NIM.libri [Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia] Numero 1, ottobre 2005
INDICE Barbieri Daniele, Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo p. 1 Belpoliti Marco, Crolli p. 2 Esposito Roberto, Bíos. Biopolitica e filosofia p. 3 Fontanille Jacques, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta p. v4 Mondella Diego, Peeping Tom. Il cinema di Michael Powell p. 6 McKenzie Wark, Manifesto hacker p. 7 Restaino Franco, Storia del fumetto. Da Yellow Kid ai manga p. 8 Valleur Marc, Matysiak Jean-Claude, Sesso, passione e videogiochi. Le nuove forme di dipendenza p. 10 Yehya Naief, Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza p. 11 Zimmermann Clemens, L’era delle metropoli. Urbanizzazione e sviluppo della grande città p. 12
*** Daniele Barbieri NEL CORSO DEL TESTO. Una teoria della tensione e del ritmo. Bompiani, Milano 2004 pp. 371, € 20,00 ISBN 8845201716 Recensione di marcello serra Se c’è un compito essenziale di un testo narrativo, di certo è quello di condurti dall’inizio alla fine, rilanciando continuamente l’attenzione attraverso un sentiero di curiosità e seduzioni rinnovate di svolta in svolta, finché il viaggio non è concluso e il desiderio appagato. Daniele Barbieri, che studia da anni i meccanismi semiotici per cui questo accade, ci propone una teoria organica che ne rende conto. Al centro del ragionamento del libro c’è l’idea che il processo di interpretazione sia «un processo di costruzione di aspettative»; ciò deriva dal fatto che tendiamo sempre ad anticipare gli eventi che accadono davanti a noi, poiché «la tensione verso ciò che è imminente è una delle modalità principali della nostra vita nel mondo». Da qui, Barbieri sostiene che ogni testo con finalità estetiche che si sviluppa nel tempo è costruito in modo da sviluppare aspettative e tensioni nel suo fruitore: questo è ciò che lo spinge avanti. Il libro si concentra dunque sulle capacità dei testi di condurci lungo un percorso passionale che ci tenga avvinti: «il testo, cioè, deve suscitare curiosità, aspettative, e poi gestirne oculatamente la soddisfazione». Qui risiede anche la sua qualità estetica, che coincide con la qualità del percorso emotivo che riesce a produrre nel suo fruitore. Esplicitamente, Barbieri ci avverte che il suo non è uno studio di ermeneutica, ma che si tratta invece di un tentativo di analizzare i testi sulla base di ciò che cercano di provocare nel momento stesso in cui vengono esperiti. Conseguentemente, il metodo di ricerca si fonda sulla semiotica interpretativa «appoggiandosi», dove necessario, su alcuni strumenti di semiotica generativa. Un concetto basilare della teoria è quello di termine percettivo, con cui si intende «qualsiasi elemento testuale sulla base del quale sia possibile avanzare delle previsioni, ovvero qualsiasi elemento testuale che possa suscitare aspettative»; esso rinvia sempre a una forma, che è invece «qualsiasi configurazione percettiva o concettuale cui siamo in grado di attribuire un qualche tipo di completezza». Il sistema di tensioni del testo viene a costituirsi allora attraverso un gioco cognitivo per cui si ipotizza una forma ogni qual volta si riconosca un termine percettivo, ed ha identica funzione anche il lavoro di riformulazione intrapreso quando comprendiamo che si trattava della forma sbagliata. Allo stesso modo funzionano i ritmi, della cui natura Barbieri fornisce una 1
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raffinata descrizione e che, per dirlo qui brevemente, si presentano come delle forme aperte costruite sempre all’interno dei testi. La teoria, che prende in parte le mosse dalla riflessione musicologica, ha un punto di forza nella duttilità con cui può essere applicata, risultando adatta ad ogni forma estetica che si sviluppi nel tempo. La differenza essenziale che verrà ad emergere sarà nella diversa natura delle tensioni generate: in un racconto risulteranno ad esempio essenzialmente narrative, in poesia dipenderanno invece molto dalle forme metriche o da quelle prosodiche, che creano ciascuna un sistema di aspettative autonomo. Tutto questo e molto altro viene spiegato in modo chiaro ed accessibile nell’arco del secondo e del terzo capitolo; il decimo accorda la teoria con un discorso semiotico più generale ed alcune riflessioni di filosofia della conoscenza; l’undicesimo è poi dedicato all’estetica, ovvero al problema del bello e dell’arte. Tutti gli altri capitoli specificano la teoria nell’ambito di diversi linguaggi e generi espressivi. Questa struttura modulare permette di saltare agevolmente i passaggi più ostici senza precludere affatto la comprensibilità del testo. Così non è il caso di disperarsi per le difficoltà del primo capitolo, che esibisce “a freddo” le potenzialità della teoria con una analisi approfondita dell’Infinito di Leopardi. Una volta introdotti alle tematiche del discorso le applicazioni pratiche risultano invece sempre chiare e godibilissime. Qualcosa è successo di Dino Buzzati serve ad esemplificare le riflessioni sulla forma del racconto breve, mentre al romanzo Sylvie di Gerard de Nerval è riservato il capitolo successivo: il quinto. Nel sesto l’analisi si concentra sui racconti per immagini, con riflessioni sul cinema, la pubblicità, il videoclip ma soprattutto il fumetto, di cui Barbieri è un noto studioso: ad Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, Il cuore rivelatore di Alberto Breccia e Fuochi di Lorenzo Mattotti sono dedicate eccellenti analisi. Il registro del comico (cap. 7) è indagato anch’esso attraverso il medium fumetto con riferimenti ai Peanuts e a B.C., a TinTin, Fritz the Cat, Asterix e con una analisi di Cucù al salamone di Andrea Pazienza. Riven è invece l’esempio per i videogiochi del genere adventure, e Barbieri ci spiega come il fatto che le tensioni siano tutte legate alla finalità del gioco ci impedisca di godere ancora dell’esperienza una volta conclusa l’avventura: la rigidità della scansione temporale è infatti un elemento chiave della costruzione dell’attenzione nel fruitore, un problema importante per ogni forma di narrativa interattiva. La poesia torna nel nono capitolo con una lunga analisi del Viaggio a Montevideo di Dino Campana, mentre il dodicesimo affronta le problematiche del linguaggio che ha ispirato l’intera teoria riflettendo sull’ascolto musicale. L’assenza della dimensione televisiva è dovuta al fatto che nel 1996 Barbieri le aveva già dedicato interamente Questioni di ritmo, un volume dalle premesse teoriche sostanzialmente analoghe che trovano adesso una più ampia generalizzazione. In conclusione, Nel corso del testo rappresenta una esposizione completa e, spesso, gradevole, di una teoria e di un metodo di analisi maturi ed efficaci. Un libro utile per chi fa ricerca, un libro ottimo anche per i non iniziati alla terminologia semiotica. Se qualcuno vuol darmi retta, allora lo legga. Daniele Barbieri, semiologo, insegna a Urbino e Bologna. Ha pubblicato Valvoforme e valvocolori (1990), I linguaggi del fumetto (1991), Questioni di ritmo (1996). Ha progettato la struttura di Encyclomedia. Guida multimediale alla storia della civiltà europea. È stato consulente al palinsesto per la creazione del canale satellitare RaiSat1. *** Marco Belpoliti CROLLI Einaudi, Torino 2004 pp. 142, € 7,00 ISBN 88-06-17345-6 Recensione di Luca Massidda Crolli di Marco Belpoliti non è tanto un saggio, come invece dichiara espressamente lo stesso autore all’interno dei Ringraziamenti posti alla fine del libro, quanto piuttosto una guida, una breve guida “turistica” per imparare a smarrirsi nel tempo penultimo (cap. 23, pag. 128) della contemporaneità, in questa nostra catastrofica età dell’estremismo (cap. 3, pag. 17). 2
