NIM.libri . Numero 4 . Aprile 2006

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NIM.libri [Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia] Numero 4, aprile 2006

INDICE Sergio Algozzino, Tutt’a un tratto. Una storia della linea nel fumetto p. 1 Matteo Bittanti (a cura di), Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche e videologie p. 2 Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica p. 3 Fulvio Carmagnola, Marco Senaldi (a cura di), Synopsis. Introduzione all’educazione estetica p. 5 Giandomenico Crapis, Televisione e politica negli anni Novanta. Cronaca e storia 1990-2000 p. 6 Stefano Cristante, Media Philosophy. Interpretare la comunicazione-mondo p. 7 David Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé p. 8 Andrea Miconi, Una scienza normale. Proposte di metodo per la ricerca sui media p. 10 Raphäelle Moine, I generi del cinema p. 11 Franco Moretti, La letteratura vista da lontano p. 12

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Sergio Algozzino TUTT’A UN TRATTO. Una storia della linea nel fumetto. Tunué, Latina, 2005. pp. 146, € 12,50 ISBN: 88-89613-06-8 Recensione di marcello serra

Il fumetto è un ibrido, un incrocio mediale in cui linguaggi diversi confluiscono naturalmente in gerarchie che variano secondo periodi e autori. Individuarne lo specifico è dunque sempre stata questione tanto delicata quanto, da un certo punto di vista, poco importante. Non è invece affatto inutile ragionare sugli elementi minimi di un linguaggio, per rilevarne possibilità espressive e rilevanza sull’insieme. É per questo motivo che una storia della linea nel fumetto rappresenta un tipo di ricerca il cui interesse è subito evidente, perché è un tema abbastanza piccolo da restituire un’analisi probabilmente valida. Inoltre, insomma, si parla del segno: in questo campo era difficile scegliere meglio e l’idea del libro è decisamente ottima. Tanto che il più grosso errore di Sergio Algozzino è stato quello di non rispettarla abbastanza. Siccome però il suo lavoro è per altri versi gradevole e intelligente vediamo prima ciò che c’è di buono. Nonostante non abbia nessuna pretesa di esaustività, e nonostante ovviamente tralasci tutti gli autori la cui ricerca si è concentrata su aspetti cromatici e pittorici, Tutt’a un tratto si rivela un buon excursus sulle evoluzioni del fumetto e delle sue scuole. Il doppio criterio geografico-temporale è utilizzato in maniera egregia, intelligentemente elastica, e restituisce un’agile topo-cronologia degli snodi principali del linguaggio. Il testo è corredato da ben 129 immagini, generalmente piccole, ma ottimamente selezionate, che illustrano con efficacia la progressione del discorso. Algozzino scrive con la passione del giovane esperto e la competenza del disegnatore professionista così che le sue analisi, anche se un po’ scolastiche, sono sempre corrette. Tuttavia, gli editori sarebbero chiamati a guidare la passione dei giovani autori ed a correggerne quei limiti ed ingenuità che purtroppo, in questo caso, creano un piccolo incompiuto. Innanzitutto, infatti, in un lavoro dal taglio agile e non accademico, rivolto ad un pubblico di appassionati ma non certo di lavoratori del settore, provoca un certo fastidio il continuo ricorso al lessico specialistico del disegno, una terminologia che il testo non spiega, giungendo anzi a toccare a volte momenti quasi 1


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gergali. Inoltre manca un apparato concettuale capace di riflettere sul significato espressivo della linea e delle sue varie e differenti funzioni nei diversi contesti; mutuare una delle teorie esistenti, e che probabilmente l’autore conosce, avrebbe certamente reso il testo più organico e maggiormente esplicativo. Il più grosso rimpianto è però rappresentato dal fatto che il tema non è in realtà così focalizzato come il paratesto fa sperare: la linea non è infatti l’unica protagonista della descrizione degli stili e talvolta non è neanche la principale. In certi casi si parla di regia, a volte di caratterizzazioni, ma sempre senza una chiave di lettura abbastanza sagomata da rendere l’analisi un’arma da scasso. In conclusione, e bilanciando pregi e difetti, seppure il testo non mantenga del tutto le promesse, si rivela peraltro un’agile introduzione alla storia del disegno a fumetti: breve, attenta, documentata e... in progress. L’autore sta infatti generosamente pubblicando sul suo blog personale (www.foolys.splinder.com) e sul sito www.komix.it le analisi degli stili di alcuni autori a lui cari ma che, per ragioni diverse, sono rimasti esclusi dal presente volume. Proprio un bel modo di chiudere un testo, continuarlo.

Sergio Algozzino (Palermo, 1978), diplomato presso l’Accademia di belle arti della sua città natale, ha all’attivo diverse collaborazioni con Panini Comics, per la quale ha co-ideato con lo sceneggiatore Manlio Mattaliano e la colorista Cecilia Giumento – suoi concittadini – la striscia umoristica AniMarvel, e con Red Whale, che fra gli altri progetti lo impegna sulla collana Monster Allergy. All’attività di disegnatore e colorista affianca quella di insegnante presso varie scuole di fumetto e nelle scuole superiori. L’autore vive e lavora nel capoluogo siciliano. *** Matteo Bittanti (a cura di) GLI STRUMENTI DEL VIDEOGIOCARE. Logiche, estetiche e videologie Costa & Nolan editori, Milano 2005 pp. 330, € 23,40 ISBN 88-7437-012-1 Recensione di Giuseppe Ciliberto Nella pagina dei credits Matteo Bittanti svela ai lettori che il progetto di questa raccolta di saggi nasce in seguito ad un “processo di reazione”. Reazione nei confronti di chi ancora si ostina a considerare i videogiochi un semplice e innocuo hobby, isolato dalle dinamiche socioculturali del nostro tempo. Esperti italiani e stranieri del settore provano dunque in questo volume, affrontando argomenti differenti, a dimostrare ancora una volta (tutto giusto, ma viene da chiedersi quando finirà questa necessità) che il ludus elettronico va analizzato molto più dettagliatamente, senza limitarsi a considerare gli aspetti puramente tecnologici ed estetici, perché «ogni videogioco veicola in forma implicita o esplicita contenuti politici, sociali e culturali». Uno dei temi più stuzzicanti presentati nell’opera è quello della cosiddetta «v-ideologia». Nell’introduzione, lo stesso Bittanti afferma che bisogna abbandonare lo sguardo ingenuo sui videogiochi e non commettere l’errore di cercare di comprendere il testo senza il contesto. Risulterà così immediatamente evidente che «il videogioco non è una tecnologia neutrale». Lo studioso milanese ricorda come l’esercito abbia sfruttato sin dagli anni ’30 le simulazioni prima analogiche poi elettroniche, sino ad approdare all’ormai celebre America’s Army, vera e propria forma di propaganda interattiva curata dal colonnello statunitense Wardinsky. Non dimentica però anche la «resistenza», quella forma di «frizione ludica» operata dai prodotti dei paesi arabi che si oppongono all’egemonia made in Usa e dalle reinterpretazioni sarcastiche e sovversive dei games che affollano la Rete. La dimensione ideologica è in primo piano anche nel saggio Giocare con la geopolitica di Geoff King che esamina i casi di Delta Force: Black Hawk Down e C&C Generals, dove sia pure in modo diverso, gli scenari politici e sociali del passato e del presente ricoprono un ruolo centralissimo. DFBHD in particolare, provocò molte polemiche alla sua uscita e si parlò anche di sfruttamento commerciale di una disgrazia, la fallimentare operazione Irene in Somalia. Robert J. Bain Jr ha allora buon gioco (mi si conceda l’espressio2


