Friedrich Schiller La passeggiata

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Friedrich Schiller

La passeggiata A cura di NINO MUZZI


Friedrich Schiller Viandante se giungi a Sparta… Da stand er noch, der Spruch, den wir damals hatten schreiben müssen, in diesem verzweifelten Leben, das erst drei Monate zurücklag: Wanderer, kommst du nach Spa …1 Questa frase è tratta da un racconto di Böll che descrive in soggettiva il ritorno di un ragazzo partito in guerra e poi tornato in lettiga nella città natale per venire operato proprio nel suo vecchio liceo trasformato per l’occasione in un lazzaretto per i soldati feriti sul fronte. Il ragazzo-soldato febbricitante non si sa capacitare in quale scuola sia capitato poiché al tempo del nazismo tutte le scuole si assomigliavano: avevano gli stessi busti e le stesse carte geografiche nei corridoi. Ma in quell’aula da disegno dove gli allievi esercitavano la calligrafia lui scopre proprio la sua stessa scritta di appena tre mesi prima. Una scritta male eseguita perché non entra intera nella lavagna: viandante se giungi a Spa… e lo spazio della lavagna finisce. Quello che Böll fa chiamare “motto” al giovane protagonista del racconto altro non è che l’emistichio del verso “Viandante se giungi a Sparta, racconta laggiù che ci hai visti”, che prosegue con l’altro verso “caduti qui come a noi aveva prescritto la Legge”. Questo “motto” è la traduzione di un frammento di Simonide di Ceo, fatta da Schiller e inserita nella sua lunga elegia del 1795, nata appunto con il semplice titolo di Elegia e pubblicata nel 1800 col titolo definitivo di La passeggiata, quella che si legge ancor oggi nelle scuole e che al tempo di Hitler rappresentava una sorta di credo scolastico del perfetto allievo-soldato. E sulla sua scrittura si esercitavano gli allievi nell’aula di disegno, provandone i vari caratteri di stampa. Povero Schiller, poveri classici, piegati dal regime nazista a scopi di guerra e di conquista! Questa lunga elegia, che qualcuno un po’ affrettatamente ha paragonato

a I sepolcri del Foscolo, ha avuto spesso la funzione di un saggio atto a illustrare una visione post-kantiana del concetto di estetica. La passeggiata in genere fa coppia con il saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, che influenzò anche Leopardi. L’itinerario di un poeta-filosofo Un primo momento del percorso poetico si apre su un paesaggio definibile come locus amœnus, un regno del bello confortevole, e cede poi il passo a un altro momento, quello dell’oscurità del bosco, dove attraverso la griglia dei rami penetra appena una fioca luce: siamo entrati nel momento sublime, quello che incute terrore e rispetto e che mette l’uomo a cospetto dell’incommensurabile, poi si spalanca il tipico paesaggio alpestre che ci minaccia con due immensità, quella in altezza e quella in profondità. Il viandante è perduto tra queste due immensità, ma c’è una scala con la ringhiera a proteggerne la caduta negli abissi e a condurlo di nuovo giù in una Natura che non è più locus amœnus, bensì una natura consegnata dagli dèi all’uomo per renderla fertile e abitabile attraverso il lavoro. Si apre di nuovo un quadro idilliaco, ma fortemente antropizzato. Però questa unione ingenua dell’uomo con la sua terra si spezza con il diffondersi di uno spirito pervasivo, lo spirito cittadino che ricaccia il fauno nei boschi e fa nascere la vita dalla pietra. La pietra che costruisce e la pietra che scolpisce la vita. Un unico spirito anima mille petti, nasce la comunità urbana, che attraverso il lavoro diffonde la propria civiltà oltre i mari lontani: esporta e importa manufatti. Si sviluppa l’Arte e la Scienza, si sviluppa la Ragione, la ragione che sgombra dagli occhi i veli della superstizione e genera la Libertà. Ma la Libertà non può ignorare i freni della morale che ci provengono dalla Natura, e la vita cittadina col tempo mostra il suo carattere artificiale e fa nascere un desiderio di ritrovare quell’accordo dell’uomo 3

