NIM.libri [Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia] Numero 2, dicembre 2005
INDICE Daniele Barbieri (a cura di), La linea inquieta. Emozioni e ironia nel fumetto p. 1 Borgna Paola, Sociologia del corpo p. 3 Cavalletti Andrea, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza p. 4 Diodato Roberto, Estetica del virtuale p. 5 Galli Matteo (a cura di), Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania p. 7 Granieri Giuseppe, Blog generation p. 8 Ilardi Emiliano, Il senso della posizione p. 10 La Cecla Franco, Minnella Melo, La Lapa e l’antropologia del quotidiano p. 11 Zizek Slavoj, Distanza di sicurezza. Cronache del mondo rimosso p. 12
*** Daniele Barbieri (a cura di) LA LINEA INQUIETA. Emozioni e ironia nel fumetto Meltemi, Roma 2005 pp. 213, € 18,50 ISBN: 88-8353-434-4 Recensione di marcello serra
Per ogni appassionato di fumetti questi sono anni tragici e bellissimi. Anni di «non più e non ancora» in cui se i “giornaletti” diventano periferici nell’economia dei media, il fumetto riversa massicciamente immaginario e linguaggio nell’ordine complesso del sistema comunicativo contemporaneo. Anni di morte e rinascita, di una transizione che libera le potenzialità creative e di un limbo che stimola la riflessione critica, sempre più presente e sempre più penetrante. Questo libro aggiunge ancora un interessante poco a questo sempre più. Si tratta di un volume che raccoglie le rielaborazioni degli interventi di un convegno del 2004, tenutosi a Bologna e dedicato all’emozione nei testi a fumetti (le registrazioni sono disponibili all’indirizzo www.sssub.unibo.it/fondogregotti). I contributi, di differente estrazione teorica, seguono tre grandi aree tematiche: quella della relazione tra il fumetto e gli altri linguaggi del mondo delle comunicazioni di massa, quella della natura dell’emozione declinata a fumetti e quella dei meccanismi fumettistici di costruzione dell’emozione. Orrore del vuoto, il saggio di Thierry Groensteen che apre il volume dopo l’introduzione di Daniele Barbieri e la presentazione di Umberto Eco, analizza l’espressione del tragico, uno dei sentimenti più nuovi e insoliti nei fumetti. In particolare privilegia le opere in cui il tragico emerge attraverso la sospensione e la rottura del ritmo. Installando l’assenza, il vuoto, il silenzio, l’immobilità all’interno di un dispositivo caratterizzato da spettacolarità, scatti e metamorfosi, questi testi decostruiscono il normale funzionamento del linguaggio ottenendo il tragico mediante forme di penuria visiva o attenuazione della dinamica narrativa. In Ansie Biedermaier. Il fumetto e le emozioni, Antonio Faeti traccia «le linee di una storia del fumetto basate sulla trasmissione dell’emozione», ragionando su legami storici e intermediali che vanno dal protofumetto alla contemporaneità. Il contributo di Gino Frezza, intitolato Passare attraverso. Figurare, impaginare, iconizzare, per buona parte della lunghezza stende alcune bibliografie di studi sul fumetto ordinate secondo le differenti aree disciplinari che se ne sono occupate. Inoltre ragiona sul motivo del profondo rapporto che lega il fumetto 1
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al cinema: una ragione risiede per Frezza nel fatto che se «il cinema si caratterizza principalmente per il connotato tecnologico-industriale che sostiene il suo universo immaginario, il fumetto si distingue per la libertà e varietà delle sue fantasie». Così il cinema fornisce per entrambi le regole della sintassi delle immagini (ma, si può obiettare, solo fino a un certo punto dell’evoluzione tecnologica, poiché non esiste nel fumetto qualcosa di analogo, ad esempio, alla steady-cam), mentre il fumetto dà corpo a fantasie che il cinema cerca costantemente di riprodurre. Il fumetto, spesso, prefigurerebbe allora il cinema del futuro, quello che le innovazioni tecnologiche potranno consentire. Sui legami tra cinema e fumetto riflette anche il saggio di Sergio Brancato, La malinconia della voce fuori campo: confondere i ruoli tra autore, personaggio e lettore. Appunti su Eisner, Micheluzzi e Miller, dedicato alla trasformazione della funzione della didascalia da commento dell’azione a voce fuori campo, a elemento funzionale alla resa produttiva della malinconia e della sua efficacia emotiva. Nella sua analisi, Brancato individua tre diversi tipi di voce fuori campo e li illustra attraverso le opere di tre diversi autori. La produzione di Will Eisner rivela un uso di una vfc narrante astratta, a dominante letteraria. La didascalia di Attilio Micheluzzi ospita invece una vfc che appartiene all’autore stesso, tipicamente cinematografica. L’opera di Frank Miller lavora infine con una voce differita del protagonista, che «racconta il presente con una prosa che lo rimanda al passato» e spinge il fumetto nei territori dei linguaggi elettronici. Pascal Lefèvre, nel suo bell’intervento Meno è più. Una lettura ravvicinata di un manga alternativo, Kuchizuke (Baci) di Kiriko Nananan, analizza un manga dalla struttura narrativa altamente ellittica, priva di tradizione nel fumetto, mostrando come una tecnica simile possa costruire storie di grande interesse. Il saggio di Alvise Mattozzi, intitolato L’invasione dei supercorpi. Il corpo del supereroe tra azione e passione, cerca di dimostrare con strumenti semiotici come l’aumento della massa muscolare dei supereroi, così come è osservabile nella storia della loro raffigurazione e «che a livello plastico si presenta come una maggior densità di linee presenti sul corpo del supereroe, permetta non solo una miglior rappresentazione dell’azione ma, grazie alle tensioni create da queste linee, anche di dare maggiore rilevanza alla passione». L’analisi viene condotta sull’universo supereroistico della casa editrice DC, ma sembra decisamente generalizzabile. Con Dal cinema al fumetto tra enuncizione ed enunciato, Francesco Galofaro ricorre a esempi tratti da Disney, Peanuts e Julia per esaminare come il fumetto riproduca alcune delle emozioni del cinema. Ruggero Eugeni (Uno spazio in frantumi. Figure del ritmo in una sequenza del Dark Knights Returns), attraverso l’analisi di una della più celebri sequenze del fumetto mondiale (quella all’inizio de Il ritorno del cavaliere oscuro in cui un Bruce Wayne ormai cinquantenne matura la decisione di tornare ad essere Batman), va alla ricerca delle figure testuali del ritmo nel testo a fumetti, dei loro rapporti e degli effetti di senso che producono. Infine, Daniele Barbieri chiude il volume con un intervento intitolato Linee inquiete. L’emozione e l’ironia nel segno grafico, in cui isola l’elemento della linea per evidenziare come le sue caratteristiche contribuiscano all’effetto di senso complessivo. I fumetti e le emozioni: terra fertile per il lavoro. Se non tutti i campi sono stati ben arati, da altre parti il raccolto è maturo.