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ne) nell’attaccare il pregiudizio di «chi consideri problematica l’esistenza di un videogame basato su Black Hawk Down mentre trovi perfettamente legittimo un film per grande schermo o una serie televisiva ispirata al medesimo evento» e afferma, ricorrendo anche al concetto freudiano di «coazione a ripetere», che DFBHD costituisce invece una narrazione del raid di Mogadiscio continuamente ricreata e riletta in una versione differente, che aiuta il soggetto nella produzione del “suo” significato della storia. Dalla guerra alla violenza (e alle stolte accuse sempre attuali di fomentarla) il passo è breve e così troviamo un interessante lavoro collettivo di analisi sul controverso Manhunt di Rockstar, che spiega come il titolo in questione sia semplicemente un prodotto di discutibile qualità e non un manuale di istruzioni per commettere un omicidio. Nei videogiochi comunque non sempre si spara e si distrugge, talvolta anzi l’obiettivo è costruire. Proprio come accade nella serie di SimCity, popolarissimo gestionale creato dal genio di Will Wright, che Bittanti nelle pagine conclusive lega suggestivamente alle utopie urbane situazioniste, fino a definirlo una simulazione «debord-ante» o, se preferite, a consacrare Guy Debord come game designer ante litteram. La critica videoludica continua nel suo impervio cammino e contributi di questo tipo, ricchi di idee, non possono che incoraggiarne l’avanzata. Manca però ancora quell’ulteriore balzo che permetta di superare i continui riferimenti ai “soliti” numi tutelari Huizinga e Caillois, per proporre un paradigma teorico di riferimento originale, che non trascuri, come ammonisce giustamente Barry Atkins, il Fattore Fun. In nome dell'asettico distacco da ricercatore accademico, si rischia infatti di trasfigurare i giochi in una forma di lavoro, in una ripetizione meccanica laddove invece ciò che è reiterato è solo il divertimento.

Matteo Bittanti, studioso di nuovi media e giochi digitali, coordina dal 2003 il primo corso intensivo di specializzazione in Progettazione di videogame presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano. Nella stessa città svolge anche attività di ricerca ed insegnamento presso la Libera Università di Lingue e Comunicazioni (IULM). Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo The Sims. Similitudini, Simboli & Simulacri (Unicopli, 2003, con Mary Flanagan) e Simcity. Mappando le città virtuali (Unicopli, 2004).

*** Francesco Careri WALKSCAPES. Camminare come pratica estetica. Prefazione di Gilles A. Tiberghen Einaudi, Torino, 2006. Arte, Architettura, Teatro, Cinema, Musica pp. 172, € 17,00 ISBN 88-06-18067-3 Recensione di Daniele Vazquez Questo libro è caldamente consigliato a tutti coloro che sono stanchi della trita retorica sul nomadismo, a tutti coloro che non hanno mai creduto all’ennesima dicotomia introdotta nel pensiero occidentale: nomadismo versus stanzialità. Si tratta di un libro scritto da un architetto, ma ha un taglio antropologico impeccabile. Non si tratta di una speculazione teorica: è il risultato di un decennio e più di ricerca sul territorio metropolitano, spesso e volentieri attraverso lunghe, lunghissime camminate, da parte del laboratorio/osservatorio Stalker. Negli anni ’90 Luther Blissett e Stalker individuarono la pratica del camminare come metodologia centrale per l’indagine sulla metropoli contemporanea, e le loro ricerche seminali hanno prodotto oggi uno sterminato teatro di azioni. Gli uni partendo dalla filosofia e dalla sociologia, i secondi dall’architettura. I percorsi, per quanto paralleli (ma non in una geometria euclidea), hanno avuto esiti teorici simili. La convinzione che vuole l’umanità separata in nomadi (gli anarchitetti, abitanti dei deserti e delle steppe) e sedentari (gli architetti, abitanti dello spazio organizzato) è un’ipotesi dualistica senza riscontri. Innanzitutto non è corretto parlare di nomadismo prima della rivoluzione neolitica del settimo millennio a.C., inoltre nomadismo e insediamento sono strettamente legati allo stesso universo: il nuovo utilizzo pro3