con la sua terra che rappresenta la propria salvezza. Il viandante quasi si desta dal suo percorso mentale e si ritrova di nuovo nella Natura selvaggia, dove solo l’aquila è capace di annodare le nuvole al mondo. L’aquila, simbolo del genio, può, sola, riunire le nubi della fantasia al mondo della realtà. Così scende di nuovo a valle, pacificato, il nostro passeggiatore solitario a ritrovare di nuovo un mondo antropizzato, una Natura diversa sia da quella sublime dei selvaggi paesaggi alpestri e minacciosi, sia dal locus amœnus da cui è partito. Come è già stato notato in sede critica, questo ritorno alla Natura non ha niente di roussoiano, non rappresenta un abbandono della civiltà per ritrovare il mondo del buon selvaggio. La natura in cui il viandante ritorna è ormai vista con l’occhio di chi l’ha compresa e la possiede mentalmente: un ritorno a una natura culturalmente ridefinita. Non è un rifiuto della civilizzazione, ma un recupero della naturalità in seno alla razionalità e quindi l’inizio di una forma di razionale intuizione: un ossimoro fecondo di creazioni poetiche. I momenti poetici Bisogna intanto precisare che i momenti poetici non sono di carattere lirico, ma elegiaco. La Natura non costituisce uno sfondo all’Io lirico, bensì un alter ego con cui l’Io filosofico cerca d’iniziare un dialogo spesso difficile, sempre problematico, talvolta anche acceso. Siamo in quella dialettica tra uomo e natura che troviamo anche nel nostro Leopardi, e che non fu immune da influenze schilleriane. Nel Novecento questo dialogo viene ripreso da Rilke nelle Elegie duinesi con accenti che ricordano da vicino quello schilleriano, che ha comunque influenzato molta produzione poetica tedesca degli ultimi due secoli. Cosa chiede il poeta alla natura bella o sublime e cosa chiede al paesaggio antropizzato? Chiede un’educa-


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zione dell’uomo che passi dal godimento estetico dei sensi e dell’intelletto. Il godimento estetico legato ai sensi si svolge sempre in uno scenario di tipo classico, quale il locus amœnus. In esso vi si trovano gli orpelli retorici della tradizione oraziana o virgiliana: il prato, l’albero, la sorgente, il trillo dell’allodola, il ronzìo dell’ape operosa. Tutto questo viene reso da Schiller con grande efficacia, dovuta anche alla presenza in questo paesaggio dell’uomo oppresso dall’angustia dello studio e dalle “sudate carte” piene di dialoghi filosofici. Orazio vi riposava le membra dalle fatiche quotidiane e vi trovava ispirazione, Schiller vi cerca rifugio da una vita intellettuale che per lui è un rovello, un enigma, un continuo interrogarsi sul senso della vita e in generale sui significati del mondo. È già un uomo romantico immerso in un paesaggio classico. A differenza del locus amœnus, pieno di sensualità, l’attraversamento del paesaggio sublime è tutto intellettuale. Lo Spirito della Terra si presenta a Faust e Faust non ne soppor-

ta la vista. Così avviene in Schiller quando s’inoltra su in alto, nel paesaggio alpestre: Vedo l’etere incommensurabile, sotto e sopra di me, guardo lassù con vertigine, guardo laggiù con tremore.

Ma se la vista del sublime abbaglia e la lingua ammutolisce, l’uscita da questa impasse non è il ritorno al locus amœnus, bensì l’ingresso nel paesaggio storico, quello inserito nel tempo: siamo già entrati della dimensione dell’homo viator che andando trasforma il paesaggio e lo storicizza. È così che l’attraversamento del paesaggio si accompagna allo scorrere del tempo della Storia come avviene anche in Leopardi (che pur sta seduto e osserva): … e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Le vicende storiche invadono quindi il paesaggio, che non è più locus amœnus né paesaggio sublime, bensì paesaggio ragionato. Quindi, quando in 4

sede critica 2 si definisce questa elegia come un altalenare tra il bello e il sublime, si dimentica l’evolversi dello sguardo del poeta-viandante, che non è il peregrinus, ma il viator. Il peregrinus rinnega la città e vaga per agros (per i campi), la sua meta è fuggire dalla città e dal consesso umano, mentre il viator è quello che percorre un itinerario che può essere di salvazione o di perdizione, ma che è comunque di formazione: Ma fra quelle altezze eterne ed eterne profondità una scala a ringhiera conduce, sicuro, laggiù il viandante.

La ringhiera, qui simbolo di metodo e di canone estetico e conoscitivo, è quella che fa del viandante un homo viator, un uomo che non solo percorre sicuro un sentiero, ma che è anche in grado di aprire nuove strade, nuovi sentieri ancora non battuti. Il ritmo, lo stile e il lessico È fuori dubbio che la scelta del verso


Friedrich Schiller modellato sul distico elegiaco sia una scelta di tipo eroico che per certi versi contrasta stilisticamente con il modesto titolo: La passeggiata, che all’origine suonava ancor più modesto: Elegia. In effetti il poemetto si apre con un tono da subito altisonante, che evoca un dialogo titanico con gli elementi della natura dove l’io-protagonista inizialmente giganteggia e parla in prima persona e parla di sé, mentre col procedere del racconto si ridimensiona, il poeta parla piuttosto degli uomini, introduce a più riprese il fatico “vedi” che è un’altra voce, contigua a quella del protagonista. È la voce del poeta che si è distaccato, che osserva il viandante procedere in quel percorso formativo di cui dicevamo. Il ritmo del distico suggerisce una specie di forma di ragionamento poetico. Questo si articola in quattro momenti, corrispondenti ai quattro emistichi: due del primo verso e uno del verso successivo come premesse, mentre il quarto emistichio rappresenta una chiusa all’azione o anche al ragionamento, una sorta di conclusione di un sillogismo poetico: Mi passano accanto ridenti le rive ubertose e la splendida valle è lode allo zelo gioioso. Mi passano accanto ridenti (primo emistichio) le rive ubertose (secondo emistichio) e la splendida valle è lode (terzo emistichio) allo zelo gioioso (quarto emistichio). 1Libero il prato mi accoglie 2con ampio tappeto disteso; 3per il suo verde cordiale 4serpeggia un sentiero campestre.