Daniele Barbieri, semiologo, si occupa di comunicazione visiva. Ha pubblicato i volumi Valvoforme e valvocolori (1990), I linguaggi del fumetto (1991), Questioni di ritmo (1996), Nel corso del testo (2004). È tra i progettisti di Encyclomedia. Guida multimediale alla storia della civiltà europea (1994-98). È inoltre autore di moltissimi saggi e articoli apparsi su periodici e quotidiani e collabora al supplemento culturale de «Il sole 24 ore». Insegna presso l’I.S.I.A. di Urbino, l’Università di Urbino, l’Università di Bologna.
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Paola Borgna SOCIOLOGIA DEL CORPO Roma-Bari, Laterza, 2005. pp. 160, € 10,00 ISBN 88-420-7542-6 Recensione di Mario Pireddu
Il libro della Borgna non è un manuale di sociologia del corpo, e non è neanche uno studio di sociologia del corpo. È un libro, appunto. Gli argomenti trattati sono di indubbio interesse, ma l’approccio è talmente da “introduzione al tema” da far risultare il volume quasi solo un insieme di spunti e suggerimenti per chi fosse totalmente digiuno di studi sul corpo. Detto questo, l’autrice ripercorre vari filoni di questi studi per mostrare come negli ultimi anni l’interno del corpo umano – soprattutto del corpo femminile – venga disvelato sempre di più, grazie alle macchine e all’ottica medica. Il confine tra il dentro e il fuori si è assottigliato, e questo processo è avvenuto riflettendo e rinforzando la distribuzione del potere tra uomini e donne: dall’Ottocento l’interno della donna è stato reso progressivamente pubblico dai punti di vista medico, giuridico, politico. Tale processo è guidato nel tempo da rappresentazioni sociali che definiscono precise politiche del corpo, che si occupano di produrre e normalizzare i corpi che siamo (corpo come luogo del potere). Viene dal femminismo e dal dibattito interno al femminismo l’idea che il corpo sia sede di lotta politica, e che la “definizione” e l’adattamento” del corpo siano il punto focale per la forma del potere. Tra femminismo egualitario, costruzionismo sociale e teorie delle differenze sessuali, il dibattito femminista consente all’autrice di ripercorrere il pensiero sul corpo degli ultimi decenni. Viene ripreso Focault per cercare di comprendere le micropratiche materiali della vita quotidiana attraverso le quali si costruisce socialmente l’esistenza – spesso subordinata e oppressa – della donna. Al centro dell’investigazione devono esserci le azioni, i processi storico sociali, giacchè appare impossibile guardare al corpo come ad una forma puramente naturale. È dal XVII secolo che il potere si è dato l’obiettivo di gestire la vita organizzandosi attorno a due poli, una anatomo-politica del corpo umano (applicazione dei meccanismi di potere al corpo umano in quanto macchina) e una bio-politica della popolazione (interventi e controlli regolatori sul corpo-specie). Si tratta di una tecnologia politica della vita, articolata in modo da ottenere la subordinazione dei corpi e il controllo delle popolazioni. È quello che viene definito dallo stesso Focault “bio-potere”, un potere che si interessa della vita degli uomini come corpi viventi, attraverso meccanismi “sottili e mobili”, un potere-senza-ilre. Se le politiche del corpo sono pratiche disciplinari, dunque esse producono e normalizzano i corpi, li rendono funzionali ai rapporti di dominio e di subordinazione, spesso senza armi, senza violenza fisica, senza costrizioni materiali. Il modello biomedico occidentale si è imposto da molti anni come una delle principali fonti di costruzione delle rappresentazioni sociali del corpo e delle sue funzioni. L’autrice sostiene, con Focault, che è stata proprio la nascita della medicina moderna ad aver fatto da fondamento metodologico e ontologico per la costituzione dell’insieme delle scienze umane. Il tema è attualissimo, basta pensare al recente dibattito italiano su fecondazione assistita e riproduzione attraverso tecniche artificiali. Le biotecnologie molecolari aggiungono all’idea della decodificazione del corpo quella della sua riprogrammabilità. Questa continua costruzione della realtà è resa possibile non solo dalla medicina, ma anche dal diritto e dalla bioetica, pur se va riconosciuto che la medicalizzazione del corpo costituisce un aspetto della più vasta medicalizzazione delle società contemporanee. Occidentale o no, arbitraria o convenzionale, in effetti la medicina produce corpi (body building, body art, chirurgia estetica). Il corpo è diventato dunque oggetto di scelte e di opzioni, e a quest’idea di “corpo come progetto” si lega quella di “privatizzazione del corpo”, processo tardo-moderno di deistituzionalizzazione di servizi di ‘gestione dell’incertezza’ tipici della modernità. I piani di costruzione del corpo diventano sempre più piani individuali di costruzione del sé, e il corpo-progetto-privato apparirebbe perciò come un corpo almeno in parte affrancato dai meccanismi del biopotere. I progetti di rimodellamento del corpo e di autotrasformazione sono però anche negoziazioni con l’ordine sociale che fornisce il sistema di significati che utilizziamo per dare senso anche ai corpi. L’ultima parte del libro riflette sull’interazione sociale là dove viene meno il 3
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tradizionale radicamento nella attualità fisica del corpo umano, e cioè nella Rete (corpi senza corpo). Si tratta di rivisitare – piuttosto che di superare – il concetto di “prossimità”, dato che apparentemente i luoghi di questa nuova socialità appartengono ad una dimensione dello spazio dalla quale il corpo sarebbe escluso. La figura del cyborg restituisce bene, a questo proposito, la commistione di organico ed artificiale resa possibile dalle protesi biotecnologiche e da quelle comunicazionali. Riprendendo Berger e Luckmann la Borgna parla di pratiche del corpo in termini di oggettività umanamente prodotta e costruita, per cui l’uomo è capace di produrre un mondo che poi gli si offre come qualcosa d’altro da un prodotto umano. L’approccio costruzionistico è una maniera per fare i conti con la questione della relazione tra natura e cultura, della relazione tra «organismi biologici […] e i segmenti di cultura cui essi sono esposti e hanno accesso». La dizione politiche del corpo rimanda in questo caso alla relazione tra potere e corpo e, più in generale, al corpo umano e alla vita come campo d’azione privilegiato dell’agire politico. Agenzie di biopolitica possono essere lo Stato, le istituzioni sociali e tra esse quelle scientifiche, il mercato, l’opinione pubblica, ecc. L’autrice nota come l’accademia in genere preferisca utilizzare una serie di etichette quali “sociology of embodiment”, “bodily-informed sociology”, “corporeal sociology”, “carnal sociology”: ad ogni modo, una sociologia del corpo che si occupi di questi temi in Italia ancora non esiste.