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Questo affascinante e frammentario, affascinante perché frammentario, reportage dal decennio dei Crolli (Berlino, 9 novembre 1989 – New York, 11 settembre 2001) è una lunga passeggiata che comincia appunto a Berlino, di fronte ai pochi resti del muro e si conclude a New York, lungo le passerelle allestite intorno al vuoto di Ground Zero. Prima di partire, l’autore sembra farci, per quanto riguarda il bagaglio, una sola breve raccomandazione, non dimenticatevi di mettere in valigia Infanzia berlinese di Walter Benjamin, sarà questa la vostra sola bussola (e poco importa che sia priva di alcun ago). Come ogni perfetto curatore di guide turistiche Belpoliti ci suggerisce i luoghi da vedere, dal Museo Ebraico di Libeskind a Berlino alla terrazza del World Trade Center di Manatthan, fino al deserto del reale di Pripjat’, la città fantasma della catastrofe nucleare; le mostre da visitare, cominciate dal Castello di Rivoli dove Jeffrey Deitch ha allestito Post human, recatevi poi al Centre Georges Pompidou di Parigi a vedere l’Informe, mode d’emploi curata da Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, e per concludere questo tour artistico, restate ancora a Parigi, alla Fondation Cartier, che ha ospitato Paul Virilio e la sua mostra sull’incidente Ce qui arrive; i disagi in cui rischiamo di imbatterci, dovuti ad un decennale sciopero degli eventi (Baudrillard), persino i rischi e i pericoli a cui è il caso di prestare attenzione, tra i quali spicca l’ infrasottile (Denis de Rougemount) del Rumore bianco di De Lillo, della nube tossica di Cernobyl, della polvere che si è alzata dalle rovine del World Trade Center e di quella che si è depositata sull’Allevamento di polvere di Marcel Duchamp. In un buona guida non poteva poi mancare un piccolo ma preziosissimo glossario che l’autore fornisce al lettore per poter meglio comprendere l’eccesso di realtà che si appresta ad attraversare: da sublime a kitsch, da apocalisse ad apocatastasi, da informe a postumano, ecco una breve lista di vocaboli da imparare prima di mettersi in viaggio. Il libro di Belpoliti è dunque uno strumento indispensabile per visitare la nostra contemporaneità, ma non per viverla, va bene per un turista del tempo penultimo (per quanto non trovare nessun riferimento a Simmel è un po’ come una guida di Parigi che si scorda delle Torre Eiffel), ma non è sufficiente per un suo abitante (ma quale libro può esserlo?). Quelle di Belpoliti, per quanto scelte in modo quasi impeccabile e produttivamente personale, restano comunque delle “cartoline”, ne hanno tutto il fascino iconico, ne conservano la capacità di fissare il reale in un’istantanea, anche di renderlo una immagine nella memoria, ma non possono comunque non mancare di spessore, di profondità, di spazialità. Marco Belpoliti insegna Sociologia della letteratura presso l’Università di Bergamo. Presso Einaudi ha pubblicato: L’occhio di Calvino (1996), Settanta (2000), Doppio zero (2003) e ha curato le Opere di Primo Levi (1997). Condirettore della rivista Riga, collabora a quotidiani e riviste. *** Roberto Esposito BÍOS. Biopolitica e filosofia Einaudi, Torino 2004 pp. XVII-215, € 18,50 ISBN 88-06-17174-7 Recensione di marcello serra In questo libro denso ed importante Roberto Esposito cerca la soluzione degli enigmi sottesi al concetto di biopolitica. Sin dal momento in cui Michel Foucault lo ha portato all’attenzione filosofica mondiale, esso appare infatti percorso da una radicale biforcazione interpretativa: il governo politico della vita significa che la politica governa la vita oppure viceversa? Si tratta di un governo della o sulla vita? Queste difficoltà teoriche nascondono un terribile paradosso storico: perché la relazione sempre più stretta della politica con la vita tende sempre a tradursi in un’opera di morte? Esposito tenta di rispondere a queste domande rileggendo la storia del pensiero biopolitico alla luce del paradigma dell’immunitas, un concetto su cui lavora già da tempo e che descrive una «protezione negativa della vita». Tale strategia, seppur necessaria, se portata oltre una certa soglia finisce per negare la vita stessa, impedendone lo sviluppo e rovesciandosi in morte. Questa operazione permette ad Esposito di indi3
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viduare nel moderno la genesi della biopolitica, dal momento che «solo la modernità fa dell’autoconservazione individuale il presupposto di tutte le altre categorie politiche». Così, attraverso una penetrante disamina della filosofia politica moderna, Esposito descrive la sovranità, la proprietà e persino la libertà (almeno nell’evoluzione moderna del concetto) come dispositivi biopolitici volti da un lato alla conservazione della vita e tesi, dall’altro, ad impedirne lo sviluppo. Lungo questo percorso assume significato anche l’esperienza nazista, vera e propria «biologia realizzata» ed esito estremo di una particolare visione biopolitica. Essa, assumendo i processi biologici come criteri guida per le decisioni politiche, si ribalta paradossalmente in tanatopolitica. In una dottrina che considera il corpo sociale tedesco malato, il paradigma immunitario nazista promulga leggi antifumo, sviluppa l’eugenetica e genera l’olocausto: una terapia «omeopatica» che cura la morte (della nazione tedesca) con la morte (del «parassita» ebreo). L’ultima parte del libro è dedicata alla relazione tra filosofia e biopolitica dopo l’esperienza nazista, che la filosofia ha negato a favore della biologia. Se a partire da quel momento la questione biopolitica diventa ineludibile essa, ritiene Esposito, non può essere affrontata con gli strumenti del moderno, da cui la Germania hitleriana è scaturita. Oltre ogni tentativo di recupero di «quel complesso di mediazioni, opposizioni, dialettiche, che per una lunga fase ha reso possibile l’ordine politico moderno», Esposito cerca allora di pensare una politica della vita attraverso il rovesciamento dei dispositivi bio-tanatologici del nazismo e dei concetti politici moderni che vi sono implicati. La carne