Pur rispettando la stessa struttura, questo distico s’ispira non tanto al ragionamento sillogistico quanto alla tecnica della pittura, soprattutto quella pittura di Claude Lorrain, che il Nostro ammirava per gli speciali effetti di prospettiva. Ecco, quel sentiero che serpeggia sul verde della cam-

pagna sortisce un effetto prospettico, non diversamente da quello che produce lo sfumato dell’orizzonte: Immensa si stende ai miei occhi la lontananza e un’azzurra montagna conclude in pulviscolo il mondo.

Un altro elemento da non sottacere è la grande influenza della musica non tanto sulla mente quanto sulla scrittura poetica vera e propria di Schiller, che affermava: Da principio il sentimento è in me senza oggetto determinato e chiaro; quest’ultimo si forma solo più tardi. Precede una certa disposizione d’animo musicale, e solo a questa segue in me l’idea poetica.

Tutto ciò suona strano per chi considera Schiller più filosofo che poeta, come fece Benedetto Croce in “Poesia e non poesia”. Quindi possiamo affermare che quei quattro momenti di cui sopra possono essere pensati sia come momenti di un ragionamento, sia come elementi di una pittura, sia come fraseggio musicale. E che dire delle scelte stilistiche? Queste ultime afferiscono alla poliedricità del Nostro, che si presenta come poeta-filosofo, come poeta-pittore, come poeta-musicista e, da non dimenticare, come poeta-traduttore dei classici. Come traduttore dei classici, infatti, ci offre una sintassi che riprende l’andamento tipico di una lingua con i casi, dove la disposizione delle parole non richiede una successione di vocaboli che produca un senso simile a quello che fa l’azione reale con la sequenza soggetto-verbo-complementi. Qui troviamo la disposizione dei vocaboli secondo leggi dell’eleganza e dell’assonanza: Dich auch grüß’ich, belebte Flur, euch, säuselnde Linden, Und den fröhlichen Chor, der auf den Ästen sich wiegt, (Te pure saluto, vivace campo, voi, fruscianti tigli, e il gioioso coro, che sopra ai rami si culla)

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e noi che traduciamo siamo costretti spesso a “regolarizzare” adagiandoci su traduzioni esplicative che per ciò stesso diluiscono il testo appiattendolo. Ancora un esempio: Deiner Lüfte balsamischer Strom durchrinnt mich erquickend, Und den durstigen Blick labt das energische Licht. (Di tue arie balsamica corrente trascorre me refrigerante e l’assetato sguardo ristora l’energica luce)

Tutto questo fa tornare in mente la famosa concezione di Walter Benjamin per la quale una traduzione dovrebbe essere così fedele e quasi interlineare da trasformare, attingendo alla lingua straniera, la propria lingua madre. Lo stile dunque, grazie all’imitazione dei classici, è tutto avvolto da un’atmosfera di vaticinio, ma a differenza dei classici francesi del ’600, qui troviamo anche la presenza di Lessing, che trasforma la vuotezza altisonante dei francesi nel dramma borghese o proto-borghese tedesco. Quindi la scelta lessicale non è scevra da un certo realismo borghese. Quel tralcio di vite che serpeggia sotto la finestra del contadino, quel ramo che abbraccia la sua casetta non sono solo immagini esornative. Indicano invece un rapporto di affetto del contadino per la sua terra, ma anche il rapporto economico del lavoratore coi suoi campi. Il tempo storico e il lavoro entrano a modellare un nuovo paesaggio sia rispetto al mondo classico sia rispetto al volto sublime della natura terribile. Nino Muzzi NOTE 1 “C’era ancora il motto che allora avevamo dovuto scrivere in quella vita disperata che risaliva solo a tre mesi prima: Viandante, se giungi a Spa…” 2 Cfr. F. Schiller, Poesie filosofiche, Feltrinelli, Milano 2005, p. XXI.


