NIM.libri . Numero 3 . Febbraio 2006

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NIM.libri [Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia] Numero 3, febbraio 2006

INDICE Gabriele Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale p. 1 Max Giovagnoli, Fare cross-media. Dal Grande Fratello a Star Wars p. 3 Franco Monteleone, Cult Series (volumi I - II) p. 4 John Durham Peters, Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione p. 5 Luca Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi e oltre p. 6 Massimo Scaglione, I divi del ventennio. Per vincere ci vogliono i leoni… p. 8 Valerie Steele, Fetish. Moda, sesso e potere p. 9 Luca Vanzella, Cosplay Culture. Fenomenologia dei costume players italiani p. 10 Slavoj Zizek, Credere p. 12

*** Gabriele Frasca LA LETTERA CHE MUORE. La “letteratura” nel reticolo mediale. Meltemi, Roma 2005. pp. 360, € 25,00 ISBN 8883533755 Recensione di Luca Reitano

Se la precondizione di una autentica comparatistica riposa nella facoltà di “avvicinare il lontano” ovvero di far dialogare in maniera incisiva forme, letterature e saperi diversi, questo denso saggio di Gabriele Frasca ne soddisfa ampiamente le premesse: La lettera che muore è un libro raro per forza argomentativa, profondità di analisi e un poderoso (quanto sapientemente interdisciplinare) apparato di riferimenti. Assumendo la mediologia di Marshall McLuhan come principale riferimento teorico, Frasca traccia un percorso denso e articolato delle diverse incarnazioni mediali della “Lettera” nel corso dei secoli, innestando la “letteratura”, concetto affermatosi in piena età tipografica, nella storia «a pendenza lieve» di un fenomeno linguistico ben più complesso (l’arte del discorso) che è migrato nel corso del tempo, mutandosi, attraverso una gran varietà di supporti materiali e di tecnologie per la registrazione dell’informazione, modificando, ogni volta, il sensorio umano e l’intero habitat sociale (dal momento che, per dirla con McLuhan: «il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo, o di schemi che introduce nei rapporti umani»). Il panorama tracciato da Frasca ripercorre così le svolte “tipologico culturali” della storia europea mediante il fil rouge della tecnologie di comunicazione(e qui giustamente Frasca invoca una più accurata “filologia dei mezzi” nello studio dei fatti letterari): dai supporti materiali (papiro, pergamena, carta, nastro magnetico) alle modalità di registrazione, a cui risponde di volta in volta il mutare delle forme letterarie. Un percorso che affronta il millenario viaggio della “letteratura”, dal suo originario distaccarsi dall’epos “dionisiaco” e risonante delle culture orali (con all’affermarsi graduale della civiltà della scrittura, dall’ incrocio mediale tra scrittura e oralità nell’impero romano sino al suo pieno consolidarsi con l’età tipografica, che coincide con la grande stagione del romanzo europeo), al suo progressivo declinare, nel corso del Novecento, con il ritorno dell’oralità dovuto all’avvento dei media elettrici. In questo tragitto stimolante e suasivo i testi del canone (dal Decameron di Boccaccio al Finnegans Wake di Joyce) si configurano come “ibridi mediali” (testi in cui un medium nuovo assorbe e ingloba il medium precedente), che proprio in virtù della loro stratificazione interna funzionano come cartine di tornasole 1


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degli incroci tra media che hanno scandito le varie fasi della cultura europea. Così, se il Decameron di Boccaccio con la sua letteratura da camera (ovvero sottratta al contesto orale e risuonante delle piazze medioevali) annuncia il passaggio all’incipiente civiltà del libro e la nascita dell’immaginario moderno con il Don Chisciotte rispecchia il «nuovo medium tipografico cui si deve la nascita del lettore estensivo e individuale», il ritorno della dimensione orale e simultanea, echeggiante nella radiooscillating epiepistle della prosa di Joyce, annuncia la morte della “lettera” con l’avvento dei media elettrici ai primi del Novecento. Se il ricco e raffinato quadro mediologico mediante cui l’autore descrive i passaggi fondamentali della cultura europea è uno dei pregi di questo saggio complesso e densissimo, non meno importante è l’aspetto antropologico e politico implicato da ogni successiva innovazione mediale. Ogni incrocio mediale – ci ricorda Frasca – non è mai un procedimento neutro bensì, in quanto estensione del corpo, modifica il sensorio umano e quindi l’intero assetto sociale. Così, la giuntura tra oralità e scrittura del primo impero romano, dovuta all’espandersi delle scritture alfabetiche, si struttura come un “reticolo mediale” pervasivo e opprimente capace di generare ovunque la diffusione automatica di una parola perentoria (la voce registrata dalla scrittura è una voce che impone a chi legge il proprio ritmo mentale) che fa tutt’uno con un progetto politico “imperiale” (è, ad esempio, la parola del diritto che sancisce l’imperium). Viene in chiaro così, come la suggestiva citazione paolina della Seconda epistola ai Corinzi, da cui Frasca trae il titolo del libro, contenga, proprio nella sua densità mediologia, una chiara valenza politica: se il percorso della “lettera” coincide con l’affermarsi della narcosi indotta dai “reticoli mediali” dominanti (dal “niente tace” paolino al flux de connerie in cui rimangono intrappolati i vari Bouvard e Pécuchet dell’età tipografica) è altrettanto vero che ogni ibrido mediale, in quanto «macchina per il riposizionamento dei sensi», prefigurando il proprio lettore e introducendo il progetto di una nuova comunità con i propri fruitori, cospira per il risveglio. Ed esattamente nei due capitoli più intensi del libro, il primo dedicato a San Paolo e il secondo (che chiude il saggio) al disincantato congedo dickiano dalla “letteratura”, Frasca mette a fuoco il senso intimamente “politico” e “religioso” del saggio. Se la “lettera” inchioda la voce di ognuno alla ripetizione ipnotica del nomos scritto che fa la legge e distribuisce gerarchicamente il ruolo di ognuno nel mondo (esemplare in questo senso la lettura del Don Chisciotte, in cui alla nascita del moderno immaginario risponde il capillare controllo del “mondo amministrato”), il ridisciogliersi della lettera nell’arte del discorso, in testi pensati come spartiti per la voce e l’esecuzione orale e performativa (sia essa l’epistola “vivente” paolina che coincide con la comunità in cui risuona una parola condivisa, o i “congegni fonografici” dell’ultimo Beckett predisposti per far risuonare la voce di ogni ascoltatore in quanto propria voce), si declina secondo l’entusiastica “escatologia al presente” della gnosi di Paolo, in cui l’apostolo invita la compagnia dei fedeli a rivestirsi “d’immortalità” dividendo eucaristicamente – alla lettera incorporandolo – il pane di una parola comune: il presente entusiastico di una «comunità nel suo qui e ora performativo». Per concludere: questo saggio è un libro che raccomando a chi crede, a dispetto dello stucchevole tema della “morte dell’arte”, che a morire è sempre una letteratura, e con essa magarii l’intero corpo di discipline che ne hanno “fabbricato” la storia. Ma se la “lettera” muore, a vivere è la poesia (intesa come un medium orale, formulaico e performativo) l’unica immortalità (contro la packaged fraud delle grandi narrazioni lineari e del grande “racket dei significati” ad esse affiancate) di cui conti rivestirsi. Il qui e ora di un senso che si è, di una parola risonante che fa comunità.