Paola Borgna insegna Sociologia all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni Immagini pubbliche della scienza, Edizioni di Comunità (2001) e la cura (con Paolo Ceri) del volume La tecnologia per il XXI secolo Einaudi (1998).
*** Andrea Cavalletti LA CITTÀ BIOPOLITICA. Mitologie della sicurezza Bruno Mondadori, Milano 2005 pp. 288, € 13,00 ISBN 88-424-9276-0 Recensione di Luca Massidda
«Non esistono idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali a cui non corrispondano idee politiche». Le parole di Carl Schmitt che aprono il libro di Cavalletti ci restituiscono immediatamente il senso di questo lavoro, il suo argomento principale, il concetto che vuole indagare, il meccanismo politico che prova a svelare e a cui tenta di sottrarsi: il biopotere. Il biopotere non è altro che la perfetta, indivisibile, congiunzione di spazio e potere; esso determina il superamento del principio di sovranità e la conseguente irreversibile (?) transizione dalla società disciplinare alla società del controllo. Non stupisce dunque che esso trovi la sua ideale incarnazione nel panopticon. Il dispositivo di controllo ideato da Bentham rappresenta infatti l’esemplare «cartina tornasole, che fa apparire una spazialità immanente ai rapporti di potere». Soprattutto perché del meccanismo del potere biopolitico il panopticon condivide il principio fondamentale, l’essenza, il segreto: in esso infatti la fonte del potere non è più posta all’esterno ma è lo stesso soggetto controllato a trasformarsi nel dispositivo del proprio controllo nel momento in cui «inscrive in se stesso il rapporto di potere del quale gioca simultaneamente i due ruoli e diviene il principio del proprio assoggettamento» (Foucault). Il panopticon esattamente come il biopotere confonde, assumendoli entrambi all’interno del proprio meccanismo politico, ciò che esterno e ciò che è interno, il contenuto e il contente, la libertà e la reclusione. La perversione e l’apparente infallibilità del meccanismo biopolitico risiedono esattamente in questa sua assoluta, almeno finché misconosciuta, capacità di tenere insieme gli opposti (libertà/reclusione, sicurezza/non-sicurezza, popolazione/non-popolazione, vita-morte), di legittimarsi nella propria stessa negazione, di riscrivere incessantemente su un tessuto indissolubilmente politico-spaziale i propri confini, il proprio essere e il proprio non-essere. Il biopotere si presenta dunque non come un sistema statico ma come un processo dinamico impegnato in un continuo movi4
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mento di inclusione e di esclusione, di espansione e di contrazione. La forza motrice di questo meccanismo scaturisce da un continuo spostamento del confine che separa la giusta popolazione dalla non-popolazione, l’amico dal nemico, il normale dall’a-normale, lo spazio di sicurezza dal non-spazio dell’insicurezza. Il dispositivo biopolitico si rivela qui, esattamente come il panopticon, uno spazio-popolazione esclusivo, autosufficiente, che non lascia intravedere possibili vie di fuga. In questo volume Cavalletti non fa altro che provare ad aprire una falla in questo sistema apparentemente perfetto, inattaccabile e ineludibile. Secondo l’autore il semplice fatto di riconoscere il meccanismo agente alla base del biopotere, vale a dire l’assoluta inseparabilità dello spaziale dal politico, può costituirsi come unica possibile via di fuga. Solo mostrando “la macchina in funzione” è infatti possibile «intraprendere una critica delle modalità con cui essa costruisce la propria tradizione». Solo svelandone il trucco si scopre l’esistenza di un punto di vista esterno al fantastico universo di senso che il mago-illusionista avevo posto di fronte ai nostri occhi, ma che soprattutto ci aveva convinto ad assumere come dato di fatto. Curiosamente, ma forse sarebbe meglio dire inevitabilmente, questo tentativo antagonista dell’autore si rivela esso stesso essenzialmente panoptico e biopolitico, almeno nel senso che anche in esso il mezzo viene a coincidere perfettamente con lo scopo, il funzionamento con l’obiettivo, la dinamica con l’esito. I primi capitoli (con l’esclusione del primo, introduttivo) rappresentano infatti un percorso d’indagine storico-filologica che mira allo svelamento dei concetti e delle isotopie su cui poggia il potere biopolitico: urbanizzazione, popolazione, polizia (police), medicina politica, civilizzazione. È solo a partire dalla ricostruzione dei tempi e dei modi in cui questi concetti sono stati formalizzati, legittimando così tutta una serie di nuove discipline indispensabili per la nuova forma assunta dal sistema di governo della moltitudine, che Cavalletti può invocare la possibilità di una “defezione assoluta” (titolo dell’ultimo capitolo), intesa come “possibilità anarchica”, come adozione di un punto di vista che consenta di vedere «tutta la tristezza della società felice, la minaccia estrema nella sicurezza della “vita stessa”». Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos’è. È la tua ultima occasione: se rinunci, non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più. (Matrix, 1999)
Andrea Cavalletti insegna Estetica e Letteratura italiano all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha curato l’edizione di diverse opere di Furio Jesi e ha pubblicato saggi di filosofia e critica letteraria. *** Roberto Diodato ESTETICA DEL VIRTUALE Mondadori Bruno, Milano, 2005 pp. 213, € 12,50 ISBN 88-424-9827-0 Recensione di Manolo Farci
Estetica del virtuale di Roberto Diodato è un libro sul virtuale e non sulle realtà virtuali. Questa breve precisazione sembra riassumere l’intento generale dell’opera: lasciare da parte qualsiasi fascinazione visionaria o ansia liberatoria che spesso viene sottesa nella descrizione delle prospettive future aperte dalle realtà simulate, per andare invece alla ricerca del particolare scarto ontologico che l’esperienza virtuale introduce rispetto al “reale”. Innanzitutto quindi, il libro prende le distanze da tutte quelle teorie che appiattiscono l’estetica virtuale sul concetto di simulazione o tendono a leggere i processi di virtualizzazione esclusivamente all’interno 5