merlau-pontiana, materica, inorganica, selvaggia, da sempre assimilata al patrimonio dell’impolitico, è allora opposta al corpo, giocando un ruolo analogo a quello che hanno altrove la “moltitudine” spinoziana o la “nuda vita” di Walter Benjamin. Analogamente la norma si contrappone alla legge e la nascita lo fa nei confronti della nazione. L’operazione di decostruzione più radicale a cui allude l’intero libro riguarda però, a livello più generale, proprio il paradigma immunitario attraverso cui la biopolitica si è finora espressa. Il rovesciamento di questa logica, che include la guerra preventiva come i kamikaze, dovrebbe spingere verso la communitas, paradigma opposto a quello dell’immunitas e fondato sull’apertura e il dono di sé. Se Esposito non ci dice quale sia in concreto la sua forma politica è anche perché, riteniamo, dovrà essere plastica come la natura umana. Dal complesso scenario di questo libro prezioso vorremmo infine sottolineare anche uno spunto non sviluppato. Nel momento in cui l’autore individua come il rapporto tra bíos e zoé debba includere anche la téchne, ci si aspettava una riflessione sul ruolo biopolitico delle tecnologie, ed in particolare delle tecnologie della comunicazione. Quale è stato il ruolo “immunitario”(?) dei mezzi di comunicazione di massa? Quale può essere l’apporto “comunitario” delle tecnologie reticolari? Siccome la questione non ci sembra oziosa, aspettiamo il coraggio di chi vorrà affrontarla. Roberto Esposito insegna filosofia teoretica attualmente presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane. Tra i suoi libri più noti Categorie dell’impolitico (il Mulino 1988), Nove pensieri sulla politica (Il Mulino 1993), Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi 1998), Immunitas. Protezione e negazione della vita (Einaudi 2002). *** Jaques Fontanille FIGURE DEL CORPO. Per una semiotica dell’impronta. [Ed. or. Séma et soma. Figures du corps, Maisonneuve et Larose, 2004.] Traduzione e cura di Pierluigi Basso Meltemi, Roma 2004. pp. 432, € 26,00 ISBN 88-8353-239-2 Recensione di Mario Pireddu Nel 1991 Jacques Fontanille scrisse Semiotica delle passioni a quattro mani con Algirdas Greimas, un testo fondamentale per la “svolta” operata dalla cosiddetta semiotica delle passioni, che dagli anni ottanta cerca di estendere i confini di una disciplina spesso troppo autoreferenziale. In Italia, dove la maggior parte 4
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dei lavori di Fontanille attende ancora di essere tradotta e pubblicata, l’edizione Meltemi di Figure del corpo consente finalmente di esaminare a fondo la riflessione dello studioso francese sul ruolo della dimensione corporale nelle attribuzioni di significato all’esperienza umana. L’esclusione del corpo dalla teoria semiotica (come da molte altre discipline), naturale conseguenza del logicismo e del formalismo che caratterizzano la quasi totalità delle scienze moderne, è proseguita con l’affermarsi della linguistica strutturale in un primo momento e della teoria dell’azione in seguito. Anche il percorso generativo è ancora un “simulacro formale”, un modello logico-formale pensato come privo di operatore. Per Fontanille non si tratta più di pensare i processi di significazione come operazioni logico-formali, ma di assumerli come “fenomeni”, ovvero come operazioni che riguardano un soggetto epistemologico dotato di corpo. Come già in Hjemslev, la distinzione tra sostanza e forma deve essere intesa come meramente pratica – dunque priva di valore operativo – e la relazione tra le due dimensioni come “fragile, mobile e immotivata”. L’invito a riconoscere la necessità di un punto di vista fenomenologico rimanda naturalmente alla riflessioni e acquisizioni di Merleau-Ponty su percezione e presenza sensibile, che si dimostrano ancora attualissime. Se ancora si dà un percorso generativo, suggerisce Fontanille, lo si deve inquadrare tra il corpo come sede di impulsi e substrato della significazione e le figure discorsive del corpo: si tratta di un percorso «fenomenico e ‘incarnato’». Da qui la revisione della definizione di attante secondo due istanze fondamentali: la carne, ovvero il livello sensomotorio dell’esperienza semiotica, e il corpo proprio che si costituisce nella semiosi. L’emergenza del senso e la significazione risultano fondate sull’attrito tra il corpo e le forze esterne che su esso premono, ed è proprio il passaggio dagli ordini sensoriali ai modi semiotici del sensibile che interessa all’autore. La semiotica tradizionale relegava la pluralità dei modi del sensibile al solo piano dell’espressione, mettendo in relazione ogni modo con i vari canali di ricezione ed evitando così di cogliere l’importanza della loro partecipazione alla strutturazione del piano del contenuto. «Il sincretismo (dei modi semiotici del sensibile) e la sinestesia (degli ordini sensoriali) non sono dunque complicazioni supplementari o elaborazioni sofisticate e ulteriori, ma la condizione stessa dell’apparizione della funzione semiotica nell’uomo»: è attraverso questo percorso che si giunge all’autonomia della dimensione figurativa della funzione semiotica. In ciò che le scienze cognitive definiscono enazione o ‘azione incarnata’ (in particolare Francisco Varela, a sua volta legato alla fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty), la semiotica legge un passaggio dall’informazione sensoriale alla significazione del mondo sensibile, o in altri termini un’operazione di débrayage. La figuratività va ripensata e analizzata a partire dalle ipotesi della «presenza» e della «interazione tra materia ed energia», e il punto di vista della semiotica del corpo è in sostanza quello di una semiotica dell’impronta, ovvero ciò che fornisce il «principio di pertinenza per una semiotica interessata al corpo». L’ipotesi di lavoro con la quale l’autore conclude le proprie riflessioni è che non vi è significazione osservabile se non quando i corpi conservano le tracce di interazioni con altri corpi. Se l’impianto concettuale del volume è fortemente – e coraggiosamente – interdisciplinare, frutto dell’utilizzo e della rielaborazione del pensiero di autori come Husserl, Ricoeur, Anzieu, Leroi-Gourhan e naturalmente Greimas, oltre al già citato Merleau-Ponty, va detto che a tratti Fontanille appare più cauto, preoccupato di un possibile «spostamento teorico verso la psicologia cognitiva o la neurobiologia», di cui pure non dovrebbe aver timore. Diversi capitoli sono dedicati all’analisi di opere letterarie, pittoriche e cinematografiche, nei quali l’autore mette alla prova l’efficacia delle proprie teorizzazioni dimostrando la solidità della nuova proposta semiotica. Con le parole dell’autore, «se una semiotica del corpo è auspicabile, non è per corroborare una semiotica delle passioni che possa conformarsi alle mode intellettuali del momento: si tratta, invece, di aprire un nuovo dominio d’investigazione».