Gabriele Frasca insegna Letterature Comparate all’Università per Stranieri di Siena. Si è occupato di Medioevo, Barocco, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Fra i suoi saggi: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett

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Max Giovagnoli FARE CROSS-MEDIA. Dal Grande Fratello a Star Wars. Teoria e tecniche della comunicazione integrata e distribuita nei media Dino Audino, Roma 2005 pp. 160, € 18,00 ISBN 88-7527-120-8 Recensione di marcello serra È ormai un po’ di tempo che l’etichetta di cross-media ha cominciato ad apparire sulla bocca di molti e ad appiccicarsi un po’ dappertutto. E questo, a dire il vero, senza che sia ben chiaro di che cosa in effetti si tratti. Ben venga allora un manuale italiano sull’argomento, che è anche uno dei primi testi in Europa ad occuparsene organicamente. In effetti e innanzitutto va a merito di Max Giovagnoli, che riprende sottili distinguo rispetto al multimedia, l’interactive media, il multi-platform media, l’integrated media e il converged media (pp. 22-23), quello di proporre in Italia la chiara definizione per cui «fare cross-media significa realizzare campagne di informazione, di intrattenimento e di comunicazione in modo “integrato”, utilizzando cioè più media all’interno di grandi progetti editoriali». Dal momento che riesce perlomeno a individuare un chiaro campo di pertinenza, la definizione è già buona. Per questo stesso motivo, e al di là del fatto che sia poi quella che si sta affermando a livello internazionale (e in effetti lo è), con buona probabilità è anche il caso di tenersela. Chiarito questo punto, è bene dire che si tratta di un libro di “teoria e tecniche” e che, strano a dirsi, questo fatto non è un male. Giovagnoli, che ha alle spalle un’esperienza come caporedattore del Grande Fratello, riesce infatti ad illustrare il percorso di sviluppo di progetti cross-mediali senza banalizzarne le ricadute linguistiche, sociologiche e sistemiche sull’universo comunicativo. Come manuale “tecnico” il testo cerca di porsi quale vademecum per la costruzione di un progetto di comunicazione integrato, una guida per scoprirne i punti deboli e valutarne la validità. Attraverso i vari capitoli veniamo introdotti alle diverse tipologie di cross-media ed agli elementi importanti per il loro successo, nonché alle tecniche di costruzione di emozioni ed immaginari mediante la comunicazione incrociata. In quest’ottica è particolarmente importante lo spazio dedicato alla narrazione: qui Giovagnoli, con alterne fortune, propone l’utilizzo di quelle tecniche di racconto che più si addicono alla comunicazione cross-mediale; per quanto riguarda la costruzione dei personaggi, si mostra invece come l’uso di sistemi di personalità, ed in particolare dell’antico enneagramma, possa essere di utilità per il casting e la gestione di un reality show. Tra analisi a volte un po’ troppo ad hoc ed alcune generalizzazioni difficilmente declinabili è peraltro sempre interessante il continuo emergere di un conflitto produttivamente irrisolto: quello tra l’anima dello studioso e l’anima del professionista, che albergano entrambe nella sensibilità dell’autore. Tanto è vero che il libro presenta anche spunti di livello teorico più generale, ed alcune delle riflessioni recenti sulla comunicazione finiscono per specchiarsi nella descrizione delle pratiche cross-mediali. Il costante riferimento ai due poli comunicativi di pubblico e autore, ad esempio, si poggia sulla ragione che nel cross-media, pena il fallimento del progetto, ci si debba confrontare col fatto che «input (assimilazione dei contenuti) e output (restituzione rielaborata dei contenuti medesimi) non sono più disposti come estremi di un segmento comunicativo, [...] ma come raggi di un cerchio che ruota continuamente sullo stesso asse (il fruitore)». Niente di così nuovo sotto il cielo della teoria, si dirà, ma è pregevole come tali considerazioni siano calate nella reale dinamica della produzione cross-mediale. In tal senso è paradigmatica la descrizione del ruolo delle community, vero e proprio laboratorio di produzione degli immaginari connettivi contemporanei. In definitiva, ecco emergere come l’integrazione non sia solo nei media, ma anche nel processo comunicativo (sempre più compiutamente cibernetico), ovvero nei pubblici e nel consumo: «le dinamiche più promettenti nella fruizione di sistemi comunicativi integrati e distribuiti risultano ad oggi: la partecipazione attiva, l’archiviazione personalizzata, il nomadismo, il multitasking e una visione alternativa dell’uso del tempo e della persona». Internet, ne deduciamo implicitamente, è allora centrale non solo come strumento tecnologico per il cross-media, ma come forma culturale che piega il sistema a determinate configurazioni. Insomma, teoria e tecniche: con un po’ dell’una e un po’ delle altre Giovagnoli ci restituisce un quadro sufficientemente chiaro di un fenomeno che, dopo aver iniziato a rivoluzionare alcune professioni della 3


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comunicazione, attende ora un adeguato sforzo di riflessione teorica. Questo libro è un buon inizio, con l’unica nota veramente dolente rappresentata da un lavoro di editing davvero scadente, responsabile di un numero di errori nel testo decisamente troppo elevato. Purtroppo, si sa: si incrociano i media, ma non più le revisioni. Max Giovagnoli insegna presso la Link Campus-University of Malta di Roma. È stato caporedattore del Grande Fratello e dirige il laboratorio cross-mediale Proiettiliperscrittori. È autore di Scrivere il web (Dino Audino Editore), Web writing (Tecniche nuove), Fuoco ci vuole (Halley Editrice). *** Franco Monteleone (a cura di) CULT SERIES (volumi I - II) Dino Audino Editore, Roma 2005 pp. 314, € 16,00 ISBN 88-7527-122-4 (vol. I) ISBN 88-7527-124-0 (vol. II) Recensione di Marco Scali