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di una cornice banalmente mimetica o illusionistica. Diodato sottolinea, al contrario, come il virtuale sia una esperienza genetico-costitutiva, che non si lascia ridurre al risultato di una imitazione che produce l’inganno di una esperienza disincarnata, ma si configura piuttosto come una forma inedita di modellizzazione percettiva, i cui limiti, vuoti e mancanze non solo aprono la strada a forme artistiche ed esperienze estetiche nuove, ma rimettono al centro della relazione tra soggetto e ambiente la corporeità. Nel mondo virtuale, il corpo si muove lungo un arco operativo dove a un lato si ha una memoria informatica che ragiona in termini computazionali, ma dall’altro un corpo cyborg, dotato di protesi non organiche, una entità fantasmatica a tal punto immersa nell’ambiente digitalizzato, da arrivare a coincidere con esso. Questa situazione distingue la paradossale particolarità ontologica dell’esperienza virtuale, dove l’essere carne e avatar del corpo determina una identità al tempo stesso de-corporeizzata e ipersensibilizzata. La novità rispetto a qualsiasi altra rappresentazione che le tecnologie della comunicazione hanno generato sul corpo, è che i corpi virtuali sono a tutti gli effetti corpi-finestre, attualizzazioni provvisorie di un virtuale che esiste solo come funzione di relazione interattiva tra un modello informatico e un’immagine sensibile. Per questo il corpo virtuale non ha nulla di disincarnato, in quanto deriva dall’incontro di due spazio-tempi concreti: quello del corpo umano e del software di elaborazione. E’ un evento attuale frutto di processi interattivi di virtualizzazione, e come tale sfugge a qualsiasi dicotomia interno-esterno: non appartiene al mondo esterno, in quanto non è un’immagine formulata al di fuori della mia esperienza, ma allo stesso tempo non appartiene al mondo interno, in quanto non è interamente un mio sogno o il frutto della mia immaginazione. E’ un plesso carne-immagine in grado di rimettere in discussione le coordinate prospettiche della nostra soggettività, considerato che l’identità che si crea nell’esperienza immersiva è costruita esclusivamente nell’interazione ed è quindi sdoppiata, interna e esterna allo stesso tempo, una figura interattiva che le teorie del postumano – a partire dalle oramai classiche formulazioni sul cyborg di Donna Haraway – caratterizzano attraverso la compenetrazione e partecipazione retroattiva di elementi organici ed inorganici all’interno di un organismo protesizzato. Il corpo virtuale è dunque un sistema relazionale che si fenomenizza nell’interazione, una immagine-evento che non rinvia a un prima o un dopo, poiché il suo essere immagine non dipende da alcun grado di somiglianza, ma dalla natura del processo stesso. Per questo il virtuale non ha un’essenza simulacrale (Baudrillard) e non si può ridurre ad una pura coscienza derealizzante (Sartre). E’ un’esperienza che si avvicina piuttosto al pensiero della carne elaborato dalla fenomenologia dell’ultimo Merleau-Ponty: un principio immanente di continua reversibilità tra soggetto e oggetto, intreccio di percepire ed essere percepito. Diodato insiste giustamente sul carattere di evento processuale racchiuso nel virtuale, come grimaldello teorico per comprendere le novità racchiuse nelle attuali reti telematiche, comunità virtuali, blog, ipertesti narrativi, campi d’esperienza immersivi e interattivi dove è l’utente a determinare uno spazio-ambiente sempre più legato alle sue aspettative, alle sue emozioni, alle sue memorie, alla storia relazionale del proprio corpo. Si tratta di una storia le cui coordinate sembrano seguire una differente temporalità, una temporalità che nell’esperienza virtuale diventa coestitenza ontologica di potenzialità ed atto (Deleuze). Il cybertime è un tempo che non si lascia attrarre nella pura presenza, non delimita una spaziatura, ma definisce piuttosto un vuoto, dove reale ed immaginario, attuale e virtuale, memoria e azione presente coesistono come “illusione oggettiva”. Un vuoto, una lacuna, una mancanza che consentono – ancora una volta – di riflettere sul carattere di apertura potenziale che appartiene alla struttura stessa del corpo virtuale. Forse, in un libro sul virtuale, ci saremmo aspettati meno rigidezza concettuale e più estasi della carne, più nervature legate all’immaginario e meno ermeneutica. Ma l’operazione di Diodato e il rigore filosofico con cui porta avanti la sua riflessione è certamente meritevole di considerazione. Estetica del virtuale ha il pregio di attribuire alle suggestioni che da anni circondano il discorso sui new media il rigore dell’impianto filosofico, la pesantezza della scrittura e del riferimento colto e approfondito. Tra Sterlac e MerleauPonty, Diodato sceglie quest’ultimo: ma è scelta volutamente propedeutica. Come a dire: le fondamenta sono gettate, ora spetta a noi riempirle con la leggerezza dei nostri avatar virtuali.
Roberto Diodato insegna Estetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e al Bachelor di Filosofia applicata della Facoltà di Teologia di Lugano. Ha studiato estetica e ontologia in alcuni filosofi moderni (Bruno, Spinoza, Leibniz) e in alcune correnti del pensiero contemporaneo (neoscolastica, decostruzionismo). Per la Bruno Mondatori ha pubblicato Vermeer, Gòngora,Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva (1997). 6
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*** Matteo Galli (a cura di) DA CALIGARI A GOOD BYE, LENIN! Storia e cinema in Germania Le Lettere, Firenze 2005 pp. 638, € 38,00 ISBN 88-7166-853-7 Recensione di Guido Vitiello
Trenta studiosi di varia estrazione – per lo più germanisti, ma anche un buon numero di storici del cinema – si dedicano ad altrettanti film che hanno segnato, in un modo o nell’altro, il rapporto tra storia e cinema in Germania. Le risonanze del titolo non traggano in inganno il lettore: se From Caligari to Hitler (1947) di Siegfried Kracauer suggeriva una traiettoria fatale, questo Da Caligari a Good Bye Lenin! è la mera fissazione dei due termini a quo e ad quem. Si parte dal 1919, con Madame Dubarry di Ernst Lubitsch e Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene; e si arriva al 2003 e alla Ddr “sottovetro” del popolare film di Wolfgang Becker. Il volume si vorrebbe «una storia del cinema tedesco attraverso exempla» (così Matteo Galli nel saggio introduttivo), e non lo è: tutt’al più, è una nobile “galleria dei ritratti” dei Maestri tedeschi e di alcune loro grandi opere. Si presenta anche come «una raccolta di saggi sul rapporto fra cinema tedesco e storia tedesca» fondata su un criterio di “rappresentatività”, e nemmeno lo è del tutto. Sono saggi, sì, ma nel senso di ballons d’essai, di sonde: se il rivendicato criterio di rappresentatività fosse stato seguito davvero, avremmo avuto un profluvio di pagine su Heimat (1984) di Edgar Reitz – uno dei pochi film inequivocabilmente rappresentativi, e dunque ineludibili – e non certo il pur acuto saggio del filosofo Barnaba Maj sul più opaco Heimat 2 (1992). Da questo punto di vista, il volume – che è pur sempre tra le cose migliori uscite in Italia sull’argomento – non regge il confronto con contributi assai più organici usciti fuori dai nostri confini: Cinéma et culpabilité en Allemagne 1945-1990 di Béatrice Fleury-Vilatte, Erfundene Erinnerung di Peter Reichel o Deutschlandbilder di Anton Kaes. Ma, come vedremo, sotto altri aspetti Da Caligari a Good Bye Lenin! per gli strumenti che offre non ha omologhi nella bibliografia esistente. Buona parte del saggio introduttivo di Matteo Galli è dedicata a stabilire quel che il volume dovrebbe o vorrebbe essere. Ma forse la cosa migliore è dimenticarsi di questi biglietti da visita e godersi il libro scevri da aspettative preformate, senza andare a caccia delle sue lacune o delle sue promesse non mantenute. Si potrà così apprezzare un mélange adultère di saggi un po’ affastellati che, da