” sullo stato del dibattito 9


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intorno al rapporto tra forme politiche e scenari mediali della contemporaneità, e nel contempo offrire elementi di disseminazione cognitiva per una nuova prospettiva e un nuovo percorso di ricerca sui luoghi di incontro tra democrazia e nuovi paradigmi di comunicazione, tra politica e mediazione reticolare. In questo senso l’eterogeneità della provenienza disciplinare dei contributi proposta dal volume – germinati in occasione del convegno Ciberdemocrazia o postdemocrazia? organizzato dall’Università di Roma “La Sapienza” e dalla McLuhan Fellows International nell’aprile 2004 – costituisce un punto di forza nell’offrire in un percorso unitario prospettive provenienti dal diritto, dalla filosofia, dalla scienza della politica oltre che, ovviamente, dalla mediologia: e a sostegno di tale progetto sono protagonisti di un ricco percorso di analisi le voci di Pierre Lévy, Alberto Abruzzese, Stefano Rodotà, Michele Prospero, Sara Bentivegna, Luca Toschi e Franco Berardi Bifo, oltre a quelle dei due curatori del volume. Il percorso di analisi proposto si struttura – o meglio, è letto – seguendo due dimensioni: un asse che va dal termine «accelerazione» a «decelerazione», a seconda che l’orientamento proposto sia teso a sottolineare nei nuovi media, rispettivamente, un ruolo di volano di emancipazione dei processi democratici o ad evidenziare le possibili criticità d’impatto sul panorama dell’agire politico; e un asse che ha come poli «politica» e «governo», a seconda che le prospettive siano legate a concezioni della sfera pubblica che fanno riferimento ad un suo ruolo decisivo e «denso», oppure minimo o, con una definizione suggerita nell’introduzione dei curatori, «chiaro». L’alto livello dei contributi ha il primo, e non scontato, pregio di sgombrare il campo dall’eventualità di riproporre inutili dualismi come quello apocalisse/integrazione: la chiave di lettura «accelerazione/decelerazione» ordina su una gradazione continua prospettive che però mantengono la propria problematicità, e quindi fecondità, interna. Si va quindi dai saggi di Lévy e de Kerckhove, prefiguratori di una simbiosi dalle caratteristiche progressive entro la ciberdemocrazia (ciò che vi è di democratico nel cibernetico, e viceversa) ma tuttavia consapevoli del carattere paradigmatico e non immediatamente implementabile (e quindi bisognoso di mediazione) di essa, a quelli dal taglio esplicitamente «denso», che mettono in evidenza il possibile vicolo cieco di analisi che sono solo apologetiche se non tengono conto di criticità insuperabili anche nel paradigma digitale, come quelle del corpo, dell’interesse, dell’agire economico – come nei contributi di Michele Prospero e Franco “Bifo”Berardi (quest’ultimo sorprendentemente inserito invece dai curatori in una posizione più vicina a quella della «accelerazione»). Ciò che ne risulta è un insieme di voci con un ottimo spessore teorico generale, e la fruibilità di un testo panoramico anche per un pubblico di lettori non specializzato: il proposito esplicito dei curatori di rivolgersi ad un uditorio più ampio è realizzato con successo, e senza intaccare la pertinenza e la qualità del contributo. All’inizio-fine del testo di Tursi e de Kerckhove (che può essere un’esperienza interessante «navigare» iniziando dagli estremi e avvicinandosi gradualmente al centro), ossia all’interrogativo del titolo Dopo la democrazia?, ovviamente non è data una risposta unica o definitiva: a conferma che tra le ricche pagine che interrogano le prospettive future per le forme della mediazione democratica sono da trovarsi, per usare un’eco heideggeriana, «cammini, non opere». Derrick de Kerckhove è direttore del McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università di Toronto e insegna anche presso l’Università di Napoli “Federico II”. Antonio Tursi è dottore di ricerca in Teoria dell’informazione e della comunicazione presso l’Università di Macerata e Senior Fellow del McLuhan Program in Culture and Technology. È autore di Internet e il barocco. L’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione (Roma, 2004) e ha curato il volume Mediazioni. Spazi, linguaggi e soggettività delle reti (Milano, 2005).