Se il compito di un racconto è di raggiungere il più ampio pubblico possibile in modo semplice e diretto le serie tv possono ritenersi prodotti riusciti. Tale forma narrativa, perennemente considerata “giovane”, ha ormai peraltro raggiunto una propria maturità e richiede da tempo uno studio approfondito e distaccato. Negli ultimi anni le serie televisive americane suscitano grosso interesse e sempre maggiori sono i testi che studiano e analizzano una serie o un’altra, diventando manuali d’interesse per appassionati; tuttavia mancava in Italia un’opera che restituisse un quadro del fenomeno più generale. I due volumi che vanno a formare Cult series, e che si concentrano su un arco temporale piuttosto recente, hanno proprio questo compito. Il testo è introdotto da un saggio di Franco Monteleone il quale, attraverso un’interessante riflessione sulla narrativa americana, riflette su come questa si sia col tempo trasferita dalla grande letteratura alle serie tv. I due volumi analizzano dodici serie, sei per ogni volume. Nel primo volume: I Simpson, Twin Peaks, XFiles, ER Medici in prima linea, Ally McBeal e Buffy l’Ammazzavampiri. Nel secondo: Sex and The City, I Soprano, CSI Crime Scene Investigation, Alias, Six Feet Under, The OC. La scelta delle serie analizzate è dettata principalmente dal loro stato di culto sia in America che in Italia; inoltre, sono tutte facilmente reperibili su Home Video. Per quasi ogni serie c’è un diverso autore, e ciascuno dà all’analisi un taglio personale. Tale varietà rispecchia la diversità delle serie presenti; infatti, nel corso dei due volumi gli esempi trattati vanno a coprire quasi ogni genere seriale, dalla sit com al teen drama, configurandosi come altrettanti modelli di ricerca. Nello specifico, i saggi più brillanti si rivelano essere quelli su I Simpson, Six Feet Under, Ally McBeal e Twin Peaks (a parere di chi scrive il saggio degno di maggiore attenzione). Nonostante l’eterogeneità delle serie trattate l’opera riesce comunque a mantenere un’omogeneità di sguardo. Sicuramente il più importante elemento di continuità è il richiamo al postmodernismo, secondo un’opinione comune ai vari interventi per cui «il ricorso alle citazioni, l’utilizzo di generi diversi che s’ibridano tra loro, il racconto metariflessivo e autoreferenziale, sono tratti classici di quello che possiamo definire televisione postmoderna – termine abusato che tuttavia ci consente ancora di definire un certo tipo di fiction dai tratti comuni». Ogni saggio è preceduto da una sinossi dell’intreccio della serie, che consente a chi non la conosce almeno una parziale comprensione dell’analisi, ed è seguito da un’appendice, in cui troviamo: dati concernenti la composizione della serie, il periodo di messa in onda e il susseguirsi delle diverse stagioni; indicazioni sui successi editoriali e di pubblico, sui riconoscimenti conseguiti; notizie biografiche su produttore, creatore, registi e principali interpreti. Inoltre ogni saggio è corredato da una scaletta di un episodio scelto dall’autore; quest’ultimo surplus, peraltro, si rivela un inutile orpello aggiuntivo. 4


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Di tutti gli scritti che compongono i due volumi quello di maggior interesse arriva però alla fine del secondo volume: “Fuori fuoco. La messa in scena della serialità USA” è infatti la conclusione curata da Vito Zagarrio, che analizza la regia televisiva delle serie tv. Essendo questo argomento affrontato di rado, per chi fosse interessato a tale aspetto questa lettura è una scelta quasi obbligata. Anche se le serie prese in considerazione sono quasi esclusivamente di tipo fantascientifico o di azione, i due generi sono sufficienti per suffragare le tesi di Zagarrio, che possono facilmente estendersi a tutti i generi seriali. Azzeccata è anche la scelta di analizzare quasi esclusivamente i pilot delle varie serie: attraverso di essi l’autore ci dimostra come ogni serie segua una propria linea nella messa in scena e come questa linea sia presente fin dall’inizio della serie. I due volumi di Cult series sono un viaggio in uno degli aspetti di maggiore interesse della cultura popolare. Tale viaggio difficilmente vedrà il lettore non coinvolto personalmente, perchè si troverà ad osservare con un altro occhio quello che ormai è un aspetto quotidiano della nostra vita.

Franco Monteleone, per molti anni dirigente della rai, è professore a contratto presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tre. Ha pubblicato La radio italiana nel periodo fascista (Marsilio 1976), Storia della RAI. Dagli Alleati alla DC (Laterza 1980), La radio che non c’è (Donzelli 1995), L’emergenza telematica. Nuovi media, nuovi mercati, nuove regole (Marsilio 1996). *** John Durham Peters, PARLARE AL VENTO. Storia dell’idea di comunicazione Roma, Meltemi, 2005 Traduzione di Luciano Petullà. [Ed. or. Speaking Into the Air. A History of the Idea of Communication, The University of Chicago Press, 1999] pp. 480, € 30 ISBN: 88-8353-426-3 Recensione di Giovanni Fiorentino

Tessere una storia dell’idea di comunicazione è cosa complessa. Siamo di fronte alla polisemia di un termine praticamente declinato all’infinito. La scelta di John Durham Peters è forte, un drastico taglio: le comunicazioni nella forma plurale e molteplice. Per comunicazione invece, e citando Cooley, la scelta è precisa: «si intende qui il meccanismo attraverso cui si sviluppano le relazioni umane». La partita ambiziosa della comunicazione viene giocata da Peters sul terreno dell’etica, piuttosto che sul piano semantico. Quasi una sorta di antiutopia. Dovendo provare a sintetizzare un libro di oltre quattrocento pagine si potrebbe paradossalmente parlare della rinuncia al sogno della comunicazione, di un elogio di Bartleby lo scrivano – o della diversità – che passa per una esaltazione dei “vuoti” della comunicazione. La tensione ci porta alla distruzione di un sogno o, semplicemente, al recupero delle fondamenta. Nel rinunciare al mito della comunicazione, Peters sposta drasticamente il punto di vista: «non sto affermando – scrive – che l’urgenza di connettersi sia una cosa cattiva; piuttosto voglio dire che il sogno stesso inibisce l’arduo lavoro di connessione». L’epilogo, o l’antefatto, ci porta sul terreno fragile della sensibilità, della possibilità aperta della comunicazione disseminativa, ci inserisce in una trama filosofica puntualmente delineata che attraverso Heidegger, Lévinas e Derrida, tenendo conto ampiamente di Ralph Waldo Emerson e William James, ci porta alla scoperta della «splendida alterità», a una comunicazione che beneficia e preserva il «senso del mistero». Per comunicazione, in definitiva spiega Peters, adoperando una sorta di pragmatismo aperto a un tempo al pratico e al misterioso, «intendo il progetto di riconciliare il sé e l’altro». E ancora, «il nostro compito è riconoscere l’alterità di ogni essere, non ridefinirla a nostra immagine e somiglianza». Eppure la gran parte del lavoro di Peters ragiona sulla comunicazione mediata, il suo metodo richiama esplicitamente Benjamin nel costruire “costellazioni di senso” attraverso un grande movimento diacronico, fermandosi a lungo sulle radici ottocentesche della modernità, su un luogo archeologico essenzialmente 5