Friedrich Schiller Der Spaziergang

La passeggiata

Sei mir gegrüßt, mein Berg mit dem röthlich strahlenden Gipfel! Sei mir, Sonne, gegrüßt, die ihn so lieblich bescheint! Dich auch grüß’ich, belebte Flur, euch, säuselnde Linden, Und den fröhlichen Chor, der auf den Ästen sich wiegt, Ruhige Bläue, dich auch, die unermeßlich sich ausgießt Um das braune Gebirg, über den grünenden Wald, Auch um mich, der, endlich entflohn des Zimmers Gefängniß Und dem engen Gespräch, freudig sich rettet zu dir. Deiner Lüfte balsamischer Strom durchrinnt mich erquickend, Und den durstigen Blick labt das energische Licht. Kräftig auf blühender Au erglänzen die wechselnden Farben, Aber der reizende Streit löset in Anmuth sich auf. Frei empfängt mich die Wiese mit weithin verbreitetem Teppich; Durch ihr freundliches Grün schlingt sich der ländliche Pfad. Um mich summt die geschäftige Bien’, mit zweifelndem Flügel Wiegt der Schmetterling sich über dem röthlichten Klee. Glühend trifft mich der Sonne Pfeil, still liegen die Weste, Nur der Lerche Gesang wirbelt in heiterer Luft. Doch jetzt braust’s aus dem nahen Gebüsch: tief neigen der Erlen Kronen sich, und im Wind wogt das versilberte Gras; Mich umfängt ambrosische Nacht; in duftende Kühlung Nimmt ein prächtiges Dach schattender Buchen mich ein. In des Waldes Geheimniß entflieht mir auf einmal die Landschaft, Und ein schlängelnder Pfad leitet mich steigend empor. Nur verstohlen durchdringt der Zweige laubigtes Gitter Sparsames Licht, und es blickt lachend das Blaue herein. Aber plötzlich zerreißt der Flor. Der geöffnete Wald gibt Überraschend des Tags blendendem Glanz mich zurück. Unabsehbar ergießt sich vor meinen Blicken die Ferne, Und ein blaues Gebirg endigt im Dufte die Welt. Tief an des Berges Fuß, der gählings unter mir abstürzt, Wallet des grünlichten Stroms fließender Spiegel vorbei. Endlos unter mir seh’ich den Äther, über mir endlos, Blicke mit Schwindel hinauf, blicke mit Schaudern hinab. Aber zwischen der ewigen Höh’und der ewigen Tiefe Trägt ein geländerter Steig sicher den Wandrer dahin. Lachend fliehen an mir die reichen Ufer vorüber, Und den fröhlichen Fleiß rühmet das prangende Thal. Jene Linien, sieh! die des Landmanns Eigenthum scheiden, In den Teppich der Flur hat sie Demeter gewirkt. Freundliche Schrift des Gesetzes, des menschenerhaltenden Gottes, Seit aus der ehernen Welt fliehend die Liebe verschwand! Aber in freieren Schlangen durchkreuzt die geregelten Felder, Jetzt verschlungen vom Wald, jetzt an den Bergen hinauf Klimmend, ein schimmernder Streif, die Länder verknüpfende [Straße; Auf dem ebenen Strom gleiten die Flöße dahin. Vielfach ertönt der Herden Geläut’im belebten Gefilde, Und den Wiederhall weckt einsam des Hirten Gesang. Muntre Dörfer begrenzen den Strom, in Gebüschen verschwinden Andre, vom Rücken des Bergs stürzen sie gäh dort herab. Nachbarlich wohnet der Mensch noch mit dem Acker zusammen,

Ti saluto, monte dalla cima rosseggiante! Ti saluto, sole che amabile lo rischiari! Anche te saluto, animato campo, e voi, tigli fruscianti, e il coro gioioso, che fra i vostri rami si culla, e anche te, placido azzurro, che infinito ti effondi intorno all’oscura montagna, sul bosco virente, e intorno a me, che, alfin fuggito dal carcere della stanza e dall’angustia dei discorsi, presso di te lieto si salva. La corrente balsamica dell’aria m’inonda di refrigerio e l’energia della luce ristora la sete del mio sguardo. Sul prato fiorito splendono accesi colori cangianti, ma la fervente gara si scioglie infine in bellezza. Libero il prato mi accoglie con ampio tappeto disteso; per il suo verde cordiale serpeggia un sentiero campestre. Intorno mi ronza operosa l’ape e con volo insicuro librandosi va la farfalla sopra il trifoglio rossastro. Mi coglie rovente il dardo del sole, tace il ponente, solo un canto d’allodola trilla nell’aria serena. Ma ora bisbiglia vicino il cespuglio: reclinano a terra le chiome gli ontani e ondeggia nel vento l’erba argentata; mi avvolge una notte di ambrosia; nel fresco fragrante un tetto sfarzoso di faggi ombrosi mi copre. Nel segreto del bosco scompare d’un tratto il paesaggio e un serpeggiante viottolo mi guida su in alto. Sol di soppiatto penetra flebile luce tra sbarre di rami e attraverso vi occhieggia l’azzurro ridente. Ma ecco si squarcia il velame. Aprendosi il bosco mi ridà l’inatteso splendore abbagliante del giorno. Immensa si stende ai miei occhi la lontananza e un’azzurra montagna conclude in pulviscolo il mondo. Ai piedi del monte che abrupto di sotto strapiomba scorre del verde torrente lo specchio che scivola via. Vedo l’etere incommensurabile, sotto e sopra di me, guardo lassù con vertigine, guardo laggiù con tremore. Ma fra quelle altezze eterne ed eterne profondità una scala a ringhiera conduce, sicuro, laggiù il viandante. Mi passano accanto ridenti le rive ubertose e la splendida valle è lode allo zelo gioioso. Le linee – vedi! – che tagliano le proprietà del villano Cerere le ha tracciate sulla trapunta del campo. Scrittura di Legge divina che mantiene l’uomo in vita dacché dal mondo ferrigno fuggendo l’Amore svanì! Ma in più libere spire attraversa i campi ordinati, ora ingoiata dal bosco, ora salendo sui monti, una linea luminosa, una strada che annoda le terre; sulla corrente placata le zattere scivolan via. Spesso risuona il rumore dei focolari dai campi abitati e l’eco risveglia il canto del solitario capraio. Vivaci villaggi costeggiano la corrente, spariscono altri fra i cespugli, giù franano altri dai dorsi del monte, l’uomo convive ancora in accordo con la campagna,