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duttivo della terra cominciato con il cambiamento climatico seguito all’ultima glaciazione. In questo senso il nomadismo è un’evoluzione culturale dell’erranza paleolitica, fuor di metafora una sua specializzazione. Ma se il nomadismo prevede un ritorno, attraversa spazi noti, l’erranza attraversa spazi vuoti non ancora mappati e non ha mete definite. Prima di innalzare il menhir, la prima pietra che emerse dal caos, l’uomo possedeva una sola pratica simbolica con cui trasformare il paesaggio: il camminare. Il camminare modifica i segni dello spazio attraversato, e il percorso è stata la prima azione estetica che ha penetrato i territori del caos. Qui vi ha costruito un ordine mai visto prima sul quale si è sviluppata l’architettura degli oggetti situati. Il camminare è un’arte che permetterà di sviluppare il menhir, la scultura, l’architettura, il paesaggio. Il primo obiettivo di Careri è smentire ogni immaginario anti-architettonico e anti-artistico del nomadismo e quindi del camminare: è dai nomadi che proviene il menhir, il primo oggetto situato nel paesaggio da cui si è sviluppata successivamente l’architettura (la colonna tripartita) e la scultura (la stele-statua). Non vi è più dicotomia tra architettura e nomadismo, le due sono legate profondamente tramite la nozione di percorso. La capacità di saper vedere nel vuoto dei luoghi e quindi di saper dare dei nomi a questi luoghi è una facoltà appresa nei millenni che precedono la nascita del nomadismo. L’unica architettura che attraversava il mondo paleolitico era il percorso, il primo segno antropico capace di insinuare un ordine nel caos naturale. Il camminare, pur non essendo la costruzione fisica di uno spazio, implica una trasformazione del luogo e dei suoi significati. Camminare significa trasformare il paesaggio, produrre luoghi. L’erranza primitiva ha continuato a vivere nella religione (il percorso come rito) e nelle forme letterarie (il percorso come narrazione), trasformandosi in percorso sacro, danza, pellegrinaggio, processione. Ma è solo nell’ultimo secolo che il percorso ha assunto lo statuto di puro atto estetico (svincolandosi dalla religione e dalla letteratura). A partire da qui (e fino a questo punto il libro è memorabile) Careri ripercorre le esperienze artistiche del Novecento che hanno fatto della camminata una pratica dell’arte; si tratta di cose già note: visite dada, deambulazioni surrealiste, derive psicogeografiche lettriste e situazioniste, land art. Ripercorrere queste esperienze nel quadro del discorso di Careri ce le fa comunque vedere sotto una nuova luce. Il libro è frattale, un discorso sui percorsi che è un percorso, un discorso sull’arte che è un’opera d’arte, perché si tratta senz’altro anche di un’operazione di autostoricizzazione di cavelliniana memoria (il percorso si conclude ovviamente con Stalker), un po’ come già realizzato da Stewart Home con la storia delle avanguardie del dopoguerra. Careri sostiene che il percorso ha una triplice valenza: atto dell’attraversamento, linea che attraversa lo spazio (quindi oggetto architettonico), e racconto dello spazio attraversato (il percorso come struttura narrativa). Delle tre Careri approfondisce solo le prime due, ignorando la terza. Ciò che ci ha sorpresi è la mancanza proprio di riferimenti agli studi sul camminare come struttura narrativa, come lettura e scrittura del territorio, come parte di una semiotica generale delle pratiche. Ci riferiamo agli studi sul camminare di De Certeau, ma soprattutto ad Augoyard che ha studiato i percorsi in ambiente urbano allo stesso modo delle derive dell’atto locutorio (sì, perché il camminare sta allo spazio geometrico così come la parola sta alla lingua), classificandoli attraverso le figure retoriche. Passaggio fondamentale perché nei primi percorsi dell’erranza paleolitica vi è la stessa astuzia della retorica. Tutti questi temi esigono senza dubbio un ulteriore approfondimento; inoltre, proprio perché il libro ci ha convinti e vogliamo lasciarci alle spalle la dicotomia tra nomadismo e architettura, aspettiamo ancora il salto dalla camminata, come strumento conoscitivo, alla progettazione. Un terreno ancora da esplorare verso cui si stanno movendo nuove generazioni di architetti.

Francesco Careri (Roma 1966) è membro di Stalker/Osservatorio Nomade, una struttura aperta e interdisciplinare che compie ricerche e progetti sulla città attraverso l’esperienza diretta degli spazi complessi e l’interazione con gli abitanti. È ricercatore presso la Facoltà di Architettura di Roma Tre, dove tiene un corso di Arte Civica sperimentando con gli studenti metodi di riappropriazione e di intervento diretto nello spazio pubblico. Ha pubblicato Constant/New Babylon, una città nomade, Testo&Immagine, Torino 2001, e ha partecipato con Stalker a numerose mostre internazionali di architettura e arte contemporanea.

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Fulvio Carmagnola, Marco Senaldi (a cura di) SYNOPSIS. Introduzione all’educazione estetica Guerini e Associati, Milano, 2005. pp. 223, € 19,00 ISBN 88-8335-637-3 Recensione di Luca Massidda Domanda. “Che significa oggi esercitare il gusto, e a che cosa dobbiamo applicare questa nozione nel momento storico nel quale le opere d’arte, che erano state per lungo tempo il referente principale del gusto moderno, sembrano perdere le loro centralità nei confronti dell’universo complessivo dei media e degli artefatti – dei prodotti o delle merci che compriamo e usiamo?” Prima pagina, secondo capoverso. Risposta. “L’educazione estetica diventa un tentativo di riflettere sulle molteplici dimensioni di questo averci-a-chefare, in questa situazione nella quale alto e basso, nobile e volgare, originale e copia si mescolano indefinitamente. Ma anche nella quale consumo e fruizione diventano attività quotidiane, esercizio di know-how informali benché ipercodificati dalle mode e dalle abitudini, e che hanno come riferimento le molteplici versioni o incarnazioni contemporanee della nozione di bellezza. Educare il gusto non significa accettare in blocco tutto questo, ma implica comunque un passare attraverso, per arrivare ad esserne consapevoli.” Terza pagina, terzo capoverso. Fine? Del libro? Assolutamente no. Della recensione? Nemmeno… Se questo fosse un ipertesto, soltanto in queste poche righe citate, si aprirebbe una moltitudine di link che varrebbe la pena visitare. Quella dell’ipertesto non è qui una semplice metafora. Synopsis infatti è un’opera aperta che riesce nella difficile impresa di costruire su semplice carta una sorta di ipertesto cognitivo, chiamando continuamente il lettore a riempire dei vuoti, a evocare delle immagini, a costruire delle associazioni. A cliccare con la propria immaginazione su dei link soltanto suggeriti, probabilmente anche ben oltre le intenzioni consapevoli degli autori. A seconda dunque della cooperazione interpretativa che sarà in grado di offrire ogni singolo lettore – o, per dirla, come fanno gli autori, con le parole di Pierre Bourdieu, a seconda del numero e del valore delle fiches con cui il giocatore si siede al tavolo verde – il testo di Carmagnola e Senaldi contribuirà a originare alberi della conoscenza di diversa profondità, fino al possibile paradosso della “semiosi illimitata” di un ipotetico lettore ideale, padrone di ogni sfumatura agente in quello sterminato plancton “estetico” che è l’attuale “epoca sinottica”. Proviamo a giocare anche noi con la metafora ipertestuale, consci delle ambiguità che tale gioco implica in questo contesto. Ho sottolineato nella “risposta” degli autori tre nodi che, se posti in relazione, costituiscono l’asse centrale da cui si diramano tutti i possibili percorsi di lettura, previsti e non, di Synopsis. Averci a che fare. Dimensioni del gusto nel contemporaneo, è il titolo della seconda parte del volume, il suo centro nevralgico, a cui fa riferimento buona parte di ciò che è scritto in questa recensione. L’averci-a-chefare è il tema del libro, la risposta alla domanda che si pone; è un’indicazione di lettura, il patto che gli autori sottoscrivono con il lettore; è il modo in cui è stato scritto, la garanzia della sua validità. Per restare ancora a Bourdieu, l’averci-a-che-fare è nello stesso tempo il campo, l’habitus e il capitale del gioco a cui ci invitano a partecipare Carmagnola e Senaldi. Un gioco all’interno del quale siamo chiamati a comportarci come la Lara Croft di Tomb Raider – non a caso l’immagine di copertina –, eroina provocatrice e profanatrice, feticcio feticista, icona crossmediale, sexy trickster il cui successo dipende molto di più “dall’esercizio di un know-how” che non dalla “conoscenza di un Know-what”. L’ultimo elemento della nostra triade è il “passare attraverso”. Del passare attraverso sarebbe stato un titolo perfetto per questo libro. Forse un po’ ambizioso ma assolutamente legittimo nel suo scimmiottare il nietzschiano aforisma del passare oltre. L’episodio di Zarathustra e del suo falso profeta non è altro che un violento, ineludibile e meraviglioso imperativo ad averci-a-che-fare. Se la metropoli è oggi solo il riflesso di un universo simbolico mercificato e mediatizzato, se il suo tempo non è più quello dell’attimo ma quello della sinossi, se il passare oltre si è trasfigurato in un passare attraverso – e non si tratta di una semplice sfu5


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matura di significato – il passo successivo, a cui gli autori sembrano aperti, non riguarda la necessità – acquisita – di varcare la porta della grande città mediale ma la possibilità di amare, di giocare, di divertire.