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anglo-americano, tessendo una spola continua tra passato e presente, e adoperando una strumentazione d’analisi complessa, che attinge simultaneamente a filosofia, antropologia, storia e si muove tra la più aggiornata sociologia della comunicazione e il più apparentemente distante dei testi letterari. La lettura si presenta agile nonostante le rotture e le discontinuità. I temi, in larga parte archeologici rispetto al presente mediale, si muovono attraverso i fantasmi moderni alimentati da fotografia e fonografo, tra comunicazione postale e radiofonia generalista, oscillano tra aspirazioni di connessione angelica, sublimazione immateriale dell’eros e esorcizzazione della morte, funzionando come vettori che rilanciano nel presente e ridiscutono i limiti delle ideologie interattive. Difatti l’idea centrale e controtendenza di Peters, mira al recupero di una comunicazione in forma di disseminazione, di una comunicazione che passa per i media broadcasting adoperando una prospettiva diversa da ogni semplificazione omologante. Peters presenta il confliggere alternativo di due modelli comunicativi che si incarnano nelle forme e nella pratiche di comunicazione, da una parte il dialogo e dall’altra la disseminazione. Con i due modelli, le figure paradigmatiche di Socrate e Gesù. Con il primo l’esaltazione del dialogo, tra filosofo e allievo, interattivo, unico, non riproducibile. Con il secondo l’elogio della Parola, sparsa uniformemente, indirizzata a nessuno in particolare e aperta al suo destino. Il Fedro da una parte, le parabole dall’altra, nella versione dei Vangeli sinottici in particolare. Rispettivamente contrapposte le ipotesi di un dialogo «a legame stretto» e di una disseminazione «a legame debole». Spiega Peters, «il Fedro e il Simposio raffigurano l’amore come desiderio di unità: i Vangeli sinottici come compassione per l’alterità. Il primo favorisce la simmetria, i circoli e la reciprocità; l’altro, invece, la differenza, le ellissi e la sospensione». Peters recupera tutte le possibilità iscritte nella comunicazione mediata di massa, fuga le paure socratiche per i media della memorizzazione e della trasmissione, contempla una fruizione dove irrompe il nuovo e l’imprevedibile. Si spinge sul versante della semina. «La semina estesa del seminatore consegue raccolti con la maggiore individualizzazione e idiosincrasia possibile, ogni ricevente ascolta e comprende quello che vuole». Non c’è “indegnità” o “paradosso” nella comunicazione a una via, nulla di “eticamente” carente rispetto alla relazione dialogica. I vuoti tra mittente e destinatario possono anche rivelarsi come prospettive da apprezzare o distanze da rispettare. La disseminazione più che rovina, nelle parole di Peters, si fa destino e forza, in forma di dono. Oltre il do ut des, la comunicazione in tal senso funziona come un sistema di potlach a rotazione, recupera una dimensione fondativi ed etica del dono. Se il dialogo regna supremo nell’immaginazione di molti, tutto sommato la disseminazione rimane possibilità non completamente dischiusa e apprezzata. E d’altra parte, per l’autore «è la sostanza da cui, in rare e splendide occasioni, il dialogo può svilupparsi». John Durham Peters è considerato uno dei maggiori filosofi e studiosi della comunicazione. Insegna presso il Department of Communication Studies della University of Iowa. Autore di numerose pubblicazioni, il suo libro Parlare al vento, premiato dalla National Communication Association (Winans-Wichelns Award), è stato tradotto in molti paesi. *** Luca Raffaelli LE ANIME DISEGNATE. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi e oltre Minimum Fax, Roma 2005 pp. 273, € 15,00 ISBN 88-7521-067-5 Recensione di Luca Massidda

A dodici anni di distanza dalla prima edizione (Castelvecchi), Luca Raffaelli ripubblica per Minimum Fax il suo pluritradotto pamphlet in difesa dei cartoon. Troppe cose però sono accadute a Cartoonia in questi anni, nel lungometraggio cinematografico come nella serialità televisiva, per potersi limitare a un semplice operazione di restyling: dal «superamento, in forma disneyana, dello schema disneyano» innescato 6