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Friedrich Schiller i campi attorniano calmi il suo rustico tetto; mansueta la vite rampolla alla finestra più bassa, con l’abbraccio di un ramo cinge l’albero la capanna. Felice gente dei campi! Non ridesta alla libertà, condividi ancora contenta con la terra la ferrea legge. Il calmo ciclo dei raccolti pone un limite ai tuoi desideri, come l’opra tua giornaliera, si svolge così la tua vita! Ma cosa mi ruba ad un tratto questa dolce visione? Un altro spirito si espande veloce sulla più estranea campagna. Si scosta scontroso quello che appena ancor vi si univa, amandola, e il simile è solo quel che si allinea al simile. Vedo formarsi dei ceti, le stirpi orgogliose dei pioppi sfilano in pompa ordinata, altolocata e splendente. La regola diventa tutto, tutto scelta e significato; questo corteo di valletti mi sta presentando il Signore. Lo annunciano da lontano le cupole altere lucenti, dal suo zoccolo roccioso si leva la città turrita. Ricacciati i fauni del bosco nella natura selvaggia, la devozione ridona più alta vita alla pietra. L’uomo si stringe più all’uomo. Ha meno spazio dintorno, si ridesta più animato, si rovescia più svelto in lui il mondo. Vedi, ecco accendersi in lotta ardente le forze dell’ideale, cose grandi produce la lotta, più grandi la loro alleanza, un solo spirito anima mille mani, in mille petti batte forte un unico cuore, ardente di un unico spirito, è per la patria che batte e arde per le leggi degli avi; qui giacciono sul suolo amato le loro onorate ossa. Dal cielo scendono giù i sacri Dei e prendono nei luoghi consacrati la loro solenne dimora; compaion nel gesto del dono regale: Demètra su tutti porta il dono del vomere, l’àncora Hermes, Bacco la vite, Minerva il verde ramo d’olivo, anche i cavalli da guerra si porta appresso Nettuno, madre Cibele aggioga alle stanghe del carro i leoni, nell’accogliente portale lei entra da cittadina. Sacre pietre! Da voi sbocciarono umani virgulti, a isole in mari lontani inviaste arte e costumi, i saggi leggevan giustizia presso le porte fraterne; gli eroi balzavano fuori in lotta per i Penati, sulle mura apparivan le madri col pargolo in braccio, guardando l’armata che sfila finché l’orizzonte la inghiotte. Pregavano poi inginocchiandosi presso agli altari divini, implorando gloria e vittoria, implorando il vostro ritorno. Aveste onore e vittoria, però tornò solo la gloria; la lode delle vostre gesta l’annuncia la pietra commossa: “Viandante se giungi a Sparta, racconta laggiù che ci hai visti caduti qui come a noi aveva prescritto la Legge”. Riposate in pace, o amati! Dal vostro sangue versato verdeggia l’olivo, vivace germoglia il seme prezioso. Viva si accende, contenta del possesso, la libera impresa, dal canneto del fiume il ceruleo Dio ci saluta, fischiando vola l’ascia nel tronco, la Driade gemica, dall’alta cima del monte crolla la mole scrosciando.