Fulvio Carmagnola insegna Educazione estetica nella facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli studi di Milano Bicocca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Vezzi insulsi e frammenti di storia universale. Tendenze estetiche nell’economia del simbolico (Roma 2001); La triste scienza. Il simbolico, l’immaginario, la crisi del reale (Roma 2002); Pulp Times. Immagini del tempo nel cinema d’oggi (con Telmo Pievani, Roma 2003); Plot, il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura (Roma 2004); Parentesi perdute. Crisi della forma e ricerca del senso nell’arte contemporanea (Milano 1998). Marco Senaldi insegna Cinema e arti visive nella facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli studi di Milano Bicocca. Ha scritto, tra l’altro, Lo Spirito e gli Ultracorpi. Le vicissitudini della Ragione tra i sintomi dell’Immaginario (con Antonio Piotti, Milano 1999); Enjoy! Il godimento estetico (Roma 2003); Van Gogh a Hollywood. La leggenda cinematografica dell’artista (Roma 2004). Ha curato recentemente le mostre Cover. L’arte contemporanea come re-interpretazione (Piacenza 2003) e Suburbia (con Marinella Paderni, Reggio Emilia 2004). Collabora con Flash e il manifesto. *** Giandomenico Crapis TELEVISIONE E POLITICA NEGLI ANNI NOVANTA. Cronaca e storia 1990-2000 Meltemi, Roma, 2006. pp. 287, € 21,50 ISBN 88-8353-468-9 Recensione di Alejandro De Marzo Molto si è argomentato sul tema della politica in tv, sebbene finora le indagini si siano indirizzate sempre a considerare singoli fenomeni, i momenti essenziali del passaggio storico dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, mancando però di una ricostruzione accurata e quanto più panoramica dell’intera stagione. È quanto il volume di Giandomenico Crapis ci propone, attento certamente a raccontare il decennio Novanta con riferimenti alla precedente natura delle relazioni tra politica e medium televisivo, e rilevandone al contempo la generazione della “anomalia delle anomalie”, la distorsione madre di tutte le pericolose distorsioni del sistema televisivo del nostro Paese, ovvero il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi dopo la sua “discesa” nell’agone della res publica. Prima ancora, quindi, di manifestare la spettacolarizzazione e personalizzazione della sua concezione populista di leadership nazionale, “sua emittenza” Berlusconi aveva contribuito a dissestare lo sviluppo democraticamente sano e pluralista della vita politica in Italia influenzando lo stile di trattazione delle tematiche politiche per via laterale, nell’ambito della logica evasiva ed emozionale delle trasmissioni commerciali prodotte dal suo gruppo televisivo, facendo assurgere i media a partito (è difatti il titolo del secondo capitolo), fase propedeutica alla vera e propria trasformazione della politica nazionale dietro l’inarrestabile condizionamento delle strategie e della logica importata con la nascita del suo partito mediale. Parallelamente allo svolgimento di questa matrice interpretativa, e in strettissima correlazione di causaeffetto con essa, scorrono nel libro gli avvicendamenti linguistici subìti dal mezzo televisivo, lo spegnersi e il nascere di programmi, talk show o nuove rubriche di informazione e approfondimento politico che, se da un lato descrivono lo stato dei dibattiti politici avvenienti in quello stesso tempo a livello parlamentare e istituzionale anche per arginare o quantomeno gestire l’incontrollabilità rivoluzionaria di Berlusconi, dall’altro dichiarano sconsolatamente la progressiva drammatica perdita di forza e credibilità degli organismi preposti alla conduzione degli interessi nazionali, su sollecitazione - “platealmente” accreditata - della rottura operata dai sondaggi e dalle discussioni tv-concepted (le “picconate” del Presidente della Repubblica Cossiga, le catalizzazioni dell’attenzione pubblica operate da Samarcanda e Porta a Porta, le trasgressioni di 6


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Funari o di programmi quali Profondo Nord e Maurizio Costanzo Show, la sfacciata impertinenza di Chiambretti o la sudditanza compiacente di Fede nel Tg4 ecc…). Una narrazione, in definitiva, contenutisticamente poco informativa e poco disvelatrice, comunque precisa e ricca, in termini di consapevolezza civile rassicurante ma al contempo disturbante, prodotta da una scrittura piacevole e appassionata, che cronachizza la storia italiana recente sub specie televisiva (proprio perché da allora si pone inevitabilmente media-genetizzata) situandosi quale aggiornamento storiografico tanto sul versante della storia dei partiti politici nel Novecento, quanto di quella del mezzo televisivo.

Giandomenico Crapis (Lamezia Terme, 1955), medico, si è occupato di storia della televisione e della cultura di massa. Ha pubblicato nel 1999 La parola imprevista. Intellettuali, industria culturale e società all’avvento della tv in Italia (con prefazione di Alberto Abruzzese), e nel 2002 Il frigorifero del cervello. Il Pci e la tv da “Lascia o raddoppia” alla battaglia contro gli spot. Collabora inoltre alle pagine culturali e di spettacolo de L’Unità.