diverse angolazioni, parlano di film tedeschi con riferimento più o meno stretto alla storia. Preso così, il volume è davvero ricchissimo: trabocca di strumenti bibliografici, riferimenti insospettati e fonti poco frequentate. Anche sul piano più tecnico dell’analisi filmica la “cassetta degli attrezzi” è molto visibile, forse anche perché per molti degli autori – germanisti “prestati” alla lettura di un film – è di recente acquisizione, ed è dunque esibita come un vistoso esoscheletro concettuale. Ma soprattutto, l’estrazione “laterale”, non cinematografica di molti studiosi si sposa a meraviglia con un cinema che – Wenders e Fassbinder esclusi – si è abbeverato per lo più a fonti extra-cinematografiche: Syberberg lo si capisce a partire da Wagner, Herzog a partire da Büchner. Quell’atteggiamento “letterario” che è un limite fatale quando ci si accosta alla macchina hollywoodiana dei generi, quando si viene al cinema tedesco è piuttosto una felix culpa. Alcuni saggi sono più d’altri degni di menzione: quello di Francesco Pitassio su Caligari, che apporta molti lumi sulle origini del cinema e sul suo nesso con le altre arti; o ancora, il saggio di Leonardo Quaresima sul “recuperato” Der Sieg des Glaubens (1933) di Leni Riefenstahl, un pezzo di bravura filologica ed ermeneutica. Ottimi anche i contributi su due opere centrali per comprendere il rapporto tra cinema e storia in Germania, due film addossati all’uno e all’altro versante della catastrofe: La cittadella degli eroi (1945) di Veit Harlan, rivisitato da Francesca Spadini, e il bello e coraggioso Gli assassini sono tra noi (1946) di Wolfgang Staudte, qui riletto da Mario Rubino. Come in tutti i volumi collettivi, il valore degli interventi è diseguale, ed è un peccato che a un film-miniera come Hitler, un film dalla Germania (1977) di Hans-Jürgen Syberberg – che da solo potrebbe valere come chiave per leggere, foss’anche in contrappunto, tutti gli altri – sia dedicato un esile saggio che potremmo rubricare tutt’al più come “storia della ricezione”. 7
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A ben vedere, l’unico vero criterio seguìto nella scelta dei film è – con qualche eccezione – quello del “canone”: trenta film di grandi autori, intorno ai quali si è addensato un fitto dibattito critico e giornalistico, e a volte – ma più raramente – si è creato perfino un “caso” a livello di opinione pubblica. Questo criterio, squisitamente letterario, ha il vantaggio di puntare l’attenzione sui film meno effimeri, e su quelli anche internazionalmente più noti; d’altro canto, porta con sé il rischio di sottovalutare i modi in cui il cinema “di genere”, o “minore” (qui rappresentato solo da Christiane F. di Ulrich Edel, del 1981), ha fatto i conti con la storia tedesca. Si ha qua e là l’impressione che questa predilezione per l’Autorenkino, soprattutto per quanto riguarda il periodo dal dopoguerra a oggi, porti a registrare, più che i grandi “venti” della storia, gli echi di quest’ultima nelle stanze remote e appartate dei Maestri. Per rifarsi a un’utile distinzione di Antonio Costa ripresa nel saggio introduttivo, il volume parla molto della storia del cinema e della storia nel cinema (film d’argomento storico); assai meno – se non limitatamente al periodo nazista – del cinema nella storia (film che hanno dato forma alle epoche e agli eventi). Sarà forse perché il cinema nella storia del dopoguerra, anche in Germania, non è stato quello tedesco ma quello americano? E perché (fatto salvo il caso a sé stante di Heimat) i tedeschi sono stati portati a riflettere sul loro passato non già da Syberberg e da Kluge, ma dalla traumatica serie televisiva della Nbc Holocaust (1978) di Marvin Chomsky?
Matteo Galli insegna Letteratura Tedesca all’Università di Ferrara. Tra i suoi libri, Invito alla lettura di Canetti (1986), La catabasi del Buonannulla. Saggio sullo “Zauberberg” di Thomas Mann (1991), L’officina segreta delle idee. E.T.A. Hoffmann e il suo tempo (1999) e un’antologia di novelle tedesche sulla follia, Il cuore di vetro (1995). *** Giuseppe Granieri BLOG GENERATION Laterza, Roma-Bari 2005 pp. 172, € 10,00 ISBN 88-420-7564-7 Recensione di marcello serra
Ecco un piccolo libro che ha tante cose da dire. E le dice bene, anche, e i suoi argomenti in genere convincono. Si parla, e visto il titolo non poteva essere altrimenti, del fenomeno dei weblog: di come funzionano, di cosa sono e non sono, del loro impatto sulla sfera pubblica e politica e in genere di una serie di tematiche rilevanti; rilevanti anche perché, come ci mostra Giuseppe Granieri, una certa importanza i blog ce l’hanno. Innanzitutto i blog sono però una cosa nuova e come tutte le cose nuove sono difficili da definire. Così Granieri cita Eco e ci descrive il suo ornitorinco, la blogosfera, cercando di schivare le vecchie categorie attraverso cui si tende a interpretarla. Lucidamente argomenta allora che non è possibile classificare i blog in base ai loro contenuti, perché è rarissimo che seguano una precisa linea editoriale. Anche la traduzione di log come “diario” andrebbe accettata solo se intesa come “diario intellettuale” e, in questo modo, si capisce anche come i blog non siano riducibili a un “genere” come è quello giornalistico. E allora, di che si tratta? Dove rintracciarne le caratteristiche peculiari? Per prima cosa Granieri sottolinea il fatto che un blog raggruppa i contenuti secondo gli interessi e la sensibilità di una persona, rappresentandone così il suo point of presence in rete. Ma la geografia di questo punto d’essere è disegnata dinamicamente dalle sue relazioni con il resto della blogosfera, è stabilito cioè dai suoi link, dai legami che lo collegano alla Big Conversation, la multiforme discussione sempre in atto nel mondo dei blogger. Da qui prendono il via una serie di riflessioni e tutte passano, più o meno, attraverso la questione dei link. Questi rappresentano infatti, ai tempi di Google, la dimensione del successo di qualsiasi sito Internet. Google ordina infatti i risultati delle ricerche in base al numero di link ricevuti da una pagina, valore pon8