Seine Felder umruhn friedlich sein ländliches Dach; Traulich rankt sich die Reb’empor an dem niedrigsten Fenster, Einen umarmenden Zweig schlingt um die Hütte der Baum. Glückliches Volk der Gefilde! Noch nicht zur Freiheit erwachet, Theilst du mit deiner Flur fröhlich das enge Gesetz. Deine Wünsche beschränkt der Ernten ruhiger Kreislauf, Wie dein Tagewerk, gleich, windet dein Leben sich ab! Aber wer raubt mir auf einmal den lieblichen Anblick? Ein frem[der Geist verbreitet sich schnell über die fremdere Flur. Spröde sondert sich ab, was kaum noch liebend sich mischte, Und das Gleiche nur ist’s, was an das Gleiche sich reiht. Stände seh’ich gebildet, der Pappeln stolze Geschlechter Ziehn in geordnetem Pomp vornehm und prächtig daher. Regel wird Alles, und Alles wird Wahl und Alles Bedeutung; Dieses Dienergefolg meldet den Herrscher mir an. Prangend verkündigen ihn von fern die beleuchteten Kuppeln, Aus dem felsigten Kern hebt sich die thürmende Stadt. In die Wildnis hinauß sind des Waldes Faunen verstoßen, Aber die Andacht leiht höheres Leben dem Stein. Näher gerückt ist der Mensch an den Menschen. Enger wird um [ihn, Reger erwacht, es umwälzt rascher sich in ihm die Welt. Sieh, da entbrennen in feurigem Kampf die eifernden Kräfte, Großes wirket ihr Streit, Größeres wirket ihr Bund. Tausend Hände belebt ein Geist, hoch schläget in tausend Brüsten, von einem Gefühl glühend, ein einziges Herz, Schlägt für das Vaterland und glüht für der Ahnen Gesetze; Hier auf dem theuren Grund ruht ihr verehrtes Gebein. Nieder steigen vom Himmel die seligen Götter und nehmen In dem geweihten Bezirk festliche Wohnungen ein; Herrliche Gaben bescherend erscheinen sie: Ceres vor allen Bringet des Pfluges Geschenk, Hermes den Anker herbei, Bacchus die Traube, Minerva des Ölbaums grünende Reiser, Auch das kriegrische Roß führet Poseidon heran, Mutter Cybele spannt an des Wagens Deichsel die Löwen, In das gastliche Thor zieht sie als Bürgerin ein. Heilige Steine! Aus euch ergossen sich Pflanzen der Menschheit, Fernen Inseln des Meeres sandtet ihr Sitten und Kunst, Weise sprachen das Recht an diesen geselligen Thoren; Helden stürzten zum Kampf für die Penaten heraus. Auf den Mauern erschienen, den Säugling im Arme, die Mütter, Blickten dem Heerzug nach, bis ihn die Ferne verschlang. Betend stürzten sie dann vor der Götter Altären sich nieder, Flehten um Ruhm und Sieg, flehten um Rückkehr für euch. Ehre ward euch und Sieg, doch der Ruhm nur kehrte zurücke; Eurer Thaten Verdienst meldet der rührende Stein: »Wandere, kommst du nach Sparta, verkündige dorten, du habest »Uns hier liegen gesehn, wie das Gesetz es befahl.« Ruhet sanft, ihr Geliebten! Von eurem Blute begossen, Grünet der Ölbaum, es keimt lustig die köstliche Saat. Munter entbrennt, des Eigenthums froh, das freie Gewerbe, Aus dem Schilfe des Stroms winkt der bläulichte Gott. Zischend fliegt in den Baum die Axt, es erseufzt die Dryade, Hoch von des Berges Haupt stürzt sich die donnernde Last. 7


Friedrich Schiller Aus dem Felsbruch wiegt sich der Stein, vom Hebel beflügelt; In der Gebirge Schlucht taucht sich der Bergmann hinab. Mulcibers Ambos tönt von dem Takt geschwungener Hämmer, Unter der nervigten Faust spritzen die Funken des Stahls. Glänzend umwindet der goldene Lein die tanzende Spindel, Durch die Saiten des Garns sauset das webende Schiff. Fern auf der Rhede ruft der Pilot, es warten die Flotten, Die in der Fremdlinge Land tragen den heimischen Fleiß; Andre ziehn frohlockend dort ein mit den Gaben der Ferne, Hoch von dem ragenden Mast wehet der festliche Kranz. Siehe, da wimmeln die Märkte, der Krahn von fröhlichem Leben, Seltsamer Sprachen Gewirr braust in das wundernde Ohr. Auf den Stapel schüttet die Ernten der Erde der Kaufmann, Was dem glühenden Strahl Afrika’s Boden gebiert, Was Arabien kocht, was die äußerste Thule bereitet, Hoch mit erfreuendem Gut füllt Amalthea das Horn. Da gebieret das Glück dem Talente die göttlichen Kinder, Von der Freiheit gesäugt, wachsen die Künste der Lust. Mit nachahmendem Leben erfreuet der Bildner die Augen, Und vom Meißel beseelt, redet der fühlende Stein. Künstliche Himmel ruhn auf schlanken jonischen Säulen, Und den ganzen Olymp schließet ein Pantheon ein. Leicht wie der Iris Sprung durch die Luft, wie der Pfeil von der [Sehne, Hüpfet der Brücke Joch über den brausenden Strom. Aber im stillen Gemach entwirft bedeutende Zirkel Sinnend der Weise, beschleicht forschend den schaffenden [Geist, Prüfet der Stoffe Gewalt, der Magnete Hassen und Lieben, Folgt durch die Lüfte dem Klang, folgt durch den Äther dem [Strahl, Sucht das vertraute Gesetz in des Zufalls grausenden Wundern, Sucht den ruhenden Pol in der Erscheinungen Flucht. Körper und Stimme leiht die Schrift dem stummen Gedanken, Durch der Jahrhunderte Strom trägt ihn das redende Blatt. Da zerrinnt von dem wundernden Blick der Nebel des Wahnes, Und die Gebilde der Nacht weichen dem tagenden Licht. Seine Fesseln zerbricht der Mensch. Der Beglückte! Zerriss’er Mit den Fesseln der Furcht nur nicht den Zügel der Scham! Freiheit ruft die Vernunft, Freiheit die wilde Begierde, Von der heil’gen Natur ringen sie lüstern sich los. Ach, da reißen im Sturm die Anker, die an dem Ufer Warnend ihn hielten, ihn faßt mächtig der fluthende Strom; Ins Unendliche reißt er ihn hin, die Küste verschwindet, Hoch auf der Fluthen Gebirg wiegt sich entmastet der Kahn; Hinter Wolken erlöschen des Wagens beharrliche Sterne, Bleibend ist nichts mehr, es irrt selbst in dem Busen der Gott. Aus dem Gespräche verschwindet die Wahrheit, Glauben und [Treue Aus dem Leben, es lügt selbst auf der Lippe der Schwur. In der Herzen vertraulichsten Bund, in der Liebe Geheimniß Drängt sich der Sykophant, reißt von dem Freunde den Freund. Auf die Unschuld schielt der Verrrath mit verschlingendem Blicke, Mit vergiftetem Biß tödtet des Lästerers Zahn. Feil ist in der geschändeten Brust der Gedanke, die Liebe