*** Stefano Cristante MEDIA PHILOSOPHY. Interpretare la comunicazione-mondo Liguori, Napoli, 2005. pp. 255, € 14,50 ISBN 88-2073-91-94 Recensione di Antonio Tursi Il volume di Stefano Cristante, in virtù del titolo e della collana in cui compare (“Mediologie”), nonché della foto di copertina (l’insegna di una strada di Toronto dedicata a Marshall McLuhan), genera forti aspettative circa la possibilità che si affrontino di petto e sistematicamente lo statuto disciplinare, i temi centrali di indagine e gli autori di riferimento dello studio dei media. In verità tali aspettative sono mal riposte in quanto – come segnala l’“Avvertenza” posta in coda – si tratta di una raccolta di saggi e interventi elaborati per occasioni varie (principalmente tra il 2003 e il 2005). Saggi e interventi segnati di conseguenza anche da oscillazioni stilistiche (dalle “visioni” dell’11 settembre ai report analitici di ricerche empiriche) che impediscono un unico livello di lettura e di attenzione durante la lettura. Elemento affatto negativo in sé, si badi, ma che sicuramente richiede un sforzo ulteriore al lettore. Al di là della aspettative di contenuto e delle oscillazioni di stile, Media Philosophy è un libro stimolante: stimola la nostra mente a costruire (ri-costruire) le immagini degli eventi mediali degli ultimi anni e a coglierne la densità e la criticità. È un libro che stimola ad abitare il nostro presente, il nostro mondo dispiegato dai media. In questa opera dell’immaginazione, in questo lavorio sull’immaginazione, due mi pare emergano come gli scogli per superare i quali questo testo è di maggiore utilità. In generale, benché in modo non sistematico e in-disciplinato (ma forse è l’unico modo possibile), Cristante ci offre alcune indicazioni per immaginare lo studio dei media, per ri-crearlo. In particolare, invece, vari saggi elaborano una visione aggiornata e produttiva del concetto di opinione pubblica. Su entrambi questi argomenti vorrei provare a ridire le tesi dell’autore. Oltre alla creazione di una cassetta degli attrezzi comune a diverse discipline, e capace di segnalare l’innovazione sostanziale dei corsi in scienze della comunicazione, occorre che si avvii un lavoro di ricerca teorico sui mezzi di comunicazione. «I media non esauriscono il campo della comunicazione, eppure sono un aspetto fondamentale della sua articolazione. Una nuova disciplina che vada a fondo in questa direzione ancora non c’è, anche se si sussurra un nome non particolarmente eufonico ma nemmeno impronunciabile: mediologia». La base degli studi mediologici è il rapporto tra media e società, nella sua circolarità a volte fluida, a volte catastrofica. Questa indicazione si esplica da un lato nella definizione del nuovo oggetto di ricerca e dall’altro di un nuovo metodo. «I media sono la sostanza ontologica della modernità, […] sono le cose del mondo»: com7


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prendere i media per comprendere il nostro mondo: i media per la filosofia. Se ne ricava anche un metodo, “un metodo artistico” alla McLuhan, alla Abruzzese: «voglio descrivere quanti mondi sto vedendo adesso, usando tutto ciò che la mia mente è in grado di elaborare, usando la mia mente come il deposito di tutti i mondi che mi sono passati (che mi passano) davanti». Sull’opinione pubblica, Cristante propone un modello chiaro e operativo. L’opinione pubblica non è un soggetto, come nel caso della borghesia di Habermas, né un oggetto, come è trattata dai sondaggi di opinione, bensì un campo di forze, determinato da poteri, agito da attori, espresso da climi. Tre sono i poteri che Cristante indica: quello delle lobby, quello dei plutocrati, quello dei media. Con il primo termine ci si riferisce a qualsiasi istanza associativa, variamente formalizzata (vi rientrano anche i partiti politici); la plutocrazia è frutto del cortocircuito finanziario-mediatico dei nostri anni; i media sono lo scenario, il terreno su cui si svolgono i confronti tra le forze in campo. Ma i media sono anche attori di tali confronti: essi giocano nel determinare la direzione dei climi di opinione. Gli altri tre attori sono: i decisori (politici e non); le minoranze attive che si mobilitano e tentano di esercitare pressione politica e direzione culturale; le moltitudini, cioè il pubblico generalista. Infine, il modello si completa con l’osservazione che le pubbliche opinioni non sono verità argomentate (come vorrebbe Kant-Habermas), ma ibridi di verità e segreto, che offrono una verosimiglianza plausibile, un “quasi-sapere” (ed in effetti Cristante usa il termine «doxasfera» per definire il suo modello). Modello utile e ben disposto, rispetto al quale mi limito ad osservare che il passaggio nominalistico da “sfera pubblica” a “doxasfera” se permette di cogliere e superare la distorsione argomentativa del dettato habermasiano (la sua “Verità”) e dunque di recuperare il ruolo della sfera emotiva, lascia sul terreno la possibilità di traduzione istituzionale, cioè di inserimento dell’opinione pubblica nei canali democratici di circolazione del potere: non si intravede il filo (le procedure) che possa cucire insieme gli attori della doxasfera. Cristante, pur essendo ben attento alla posta in gioco – il potere –, non mostra sino in fondo le possibilità democratiche della sua conquista.

Stefano Cristante insegna Sociologia della comunicazione all’Università di Lecce. Si occupa in particolare di teorie dell’opinione pubblica e di consumi culturali giovanili. Dirige l’Osservatorio di comunicazione politica (con sede a Roma “La Sapienza” e a Lecce). Ha pubblicato, tra gli altri, Matusalemme e Peter Pan (Genova,1995), Potere e comunicazione (Napoli, 1999), Azzardo e conflitto (Lecce, 2001) e L’onda anonima (Roma, 2004). *** David Le Breton LA PELLE E LA TRACCIA. Le ferite del sé [Ed. or. La peau e la Trace. Sur les bressures de soi, Editions Métaillé, 2003] Traduzione di Antonio Perri Meltemi, Roma, 2005. pp. 167, € 16,00 ISBN 88-8353-425-5 Recensione di Manolo Farci La pelle e la traccia è una appassionata indagine antropologica sul fenomeno moderno delle ferite deliberatamente auto-inflitte. Escoriazioni, bruciature, incisioni, scarificazioni: nel contesto della nostra società occidentale, ciò che accomuna queste pratiche di lesione della pelle è quello di funzionare come una estrema esplorazione del sé, un modo attraverso cui ricostruire quel tessuto di senso che pare aver provvisoriamente perduto. Per partorire il sé, a volte – scrive Le Breton – è necessario rischiare di perdersi. Contrariamente a quanto si possa credere, una persona che si pratica tagli o lacerazioni sul corpo non lo fa per mettere a repentaglio la propria esistenza, e neppure usa la ferita come un marchio di esclusione dal legame sociale. Tracciare il corpo è piuttosto il frutto di una precisa necessità di rompere con il passato e ripren8