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Marcello Pecchioli (a cura di) NEO TELEVISIONE. Elementi di un linguaggio catodico glocal/e Costa & Nolan, Milano, 2005. pp. 192, € 17,20 ISBN 88-7437-011-3 Recensione di Alejandro De Marzo

Con il termine neotelevisione, coniato negli anni Ottanta da Umberto Eco e Francesco Casetti, si è definita la nuova stagione palinsestuale della televisione mondiale, caratterizzata dall’abbattimento delle frontiere tra generi, dall’inglobamento dello spettatore nei meccanismi di produzione testuale, dall’emissione di flusso della programmazione, anche sulla scorta della pressione pubblicitaria che ha prevalentemente rimpiazzato altre fonti di introito finanziario dei network. Eppure neotelevisione significava anche sperimentazione di linguaggi e formati, ricerca visiva e cromatica, ridefinizione delle “regole del gioco” in campo sintattico e ritmico. Ma su questi aspetti il generalismo della tv, non solo italiana, ha offuscato la portata reale del cambiamento estetico e rinviato probabilmente l’esigenza di manifestarli mediante appropriati adattamenti tecnologici. In seguito infatti si sono rese sempre più necessarie le emergenze digitali ed interattive, dal cavo coassiale al video on demand, alla pay tv, il narrowcasting, lo streaming video su internet, così confermando quasi, si direbbe ora, la repressa istanza originaria contenuta nell’esplosione fantastica e provvidenziale della neotelevisione. A questo risultato, allora, si possono ascrivere meritoriamente le installazioni elettroniche, le performance di video-arte, e tutti quei lavori che hanno operato in regime di “clandestinità” consapevole e resistente durante la primordiale fase generalista della neotelevisione. Gruppi di grafici e operatori video, artisti informatici, media-attivisti, perfino pubblicitari, che hanno avuto certo meno possibilità di farsi ascoltare, vedere, fruire, notare se non in circuiti selezionati, gallerie d’avanguardia, festival e convention di nicchia, manifestazioni e convegni (sporadici, ma fortunosamente organizzati). Tutto questo sottobosco di convinzioni e arduo lavorare attende ora la rivincita comunicativa e ne viene evidentemente interpellato per la padronanza di esperienza e know how accumulato, di cui si sono fatti dunque epigoni e conoscitori. Quello che va loro in soccorso, finalmente, è la virata multimediale e ipertestuale del linguaggio televisivo, che cerca di coniugare sempre nuove tecnologie informatiche ed elettroniche in un progetto di supermedium tv, naturale evoluzione del mezzo in uno scenario in cui il suo primato è terminato per l’avvento di internet e delle reti plurimediali. I saggi raccolti in questo volume, scritti da più autori di varia estrazione e competenza, affrontano il tema riferendosi soprattutto al presente, evitando dunque di presentare solo nostalgiche memorie e rivendicazioni, finalizzando ognuno il proprio chiaro ed esaustivo intervento alla comprensione degli accadimenti televisivi odierni (fenomeno delle telestreet e degli Hackmeeting, per esempio, oppure della minimal tv, o dell’expanded tv), nonché volendo addurre una originale interpretazione dei reality show sulla base proprio di quest’ottica neo televisiva propugnata e difesa. Secondo tale lettura pertanto – sostenuta nei saggi di Elena Colombo, Giorgio Simonelli, Marco Senaldi e Marcello Pecchioli – anche gli attuali reality show rappresentano la resa della neo-tv generalista “classica” alla neo televisione “effervescente”, avendo la prima esaurito il percorso che si è ostinata a proporre esclusivamente, e trovandosi ora a far i conti con le richieste tecnologiche e linguistiche assolte invece dalla seconda forma di neo televisione (sperimentale, multimediale, contro-culturale). Fausto Colombo, autore che pur collabora al progetto di esplicitazione teorica di questa sommersa “neo televisione”, trova però il coraggio per definire “post-televisione” quanto Pecchioli e gli altri saggisti propongono nel libro come ancora neo televisione. Questo in virtù del fatto che, per le concomitanti trasformazioni socio-culturali e tecnologiche avvenute indipendentemente dal verificarsi di tale neo televisione, la sua riscoperta attuale (dietro l’apripista dei reality) sa di un gusto sorprendentemente nuovo e diverso dall’aspettativa teoretica e sperimentale. In altre parole, il contesto del quotidiano comunicativo in cui si inserisce, finalmente legittimata, la troppo a lungo trascurata neo televisione sperimentale porta a mutarla all’istante in qualcos’altro di post-televisivo che ha tutto il sapore di uno scacco imprevisto, dichiarazione 11