Jacques Fontanille è professore di Linguistica e Semiotica presso l’Università di Limoges, di cui dirige il Centre de Recherches Sémiotiques. È titolare della cattedra di Semiotica presso l’Institut Universitaire de France e dirige il Séminaire intersémiotique de Paris. Oltre a Semiotica delle passioni (1991), scritto con A. J. Greimas, ha pubblicato: Le savoir partagé (1987), Les espaces subjectifs (1989), Sémiotique du visible (1995), Tension et signification (1998, con C. Zilberberg), Sémiotique et littérature (1999), Sémiotique du discours (1999).
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Wark McKenzie UN MANIFESTO HACKER. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi! [Ed. or. A Hacker Manifesto, The President and Fellows of Harvard College, 2004] Traduzione di Marco Deseriis Feltrinelli, Milano 2005 pp. 178, € 11,00 ISBN 88-07-17108-2 Recensione di Stefano Mizzella Nel 2001 Pekka Himanen spiegava come l’etica hacker, incentrata sui principi fondamentali della passione, della libertà e della creatività intellettuale, costituisse una valida alternativa a quella che Max Weber aveva definito «l’etica protestante e lo spirito del capitalismo» (cfr. Himanen P., 2001, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano, 2003). L’australiano Ward McKenzie, esperto di media e docente presso la New School University di New York, utilizza invece il pensiero di Marx come chiave di lettura attraverso cui interpretare il nuovo conflitto sociale che ha contraddistinto l’avvento dell’era digitale. Non più capitalisti contro operai, o allevatori contro contadini. Negli anni del computer, di Internet e del cyberspazio, lo scontro riguarda una nuova classe sociale, quella degli hacker, a cui McKenzie dedica il suo Manifesto. Facendosi carico della lezione di Himanen, McKenzie considera gli hacker qualcosa di molto diverso dai pirati informatici che riempiono le cronache dei quotidiani o le pagine dei romanzi cyberpunk. All’interno della classe hacker sono riuniti tutti i lavoratori immateriali che popolano la società contemporanea: non soltanto gli hacker veri e propri o i maniaci del computer, ma anche i creativi e i produttori di “visioni” a vario titolo. In definitiva, tutti i lavoratori immateriali e i lavoratori del ciclo di produzione di merci legate alla conoscenza. McKenzie ripercorre la strada dei grandi narratori del fenomeno hacker, Steven Levy e Bruce Sterling su tutti, nel momento in cui svincola con vigore la figura dell’hacker dallo stereotipo del disadattato relegato a una pseudo-esistenza parallela vissuta nella virtualità dello schermo. Al contrario, l’hacker rappresenta nei campi e nelle attività più diverse, dall’arte alla musica, dalla letteratura all’informatica, colui che produce nuove informazioni non accontentandosi di “maneggiare” percorsi creativi preconfezionati. La classe hacker nasce dunque “dalla trasformazione dell’informazione in proprietà, nella forma della proprietà intellettuale” (p. 24). In tal senso l’autore legge nel concetto di “astrazione” la spinta ideologica che permetterebbe agli hacker di realizzare il proprio potenziale: «Hackerare significa produrre o applicare l’astratto all’informazione ed esprimere la possibilità di nuovi mondi, al di là del necessario» (p. 15). Arrivare all’astrazione della proprietà privata anche nel contesto della comunicazione significa allora per gli hacker definire una nuova classe sociale impegnata a combattere qualsiasi forma di copyright o di limitazione alla libertà d’informazione. Tuttavia, ogni qual volta l’astrazione del concetto di proprietà sia in grado di liberare le risorse produttive, in quello stesso momento è lecito attendersi una nuova divisione di classe, nel medesimo modo in cui la proprietà privata ha creato in tempi remoti una classe agropastorale che possedeva la terra e una classe di contadini che ne veniva espropriata. Dalla terra all’informazione, passando naturalmente per il capitale, ci troviamo ora di fronte a un’inedita classe sociale di lavoratori cognitivi che deve lottare e far valere i propri diritti contro quella che lo stesso McKenzie definisce «classe vettoriale», formata da coloro che detengono il monopolio dei mezzi di produzione delle informazioni, ovvero i “vettori” lungo i quali le informazioni vengono veicolate. I lavoratori immateriali, pertanto, costretti a “vendere” la propria capacità d’astrazione a una classe che produce i mezzi di produzione, finiscono per ritrovarsi espropriati sia come individui che come classe (p. 17). Hacker e «vettorialisti» rappresentano dunque le due facce contrastanti di una dialettica postmoderna in cui il capitale si è rovesciato nella privatizzazione della conoscenza e nella lotta per l’informazione libera. La contrapposizione tra le due fazioni è volutamente manichea, così come la rigida separazione tra “buoni” e “cattivi” che, se per un verso facilità all’autore la riproposizione della griglia interpretativa marxista, dall’altro finisce inevitabilmente per impoverire l’analisi di uno scenario che risulta invece quanto mai frastagliato e degno di maggiore profondità interpretativa. La volontà di idealizzare la classe sociale degli hacker appare in tal senso un’operazione tanto affascinate quanto pericolosa. L’autore sembra ignorare le infinite differenze e contraddizioni che rendono il mondo dei lavoratori immateriali estremamen6
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te difficile da interpretare univocamente come classe. Anche il termine hacker si presenta, del resto, come la dicitura già ampiamente strumentalizzata e politicizzata di una figura-concetto, di un termine-ombrello che nell’immaginario collettivo spazia senza soluzione di continuità dall’hack-tivista al cracker, dal cyber-cowboy al lamer. McKenzie non è interessato a ripercorrere la genealogia dell’hacker, e così facendo finisce per sminuire l’analisi dell’oggetto di studio soprattutto da un punto di vista antropo-sociologico. Percorsi fondamentali come la nascita e l’affermazione dell’etica hacker o il successivo processo di banalizzazione messo in atto dai mass media vengono lasciati totalmente ai margini del discorso. Lo stesso accade con alcuni concetti sui quali l’autore preferisce non soffermarsi. Il software libero, il file-sharing, i blog e le licenze Creative Commons sono fenomeni di così stretta attualità e importanza che avrebbero obbligato l’autore a uno studio più articolato per far sì che il concetto di «classe hacker» acquisisse un valore maggiore rispetto a un semplice slogan neo-marxista. Ward McKenzie insegna Cultural and Media Studies al Lang College della New School University. È autore di numerosi saggi e libri tra cui Dispositions. *** Diego Mondella PEEPING TOM.. Il cinema di Michael Powell Falsopiano, Alessandria 2005 pp. 224, € 10,00 euro Recensione di Guido Vitiello Bisognerebbe compilare un Canone dei Classici Sommersi e