Dalla cava di pietra il macigno sta in bilico sull’ala della leva. Nelle fauci delle montagne si cala giù il minatore. L’incudine doma il ferro al ritmo dei martelli vibrati, sotto il pugno nodoso sprizzano le scintille dell’acciaio. Splendido il lino dorato avvolge il fuso danzante, sulle corde del filo risuona ronzando il telaio che tesse. Là nella rada lontana chiama il pilota, attendon le flotte che portano in terre straniere lo zelo della patria; altre vi attraccan felici con doni di Terre lontane, dall’albero su di maestra sventola il serto festoso. Vedi, qua ferve il mercato, cicogna di vita gioiosa, intreccio di lingue straniere risuona all’orecchio stupito. Il mercante ripone in emporio i raccolti della terra, quello che il suolo africano genera al torrido raggio, quello che l’Arabo tosta e produce l’estrema Thule, Amaltea di beni allietanti riempie la cornucopia. La Gioia genera qui al Talento divini rampolli, allattate dalla Libertà, crescono le arti del gusto, lo scultore rallegra la vista con l’imitazion della vita, e, animata dallo scalpello, parla la pietra vivente. Finte volte celesti poggiano su ioniche colonne e un Panteon tiene racchiuso tutt’un intero Olimpo, come il salto di Iris nell’aria, quasi freccia che scocca, sulla corrente scrosciante, lieve il giogo del ponte si posa. Ma nello studio silente traccia importanti circoli il saggio, riflette scrutando in fondo alla mente creativa, saggia il potere dei materiali, l’attrazione e la repulsione dei magneti, indaga il suono nell’aria, la luce nell’etere, cerca una legge infallibile per gli orrendi capricci del caso, cerca il punto di caduta dei fenomeni passeggeri. Corpo e voce ridona la scrittura al muto pensiero, la pagina parlante lo porta sulla corrente dei secoli, e svanisce dall’occhio attonito la nebbia dell’illusione e i notturni fantasmi dileguano alla luce che annuncia il giorno. L’Uomo spezza le proprie catene. Felice! E che spezzi le catene della paura, non i freni del pudore! Ragione chiama Libertà, Libertà le voglie selvagge, che dalla sacra Natura per sciogliersi lottan bramose, lo strappano nella foga, ah, dall’àncora ammonitrice che lo fissava alla riva, lo afferra possente il torrente; lo trascina nell’infinito, scompare alla vista la sponda, sulla cresta dell’onda si libra, privo di albero, il vascello; impallidiscono dietro alle nubi le stelle fisse del carro, non c’è più niente di stabile, erra Dio stesso nel petto. Dal discorso scompare la verità, la fede e la fiducia dalla vita, mente lo stesso giuramento a fior di labbra. Nella più fedele unione dei cuori, nel segreto dell’amore s’insinua il sicofante, strappa all’amico l’amico. Il tradimento rimira l’innocenza con sguardo fascinoso, uccide con morso avvelenato il dente del maldicente. Nel petto profanato il pensiero è venale, l’Amore