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derato in base all’importanza del sito che linka, importanza valutata a sua volta in base allo stesso criterio. Da ricerche effettuate a proposito, questo porta internet a sottostare alla legge dell’80/20, già formulata da Pareto per descrivere la distribuzione del reddito e per cui l’80% dei link tende a concentrarsi nel 20% dei siti, chiamati hub. Anche quando viene aperto un nuovo blog, questo tenderà a connettersi ai blog più importanti e, come si dice, rich get richer. Tuttavia Granieri spiega come nei blog, che sono siti personali o al limite gestiti da piccoli gruppi con una forte identità, il numero di link ricevuti rappresentino bene o male anche la reputazione di chi scrive e questa sia il risultato di una profonda interazione sociale: un link rappresenta un voto e il giudizio da parte della comunità è quotidiano. Così il criterio si rivela meritocratico e tutti, se hanno qualcosa di interessante da dire, possono trovare il loro spazio. Il fatto è che un blog è qualcosa di molto vicino ad un’opera collettiva: non ha nessuna pretesa di essere coerente ed esaustivo e tende sempre a portare il lettore fuori da sé. A differenza del mondo dei mass media, in cui la percentuale di informazione incrementata da una fonte interessante è sempre una piccola frazione, i blog sono un “sistema ricco” ed un buon link giova a tutti: a chi è linkato, a chi linka e, infine, a chi legge poiché la formula del link alla fonte più annotazione-commento arricchisce le notizie approfondendole di nodo in nodo. Granieri spiega inoltre come la blogosfera sia organizzata secondo “cluster” comunicanti (grazie ad hub che agiscono come connettori), in cui ciascuno è “star” in alcuni ambienti e “fan” in altri; il fatto non è secondario poiché favorisce enormemente l’emergere di idee creative attraverso lo scambio (l’«importexport») tra sistemi culturali differenti. A completamento di questa descrizione “orizzontale” Granieri ne affianca poi anche una “piramidale”, puramente analitica poiché è impossibile collocarvi un blog stabilmente. In questo schema, la base della blogosfera è costituita da blog assestati su temi autobiografici e personali, mentre verso l’alto gli argomenti si specializzano, il linguaggio si precisa, i temi diventano di interesse collettivo ed il pubblico diminuisce. Si tratta di un modello utile per comprendere come i blog agiscano come filtro distribuito e collettivo di informazioni: gli argomenti più difficili vengono infatti tradotti e semplificati di hub in hub, mentre un movimento inverso può essere percorso da un’idea che partendo dal basso trovi consenso e risalga la piramide fino ai leader cognitivi, che hanno influenza anche fuori della blogosfera. Tutto ciò è descritto nella prima parte del libro, composta di tre capitoli di cui l’ultimo riflette sull’apporto dei blog al filtraggio dei contenuti e, infine, intravede nella blogosfera un laboratorio per la costruzione dal basso del tanto auspicato web semantico. La seconda ed ultima parte è costituita dai capitoli quattro e cinque, dedicati a tematiche politiche. Nel quarto Granieri analizza il ruolo dei blog nella formazione dell’opinione pubblica, chiarendo come non siano giornalismo, ma anche come ne rappresentino un’importante sfera complementare. Essi rappresentano fondamentalmente il contesto sociale in cui le notizie e la cultura vengono assimilate e discusse e permettono il passaggio da un «cittadino informato» a un «cittadino monitorante» (Schudson); quest’ultimo è peraltro inserito in un più ampio «pubblico monitorante» in cui il singolo non è mai isolato. Il quinto capitolo è infine dedicato esplicitamente alla democrazia. Elementi chiave dell’analisi sono la libertà e la qualità del dibattito garantito da internet e dai blog anche in virtù della memoria della rete (che è memoria della storia intellettuale dei nostri interlocutori), delle logiche di costruzione distribuita della reputazione e del ruolo degli esperti come hub cognitivi. È questa la via verso un’Atene su scala globale?
Giuseppe Granieri scrive di tecnologia e società da molti anni. Attualmente collabora con diverse testate, tra cui “Internet Pro” e “Il Sole 24 Ore - @lpha”. Ha curato, tra l’altro, un manuale di scrittura (Istruzioni per un racconto, Potenza, 2000) e una raccolta di narrazioni brevi (Racconti rubati, Potenza 2001).
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Emiliano Ilardi IL SENSO DELLA POSIZIONE Meltemi, Roma, 2005 pp. 240, € 19,50 ISBN 88-8353-372-0 Recensione di Luca Reitano
A cosa serve il romanzo contemporaneo? La letteratura è ancora capace di svolgere una specifica funzione sociale? O è invece destinata a diventare un linguaggio residuale di fronte a media più potenti e pervasivi? A dissolversi nel mare dei flussi mediali? Sono queste le domande a cui Emiliano Ilardi, prova a rispondere nel suo Il senso della posizione. Il primo capitolo, icasticamente intitolato “in difesa del romanzo”, prova a definire le ragioni di una “irriducibile specificità romanzesca” rispetto al più vasto orizzonte della comunicazione contemporanea, assumendo il contesto urbano a territorio d’elezione per l’analisi del romanzo. Così, il senso del romanzo per Ilardi sta nella sua capacità di aiutare a «riscoprire l’esatta posizione dello spazio territoriale dell’individuo nello spazio metropolitano», in una città attraversata e sempre più raccontata da flussi digitali, virtualità, e processi di deterritorializzazione, ovvero a contestualizzare la posizione del personaggio nella metropoli, rappresentando lo scarto tra il residuo materiale, fisico della città e del soggetto che la attraversa , refrattario a tradursi in bit, e gli spazi di un paesaggio urbano smaterializzato, interamente plasmato dall’“alleanza media-consumo”. La tesi sembra potenziamente proficua, visto che su questa base l’autore traccia una storia del romanzo otto-novecentesco individuando due linee che, partendo da Balzac, divergono sostanzialmente: la prima dal naturalismo di Flaubert porta al grande romanzo modernista, alle estetiche delle avanguardie, ai romanzi di Proust, Gadda, Calvino e ai contemporanei Auster, De Lillo, Nove; la seconda dal realismo viscerale di Celine porta sino ai Ragazzi di vita di Pasolini e alla narrativa di genere di Ballard ed Ellroy. Che cosa leghi insieme autori così diversi appare subito chiaro se, abbandonando criteri estetici o formali, si ragiona – a dire di Ilardi – sul loro differente senso della posizione rispetto ai vertiginosi cambiamenti della metropoli contemporanea rappresentata dai codici della moda, del consumo e della produzione. La prima linea, sostiene l’autore, insegue ed asseconda i processi di deterritorializzazione della metropoli, riducendo così la città ad un sistema di segni da riassemblare a proprio piacere, effettuando «un drastico spostamento dell’oggetto del romanzo dalla contingenza dello spazio urbano ai possibili meccanismi per percepirlo e organizzarlo»; strada che, suggerisce Ilardi, risulta doppiamente perdente, perché se da un lato le tecniche di percezione o la capacità di creare ed esplorare mondi puramente virtuali sono migrate dal romanzo verso altri media più potenti e pervasivi (i videogiochi, ecc.) dall’altro l’abbandono del referente sociale implica la rinuncia ad una mappatura politica del territorio, dei reali rapporti di forza che strutturano lo spazio del mercato e del consumo. La storia del romanzo riserva però una virtuosa alternativa in quella letteratura che riposiziona l’individuo nel contesto urbano, scegliendo di rappresentare l’attrito tra un dato materiale anarchico, irriducibile ad ogni processo di smaterializzazione, e la città virtuale del mercato e dei media. Così, in Celine, Pasolini e soprattutto nei romanzi di Ballard e Ellroy, il movimento fisico del personaggio nella città mostra la relazione e il conflitto tra la libertà potenziamente infinita dello spazio dei flussi e la libertà condizionata dello spazio dei luoghi. E per questa via – ci dice Ilardi – che il romanzo può recuperare una funzione conoscitiva, sociale e politica forte, rivelandosi come il medium privilegiato in cui fare implodere o comporre i diversi livelli di realtà della metropoli post-moderna. Tutto bene dunque, o quasi. Perché a ben vedere il libro di Emiliano Ilardi rivela qualche incongruenza di troppo sul piano teorico. Ilardi impernia la propria lettura del romanzo contemporaneo su un discutibile assunto: una volta esaurite tutte le sue forme con il pastiche postmoderno, il romanzo contemporaneo, liberato dal demone dello sperimentalismo, può finalmente volgersi al mondo e non ai propri meccanismi formali. Così, la buona vecchia prosa “popolare” della narrativa di genere con i suoi correlati stilistici (linearità, fabula piuttosto che intreccio, stile medio, ecc.) da arte squisitamente tipografica, diventa la principale forma narrativa in grado di fornire un «affresco della totalità sociale della metropoli». 10