dei Maestri Invisibili, e ad essi consacrare un visibile famedio: autori che hanno segnato le arti della loro epoca e di quelle a venire, e a cui è toccata nel migliore dei casi una fortuna carsica, se non l’oblio assoluto. Nel cinema, un buon esempio è Peeping Tom (L’occhio che uccide, 1960) di Michael Powell. Sbeffeggiato dalla critica britannica al tempo della sua uscita, riscattato un poco dall’apprezzamento dei francesi, ha condotto vita appartata fino a quando Martin Scorsese ne ha riscoperto la grandezza. Nel frattempo, il film di Powell aveva già esercitato un magistero impareggiato sull’horror moderno – si può dire, anzi, che ha contribuito a fondarlo – e dopo quarantacinque anni continua a farsi vanamente rincorrere dai suoi epigoni, da Henry – pioggia di sangue (1986) di John McNaughton a Doppia personalità (1992) di Brian De Palma, fino a Tesis (1996) di Alejandro Amenábar. Non a caso, lo stesso Powell lo definì «un film da gustarsi con delizia nei secoli a venire». Di Peeping Tom non esiste, a tutt’oggi, un’edizione italiana in commercio; ma è finalmente comparso nelle nostre librerie uno studio monografico dedicato a questo classico sommerso, a opera del giovanissimo Diego Mondella. Una rapida occhiata al canovaccio del film basta a far intuire con quale incandescente materia abbiamo a che fare. Peeping Tom racconta la vicenda del cineoperatore Mark Lewis, che uccide le sue vittime – tutte donne prepotentemente sensuali – con una lama nascosta nel treppiede della macchina da presa, costringendole a fissare negli occhi la propria morte tramite uno specchio concavo fissato sulla cinepresa-pugnale. La sempliciotta Helen, che vive con la madre cieca nell’appartamento sotto il suo, comincia a interessarsi a Lewis, s’introduce nel suo laboratorio e lo convince a mostrargli qualcuno dei suoi film; l’operatore le proietta un documentario familiare dove sono ripresi gli abominevoli esperimenti che il padre scienziato compiva su di lui bambino per studiare le reazioni del sistema nervoso alla paura. Lewis commette poi un altro dei suoi delitti, su un set dove si sta girando una commedia leggera, al termine di una scena di seduzione reciproca con una modella-attrice. La madre di Helen comincia a insospettirsi, e ancorché cieca è l’unica a captare la malattia del giovane. Quando la polizia è ormai sulle sue tracce, Lewis si uccide con lo stesso rituale che aveva escogitato per le sue vittime. Un film come questo, va da sé, è una straordinaria palestra ermeneutica. E l’analisi di Mondella è impeccabile quanto a scrupolo filologico, individuazione di temi e sottotemi, scomposizione dello spettro espressivo di Powell nelle sue componenti, esposizione delle diverse chiavi di lettura. A partire dalla chiave meta7
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cinematografica – ma già che ogni film, in un certo senso, è cinema e metacinema insieme, parlerei piuttosto di mise-en-abyme. Mondella osserva acutamente che i filmati in bianco e nero del piccolo Lewis terrorizzato dal padre scienziato sono accompagnati dal pianoforte, proprio come nelle proiezioni ai tempi del muto, legando così l’infanzia del protagonista all’infanzia del cinema (senza contare che – ulteriore mise-enabyme – sono Michael Powell e figlio a interpretare le scene). E analizza con pari acume il “film nel film”, la commedia leggera The Walls are Closing In, che si gira sul set dove Lewis compierà il suo secondo omicidio – espediente via via divenuto frusto, prima che David Lynch con Mulholland Drive (2001) gli restituisse il suo splendore. Non trascura poi l’analisi intertestuale, mettendo Peeping Tom a dialogo con il coevo Psycho di Alfred Hitchcock, con La finestra sul cortile (1954), con L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov o con Effetto notte (1973) di François Truffaut. Dissotterra i motivi simbolici ricorrenti – interpretandoli per lo più con strumenti psicoanalitici – e i motivi mitologici, primo tra tutti la madre cieca di Helen: «La sua funzione assomiglia a quella mitologica di Tiresia», scrive Mondella, e peccato che non si dilunghi su questo che mi pare il personaggio chiave del film, l’ombra o il doppio del protagonista. Come in un western, Mondella “assedia” il suo oggetto-fortino da tutti i fronti: psicoanalisi, mitologia, sociologia, storia del cinema, perfino (ma ce n’era bisogno?) i gender studies – senza contare che abbiamo omesso, per brevità, la parte più squisitamente filmologica, che occupa gran parte del libro. Eppure, verrebbe da osservare, sembra fargli difetto una lettura unitaria che rimetta insieme i pezzi del giocattolo una volta che è stato scomposto in tutti i suoi elementi. Ma credo che non ne abbia colpa: questo perché – detto in modo un po’ pomposo – con Peeping Tom Michael Powell ha creato un mito moderno. E invero, creare è termine quanto mai fuorviante: piuttosto, gli ha dato forma – come un bricoleur levi-straussiano – assemblando i temi e i motivi chiave della nostra civiltà, e pescando anche nella grande rigatteria del cinema di genere, dove giace il vero patrimonio mitologico del nostro tempo. Intervistato a proposito di Peeping Tom Powell ha dichiarato, con apparente megalomania – ma in realtà stornando da sé qualunque effimera coscienza autoriale – «Non sono un regista con uno stile personale. Sono il cinema». I am the cinema: il cinema come macchina mitologica operata da un autore collettivo, corale. Tutti gli elementi della nostra civiltà sono presenti in Peeping Tom: il nodo gordiano tra la realtà e i suoi doppi spettacolari, la sinistra aria di famiglia che spira tra le tecnologie della riproduzione e la morte; la “guerra civile” in seno al sensorio umano per il predominio gerarchico dell’una o dell’altra facoltà; il nesso tra visione e desiderio, tra crudeltà e spettacolo, tra potere e sopravvivenza. In altri termini, Powell ci ha fornito materiale mitologico di prima mano; prima ancora di esser noi a spiegare Peeping Tom, è lui a spiegare noi. Diego Mondella è nato a Roma nel 1978. Si è laureato in Lettere moderne presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi sul cinema di Michael Powell (Analisi di “Peeping Tom”: metacinema e psicoanalisi). E’ anche giornalista pubblicista e attualmente collabora, come critico cinematografico, con la rivista bimestrale Film. *** Franco Restaino STORIA DEL FUMETTO. DaYellow Kid ai manga. UTET, Torino 2004 pp. XVI-416, € 19,50 ISBN 88-7750-887-6 Recensione di marcello serra Questo libro è da qualche tempo al centro di un’aspra polemica. Due studiosi del fumetto seri e competenti come Daniele Brolli e Alessandro Di Nocera hanno infatti promosso una petizione presso la casa editrice UTET per richiedere il ritiro dell’opera dal commercio a causa dell’alto numero di errori presenti. Alle spalle di questa reazione c’è la lunga polemica sulla dignità del fumetto come forma espressiva e soggetto di studio. In effetti, la mancanza di rigore scientifico da parte dell’autore come da parte della casa edi8