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dalla Pixar all’orwelliana invasione di quella malefica covata che sono i Pokemon, dal riconoscimento internazionale, di pubblico e di critica, ottenuto da Hayao Miyazaki all’immarcescibile successo che accompagna ogni replicatissima serie dei Simpson. Per rendere più fluido il movimento non bastava dunque aggiungere qua e là qualche inbetween; Raffaelli è stato piacevolmente costretto a disegnare da capo nuove scene, ad aggiungere personaggi inediti, a dipingere nuovi fondali. Prima di regredire alla prospettiva empatica e coinvolta dell’adolescente cresciuto a Mazinga e buondì, meglio fare un passo indietro per andare a cercare nell’exaggeration dei cartoon il riflesso, deformato come la propria immagine negli specchi dei lunapark o delle esposizioni universali (visto Steamboy di Otomo?), di quello che accade nella società, nella cultura e nel sistema dei media. Walt Disney, la sua vita, il suo lavoro, ciò che ha realizzato e il modo in cui lo ha fatto, rappresentano il grande schermo su cui possiamo vedere raccontata la storia dell’industria culturale, l’avvento della merce estetica, la nascita del cinema e lo spirito dell’America: «È davvero miracoloso come il discorso disneyano riesca a fondersi con il modello americano. Sembra esserne l’ispiratore e allo stesso tempo il risultato». Nessun miracolo, semmai un semplice trucco ormai sotto gli occhi di tutti: Disney è l’America perché Disney è uno straordinario concentrato del cinema hollywoodiano. Lo è nel suo tormentato rapporto con il mondo dell’arte, quando «il piccolo-grande fallimento» delle sue collaborazioni con artisti come Fischinger, Stravinskij e Dalì, rivela «la logica dello spettacolo come progressiva liberazione dai meccanismi specifici dell’arte» (A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa). Lo è nei suoi personaggi più riusciti, come l’apprendista stregone Topolino che in Fantasia con la sua inettitudine «rende spettacolare e improduttiva la magia», schiacciato da quella stessa discrepanza tra sapere oggettivo e sapere soggettivo che aveva permesso a Chaplin di rendere spettacolare e improduttiva la catena di montaggio dei suoi Modern Times. Lo è nella consapevolezza di doversi spingere oltre la dicotomia reale-fantastico, dando vita nei suoi cartoon a un mondo «plausibile-impossibile», in cui il pubblico, pur di fronte a dei disegni animati, si abbandonasse alla “sospensione dell’incredulità”. Lo è nella sua capacità di conferire alle sue anime disegnate una capacità di fascinazione che va oltre lo schermo, facendone dei divi, dandogli corpo in quel fantastico mondo tangibile che è Disneyland. Se Disney ci ha raccontato la storia delle Forme estetiche e della società di massa, «i cartoni della Warner & Co. e quelli televisivi, da Braccobaldo ai Simpson e oltre», ci mostrano lo splendore della tv. All’immagine di un Mickey Mouse imborghesito, in panciolle davanti al televisore, che per Raffaelli ha segnato il tramonto del divo-mito di casa Disney fa da contraltare l’immagine di Homer Simpson, “sbragato” davanti alla tv, «felice di essere l’uomo come lo brama la società del consumo e della globalizzazione». E della televisione. Il perfetto concorrente per il Grande Fratello: «Non c’è mai stato un cartone animato che raccontasse così bene i meccanismi del successo, della televisione, dei mezzi di comunicazione di massa […] non c’è cartone al mondo che abbia svelato a tal punto i propri meccanismi». Ma prima dei Simpson altri cartoni avevano già cominciato a parlare il linguaggio della tv, molto prima di traslocarvi e di vedersi costretti a rispettarne, nei tempi e nei costi, le modalità produttive. Su tutti, i cartoon della Warner Bros, televisivi prima della televisione perché essenzialmente antidisneyani: i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico, ammiccano ai propri fan, sono «totalmente franchi con lo spettatore, tanto da rivelare i segreti del proprio linguaggio e della propria tecnica». Svelano il trucco, non pretendono di essere credibili, ma cercano complicità e condivisione. Vanno bene in sala, sono perfetti per il divano. È questa propensione ad abbattere ogni confine tra scena e retroscena, tra pubblico e privato a renderli profeticamente televisivi. Non convince del tutto invece il capitolo sull’animazione giapponese. Piuttosto che dedicare tanto spazio allo smascheramento dei pregiudizi che vogliono il cartone giapponese strumento diabolico per la corruzione di anime candide, sarebbe forse stato più interessante concentrarsi sui contenuti di questa produzione – sulla loro capacità di intercettare, spesso anticipandole, alcune delle principali tendenze della contemporaneità (dal postumanesimo al virtuale) – e sui nuovi comportamenti di fruizione che si stanno diffondendo nel pubblico dell’anime. Un maggior approfondimento avrebbe sicuramente meritato il tema, soltanto accennato, dell’otaku, del consumo feticistico e reclusivo di chi «ha trovato una sua stabilità, un suo equilibrio: magari precario, magari ossessivo» soltanto all’interno dei confini fantastici di un mondo immaginario. Sarebbe forse emerso che l’anime, un linguaggio nato compiutamente (e artigianalmente) televisivo, ha da tempo cominciato a esprimersi ricalcando le isotopie del videogame e della rete.

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Luca Raffaelli (1959) lavora da sempre nel mondo dei cartoni animati e dei fumetti in diversi ruoli, tranne quello di disegnatore. Scrive su Lanciostory, su Repubblica XL, ed è il consulente editoriale dei “Classici del fumetto” di Repubblica. È direttore artistico dei Castelli Animati, il festival internazionale del cinema d’animazione di Genoano, e di Romics, il festival del fumetto di Roma. Autore televisivo, scrittore e saggista, ha pubblicato Il fumetto (Il Saggiatore-Flammarion, 1997) e vari libri per bambini (tra cui Un fantasma in cucina e Gianga e Perepè per Mondadori). Come sceneggiatore ha collaborato a Johan Padan, film animato di Giulio Cingoli tratto da un testo di Dario Fo. Mina ha inciso una sua canzone, “Ninna Pa’”. Si vanta di mangiare gli spaghetti a colazione e di avere tante amache dentro casa.

*** Massimo Scaglione I DIVI DEL VENTENNIO. Per vincere ci vogliono i leoni… Lindau, 2005. pp. 189, illustrazioni: 23 b/n f.t., € 19,00 ISBN: 88-7180-561-5 Recensione di Ribes Sappa

Era atteso questo piccolo ma ricco libro sulla storia del divismo italiano di Massimo Scaglione, che insieme al suo precedente lavoro “Le dive del ventennio” (Lindau 2003) forma un utile e appassionante dizionario enciclopedico del divismo italiano negli anni che vanno dal 1930 al 1945. Anni cruciali per la nostra cinematografia con un occhio rivolto al sogno hollywoodiano e l’altro al “discorso italiano” promosso dal Minculpop verso la creazione di un divismo ed una cinematografia italiana senza troppe suggestioni d’oltreoceano. Un divismo autarchico mai avverrà, in quanto l’immaginario collettivo del grande pubblico sin da subito vedrà nei nostri principali attori i più noti divi americani. «Amedeo Nazzari era il nostro Clark Gable, il suo diretto rivale Fosco Giochetti ricordava Gary Cooper, Vittorio de Sica era uno spiritoso Cary Grant, Rossano Brazzi incantava il pubblico femminile come Robert Taylor, mentre il quieto Nino Besozzi somigliava a Ray Milland». Nasce così con un’eccezione tutta italiana un vero e proprio star system ispirato al modello hollywoodiano che Massimo Scaglione ci racconta con una scrittura diretta, semplice e descrittiva. Oltre a parlarci dei giovani “leoni” del cinema italiano (Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Fosco Giachetti, Osvaldo Valenti, Angelo Musco), l’autore si sofferma sui tanti attori comprimari o “spalla” che hanno reso celebre ed unico il cinema italiano. Dai più noti caratteristi Camillo Pilotto, Umberto Melnati, Mario Ferrari, Luigi Almirante si dà voce anche ad attori meno conosciuti che ebbero però notevole successo nelle pellicole dell’epoca e che continuarono la loro carriera poi in teatro o in televisione. La struttura del libro è interessante ed utile in quanto l’autore prima di parlare dei divi a tutto tondo suddivide – come avveniva nel sistema americano – gli attori e le attrici del nostro cinema a seconda dei ruoli interpretati. Ecco così formarsi un ricco dizionario degli attori caratteristi (le donne “spalla” sono in grande minoranza). Per mettere ordine ai tanti talenti, Scaglione ricorre ad un censimento dei vari generi cinematografici individuando le specialità di ciascun attore, anche dei più famosi e versatili. Nella lista compaiono allora i pochi stranieri d’oltralpe che arrivarono in Italia con il compito di far “dimenticare i divi hollywoodiani”, i “borghesi e salottieri” (Nunzio Filogamo, un giovanissimo Alberto Sordi ai suoi esordi, Emilio Setacci, Nico Pepe ), i “brillanti” (Enrico Viarisio e Umberto Melnati), i “cattivi” per eccellenza (tra i quali spiccano Memo Benassi, Checco Rissone, Enrico Glori) , i “comici”, i “padri e commendatori” (fra i tanti interpreti l’attore Ugo Celano reciterà in più di 100 film nel ruolo di padre e severo commendatore), i “distinti”, i “giovani”, i “popolani e contadini”, i “tuttofare”, e per finire un capitolo a parte viene dedicato ai “leoni”. La lettura per alcuni versi diventa un po’ ripetitiva, ma nel complesso risulta piacevole. Fra le righe si possono leggere piccole chicche e curiosità. Il libro è arricchito da 23 fotografie in bianco e nero, alcune a tutta pagina, e da una buona filmografia dei principali attori. Le indicazioni bibliografiche si limitano a cita8


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re non più di una ventina di testi fra la folta letteratura italiana sul cinema e il divismo degli anni Trenta e Quaranta. In questo caso però, per avere un bibliografia più organica e completa, è possibile fare riferimento al precedente lavoro di Scaglione, Le Dive del Ventennio. Un buon inizio per studi e ricerche più approfondite.

