Martine Audet La fisicità dei sentimenti

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La fisicità dei sentimenti A cura di NINO MUZZI

ossiamo addossarci al vento, come a una parete o a un albero? Possiamo aspettare i colori, possiamo dipingere gli aliti, si può udire quel che manca, si può sottrarre vuoto al vuoto, si possono ascoltare i corpi che perdono le loro notti? O è tutto un groviglio confuso di sensitività, come se queste s’intromettessero prepotenti nel nostro sentimento, esigendo una sua trasformazione in senso, nell’accezione più fisica del termine? In un’intervista del 2015 sulle “Lettres québécoises” la poetessa lo dice chiaramente: “Le poème s’écrit avec le corps entier: mains, yeux, os et aussi avec les poumons, les cordes vocales, les dents... avec tout ce qui crée la voix”. È questa la poesia di Martine Audet che lei stende su pagine alternanti di un libro dal titolo curioso: Les manivelles. La sua poesia non si ada-

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gia tranquilla sulla pagina bianca del libro, ma si appoggia un po’ qua un po’ là su due pagine affrontate. Se cercate Martine Audet su internet la troverete raccolta, compatta, esposta, mentre legge, là, in piedi, la sua poesia, senza eccedere in espressività vocale, senza un gesto di mimica, senza una pausa ad effetto. La sua voce non tradisce mai il testo, lo percorre soltanto fisicamente, senza accarezzarlo. Il suo atteggiamento sobrio e distante ha tutta l’apparenza di una virilità conquistata, ma la sua poesia è femminilmente connotata fino all’ultima sillaba: Udivamo i nostri corpi perdere le loro notti?

I nostri corpi, appunto, da cui mai si prescinde nelle sue poesie: Al risveglio le parole cambiavano di bocca

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dove anche le parole si fisicizzano e come insetti volano e si posano ora su una bocca, ora sull’altra. Ma le parole in fin dei conti sono adeguate, si adattano a descrivere una situazione? Convenaient-ils, les mots?

È una domanda retorica con risposta negativa sottintesa. Come fanno a essere adeguate le parole a descrivere un universo di sentimenti, “l’antica foresta dell’essere” che rifiuta la separatezza, la distinzione analitica, la semantizzazione per contrasto, ma si protende verso l’unità e la totalità di caotiche compresenze e fughe dal tempo, anch’esso vecchio separatore e archeologo degli avvenimenti umani? Il tempo a volte ci riportava delle ossa, il dettaglio di un movimento che sollevava le rose

© Daniel Dufour

Martine Audet


Martine Audet

le rose dell’Essere? Le rose dell’Amore? Le rose in tutta la loro valenza poetica, che parte da Ronsard per approdare a Celan? Ma c’è ancora un nemico latente della femminilità, la luce: Non potevamo battere la luce, né sulla lamina dello specchio guarire dei nostri gesti

La luce, al pari del tempo, scandisce e scanziona la realtà e nega virtualmente ogni momento poetico, che tende invece per sua natura a eternarsi. La Poesia non scorre, semmai evapora, come direbbe Rilke, evapora sempre verso altre e più alte sfere, cerca di durare e non corre verso un fine, ma si lascia abbracciare nell’attesa. Il lettore è colui che l’abbraccia e ne resta abbracciato. Musil diceva che il prendere, quando è violento e convinto, ti dà l’effetto di venir preso. E questo è anche l’effetto della lettura poetica. Ma la lingua tradisce sempre chi la usa e chi crede di aver con essa una familiarità che invece lo tradisce. Martine lo sa e dubita sempre del linguaggio: Je doute de ma langue, comme si ce n’était pas ma langue mais une langue seconde, étrangère. Je me sent dans l’approximatif, dans la faute, dans ma tête jamais exacte. Je voudrais toujours recommencer. Mais on ne peut recommencer et les commencements fatiguent.