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trice (la stessa che pubblica le famose enciclopedie!) non giocano certo a favore delle intenzioni stesse di Franco Restaino, che esprime nella sua presentazione la volontà di «contribuire a dare piena dignità anche “accademica” alla forma d’arte fumetto». Gli errori sono in effetti moltissimi e di ogni genere (si può trovarne un elenco in continuo aggiornamento su www.lospaziobianco.it e www.comicus.it), molti di più di quelli che lo stesso autore ha indicato dopo l’uscita del libro imputandoli ad una mancata correzione da parte della casa editrice prima della stampa. Trattandosi di un’opera di ricostruzione storica il controllo delle fonti e l’esattezza di certe affermazioni è sicuramente indispensabile, tuttavia alcuni problemi del testo nascono da snodi teorici non approfonditi. All’origine, e non poteva essere altrimenti, c’è la questione della nascita del fumetto, che Restaino data 1896 e fa risalire a Yellow Kid. Ragionando da un punto di vista strettamente linguistico-espressivo, molti studiosi attribuiscono la paternità del medium allo svizzero Toppfler, ma d’altra parte sono numerosi nella storia gli esempi antichi di arte sequenziale, a cominciare dall’arte egizia e forse ancora prima. Se si riflette sulla qualità di mezzo di comunicazione di massa e di industria culturale, la datazione di Restaino, che è quella classica degli studi sul fumetto, è invece corretta. Ciò che non è invece accettabile è la motivazione di tale scelta, che si basa sull’individuazione del balloon come cifra discriminante del medium fumetto e del suo “specifico”. Non è il caso di elencare le affermazioni paradossali a cui condurrebbe l’adozione di tale principio, ma una ce la fornisce lo stesso Restaino, posticipando al 1935 l’arrivo del fumetto in Italia, con buona pace del Corriere dei Piccoli, del Signor Buonaventura e delle loro didascalie. Dal punto di vista dell’organizzazione tematica, il libro si divide in due parti di lunghezza analoga: la prima dedicata al fumetto americano e la seconda al fumetto «in Europa, Giappone ed aree periferiche». La storia del fumetto americano (in generale funestata da traduzioni di titoli sbagliate anche quando esiste una versione italiana corretta) è affrontata da tre prospettive differenti: quella delle strips quotidiane, quella dei comic books e quella del fumetto underground e indipendente, interessante per la panoramica di autori a volte poco conosciuti. Nella seconda parte spicca per assenza un capitolo dedicato al Sudamerica che non è certo, specie per quanto riguarda l’Argentina, un’area di produzione fumettistica quantitativamente o qualitativamente periferica; trovano invece spazio una storia del fumetto francese, di quello italiano, di quello britannico e del resto d’Europa e, infine, dei manga giapponesi. La ricostruzione di Restaino non si configura certo come una storia sociale del medium, tuttavia procede attraverso un’analisi che tiene correttamente conto delle circostanze storiche, sociali e produttive. Numerose sono inoltre le descrizioni di trame e canovacci ed ampie le informazioni su characters e autori. Queste ultime qualità, unite all’indice analitico presente alla fine del volume, lo renderebbero un utile strumento di ricerca se non fosse per le numerose e gravi inesattezze sparse un po’ ovunque (una su tutte: il professor Xavier degli X-Men che diventa inspiegabilmente cieco!). Non convince inoltre il peso dato ad alcune opere a discapito di altre, con Diabolik che occupa più pagine dell’intera produzione di casa Bonelli. Alcuni giudizi sono poi decisamente discutibili: per evidenziarne giusto un paio, è difficile condividere l’attestato di mediocrità per una saga ‘omerica’ come Sandman o sottovalutare la pertinenza epocale di uno scrittore come Garth Ennis. È buona invece la scelta delle tavole illustrative dell’evoluzione del medium (sono 32 pagine a colori e 32 in bianco e nero), anche se un po’ carente nella resa grafica. È sicuramente uno strumento utile l’amplissima bibliografia ragionata come lo sono le indicazioni sparse nel testo sulle riviste specializzate italiane e straniere, critiche e antologiche, ancora in vita oppure ormai scomparse. Tutto sommato, il libro potrebbe contenere elementi di interesse per qualche studioso esperto, ma presenta parecchi difetti come guida introduttiva o di orientamento nel mondo del fumetto. Tra questi, non ultimo quello di una prosa priva di fascino e di ogni afflato narrativo, ipersemplificata e, nonostante questo, a tratti paradossalmente incomprensibile. Per tutti questi motivi si capiscono le ragioni della provocazione costituita dalla petizione per il ritiro del libro: il messaggio di un tale lavoro, che seppur documentato appare a tratti pressappochistico è che il fumetto non è degno di uno studio rigoroso. Non è una sorpresa che ci sia chi si arrabbia. Franco Restaino, professore di Filosofia teoretica all’Università di Roma “Tor Vergata” e autore di per UTET libreria di una Storia dell’estetica (1991) e di una monumentale Storia della filosofia in sei volumi (1999) è un profondo conoscitore della filosofia anglo-americana. Da sempre, in una sorta di vita parallela, è un appassionato cultore di fumetti. 9
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*** Marc Valleur, Jean-Claude Matysiak SESSO, PASSIONE E VIDEOGIOCHI. Le nuove forme di dipendenza (Ed. or. Sexe, passion et jeux vidéo, Flammarion 2003) Traduzione di Isabella Negri Bollati Boringhieri, Torino 2004 pp. 207, € 20,00 ISBN 88-339-1530-1 Recensione di Stefano Mizzella Marc Valleur e Jean-Claude Matysiak analizzano con le lenti e le griglie concettuali del metodo psicologico quelle che vengono comunemente considerate le nuove forme di dipendenza. Come affermano i due autori, nella società contemporanea «tutto nasce dal piacere e per il gusto del piacere. Poi subentra la difficoltà: fermarsi diventa sempre più arduo». L’incapacità del soggetto di porre fine al proprio morboso attaccamento senza far riferimento a un aiuto esterno costituisce l’oggetto di studio dei due psichiatri francesi. Il loro obiettivo consiste nel trattare quelle nuove forme di dipendenza che possiamo definire come «le malattie emblematiche della modernità». Dipendenze senza droga come il sesso, la passione, il gioco, la delinquenza. Dipendenze eterogenee tra loro, reali e virtuali allo stesso tempo, capaci di traghettare mente e corpo in un vortice emozionale dal quale diventa difficile tornare indietro. L’espressione «amare da morire», usata dai due autori nella prima parte del testo, non va letta quindi solo come un affascinate ossimoro o un semplice gioco stilistico, bensì come archetipo di una dipendenza violenta scaturita dalla necessità morbosa di raggiungere ciò che più si ama, una persona