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Se però, come spiega Ilardi, il romanzo deve la sua capacità conoscitiva alla sua forma “essenzialmente alfabetica” (perché solo la scrittura lineare e sequenziale è in grado di riterritorializzare i flussi, dargli un ordine e dominarli) non è dato capire secondo quale criteri formali l’autore traccia una affollata “linea Celine” che include al suo interno scrittori e scritture ad alto tasso di sperimentalismo (come Burgess o Celine), né si capisce perchè mai questi dovrebbero essere proprietà esclusiva del romanzo e non dovrebbe migrare verso altri linguaggi e immaginari più popolari, che ne ereditano anche la linearità (come il cinema, da cui l’autore attinge non pochi esempi). Tuttavia, questo saggio ha non trascurabili meriti nel panorama, piuttosto piatto, della critica militante, perché Ilardi è uno dei pochi critici letterari che, uscendo dalla ridotta fortificata di una italianistica in crisi, si sporca le mani con le nuove attrezzature teoriche della sociologia e della mediologia (anche se non sempre con risultati felici) indispensabili per mappare la complessa situazione del romanzo (e della realtà) contemporaneo. Inoltre, ha il coraggio di andare contro una Koinè mediologica oggi imperante (da Lévy a Himanen) scegliendo di esplorare il lato oscuro dell’universo del consumo e della comunicazione, rilevando la mancanza, in tanta mediologia contemporanea, di un versante critico verso il sistema dei media. Per questo, dunque, Il senso della posizione merita di essere letto. Per tutto il resto, peccato.
Emiliano Ilardi ha conseguito il dottorato in Teoria della letteratura e Letterature comparate a Barcellona. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Istituto di Comunicazione e Spettacolo della Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino. Collabora con il modulo di Letteratura e comunicazione della stessa università e con diverse riviste specialistiche. *** Franco La Cecla Melo Minnella LA LAPA E L’ANTROPOLOGIA DEL QUOTIDIANO Elèuthera, Milano 2005 pp. 64, € 7 ISBN 88-89490-00-4 Recensione di Daniele Vazquez
In questo libretto divertente e intelligente, Franco La Cecla prende a pretesto le splendide immagini del fotografo siciliano Melo Minnella sulla Lapa (ovvero l’Ape) per introdurre in Italia l’Antropologia del Quotidiano. Uno sguardo giocoso a ciò che sta sotto casa, nell’angolo di strada che da sempre attraversiamo, a due passi da noi, «per guardarci come se i “primitivi”, il primitivo oggetto dell’antropologia, fossimo noi». La Cecla fa risalire l’interesse delle scienze sociali per la vita quotidiana alle ricerche che Michel de Certeau e i suoi collaboratori condussero tra il 1974 e il 1978. In realtà lo stesso de Certeau deve molto a Henri Lefebvre e alla sua “Critica della vita quotidiana”, il cui primo volume era stato scritto nel 1945 e alla “rivoluzione della vita quotidiana” auspicata dall’Internazionale Situazionista alla fine degli anni ’50. La vita quotidiana è stata per lungo tempo ignorata, considerata il luogo della banalità e dell’insignificante, rimanendo così un oggetto opaco e invisibile all’indagine analitica. L’utente, il consumatore, lo spettatore dopo essere stati considerati, in una significativa simmetria tra i critici della cultura di massa e gli specialisti della comunicazione, come manipolabili, suggestionabili, passivi, senza parola davanti ai prodotti dall’industria culturale, grazie alla riscoperta della dimensione quotidiana, hanno acquisito l’importanza che gli era dovuta. Il loro consumo dei prodotti dell’industria culturale è un uso creativo, diffuso, disperso, attraverso cui ovunque s’innovano e s’inventano le pratiche sociali “producendo” il mondo. Questa scoperta, che forse possiamo far risalire alla Scuola di Birmingham, è stata possibile grazie a una metodologia di ricerca sul campo di tipo etnografico. L’econding/deconding model altro non è che un adattamento in ambito urbano e in epoca postmoderna di una dinamica antichissima, che de Certeau fa addirittura risalire alle astuzie, alle simulazioni e al mimetismo delle piante, degli insetti e dei pesci, che si è sempre pre11
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sentata nei popoli colonizzati e nelle culture popolari. Tattiche di aggiramento, intelligenza mimetica, creatività sul terreno del “nemico”, rituali di rovesciamento simbolico, qui ritroviamo tutti i precedenti della decodifica negoziata del messaggio analizzata in seguito da semiologi e scienziati della comunicazione. Diciamo quindi che la scoperta della vita quotidiana è stata un necessario approdo della ricerca antropologica e che con questo libro si restituisce alla disciplina antropologica un campo di ricerca che spesso le si è voluto negare: quanti scienziati sociali hanno sostenuto che l’antropologia non potesse avere come suo campo la società complessa o la metropoli, e che si dovesse limitare a culture statiche, circoscritte e senza storia (tali perché il modello sincronico le produceva a sua misura)? La Cecla con un linguaggio semplice e chiaro tocca sinteticamente tutti gli aspetti chiave per un approccio all’indagine antropologica del “noi”, e, soprattutto, attraverso le foto di Minnella sulla Lapa, un contributo prezioso per un’antropologia visuale del quotidiano, ci fa divertire e sorridere. La Lapa? Un incrocio tra una vespa e un camion, tre ruote il cui archetipo è il triciclo dell’infanzia o addirittura un derivato tecnologico degli aerei, sì perché la Lapa non deve nulla all’automobile ed ha, nell’uso popolare, una naturale continuità con il carretto. Un giocoso elogio della Lapa, elemento naturale del paesaggio come una casa contadina, un mezzo dall’anima multifunzionale che si presta così perfettamente alla creatività popolare, in cui ogni cosa non ha una funzione precisa: gelataio, taxi, camioncino della frutta, mezzo di trasporto di un’intera famiglia, carro di carnevale, carro funebre, ambulanza, carro bestiame, carro per portare in giro il santo e così via. Un mezzo pop, ci dice La Cecla, che non ha ancora trovato il suo Warhol.