Massimo Scaglione è regista televisivo, docente universitario, curatore di programmi radiofonici, regista di opere liriche. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Il dizionario del teatro, Storia del teatro piemontese, I miei primi quarant’anni alla Rai-Tv, Saluti e baci, Fortunato il capostazione di Moncalvo» e Le dive del ventennio

*** Valerie Steele FETISH. Moda, sesso e potere [Ed. or. Fetish: Fashion, Sex & Power, Oxford University Press, 1996] Traduzione di Stefano Pintucci Meltemi, Roma, 2005. pp. 308, € 23,50 ISBN 88-8353-374-7 Recensione di Manolo Farci

Fetish, ovvero: perché alcuni trovano sexy indossare un corsetto ed essere frustati oppure farsi calpestare da tacchi a spillo? Fetish, ovvero: perché il feticismo è diventato così preponderante arrivando a colonizzare l’immaginario della moda, della pubblicità e dei consumi di massa? Fetish, ovvero: perché nello scenario occidentale della massima liberalizzazione dei costumi sessuali pare ancora necessario soffermarsi a riflettere sulle politiche dei corpi e le dinamiche di costruzione del gender? Valerie Steele – studiosa appartenente ai fashion studies, diramazione dei Cultural Studies di matrice anglosassone – sembra provocatoriamente suggerirci che non è tanto importante fornire una risposta univoca a queste domande, quanto imboccare fino in fondo la strada delle contraddizioni che queste questioni sollevano. Perché il feticismo – per quanto argomento di dibattito e studi approfonditi da decenni anche in Italia – è ancora un fenomeno denso di fecondi contrasti. Non a caso, nella prima parte del libro, la studiosa anglosassone si adopera per spiegarci come nessuna delle tante teorie sul feticismo risulta del tutto esaustiva e pienamente accettata: non la matrice psicanalitica di tradizione freudiana con le sue derive patologiche, né la classica analisi marxista sul rituale e l’idolatria delle merci e neppure le spiegazioni sociobiologiche possono delimitare un concetto così complesso come il feticismo. E allora la strada che Valerie Steele sceglie è quella di usare il fetish come un concetto che mette in gioco,“esasperandole”, tendenze che attraversano il campo della moda, come i rapporti tra stereotipi di gender e dinamiche di potere, il confine tra normalità e perversione sociale, la dialettica circolare tra sottocultura e mainstream. Temi che ricorrono costantemente lungo la documentata analisi storiografica che la studiosa anglosassone compie su alcuni oggetti assurti, fin dall’epoca vittoriana, a simboli per eccellenza dell’immaginario feticista: il corsetto, i tacchi a spillo, la biancheria intima, la cosiddetta second skin, insieme di abiti, materiali ed uniformi che hanno un ruolo fondamentale nei giochi di ruolo cross-dressing e negli psicodrammi a sfondo sadomasochistico. La forza semantica di questi oggetti – spiega la Steele – deriva direttamente dalla loro capacità di essere moda, feticcio e fantasia allo stesso tempo, stereotipi usurati dell’attuale fashion sistem e icone ancora in grado di dar vita a nuove mappature di senso, rimettere in discussione pratiche e modalità tradizionali del sentire sessuale. Scorrendo le pagine di Fetish, si intuisce allora come la dialettica tra la libertà “rivoltante” delle sottoculture e la costrizione normalizzante della moda mainstream sia tutt’altro che facilmente definibile. È certamente vero che – a partire dalla serie televisiva degli anni Sessanta The Avengers alle copertine di Helmut 9


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Newton per la rivista “Vogue”, dagli abiti bondage della stilista punk Vivienne Weestwood sino ad arrivare al sado chic delle recenti collezioni di Gianni Versace – il feticismo si è progressivamente affrancato dalle pratiche minoritarie del sadomasochismo e del travestitismo per diventare esperienza commerciale. Il problema è comprendere se questa sua visibilità di massa abbia contribuito effettivamente a definire una “neosessualità” oppure non abbia fatto altro che rafforzare un immaginario erotico usurato di chiara matrice maschilista. Valerie Steele affronta, ad esempio, la questione del feticismo femminile, considerato come fenomeno di gran lunga minoritario rispetto a quello maschile. Le credenze femministe più ortodosse vedono il feticcio come un fenomeno direttamente dipendente dal patriarcato, dal capitalismo e da un ordine sessuale fallocentrico. Altre femministe invece, hanno sottolineato il fatto che il feticismo possa essere utilizzato dalle donne stesse come uno strumento in grado di offrire la possibilità di giocare con i ruoli e le convenzioni di gender: molte eroine del punk, ad esempio, hanno impiegato l’iconografia della mistress vestita di pelle con tacchi alti, certamente figlia di un immaginario tutto maschile, per dotarsi di una nuova figura sexy e potente. Ma anche laddove non si verifica questo detournement semantico dell’abito e la moda sembra soggiacere ai più banali cliché sessisti – dall’infermiera sexy al cowboy fetish – non necessariamente si deve parlare di un addomesticamento o di una deradicalizzazione dell’immaginario fetish. Il feticismo può funzionare come strumento di dinamiche sociali anche laddove si fa logoro stereotipo. Che sia moda o sottocultura sadomasochistica poco importa allora: Fetish è l’introiezione parossistica e consapevole di un codice comportamentale astratto ed impersonale che funziona come elemento liberatorio, in quanto ripropone a livello esasperato quella dialettica tra differenza e scelta, tra costrizione e libertà, tra dominio e sottomissione che attraversa i rapporti tra sesso, potere e discipline dei corpi. Quella stessa dialettica che vive sul proprio corpo un qualsiasi amante del tight-lacing, il quale, costretto nel corsetto nero di pelle che sopprime l’individualità e lo sottomette a un ruolo, arriva a farsi feticcio di se stesso, delle proprie fantasie, dell’immaginario in cui ha proiettato desideri e passioni. Ed è proprio a questa dialettica, irrisolvibile e per questo ancora più affascinante, che il libro della Steele – pieno di racconti, testimonianze, lettere e fantasie di feticisti d’ogni epoca – dà finalmente voce.