fisica ma anche un’idea, una sensazione, uno stato fisico o mentale. L’ambiguo rapporto passione-dipendenza viene così trattato utilizzando le strutture narrative e simboliche della favola, in un’interessante quanto rischiosa cornice teorica che fa dialogare tra loro i fratelli Grimm e Perrault per poi confluire nel mito di Tristano e Isotta: passione che conduce alla morte. Una dipendenza amorosa può risultare quindi più forte e pervasiva di una dipendenza da eroina: alla libertà del rapporto si sostituisce l’ossessione nei confronti della persona amata. Nello scarto tra la trattazione dei love addicts e l’analisi dei cosiddetti sex addicts, le persone dipendenti dal sesso, il testo abbandona le derive fantastiche e immaginarie della prima parte per assumere un registro altamente specialistico simile in tutto e per tutto a un vero trattato di psichiatria. La dipendenza sessuale viene studiata con il contributo di registri prevalentemente clinici e biologici, incentrando l’articolazione del tema lungo i concetti di impulso, compulsione, perversione. Escono da questo rigido impianto metodologico solo le pagine in cui l’ossessione nei confronti del sesso viene simboleggiata e metaforizzata attraverso il mito del Don Giovanni di Molière, esempio emblematico «delle valenze di sfida e di trasgressione che la dipendenza sessuale può contenere in sé» (p. 90). Concludendo la sezione riguardante le dipendenze sessuali con un rapido excursus sulle varie letture che la società, in epoche diverse, ha fornito riguardo alle pratiche masturbatorie, i due autori francesi si concentrano su un altro aspetto degno di studio, la dipendenza dal gioco che viene così riassunta: «La passione del gioco è eccesso e dismisura nella funzione del gioco normale e indispensabile, che si tratti dei giochi infantili o delle attività ricreative degli adulti. L’impossibilità di fermarsi spontaneamente è quindi ciò che definisce la dipendenza: l’instaurarsi di una dipendenza dal gioco, in tutte le sue forme, segna la fine del gioco» (p. 132). Valleur e Matysiak dimostrano in questo passaggio di aver assimilato la lezione di Johan Huizinga, il quale già nel 1939 descriveva l’atto del giocare come un allontanarsi dalla vita “ordinaria” e “vera” per entrare in una «sfera temporanea di attività con finalità tutta propria» (cfr. Huizinga, J., 1939, Homo ludens, Milano, il Saggiatore, 1964). Il giocatore dipendente è però colui che fatica a scindere i due versanti, quello del gioco e quello della realtà, finendo così per accrescere una forma di dipendenza che nasce e si sviluppa a partire da un investimento passionale, lo stesso investimento che lega milioni di videogiocatori al simulacro erotico di Lara Croft o a quello degli eroi del cyberspazio. Tuttavia, in quest’ultima trattazione il corto circuito creatosi tra le griglie scientifiche utilizzate e il particolare oggetto d’analisi diventa irreversibile e altamente problematico. Passando dal reale al virtuale l’analisi perde molto in termini di contestualizzazione e di profondità, lasciandosi andare a facili banalizzazioni 10
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(«il Web è il luogo di tutte le tentazioni», p. 149) o a ricerche estremamente superficiali e lacunose, come quella inerente al fenomeno hacker. Stessa sorte per la figura del serial killer a chiusura del testo: affermare che la delinquenza è una forma di dipendenza mortale non sembra sufficiente a giustificare in tutto e per tutto una ragionata serializzazione dell’omicidio. Marc Valleur è psichiatra, primario dell’ospedale Marmottan, membro della Commission des stupéfiants et psychotropes e del Collège scientifique de l’Observatoire frangais des drogues et toxicomanies. Jean-Claude Matysiak è psichiatra e caposervizio al centro ospedaliero di Villeneuve-Saint-Georges, presidente dell’Association pour la recherche sur la prescription spérimentale des stupéfiants. Valleur e Matysiak sono autori tra l’altro di Les Addictions: dépendances, toxicomanies, repenser la souffrance psychique (Armand Colin, 2002).
*** Naief Yehya HOMO CYBORG. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza [Ed. or. El cuerpo transformado, Editorial Paidós Mexicana, 2001] Traduzione di Carlo Milani e Raul Schenardi Elèuthera, Milano 2004 pp. 159, € 14,00 ISBN 88-85060-97-8. Recensione di Stefano Mizzella «L’umanità è una specie in via di estinzione». Partendo da questo assioma, seducente quanto problematico, Naief Yehya passa in rassegna i sogni e le paure di una società che mai come ora sembra voler fuggire dai confini della propria carne, dai limiti imposti del corpo. Il cyborg, che rappresenta «la fusione, la combinazione o la relazione parassitaria tra la sfera biologica e quella culturale, tra i prodotti dell’evoluzione e quelli della fabbrica», sembra essere una risposta a questa tendenza. Una metafora, uno strumento interpretativo utile a comprendere i processi evolutivi della nostra specie. L’ibridazione uomo-macchina ha definitivamente abbandonato i racconti di fantascienza per riversarsi in modo pervasivo nel nostro quotidiano. I seguaci del “neoprimitivismo” che alterano il proprio aspetto attraverso tatuaggi e piercing, così come le moderne generazioni di atleti costretti a ricorrere al doping per migliorare le prestazioni sportive, rappresentano secondo Yehya alcuni esempi evidenti di un rifiuto generalizzato del corpo naturale. Un rifiuto che ha origini lontane, risalenti tanto al misticismo platonico quanto alla morale cattolica. Tuttavia, è stato il progresso tecnologico a fornire alla specie umana la possibilità di redimersi dall’ingiusta condanna di «un corpo difettoso, effimero e fragile». La cibernetica, unita sempre più spesso con la medicina e la fisica, ha reso l’uomo un essere migliore. Ha permesso ai sordi di sentire e ai cechi di vedere, contribuendo anche a un progressivo miglioramento della sessualità. Ha reso i soldati perfette macchine da guerra incapaci di provare dolore e pietà nei confronti delle loro vittime. La donna cyborg rappresenta l’estremo versante di questo processo. La femminilità della macchina, che ha popolato l’immaginario sin dalla Maria di Metropolis, torna a rivivere grazie alla chirurgia plastica e alle più moderne pratiche di riprogettazione corporea capaci di preservare l’immagine di una bellezza tanto effimera quanto immortale. Il percorso analitico proposto dall’autore si fa più tortuoso a ridosso delle problematiche maggiormente scottanti, quelle inerenti alle moderne possibilità di intervenire direttamente sul genoma umano. L’eugenetica, la clonazione e la biopolitica rappresentano l’attualità di un dibattito ancora insoluto che coinvolge drasticamente la scienza quanto la religione, l’etica quanto la filosofia. All’interno della struttura del testo sono frequenti i rimandi tra il piano della realtà e gli scenari a volte utopici offerti dalla fantascienza o