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dere possesso della propria esistenza. Giocare con il dolore per ri-mettersi al mondo. Pur non essendo un atto che deriva da una riflessione logica, la ferita inflitta sulla pelle non è il semplice frutto di un agire impulsivo o masochistico, ma è l’ultima risorsa che l’individuo sente di avere a propria disposizione per tagliarsi via da una condizione di angoscia e inadeguatezza e ricucire i fili di una identità che appare troppo incerta. Il paradosso della ferita è che si sceglie la strada del dolore per uscir fuori dal circolo di una sofferenza diventata insopportabile. Ci si perde e ci si ferisce per muoversi in direzione di un altro sé, per estirpare la propria impotenza dinanzi al mondo, fissandola una volta per tutte su una traccia corporale. Il corpo, luogo supremo della sacralità individuale e sociale, diviene oggetto transizionale in grado di perpetuare questo gioco di morti e rinascite simboliche di cui l’individuo si fa consapevole protagonista. Le Breton individua nelle lesioni corporee un preciso dato antropologico. La ferita è un linguaggio, un modo che l’individuo ha per parlare nuovamente di sé ad un mondo che sembra non comprenderlo più. Il libro ha il pregio di evitare una serie di luoghi comuni: da quelli che leggono le lesioni corporee come l’ennesima conferma del fascino che i comportamenti a rischio riscuotono nelle nostre società, a quelli che rivestono le modificazioni del corpo di un’autenticità religiosa e spirituale in quanto legate ai riti di passaggio delle società tradizionali e “primitive”, fino a coloro che risolvono il problema della ferita riconducendolo ad un comportamento deviante, malato o folle. In realtà, il libro dimostra come la ferita deliberatamente auto-inflitta sia un fenomeno che riguarda prevalentemente persone integrate nella società, in particolar modo adolescenti che usano il linguaggio della traccia corporea per rispondere a una serie di disagi psicologici: difficoltà di vivere determinate situazioni sociali, carenza di affetto, incapacità ad accettarsi pienamente, o più semplicemente una voglia impellente di sentirsi esistere. Ci si può ferire per punirsi o espiare una colpa che si ritiene di aver commesso, per purificarsi da un passato che si vuol dimenticare, per fissare col sangue un legame affettivo intenso o per rimarcare la propria appartenenza ad un particolare gruppo sociale. In ogni caso, la traccia corporea risponde ad una urgenza personale che non ha nulla di distruttivo. Il libro individua poi altri contesti dove la lesione corporea assume valori differenti. Nelle carceri – dove il corpo è l’unica risorsa che l’individuo ha a disposizione per sentire la propria esistenza – la lesione è un grido d’aiuto ancora più disperato, in quanto consapevolmente rivolto a scalfire quel muro di spersonalizzazione e indifferenza che caratterizza le istituzioni totalizzanti. La ferita assume così non più solo il senso di una ribellione intima con se stessi e con il mondo, ma diventa anche un esplicito atto politico: tagliarsi la pelle, mutilarsi, darsi fuoco, ingerire pezzi di vetro sono atti sacrificali estremi attraverso cui tentare di farsi riconoscere come soggetti e non più solo come detenuti. Usare il corpo per assaporare quel residuo di autonomia e libertà personale che resta. Differente è il significato delle lesioni corporali praticate dagli artisti della body art nel corso delle loro performance. In questo caso la ferita è una provocazione che si inserisce all’interno di un progetto etico radicale, un’insurrezione programmata con l’obiettivo di porre in discussione alcuni valori fondamentali della nostra società come l’identità sessuale, i concetti di dolore e morte, l’immagine tradizionale del corpo. Mettere in gioco la propria carne – per artisti come Gina Pane, Sterlarc, Bob Flanagan o Ron Athey – significa tendere all’estremo la capacità di coinvolgimento collettivo fino al punto in cui il pubblico presente possa sentire le stesse sensazioni che il performer sta provando sulla propria pelle. Oppure, ed è il caso di Fakir Musafar e il gruppo dei Modern Primitives, agire su se stessi per vivere una esperienza interiore capace di condurre ai limiti stessi della condizione umana. L’alterazione del corpo è oramai esperienza quotidiana. Che assuma la forma di una intima ritualità o venga inserita all’interno di una dimensione di condivisione collettiva, essa risponde comunque al bisogno personale di operare un radicale processo di bricolage del sé. Ma si tratta di un processo che, proprio perché legato al sacrificio e al rischio di perdersi, contiene una forma di aura sacrale, in grado di attribuire alla traccia corporea un valore maggiore di quello che si pensi possa avere. Ferirsi significa allora rispondere ad un’ansia metafisica capace di richiamare tutto ciò che nella nostra società resta indicibile: il dolore, il sacrificio, la morte; sollecitare un orizzonte esistenziale al di là di un sistema sociale da cui non si riesce più a ricevere senso, dove anche il poter-morire diventa una paradossale forza d’attrazione in grado di rilanciare la nostra esistenza. David Le Breton insegna Sociologia e Antropologia alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo ed è uno dei massimi esperti europei di antropologia del corpo. Dei suoi moltissimi libri sono stati tradotti in italiano: Passione del rischio (1995), Il mondo a piedi (2001). 9


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*** Andrea Miconi UNA SCIENZA NORMALE. Proposte di metodo per la ricerca sui media Meltemi, Roma, 2005. pp. 192, € 17 ISBN: 88-8353-388-7 Recensione di Alessandro Imbriano Il saggio è senza idee. Frase Confucio, titolo di un bel saggio di François Julien, ma anche glossa alla riflessione maturata nell’ambito del lavorio di ricerca portato ai fianchi dell’Occidente a partire soprattutto dalla seconda metà del Novecento. Lavorio costante e per molto tempo invisibile che non è riuscito a mettere a tappeto il suo “saggio avversario” ma ha prodotto almeno che questi si piegasse, almeno per un attimo, per il tempo sufficiente a che si intravedesse ciò che gli sta dietro e lo sorregge: le sue Idee, appunto, che sono le tecnologie del suo potere; il suo discorso identitario, che è sapienza armata; la sua Ragione, maschera ieratica delle sue molto umane ragioni. Tra le discipline che hanno contribuito a mettere in questione la coscienza di sé del mondo sono da annoverarsi quelle attinenti lo studio sull’industria culturale: studi che si sono confrontati preliminarmente soprattutto con cose “non serie”; studi addirittura folli, dal punto di vista frequentatissimo di chi ha vitto e alloggio pagato al di qua del bene e del male. Ma proprio in quanto folli da fare con metodo: ecco dunque a valle della critica della realtà nata dal “metodo del Libro” un libro che modestamente si dichiara di metodo e inalbera il vessillo weberiano dell’unilateralità del punto di vista, dell’avalutatività, e della netta divisione tra oggetto reale e oggetto di conoscenza di contro allo sterile chiacchiericcio di quanti invece che arricchire il dibattito sulle scienze della comunicazione, con le loro scorribande sui boulevard della cultura di massa, rischiano invece di dissolverlo. Sono quattro i modelli di analisi suggeriti e su cui l’autore si intrattiene per mostrarne le possibili applicazioni: quello delle “onde lunghe”, utile ad indagare il “quando” dell’introduzione delle tecnologie del comunicare; il modello sistemico “centro-periferia” che spiega il “dove si diffondono”; infine il “determinismo sociale” e il “determinismo tecnologico”, modelli che congiuntamente costituiscono strumenti teorici preziosi per indagare, rispettivamente, l’origine e la diffusione dei media. Il primo modello è sagomato su quello dei cicli lunghi dell’economia di Kondrat’ev: sovrapponendo ai cicli dell’economia quelli della cultura è possibile, fa notare l’autore, tradurre “visivamente” l’occorrenza di alcune regolarità osservabili circa l’introduzione dei media. Questi si affermano infatti nella fase di discesa del ciclo di Kondrat’ev, cioè nelle fasi di contrazione dell’economia, e si diffondono nella fase di crescita. Il secondo capitolo è una appassionata difesa del determinismo che «nella realtà non esiste, ed è appunto una astrazione causale», ma che «vive lo strano destino di passare per il problema, essendo forse la soluzione». Spiegare il “come” e il “perché” della diffusione di una tecnologia: determinismo sociale e tecnologico, modelli teorici diversi per spiegare due fasi diverse «con una sorpresa. Perché la nascita di un medium, a dispetto delle apparenze, è materia per il determinismo sociale; e la sua diffusione, la spiega il determinismo tecnologico». Fondamentali in questo passaggio i concetti, mutuati da Wiebe Bijker, di chiusura dell’artefatto, di flessibilità interpretativa e di gruppo sociale pertinente che l’autore utilizza per portare un contributo allo “studio” di Internet. L’affermazione di questa tecnologia è segnata a monte dal conflitto tra il protocollo OSI e il protocollo TCP/IP: due standard tecnologici, due gruppi pertinenti in azioni (governi nazionali e comunità dei ricercatori) e una risoluzione del conflitto che detta la conclusione paradossale e falsificabile per cui internet è il prodotto più che il produttore della “comunicazione globale”. Il determinismo tecnologico è invece il modello attraverso cui spiegare l’affermazione di medium, e qui Miconi prende in considerazione il caso della televisione. Nel quarto ed ultimo capitolo, è invece analizzata l’opportunità dell’ipotesi della lunga durata come modello attraverso cui vagliare empiricamente le categorie massmediologiche quali quelle di bias di Innis o media come estensione dei sensi di McLuhan : «un modo di lavorare sui media moderni sullo sfondo di una storia molto più ampia», radicalizzando o razionalizzando l’impostazione genealogica, incanalando la ricerca nella direzione «di una storiografia materialista, in cui il sistema dei media appare il prodotto di un’evoluzione tormentata, piuttosto l’ontologia stessa della modernità». 10