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di una affermazione linguistica ormai superata e forse perduta di mano, ma che conviene accettare come sfida di ulteriore evoluzione. Marcello Pecchioli (Spoleto, 1954) è critico multimediale e cinematografico, videomaker e artista. Insegna Teoria ed estetica dei nuovi media presso l’Università di Padova. Come autore ha prodotto numerosi video, lavori fotografici e installazioni multimediali. È l’ideatore e coordinatore del Progetto multimediale Digit Diary. Oltre a numerosi articoli, ha scritto Effetto Cronenberg (Pendragon, 1994) e Scansioni (Costa Nolan, 2000).

*** Giovanni Ragone L’EDITORIA IN ITALIA. Storia e scenari per il XXI secolo Liguori, Napoli, 2005. pp. 252, € 14.50 ISBN 88-207-3851-1 Recensione di Benedetta Fallucchi L’editoria italiana sta transitando da un modello di terza generazione – quello cioè che caratterizza un’industria culturale matura, in cui la stampa si integra pienamente nel flusso multimediale, contendendo e mutuando spazi, strategie e linguaggi dagli altri media – a una conformazione da quarta generazione – ovvero legata alle dinamiche della società delle reti. Questa, in estrema sintesi, è la premessa su cui si fonda il lavoro di Ragone. La storia dell’editoria in Italia è tracciata in quattro fasi, che vanno dal periodo post-unitario (“editori di prima generazione”), fino all’attuale. A fronte di un ingresso brillante nel mercato tipografico cinquecentesco (con Venezia capitale della stampa e centro di una rete commerciale transnazionale, e figure decisive come quella di Aldo Manuzio), sia le fasi aurorali sia quelle più mature dell’industria culturale vedono l’Italia arrancare tra continue crisi e continue rinascite dell’editoria. La seconda generazione – gli anni Cinquanta – rappresenta sicuramente l’acme del mercato dei libri, sia per il volume di affari sia per la maturità del comparto: concentrazione, specializzazione e massificazione sono le parole-chiave per capire l’editoria italiana in questo periodo. Ma è anche il momento che precede il declino: le tv commerciali prima (“terza generazione”) e i media elettronici poi assegnano un ruolo sempre più da comprimari ai libri e alla cultura che essi veicolano. La natura dei nuovi oggetti testuali mette in discussione la linearità intrinseca all’oggetto libro, e dunque un intero sistema di pensiero. Anche se – ed è importante sottolinearlo – questa congiuntura di potenziali ribaltamenti del sistema rimane comunque caratterizzata da un’altissima concentrazione (grandi gruppi che operano in più settori mediali), e da una parcellizzazione dei piccoli editori, che continuano a moltiplicarsi, pur raggiungendo tutti insieme una percentuale ridicola del fatturato nazionale (un decimo). Oltre a quello di Ragone, nel testo sono presenti anche saggi di altri autori che prendono in esame il contesto editoriale europeo, la ricaduta delle nuove tecnologie e la trasformazione di alcuni ruoli professionali legati ai libri. Il tutto confluisce in un libro agile e scorrevole (anche se purtroppo un po’ sciatto dal punto di vista della cura redazionale e dell’impaginazione), che ha il pregio di ripercorrere le tappe dei processi evolutivi del settore editoriale (approfondendo soprattutto il periodo di maggior splendore dell’editoria in Italia) e contemporaneamente di aprirsi ai nuovi (e agli altri) scenari del mercato del libro. Rispetto alle prospettive future, l’attenzione è concentrata quasi esclusivamente sul print on demand, benché, allo stato odierno, si tratti di una dimensione quasi del tutto marginale del settore, mentre scarso rilievo viene dato ad esempio a un esperimento come quello di Google libri – cui molte realtà editoriali, più o meno grandi, si stanno accostando. Nel volume la comparazione tra Italia e Europa risente di una bibliografia marcatamente italiana, a discapito del ricorso a fonti straniere, mentre manca quasi completamente un reale approfondimento delle trasformazioni innescate dalla digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro redazionale, sulla scomparsa 12