dal cinema horror. In entrambi i casi il cyborg viene spesso interpretato come una minaccia, come un nemico da combattere, cosa che non accade per esempio nei fumetti, in cui i supereroi (da Capitan America ai Fantastici Quattro) utilizzano il proprio corpo potenziato come arma nella lotta contro il male. L’analisi prettamente scientifica viene così contaminata con i prodotti dell’indu11
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stria culturale, con i miti e le figure dell’immaginario collettivo. La scrittura di Yehya risente però di un’approssimazione stilistica che rende questo libro meno “bello” da leggere rispetto ad altri testi simili sia per struttura che per contenuto (cfr. Caronia A., 2001, Il Cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano). In alcuni passaggi, poi, si avverte la mancanza di un adeguato approfondimento delle tematiche che caratterizzano il pensiero post-human da un punto di vista propriamente antropologico, o addirittura sociologico. Affermare infatti che si debba considerare come cyborg chiunque integri qualche tipo di tecnologia al proprio corpo, dal palombaro all’uomo bomba suicida, ci sembra sinceramente una banalizzazione che non può non abbassare il valore qualitativo dell’indagine. Homo Cyborg rimane comunque un testo interessante per gli studiosi delle tematiche proposte, in particolar modo per l’attualità e la vastità degli esempi riportati. Tuttavia, l’analisi di Yehya lascia irrisolte alcune domande che diventano fondamentali per capire quale sarà il prossimo stadio dell’evoluzione post-umana. Ci chiediamo, quindi se in un prossimo futuro sarà ancora lecito individuare un’unica identità all’interno di un unico corpo e, soprattutto, cosa accadrà quando non ci sarà più bisogno di introiettare la tecnologia nella propria carne per oltrepassare i limiti imposti della natura. Sarà il clone a determinare l’estinzione dell’homo cyborg? Agli studiosi a venire la possibilità e il dovere di rispondere a questi interrogativi. Naief Yeyha, nato a Città del Messico nel 1963, vive e lavora da anni a New York. Ingegnere di formazione, è giornalista e scrittore. Collabora a varie riviste messicane e statunitensi ed è autore di romanzi, racconti e saggi che spaziano dall’erotismo alla fantascienza (la sua grande passione), con incursioni nell’attualità.
*** Clemens Zimmermann L’ERA DELLE METROPOLI. Urbanizzazione e sviluppo della grande città (Ed. or. Die Zeit der Metropolen, Fisher 2000) Traduzione di Alessandra Parodi Il Mulino, Bologna 2004 pp. 222, € 12,50 ISBN 88-15-09791-0 Recensione di Luca Massidda Spesso un libro non va giudicato dalle risposte che offre, ma dalle domande che si pone e dal modo in cui se le pone. È questo anche il caso del testo di Clemens Zimmermann, L’era delle metropoli. Che cos’è una metropoli? Che differenza c’è tra la città e la metropoli? Quali sono i fattori che consentano a una città di acquisire lo status di metropoli? Sono queste le domande che si pone l’autore. E a cui non riesce a rispondere. Ed è proprio questo paradossalmente il suo merito più grande: la sua difficoltà a rispondere non nasce infatti dalla debolezza del suo pensiero ma dalla capacità di cogliere il significato complesso delle domande da cui parte. L’autore non trova una definizione univoca per descrivere la metropoli, ma cattura la natura complessa delle relazioni che si possono di volta in volta innescare tra le molteplici variabili che entrano in gioco nella strutturazione dello spazio metropolitano. Non convince invece, nell’analisi delle metropoli scelte come exempla della nuova spazialità urbana dell’era moderna, la scelta dell’autore di partire sempre e comunque dalla relazione tra le variabili socio-demografiche e quelle economiche, confinando spesso le dinamiche simboliche e culturali in una dimensione sovrastrutturale. Due esempi: di cinema si parla poco e superficialmente solo nel paragrafo su Torino città mediale; si parla invece più spesso di stampa popolare ma quasi sempre riducendo la complessità del fenomeno al solo elemento politico. Ricorrendo alla sua stessa terminologia, possiamo dunque rimproverare all’autore un eccessivo sbilanciamento dell’analisi verso quelli che lui stesso definisce fattori di spinta delle metropoli. La conseguente sottovalutazione dei fattori di attrazione, tra i quali ci sembra di poter far rientrare l’universo dei consumi e dei media, non impedisce comunque a Zimmermann di riconoscere l’offerta culturale come una forza pro12
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duttiva agente nello e sullo spazio della metropoli. Resta comunque difficile, dal nostro punto di vista, accettare l’assenza di un discorso sulla relazione complessa che nella metropoli si instaura tra reale e immaginario, sul ruolo della dialettica tra metropoli reale e metropoli immaginata nella strutturazione fisica dello spazio urbano, sull’ambivalenza del processo di metropolizzazione. Il rammarico per questa “omissione” risalta all’interno di un’analisi altrimenti mai riduttiva e semplificante della complessità metropolitana, un’analisi che basa proprio sull’eterogeneità e la polimorfia degli elementi in gioco la scelta, certo inusuale, delle metropoli da trattare come casi esemplari della forma metropolitana: lo sviluppo policentrico di Manchester che, unito alla mancanza di un segno distintivo della città, dà luogo ad un processo di precoce suburbanizzazione e segregazione sociale, con la fuga delle classi borghesi medio-alte verso enclavi periferiche, simile alla ghettizzazione architettonica e all’apartheid urbano della Los Angeles contemporanea descritta da Mike Davis; la creazione di San Pietroburgo come finestra sul nuovo orizzonte culturale di riferimento organizzato dalla rete delle metropoli occidentali poi quotidianamente (ri-)messo in scena nella spazio spettacolare e autorappresentativo della Prospettiva Nevskij; l’asincronia nella consapevolezza urbana di Monaco con le sue isole dai modi di vita preindustriali sparse in mezzo alla città industriale; l’architettura glocal della Barcellona di Gaudì e di Domènech i Montaner; il potere performativo della Fiat che di Torino trasforma lo status e la demografia (da città di funzionari a città di operai e di migranti), l’urbanistica (con la creazione di interi quartieri intorno al Lingotto e alla fabbrica di Mirafiori), l’identità politica (da sonnacchiosa capitale della Monarchia a centro italiano del socialismo culturale idealistico). Il libro è finito. Non abbiamo trovato una definizione di metropoli, ma siamo sempre più convinti che non è ancora giunto il momento di passare oltre.
Clemens Zimmermann insegna Storia della cultura e dei media nell’Università di Saarbrücken. Studioso di storia urbana e storia agraria, ha curato fra l’altro i volumi Dorf und Stadt (2001) e Kleinstadt in der Moderne (2003).
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