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Andrea Miconi insegna Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Padova e svolge ricerca presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma. Si occupa di sociologia dei media e della letteratura. Ha curato l’edizione italiana dell’ opera di Harold Innis Impero e Comunicazioni (Meltemi 2001). Tra i suoi saggi: Zapping. Sociologia dell’esperienza televisiva (Liguori 2001, con Alberto Abruzzese); Pier Paolo Pasolini. La poesia, il corpo, il linguaggio (Costa & Nolan 1998); Introduzione alla mediologia (Luca Sossella 2000).

*** Raphäelle Moine I GENERI DEL CINEMA Lindau, Torino 2005 pp. 294, € 24,00 ISBN 88-7180-537-2 Recensione di Guido Vitiello Un’intera categoria di opere – e, per implicazione, di autori – ricadono sotto la formula un po’ impietosa che Alberto Abruzzese, nelle pagine d’esordio dello Splendore della Tv, ha approntato per i trattati sulle comunicazioni di massa di un Williams o, soprattutto, di un McQuail: “Opere che rubricano un oggetto ignorato nel suo e nel loro intimo e che ci offrono quindi scatole vuote”. Alla famiglia in questione appartiene in qualche misura anche questa rassegna di teorie sui generi cinematografici ad opera di Raphäelle Moine, che procede per decine di pagine accumulando diligentemente distinzioni e sottodistinzioni di cui non sempre si coglie appieno l’utilità. V’è da dire che questo capo d’accusa non va addossato tanto alla Moine quanto agli autori che censisce, e che dunque al lettore s’impone di constatare, prima di tutto, lo stato ancora largamente inadeguato degli studi su quello che è forse l’aspetto centrale del cinema. Per tutta la prima parte il libro della Moine è una rassegna di nozioni formali e linguistiche: in particolare, l’intero secondo capitolo (Alla ricerca delle regole del genere) espone la gran varietà di definizioni che sono state chiamate in causa per circoscrivere un genere cinematografico: definizioni strutturali, semiotiche, semantico-sintattiche e quant’altro. È qui più che altrove che l’autrice (e con lei gli autori che passa in rassegna) dà l’impressione di accumulare contenitori concettuali vuoti, scatoloni da imballaggio che non si sa bene se valga la pena usare, e di rimanere fatalmente a margine delle questioni centrali proprio quando si accosta a una materia che di tali “questioni centrali” ribolle. A che vale – Kierkegaard lo notava a proposito di Hegel – innalzare sontuosi castelli speculativi per poi ritirarsi a vivere nel granaio adiacente? Qua e là la furia delle distinzioni linguistiche sfocia su involontari effetti comici, come quando la Moine rende conto delle teorie di Rick Altman e parla della funzione del cavallo nel western: La differenziazione stabilita da Altman tra semantica e sintassi s’iscrive d’altronde in una teoria della significazione testuale, che distingue due livelli: la significazione linguistica delle componenti del testo e la significazione testuale che queste componenti acquisiscono nella struttura interna del testo. Nel western ad esempio, il cavallo ha un primo livello di significazione che rinvia al concetto “cavallo”: è un animale.

Ohibò. Il cavallo in sostanza è un cavallo, e poi nel contesto del western assume anche altri significati… c’è bisogno, per dirlo, di tanti arzigogoli semantico-sintattici? Vien fatto di rimpiangere la tautologica semplicità del Vocabolario degli Accademici della Crusca, che alla voce cane recitava così: “Animal noto, e domestico dell’huomo”. Ma sarebbe ingeneroso appigliarsi a questi momenti di gergalismo un po’ vaniloquente, o a qualche svista sparsa qua e là, per trascinare l’intero volume in un immeritato biasimo. Via via che si va avanti con la lettura – e soprattutto in uno dei capitoli finali (Come pensare la storia di un genere?) – la Moine aggiunge polpa agli scheletri concettuali della parte introduttiva, e tocca, ancorché quasi di passaggio, l’intero spettro delle questioni connesse ai generi cinematografici: la loro funzione produttiva, il loro ruolo sociale (con qualche superficialità di troppo), la loro contestualizzazione storica e nazionale. Né si può negare il valore 11


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che una diligente rassegna ha sempre di per sé, anche quando riguarda autori e tradizioni – l’approccio lato sensu “linguistico” alla lettura del film, fiorito in Francia più che altrove – che l’estensore di questa recensione ama poco, e ritiene poco fruttuoso per addentrarsi nella giungla dei generi e nel cinema come macchina mitologico-industriale. Ma qui a parlare sono idiosincrasie personali: il lettore non ne tenga conto, e se è in cerca di una sintesi di teorie sui generi cinematografici corredata da una ricca bibliografia, questo è il libro che fa per lui. Senza contare che lo studio s’inserisce in una tendenza benemerita – la caotica riscoperta (rectius: scoperta) dei generi in paesi come l’Italia e la Francia dominati per decenni dalla nozione alta e “letteraria” del film d’autore – e che è dunque, non foss’altro per questa ragione, più che benvenuto sugli scaffali dei nostri librai. Raphaëlle Moine insegna cinema presso il Département Art du spectacle nell’Università Paris X Nanterre. È autrice di Le cinéma français face aux genres.