Valerie Steele è una storica della cultura specializzata in storia della moda. Dirige il Museum del Fashion Institute of Technology. Ha partecipato a numerosi programmi radiofonici e televisivi. Ha scritto, tra l’altro, Fashion and Eroticism (1985), Paris Fashion (1988), Women of Fashion (1991), Fifty Years of Fashion (1997), Fashion, Italian Style (2003)

*** Luca Vanzella COSPLAY CULTURE. Fenomenologia dei costume players italiani Ed.Tunué, Latina, 2005 pp. 160 + ill. a colori € 14,50 ISBN: 88-89613-04-1 Recensione di Daniele Vasquez

Questo libro è la prima indagine socio-antropologica in Italia sul fenomeno della cosplay culture. Nata in Giappone alla fine degli anni’80, si tratta di una sottocultura debitrice di una tradizione del travestimento diversa da quella occidentale, poiché in Giappone non esistono feste come il Carnevale o Halloween e vi è una netta scissione tra i vestiti del tempo di lavoro e i vestiti del tempo libero, cosa che caratterizza la sua anomalia, il suo essere una sottocultura senza stile. I cosplayer non si caratterizzano infatti per uno stile proprio con il quale sovvertire simbolicamente la vita quotidiana, ma per una tattica di apparizioni e sparizioni: appaiono durante le fiere del fumetto o in eventi organizzati apposta per loro, per poi ritirarsi nelle comunità on line. Chi sono i cosplayer? Sono ragazzi e ragazze che amano travestirsi dai loro personaggi preferiti dei fumetti, dei videogiochi, dei disegni animati. In Italia il fenomeno ha iniziato a diffondersi alla 10


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metà degli anni ’90, sono in maggioranza donne, di età minima di 15 anni e massima di 35, con una maggiore concentrazione tra i 18 e i 25, con un buon titolo di studio, e dopo la laurea quasi tutti lavoratori dipendenti. Tutti appassionati di fumetti e animazione giapponese, il loro hobby principale, cui dedicano pressoché esclusivamente il proprio tempo libero. L’evento tipico in cui si radunano è la fiera del fumetto, dove si svolgono sfilate/concorsi. Vanzella mobilita i classici della ricerca socio-antropologica per un’analisi del fenomeno, legge la cosplay culture come un rituale, come un gioco, come una sottocultura, usando tutti gli strumenti metodologici giusti. La raccolta dei dati si è servita dell’osservazione partecipante, della ricerca etnografica, perché non esistendo materiali di seconda mano Vanzella è dovuto andare a raccogliere informazioni sul campo. Ha delimitato un campo: le fiere del fumetto, e qui ha incontrato e intervistato i cosplayer; si è anche preoccupato di raccogliere qualche dato socio-economico, e il risultato è un ottimo lavoro. Ma laddove vi sono i pregi vi sono anche i difetti di questa ricerca, ad esempio un’emica esasperata per cui vale il punto di vista dei cosplayer stessi per identificarne i confini. Si intravede che da cosplayer a cosplayer possano esserci delle differenze di vedute, addirittura dei conflitti tra gruppo e gruppo, o tra cosplayer e chi pur travestendosi non si definisce cosplayer (chi si traveste da guardia imperiale di Guerre Stellari ad esempio e non da un personaggio preciso), o chi tradisce la spontaneità della pratica per farne una professione e guadagnarci qualche soldo, ma non si approfondisce, non si attraversano dovutamente queste sottigliezze e questo non porta a l’autore ad assumersi la responsabilità di dire qualcosa che magari sfugga al punto di vista interno. Possiamo accettare l’emica unilaterale nel caso chi faccia l’indagine provenga dallo stesso universo di riferimento della ricerca, un Hoggart che ci parla della classe operaia o un Hebdige che ci parla dei mod, e forse Vanzella in quanto esperto e appassionato di fumetti rientra in questa importante tradizione di autoinchiesta, ma la ricerca etnografica deve giocare anche sulle differenze e i conflitti dei punti di vista all’interno di una stessa sottocultura, sull’eterogeneità, e da qui partire per trovare aspetti imprevisti, per forzare gli strumenti metodologici, per innovare il discorso. La ricerca di Vanzella va invece dritta come un treno, politicamente corretta, metodologicamente corretta, non fa un piega, arriva fin dove ci si aspettava fin dall’inizio. Così il repertorio di studi sulle sottoculture, da Cohen, passando per Stuart Hall e Jefferson, fino a Hebdige e alla Thornton, è abilmente organizzato per dimostrarci che si tratta di una sottocultura coi fiocchi. Si ripercorre la storia della devianza soft del lettore di manga per dirci che il cosplayer è a suo modo un sovversivo, anche se senza di lui le fiere del fumetto sarebbero solo uno spazio di mercato e non un’eterotropia (sic). Caillois e Huizinga lo aiutano a definirne le caratteristiche di gioco, Turner, Van Gennep e Durkheim a identificarne i rituali. Il lavoro si muove senza attrito sulla superficie del fenomeno, dopo tutto fin dal titolo si viene avvisati: si tratta di una fenomenologia. Va detto però che in antropologia il termine “fenomenologia” ha una valenza essenzialista, e il lavoro di Vanzella non va certo in questa direzione: all’autore interessano le dinamiche posizionali e relazionali, arrivando a sfiorare la network analysis. Insomma Vanzella fa un ottimo lavoro e i cosplayer risultano interessanti e simpatici, ma quello che non emerge e che dovrebbe interessare un antropologo è che rappresentano solo un aspetto di una pratica che va molto oltre il campo delimitato delle fiere del fumetto e delle comunità cosplayer on line. Sono solo la punta dell’iceberg, quella che più fa notizia, ma al di là dei circa 1000 cosplayer italiani, in forme meno definite, ma certamente più pervasive, il fenomeno si sta sviluppando anche al di fuori dei circuiti ufficiali. Perché è vero che il cosplayer non accetterà mai di riconoscere come uno dei suoi chi non sta dentro la sua rete relazionale, ma è almeno dal ’95 che si vedono ragazzi che senza nessuna pretesa sottoculturale assumono elementi dell’immaginario anime come parti del proprio vestiario, ragazzi che vanno in giro con la maglietta della New Team fatta in casa (la squadra di Holly) o con il cappello di Arale (anch’esso fatto in casa). Fanno cosplay, ma non sono cosplayer, non sono interessati alle sfilate, ai premi, ai concorsi, alle comunità on line. Non compaiono e spariscono dalla scena come i cosplayer, vivono questi segni dell’immaginario nella vita quotidiana. Eppure ci danno indicazioni sulla diffusione del fenomeno al di là del ristretto campo d’indagine scelto da Vanzella (scelta comunque più che corretta!) e da qui senza dubbio si può prefigurare che quella che è una sottocultura diverrà uno stile diffuso che costringerà la moda a stargli dietro.