Dunque le parole non sono adeguate, perché in qualche modo costringono il mondo in una definizione che risulta sempre insoddisfacente e, d’altra parte, ricominciare sempre daccapo affatica. Un personaggio de La Peste di Camus passa la sua vita a formulare sempre di nuovo una frase per descrivere una giumenta bianca, e la vuole talmente perfetta che ogni editore s’inchini di fronte a lui e dica: “Chapeau!”. Ecco come la nostra poetessa non vorrebbe trascorrere la

sua esistenza. Lei è consapevole dell’autonomia del linguaggio e sa che, musilianamente, il prendere (una parola) significa anche essere preso (da quella stessa parola). E non è solo il respiro della lettura su cui si è soffermata gran parte della critica, quella lettura poetica che Martine Audet non vuol delegare a nessuno, se non a se stessa, non è soltanto la scrittura materiale che si diffonde ritmicamente sulla pagina bianca e sente fortemente la presenza di Mallarmé, oltre che di Rilke e di Celan: è anche un generale senso del mondo che si erge a pensiero del mondo. Qui si scopre come la sua sensibilità femminile crea per forza intorno a sé presenze amiche, dialoganti. Quel nous che ricorre spesso nella sua poesia corrisponde al tu che ricorre ne Le occasioni di Montale. De certains rêves, nous possédions la langue. Du vide, comme d’un amour, nous épuisions l’élan extrême, puis sa désespérance.

Questo nous non coinvolge affatto il lettore, non è lui, perché la poetessa non vuole forme di connivenza che corromperebbero la purezza di una solitudine a due. Quel nous presuppone un partner a cui lei si rivolge e che noi lettori non dobbiamo conoscere, ma solo intuire. È una persona amata? È un amore furtivo? Qui si prescinde da un plurale retorico, che chiama in causa l’umanità tutta, quel noi è tutto privato. In compagnia di questo ignoto partner, la poetessa affronta il mondo cercando la notte nelle pieghe della luce, quella luce abbacinante che disegna crudelmente i confini delle cose. Forse è meglio la notte, mancandoci le parole che possano dischiudere il senso delle cose, forse è preferibile il silenzio alle parole, l’oscurità alla luce: La nuit était le corps abandonné aux plis des jours,

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la voix qui donne raison au coeur

Il silenzio e la morte non sono però il fine ultimo della sua poesia, anzi il fatto di sentire l’insufficienza sia della scrittura sia del gesto vitale non conduce la poetessa verso esiti nichilisti: la sua femminilità glielo impedisce. Lei cerca piuttosto di scavarsi un percorso di esistenza possibile. Nella sua poesia in varie forme si apre sempre uno spiraglio, un’intravvista possibilità di vita: Cherchions-nous, parmi les os, l’ombre à tracer des commencements? Quelle bête avait atteint le cri soudain, le soleil? Nous lui tendions la main par-dessus les vents. Les étoiles n’étaient plus et si le cœur parfois terminait nos nuits, ce n’était jamais que le refuge d’un battement, l’animal qui lèche la main réduite à une pensée.

Gli animali, gli alberi, le ossa, come elementi di un morto paesaggio, ci tendono la mano offrendoci uno spiraglio di esistenza: la poetessa lo intravvede, lo considera una possibilità, poi lo abbandona. C’è una rassegnazione in lei che ricorda le fanciulle “aperte alla caduta” della Settima Elegia Duinese di Rilke. Ma è una caduta necessaria, una sconfitta da cui lei saprà rialzarsi: Esistono dei grandi animali dimenticati che ingoiano le montagne? delle stelle sostituite via via che vi si attinge? Noi respiravamo appena, ma c’era in noi qualcosa che respirava, a ogni movimento, ritrovava il suo disordine, ad ogni abbandono, un po’ di spazio per la tua voce. Nino Muzzi


Martine Audet [Dans l’attente des couleurs]

[Nell’attesa dei colori]

Dans l’attente des couleurs, la pluie grattait le sol. Nous nous souvenions d’un fruit essuyé sur le revers du jour. Comment, comment nous adosser au vent?

Nell’attesa dei colori, la pioggia raspava il suolo. Noi ci ricordavamo di un frutto asciugato sul risvolto del giorno. Come, come addossarsi noi al vento?

[L’acier des plus hautes couleurs]

[L’acciaio dei più alti colori]

L’acier des plus hautes couleurs (ce vol furtif: le poème est une main), d’un même souffle le large, les neiges et des haleines peintes pour nous, un suspens, presque rien, nous entendions ce qu’il manque à l’amour. Cela faisait un peu moins de vide dans le vide.

L’acciaio dei più alti colori (quel volo furtivo: la poesia è una mano), di uno stesso soffio il largo, le nevi e gli aliti dipinti per noi, una sospensione, quasi niente, noi udivamo quel che manca all’amore. E ciò faceva un po’ meno di vuoto nel vuoto.

[Entendions-nous nos corps]

[Udivamo i nostri corpi]

Entendions-nous nos corps perdre leurs nuits? Faibles mains, feuilles, en s’éveillant les mots changeaient de bouche. Des cordes, près du cœur, nous criaient de baisser les yeux. Convenaient-ils, les mots?