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di alcuni ruoli tradizionali e sull’impatto sulla qualità generale dei testi. Quel che emerge con certezza da L’editoria in Italia è che l’editoria è obbligata dal Web a rimettersi in discussione; può farlo o seguendo una logica protezionistica – sul modello di altre realtà europee, tradizionalmente più attente alla salvaguardia della carta stampata e dunque impegnate in politiche pubbliche di tutela del settore – o lanciandosi con più convinzione nelle nuove tipologie produttive e distributive offerte dalla Rete. In questo senso, segnali di trasformazione sono evidenti (vale per tutti la crescita enorme del canale di vendita on line), e c’è chi (in America) prevede il sorpasso dell’e-book sul libro stampato già a partire dal 2010. Ma in Italia sembra più difficile, specie in tempi così rapidi. Giovanni Ragone è autore di libri e saggi sull’editoria, il più noto è Un secolo di libri (Torino 1999). Insegna Teoria dei media, Editoria, Letteratura e Comunicazione all’Università di Urbino.

*** Elisabetta Sibilio LAUTRÉAMONT LETTORE DI DANTE Portaparole, Roma, 2006. pp. 58, € 8,00 ISBN 88-89421-30-4 Recensione di Daniele Vazquez

Le due opere di Isidore Ducasse Les Chants de Maldoror (pubblicata con lo pseudonimo di Comte de Lautréamont) e Poésies costituiscono un caso singolare nel panorama della letteratura francese della seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di testi che sono rimasti per lungo tempo inclassificabili dal punto di vista del genere, testi che sembrano scritti ad arte per depistare il critico letterario, per dissimulare l’autore e per occultare le fonti dell’ispirazione. Si dovette attendere la fine del realismo positivista perché la prosa visionaria degli Chants trovasse un piccolo pubblico entusiasta che si passasse il libro di mano in mano. Ma fu soprattutto per opera delle riviste e dei testi surrealisti che Ducasse divenne un caso letterario da indagare in profondità: Breton e compagni consideravano Ducasse uno dei loro, nel Manifesto del Surrealismo veniva considerato un poeta che aveva fatto professione di “surrealismo assoluto”. Ciò che rimane di queste pagine “oscure e piene di veleno” è molto più che un raro esempio di poesia surrealista ante litteram, ciò che rimane è soprattutto una metodologia di scrittura e produzione dei testi che ha attraversato l’opera delle avanguardie prima e il linguaggio pop successivamente. Ducasse influenzò profondamente i situazionisti e il loro stile, ed il concetto di deturnamento deriva direttamente dalla sua metodologia. Lo stile de La società dello spettacolo di Debord si rifaceva esplicitamente a lui, tanto che una frase delle sue Poésies si ritrova nel libro, come deturnamento, quasi a riconoscimento di un debito intellettuale. Dieci anni più tardi anche Deleuze e Guattari si servirono della metodologia di Lautréamont per scrivere Mille Piani, se ne servirono per aggirare il concetto di autore, per farsi gioco del libro come struttura arborea e per praticare il rizoma nello stesso momento in cui ne scrivevano. Di che metodologia si tratta? Del plagio, ovviamente. Del montaggio, casuale o pianificato, di segmenti di testo provenienti dalle fonti più disparati, segmenti mutilati, triturati, combinati, fino alla mutazione di senso con lo scopo di produrre un testo originale. Debord dirà che la citazione è per i tempi culturalmente oscuri, tempi in cui è necessario render note le proprie fonti, per non essere fraintesi e guadagnare in efficacia (e così i suoi “commentari” richiesero il passaggio dal plagio alla citazione). Ma se l’epoca è in fermento, se lo scambio di idee sta sulla soglia dei mutamenti sociali, allora si rende necessario il plagio. Ducasse ha scritto: «Le plagiat est nécessaire. Le progrès l’implique. Il serre de près la phrase d’un auteur, se sert de ses expressions, efface una idée fausse, la remplace par l’idée juste» (Poésies, Isidore Ducasse). Le avanguardie hanno cercato gelosamente di custodire il segreto di questa metodologia finché il gruppo Tel Quel negli anni ’70 non l’ha passata al vaglio degli strumenti più avanzati della critica letteraria. Alla 13