Franco La Cecla (Palermo, 1950), antropologo e urbanista, attualmente insegna Antropologia culturale all’Università di Venezia, dopo aver insegnato a Berkeley, Parigi, Palermo e Bologna. I suoi libri più recenti sono Modi bruschi, antropologia del maschio (Bruno Mondadori, 2002), Lasciami, ignoranza dei congedi (Ponte alle Grazie, 2003), Good Morning Karaoke, Hong Kong, Hanoi, Macao (Tea, 2004) e con Piero Zanini Lo stretto indispensabile, storie e geografie di un tratto di mare limitato (Bruno Mondadori, 2004). Per Elèuthera ha pubblicato Mente locale, Non è cosa, Saperci fare, La Lapa, ora raccolti in cofanetto. Melo Minnella (Mussomeli, Caltanissetta, 1937) pubblica le sue prime fotografie su “Il Mondo” di Pannunzio, per poi ampliare le sue collaborazioni alle maggiori riviste nazionali e internazionali. Grazie al suo sguardo complice e divertito è riuscito a documentare come pochi la ricchezza del patrimonio artistico, folklorico e umano della Sicilia in decine di reportage come Memoria siciliana, Viaggio in Sicilia, Palermo, passeggiate d’autore, Malerba a tavola, Barche da pesca. *** Slavoj Zizek DISTANZA DI SICUREZZA. Cronache del mondo rimosso Manifestolibri, Roma 2005 pp. 174, € 18,00 ISBN: 88-7285-381-8 Recensione di Luca Massidda
Un «diario culturale, politico e sentimentale». Così Ida Dominijanni definisce suggestivamente il libro di Slavoj Zizek nella prima pagina della sua introduzione allo stesso. In realtà non si tratta propriamente di un diario ma di una raccolta di saggi e articoli scritti tra il 2003 e il 2005 in cui l’eclettico filosofo sloveno commenta, con la sferzante ironia che gli è propria, i fatti più significativi dell’attualità politica e culturale. A dispetto della piacevolezza della scrittura dell’autore, della sua capacità di coinvolgere il lettore attraverso il ricorso a metafore e accostamenti creativi e dal grande potere figurativo, il libro di Zizek presenta tutti quei difetti che troppo spesso si riscontrano in questo genere di pubblicazioni (testi brevi, pensati come commenti all’attualità politica e culturale delle nostre società che una volta sottratti al dialogo immediato con i fatti all’ordine del giorno nella nostra agenda quotidiana perdono gran parte del proprio signi12
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ficato finendo per condurre il lettore attraverso un poco sistematico assemblaggio di frammenti, per di più non privo di fastidiose quanto evitabili ripetizioni). Proviamo allora, brevemente, a restituirvi le originali suggestioni che un scritto di Zizek, anche in queste condizioni, riesce comunque a offrire: l’originale semplicità delle sue definizioni, brevi sentenze che aprono piccoli spioncini sulle piccole e grandi contraddizioni della nostra società (la cultura non è altro che «il nome che diamo a tutte quelle cose che pratichiamo senza crederci veramente, senza “prenderle sul serio”»; la libertà ‘reale’, non come semplice «libertà di scelta all’interno delle coordinate e dei rapporti di potere esistenti» ma come «intervento che mina alle basi queste stesse coordinate», aldilà, oltre l’indifferente alternativa tra una pepsi e una coca); l’icasticità delle sue metafore (Gli Usa per la loro necessità di importare petrolio dai paesi del mondo arabo sono come «un paziente la cui macchina per la dialisi è controllata da un medico pazzo che odia il paziente»; il pulsante ‘chiudi porte’ degli ascensori è la perfetta «metafora della [falsa] partecipazione degli individui al processo politico delle nostre società “postmoderne”»); l’ironia dissacrante dei suoi eclettici accostamenti (la dottrina Bush e la carcerazione preventiva di Minority Report, la pornografia e la Commedia dell’Arte, Tony Blair e il Brian di Nazareth dei Monty Python, i soldati americani autori delle torture di Abu Ghraib e il Colonnello Kurtz di Apocalipse Now, la Jihad e McWorld, da cui il neologismo McJihad, la Persecution and the Art of Writing di Leo Strauss e Il Codice Da Vinci di Dan Brown, Matrix e il “grande Altro” di Lacan). E proprio il pensiero di Lacan rappresenta il ganglio da cui ha origine il filo logico che lega insieme le riflessioni raccolte in quest’opera; tant’è che la stessa Dominijanni, nella sua ottima introduzione, per riassumere in poche parole il modo che il filosofo sloveno ha di attraversare a tentoni il caotico universo contemporaneo, riprende proprio una tesi di Lacan citata dallo stesso Zizek in questo libro : «La verità si esprime negli spiazzamenti del tema centrale».
Slavoj Zizek è un filosofo i cui interessi vanno dalla psicoanalisi alla filosofia politica. Sloveno, nato nel 1949, “clerico vagante” nelle università di tutto il mondo, Zizek ha pubblicato numerose opere tra cui Tredici volte Lenin e Il grande Altro (editi entrambi da Feltrinelli), Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica e Iraq. Il paiolo in prestito (Raffaello Cortina), L’epidemia dell’immmaginario (Meltemi), L’isterico sublime (Mimesis).
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