*** Franco Moretti LA LETTERATURA VISTA DA LONTANO Einaudi, Torino, 2005 pp.150, € 16,50 ISBN 88-06-17289-1 Recensione di Luca Reitano

Perché si affermano e scompaiono i generi letterari? Ed esiste una legge che ne regola l’evoluzione? A queste ed altre domande Franco Moretti prova a rispondere in La letteratura vista da lontano, titolo in cui – si badi bene – è contenuta una precisa indicazione di metodo. Il libro di Moretti è infatti una brillante – ma in diversi punti opinabile – discussione sul punto di osservazione più utile ad inquadrare i fenomeni letterari. La tesi dell’autore è che per padroneggiare e rendere conto delle loro trasformazioni ed evoluzioni, occorra considerarli non tanto nella loro specificità individuale (come in genere accade), bensì come elementi di una serie, parti di un sistema letterario dove “tutto si tiene”. L’opinione di Moretti, insomma, è che l’abbandono del close reading, in favore di un punto di vista che osservi la letteratura da lontano, «nel prisma di modelli astratti», consenta di vedere oggetti nuovi: un campo letterario in buona parte inesplorato, ricco di sorprese (e di fascino). È in questo quadro dunque che si spiega l’adozione (e la seduzione) dei metodi delle scienze naturali: i grafici della storia quantitativa, le mappe della geografia e gli alberi genealogici della teoria dell’evoluzione. Il primo studio è, così, una applicazione dei grafici per rappresentare l’ascesa del romanzo come genere di massa. Sulla base di una serie di dati quantitativi Moretti osserva delle fasi ricorrenti che scandiscono l’affermazione del romanzo nei diversi paesi. L’esito di questo studio è la individuazione di precisi “cicli letterari”, cui corrisponde l’evoluzione del mercato romanzesco, con l’affermarsi di alcuni generi e la scomparsa di altri. L’interesse del capitolo però non sta solo nei risultati, quanto piuttosto nel presupposto di metodo che guida l’analisi. L’uso dei grafici, infatti, consente di vedere un oggetto nuovo che è qualcosa di più e di diverso dalla somma dei singoli testi, ovvero l’intero campo della produzione letteraria di un periodo. E in base a tale oggetto (che restituisce validità scientifica alla gran massa dei libri scartati dal canone), ci dice Moretti, la storia del romanzo assume tutt’altra periodizzazione e significato: una diversa forma. L’idea che il metodo costruisca il proprio oggetto, e che questo oggetto di conoscenza sia affatto diverso dagli “oggetti reali” della letteratura (i testi) è anche la premessa del secondo (e poi del terzo) studio. Qui l’adozione delle mappe geografiche consente di vedere come alla forma dell’idillio, tipica della letteratura di villaggio inglese e tedesca della prima metà dell’Ottocento, risponda la rappresentazione di uno spazio preindustriale, circolare ed autarchico, destinato a dissolversi di fronte alle pressioni sociali e alla nuova articolazione spaziale imposta dalla industrializzazione verso la metà dell’Ottocento. 12


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Lo studio è una dimostrazione di quello che potremmo definire metodo-Moretti: l’isolamento, grazie all’uso delle mappe, di poche unità narrative – ad esempio, il percorso che la protagonista di uno dei romanzi analizzati compie attorno al villaggio, che si fa più casuale e centrifugo man mano che lo spazio del villaggio perde la sua centralità – e il loro impiego per costruire un oggetto artificiale in grado di rappresentare le forze che agiscono su una struttura narrativa. Carte che – come giustamente rileva l’autore – più che a delle mappe assomigliano così a dei veri e propri diagrammi di forze, in cui a emergere è il rapporto tra i tratti morfologici di un genere letterario e gli agenti esterni (storici e sociali) che li plasmano: tra la forma e la storia. Il terzo studio, forse il più suggestivo dell’intero libro, è una applicazione degli alberi genealogici della teoria dell’evoluzione allo studio della “vita” delle forme letterarie. L’interesse dell’autore per gli alberi evolutivi nasce dal fatto che questi costituiscono dei diagrammi morfologici, in cui l’asse verticale della storia si interseca continuamente con l’asse orizzontale della “diversificazione morfologica”, dovuta alla diffusione delle specie in ambienti diversi. Il «morfospazio» (o spazio delle forme) che ne risulta è impiegato da Moretti nell’analisi dell’evoluzione dei generi, per rendere ragione della sopravvivenza di alcuni e della scomparsa di altri. Esemplare da questo punto di vista l’analisi del poliziesco di Conan Doyle, la cui “selezione naturale” è dovuta ad un preciso tratto formale: l’uso degli indizi. Altrettanto sottile l’analisi con cui si chiude la terza parte del libro, riservata allo stile indiretto libero, le cui innovazioni sono spiegate – secondo Moretti – dal suo adattamento evolutivo ai differenti ambienti storici, geografici e culturali. Per concludere: il tentativo di Moretti di costruire una «storia della letteratura più razionale», adottando una “prospettiva lontana” con cui guardare ai fatti letterari, possiede una sua valida ragione teorica, dal momento che l’ambito, vastissimo, di una Weltliteratur non eurocentrica è affrontabile solo su una scala estremamente ampia (la morfologia comparata che Moretti insegue con i propri alberi genealogici); e qui probabilmente risiede il fascino, l’utilità e l’intelligenza del libro. Tuttavia, tralasciando, per ragioni di spazio, una serie di problemi che il libro solleva (dal concetto un po’ sfuggente di genere, alla discussione intorno all’essenza o meno del romanzo) resta da notare che le soluzioni offerte dai grafici, i diagrammi e gli alberi di Moretti non sembrano particolarmente feconde o risolutive (è lo stesso autore ad indicarne il carattere provvisorio e parziale). Infine, ci domandiamo se una storia o teoria letteraria privata dei propri “oggetti reali”, quale Moretti caldeggia nel libro, non finisca per l’assomigliare alla mappa, astratta e immaginaria, di una letteratura fantasma, “lontana” dai testi, dalla vita e dalle ragioni di chi legge. Se, insomma, sia una storia che interessa ancora a qualcuno.

Franco Moretti insegna Letteratura comparata all’Università di Stanford. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui Segni e Stili del moderno (1987), Opere mondo (1994 e 2003), Atlante del romanzo europeo (1997), e la nuova edizione del Romanzo di formazione (1999). Ha anche diretto la Grande Opera in cinque volumi Il romanzo (2001-2003).

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