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Friedrich Schiller Wirft des freien Gefühls göttlichen Adel hinweg. Deiner heiligen Zeichen, o Wahrheit, hat der Betrug sich Angemaßt, der Natur köstlichste Stimmen entweiht, Die das bedürftige Herz in der Freude Drang sich erfindet; Kaum gibt wahres Gefühl noch durch Verstummen sich kund. Auf der Tribüne prahlet das Recht, in der Hütte die Eintracht, Des Gesetzes Gespenst steht an der Könige Thron. Jahre lang mag, Jahrhunderte lang die Mumie dauern, Mag das trügende Bild lebender Fülle bestehn, Bis die Natur erwacht, und mit schweren, ehernen Händen An das hohle Gebäu rühret die Noth und die Zeit, Einer Tigerin gleich, die das eiserne Gitter durchbrochen, Und des numidischen Walds plötzlich und schrecklich gedenkt. Aufsteht mit des Verbrechens Wuth und des Elends die Mensch[heit Und in der Asche der Stadt sucht die verlorne Natur. O, so öffnet euch, Mauern, und gebt den Gefangenen ledig! Zu der verlassenen Flur kehr’er gerettet zurück! Aber wo bin ich? Es birgt sich der Pfad. Abschüssige Gründe Hemmen mit gähnender Kluft hinter mir, vor mir den Schritt. Hinter mir blieb der Gärten, der Hecken vertraute Begleitung, Hinter mir jegliche Spur menschlicher Hände zurück. Nur die Stoffe seh’ich gethürmt, aus welchen das Leben Keimet, der rohe Basalt hofft auf die bildende Hand. Brausend stürzt der Gießbach herab durch die Rinne des Felsen, Unter den Wurzeln des Baums bricht er entrüstet sich Bahn. Wild ist es hier und schauerlich öd’. Im einsamen Luftraum Hängt nur der Adler und knüpft an das Gewölke die Welt. Hoch herauf bis zu mir trägt keines Windes Gefieder Den verlorenen Schall menschlicher Mühen und Lust. Bin ich wirklich allein? In deinen Armen, an deinem Herzen wieder, Natur, ach! und es war nur ein Traum, Der mich schaudernd ergriff mit des Lebens furchtbarem Bilde; Mit dem stürzenden Thal stürzte der finstre hinab. Reiner nehm’ich mein Leben von deinem reinen Altare, Nehme den fröhlichen Muth hoffender Jugend zurück. Ewig wechselt der Wille den Zweck und die Regel, in ewig Wiederholter Gestalt wälzen die Thaten sich um. Aber jugendlich immer, in immer veränderter Schöne Ehrst du, fromme Natur, züchtig das alte Gesetz! Immer dieselbe, bewahrst du in treuen Händen dem Manne, Was dir das gaukelnde Kind, was dir der Jüngling vertraut, Nährest an gleicher Brust die vielfach wechselnden Alter; Unter demselben Blau, über dem nämlichen Grün Wandeln die nahen und wandeln vereint die fernen Geschlechter, Und die Sonne Homers, siehe! sie lächelt nach uns.

getta via la divina nobiltà del libero sentimento. L’inganno ha usurpato i tuoi sacri tratti, o Verità, profanando le più amabili voci della Natura, che il cuore assetato si crea nell’impeto della gioia; il vero sentire si mostra appena nell’ammutolire. Sul podio si esalta il Diritto, nella capanna la concordia, lo spettro della Legge sta presso al trono dei regnanti. Una mummia può durare a lungo, per secoli e secoli, l’immagine falsa di vitale pienezza resiste finché la Natura non si desta e, con ferree mani pesanti, il Tempo e la Necessità non scrollan l’involucro vuoto come una tigre che ha rotte le sbarre di ferro e si ricorda ad un tratto, feroce, del bosco numidico. Si leva l’umanità col furore del crimine e della miseria e nelle ceneri della città ricerca la perduta Natura. O, apritevi, mura, e lasciate libero il prigioniero! Che torni salvato di nuovo al suo trascurato campo! Ma dove mi trovo? Sparisce il sentiero. Abissi scoscesi dinanzi a me e dietro di me mi bloccano il passo. Alle mie spalle lascio siepi e giardini, fidi compagni, alle mie spalle lascio ogni traccia di umano lavoro. Vedo soltanto cumuli di materie, dai quali la vita germoglia, il grezzo basalto attende la mano creativa. Schiumoso si getta il torrente fra le crepe della roccia, scava rabbioso un passaggio fra le radici dell’albero. Qui è tutto selvaggio e deserto. Nello spazio desolato solo l’aquila sta sospesa e annoda alle nuvole il mondo. In alto qui, fino a me, non c’è ala di vento che porti il perduto rumore d’umana fatica e di gioia. Sono davvero solo? Fra le tue braccia, di nuovo presso il tuo cuore, o Natura, ah! Era solo un sogno che m’invase di paura col tremendo volto della Vita; ma con l’affondar della valle la mia cupezza affondò. Riprendo con me la vita più pura dal tuo puro altare, riprendo il coraggio esultante della gioventù speranzosa. Cambia sempre la volontà regola e scopo, in forma di eterna ripetizione si svolgono le nostre azioni. Ma sempre giovane, in sempre mutata bellezza, o Natura devota, tu onori, pudicamente, l’antica Legge! Sempre te stessa, per l’uomo conservi in mani fidate, quel che il pargolo in culla, quel che il giovane ti confida, tu nutri al medesimo petto le cangianti molteplici età; sotto lo stesso azzurro, sopra lo stesso verde passeggiano generazioni, vicine e lontane, unite, e il sole di Omero –- vedi! – ci sta sorridendo. Traduzione di Nino Muzzi

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