Luca Vanzella (Conegliano 1978) è laureato presso l’Università di Bologna in Scienze della comunicazione. Sceneggiatore e grafico, ha collaborato con la casa editrice Indypress e con varie realtà dell’underground italiano. È il fondatore, assieme a Luca Genovese, di Self Comics, etichetta di fumetti autoprodotti. 11


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*** Slavoj Zizek (a cura di Marco Senaldi) CREDERE [Ed. or. Die gnadenlose Liebe, Suhrkamp Verlag, 2001] Traduzione di Gabriele Illarietti e Marco Senaldi Meltemi (Melusine), Roma, 2005 pp. 234, € 19,50 ISBN: 88-8353-422-0 Recensione di Stefano Mizzella

Se Dio è inconscio, noi tutti siamo segretamente credenti. Tale naturale inclinazione dell’essere umano, esemplificata attraverso lo slogan di matrice lacaniana, mal si concilia con l’ateismo radicale delle società avanzate. Nello scarto tra i due versanti apparentemente inconciliabili si muove lo sguardo di Zizek, ateo incondizionato per formazione, che in tal sede si pone come osservatore attento di vecchie e nuove credenze capaci di generare un cortocircuito all’interno del nostro immaginario collettivo. Di fatto, proprio il suo dichiarato ateismo risulta vincente nel leggere con gli occhi di chi non crede gli enigmi più scottanti del cristianesimo. Zizek si identifica in Hegel, come nota Senaldi nella Postfazione, interpretando la morte di Cristo sulla croce come definitiva legittimazione di «un Dio impotente che fallisce nella sua opera di creazione». Il credere cristiano, elevato a simbolo della modernità nell’eterna disputa tra etica e religione, si trova costretto a rinegoziare il suo statuto valoriale nella fase storica del tardo capitalismo. Se l’economia capitalista assume i tratti del peccato mortale, il buddismo cognitivista, citazione occidentalizzata della spiritualità orientale, divisa tra tamagotchi e musica new age, finisce così non solo per purificare l’anima dei profeti del consumo, ma si consolida come ideologia egemone del capitalismo globale. È tuttavia nella lotta condotta contro l’eresia digitale che lo Zizek incontrato nella prima parte del testo mischia le carte in tavola, caratteristica questa che contraddistingue da sempre il suo modus operandi, indirizzando la sua attenzione verso le tematiche scottanti della discussione mediologica più attuale. L’architettura del ragionamento è quella a cui ci siamo abituati leggendo le sue precedenti produzioni. Psicoanalisi, filosofia, sociologia e mediologia si con-fondono in un amalgama che mischia Lacan e Marx alla cultura pop di cui il filosofo sloveno è straordinario narratore. Indicare nella postmodernità la disfatta finale dell’illuminismo nel momento del suo stesso trionfo equivale a rimettere in discussione il portato ontologico degli elementi caratterizzanti la stessa ideologia postmoderna. Primo tra tutti il cyberspazio, la cui esperienza di immersione nella dimensione parallela delle realtà virtuali viene paragonata a una monade leibniziana che, pur priva di finestre dirette sulla realtà, è capace di esperire e comunicare con il mondo intero. Il corpo «etereo» reso possibile dalla digitalizzazione della materia è però un corpo a-sessuato: «niente sesso, siamo digitali!» è il paradosso della realizzazione del sogno gnostico di un Io finalmente privo dell’inerzia di una realtà e di una corporeità materiale. La fine della sessualità dei corpi digitali viene pertanto letta da Zizek non necessariamente come affermazione definitiva della pura spiritualità, quanto nei termini della fine di ciò che tradizionalmente è stato individuato come la trascendenza spirituale esclusivamente umana. È qui che si afferma l’antinomia della ragion digitale. È qui che si compie la dissacrazione totale di una scuola di pensiero che passa per Sherry Turkle e per Donna Haraway, ma che ha le proprie radici nell’«evoluzionismo decostruzionista» di Darwin e Derrida. Allargando il raggio della sua analisi all’ideologia del postumano, Zizek respinge le false illusioni di quanti attendono l’alba di un nuovo essere, figlio della carne quanto della tecnologia. Ancora più forte la sua critica nel momento in cui l’immagine del cyborg digitale fluttuante nel rizoma cibernetico viene superata dall’utopia del clone: «una volta che la clonazione avrà preso il posto della differenza sessuale, “the game is over”». La fine di un gioco che corrisponde necessariamente alla fine di un pensiero, di un movimento, di un’ideologia. È appoggiandosi ancora una volta alle tesi di Lacan che Zizek affonda il portato innovativo del “post-umanesimo” affermando che l’umanità in quanto tale è sempre stata post-umana se consideriamo l’ordine simbolico – il Grande Altro – una macchina parassitaria che si introduce nell’essere 12


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umano e si aggiunge a essocome una sua protesi artificiale. Ma è proprio il Grande Altro, la sostanza simbolica delle nostre vite, a rendere il cyberspazio matrice di gnosticismo: nel momento in cui l’immediatezza corporea si fonde con l’immediatezza virtuale e con lo spazio dei significati impliciti generati dall’interazione con gli altri esseri digitali, ci troviamo di fronte non a una realtà superiore puramente speculativa, bensì a «una “superiore” realtà CORPOREA, una proto-realtà di fantasmi irreali ed entità non-morte». È in tal senso che la lezione definitiva del cyberspazio diventa ancor più radicale: «non solo perdiamo il nostro corpo materiale immediato, ma impariamo che non c'è mai stato un corpo simile - la nostra autoesperienza corporea era già-sempre quella di un'entità costituita immaginariamente». Annunciare la “morte di Dio” significa prendere atto dell’auto-limitatezza divina. Zizek ci invita a osservare con sospetto le culture del “post-”, così determinate nell’affermare la supremazia della ragione sulla religione, così decise nel legittimare le tante credenze che strutturano la nostra quotidianità. Il credere, dunque, come segno di imperfezione, tanto dell’uomo quanto di Dio. Tuttavia, un credere a cui è impossibile rinunciare. Dio è inconscio.

Slavoj Zizek, uno dei più discussi filosofi del nostro tempo, insegna all’Istituto di Sociologia dell’Università di Lubiana. Tra le sue opere tradotte in italiano: L’epidemia dell’immaginario (1997), Il grande Altro (1999), Il soggetto scabroso (1999), Benvenuti nel deserto del reale (2002), Il godimento come fattore politico (2002), Tredici volte Lenin (2003), L’isterico sublime (2003).

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