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fine degli anni ’80 alcuni artisti hanno voluto chiamare questa pratica “plagiarismo”, preferendo questa definizione ad altre più in voga come cut-up o deturnamento. Il plagiarismo oggi è esplicitamente alla base di nuove forme d’arte come le net.art o il cultural jamming. Negli Chants il plagio percorre tutta l’opera. Nel 1970 Blanchot era in grado di stilare un inventario delle citazioni e reminescenze rinvenute da diversi critici negli Chants. Egli sosteneva che non vi fosse alcun piano e che il plagio non fosse altro che una forma di sregolatezza dovuta all’inesperienza di Lautréamont come poeta. La Sibilio, invece, concentrando il suo studio esclusivamente sui plagi dell’Inferno di Dante dimostra come Ducasse seguisse un’intenzione progettuale forte che ha dato origine ai primi cinque canti. Les Chants de Maldoror sarebbero caratterizzati da una sostanziale unità progettuale e stilistica. Lautréamont isola i versi dal suo contesto, li priva di alcune caratteristiche formali che li farebbero riconoscere, ad esempio la rima, si concentra sul contenuto o sul suo ribaltamento, e nel caso di Dante non ne riconoscerebbe l’endecasillabo. L’Inferno negli Chants è irriconoscibile e ciò è dovuto al fatto che Ducasse probabilmente non ha utilizzato l'originale in italiano. Sarebbe del tutto inutile cercare i plagi a partire dall'originale, il saccheggio molto probabilmente è avvenuto su qualcuna delle innumerevoli traduzioni in prosa (considerate dalla Sibilio mediocri) disponibili all'epoca, su un testo che dunque aveva già subito una trasformazione e che era già diventato irriconoscibile. La Sibilio attraversa con dovizia di particolari tutte le immagini rapinate a Dante e ne sottolinea la novità della rielaborazione, il contesto mutato e la funzione ideologica e letteraria completamente diversa. Si tratta di un’opera, quella di Ducasse, che ha senza dubbio creato un precedente fondamentale per le produzioni culturali del '900, ma non va dimenticato che si tratta di una pratica creativa immemorabile tipica della poesia popolare, che attraversa da sempre le produzioni culturali preindividuali. Ducasse morì giovanissimo in circostanze misteriose e il plagiarismo, esplicito o meno, continua altrettanto misteriosamente a segnare tutta la produzione culturale contemporanea. Se si ha voglia di approfondire l’opera del maestro di tutti i plagiaristi il libro della Sibilio è eccellente.

Elisabetta Sibilio è professoressa di Letteratura francese all’Università di Cassino. Specialista della poesia del secondo Ottocento, ha pubblicato saggi su Lautréamont, Baudelaire, Laforgue, Rodenbach. Oltre a collaborare alla traduzione del Peintre de la vie moderne di Baudelaire, ha tradotto e curato due delle maggiori commedie di Musset, opere di narratori contemporanei come Kessel, Fiechter, Boulanger e diversi testi di saggistica. Di recente i suoi interessi si sono focalizzati anche sul romanzo francese contemporaneo.

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