Udivamo i nostri corpi perdere le loro notti? Fragili mani, foglie, al risveglio le parole cambiavano di bocca. Certe corde, accanto al cuore, ci gridavano di abbassare gli occhi. Erano adeguate, le parole?

[Il nous semblait]

[Ci pareva]

Il nous semblait parfois que nous avions aimé, que nos bras déployés, du seul trait des corneilles, aspiraient le vent, ses rasades solaires ou liquides, ses insultes aussi.

Ci pareva talvolta che noi avessimo amato, che le nostre braccia spalancate, in un sol gesto da cornacchie, respirassero il vento, le sue boccate solari o liquide, i suoi insulti stessi. 3


Martine Audet Per quale speranza? quale verità confitta nelle nostre sole presenze? Ripetevamo che non si esisteva. Le nostre fronti erano un po’ febbricitanti.

Pour quel espoir? quelle vérité enfouie en nos seules présences? Nous répétions que nous n’existions pas. Nos fronts brûlaient un peu.

[Le temps parfois nous rapportait des os] [Il tempo a volte ci riportava delle ossa] Le temps parfois nous rapportait des os, le détail d’un mouvement qui soulevait les roses, à répétition, nos plus rudes prières (leurs bêtes humides et affolées). Était-ce pour répondre du vide? du fin calibre des merveilles? Nous ne savions qui parlait, qui, aimé en nos nuits, frôlait la rouge découpe d’obscurité.

Il tempo a volte ci riportava delle ossa, il dettaglio di un movimento che sollevava le rose, a ripetizione, le nostre rudi preghiere (le loro bestie umide e sconvolte). Era per rispondere del vuoto? del fine calibro delle meraviglie? Noi non sapevamo chi parlasse, chi, amato nelle nostre notti, sfiorasse il rosso ritaglio d’oscurità.

[Nous écoutions la nuit se faire]

[Ascoltavamo il farsi della notte]

Nous écoutions la nuit se faire en chaque chose. Les morts amicales ensemble nous pleuraient (là-bas nos ongles sont argile, chevaux des neiges, purs captifs d’abandon). Aimer échappait-il à l’amour? Nous marchions encore longtemps tel un songe ébloui.

Ascoltavamo il farsi della notte dentro a ogni cosa. Le morti amiche ci piangevano insieme (laggiù le nostre unghie sono argilla, cavalli delle nevi, puri prigionieri d’abbandono). L’amare sfuggiva all’amore? Camminavamo ancora a lungo com’è di un sogno abbacinato.

[Nous ne pouvions battre du jour]

[Non potevamo battere la luce]

Nous ne pouvions battre du jour, ni sur la lame d’un miroir guérir de nos gestes, mais pour ne pas crier, pour ne pas crier, nous écartions les bras afin que, consolés du nombre ou de sa vérité, le ciel verse l’eau: des rires bruyants il est vrai.

Non potevamo battere la luce, né sulla lamina dello specchio guarire dei nostri gesti, ma per non gridare, per non gridare, aprivamo le braccia affinché, consolati dal numero o dalla sua verità, il cielo versasse l’acqua: risate assordanti è vero. 4


Martine Audet [Remuaient les corps vagabonds]

[Si agitavano i corpi vagabondi]

Remuaient les corps vagabonds, la sphère de nos chutes, à l’infini (ou était-ce vagin des poèmes endormis?), l’ancienne forêt de l’être. La forme de chaque feuille était complète. La solitude de chaque ombre était lumière. Pure découpe, oubli si lent d’agonie.

Si agitavano i corpi vagabondi, la sfera delle nostre cadute, all’infinito (o ciò era vagina delle poesie addormentate?), l’antica foresta dell’essere. La forma di ogni foglia era completa. La solitudine di ciascuna ombra era luce. Puro ritaglio, oblio sì lento d’agonia.

[Sous les lunes humides et lentement cires]

[Sotto le lune umide e lentamente cere]

Sous les lunes humides et lentement cires, nous léchions les feuillages, l’épais bourdonnement des forêts et, sans y prendre garde (des instruments étranges nous vidangeaient le cœur), nous courions, nous courions dépassant les morts mêlées d’anges ruisselants. Étions-nous si légers? Avions-nous failli?

Sotto le lune umide e poco a poco cere, noi leccavame il fogliame, il denso ronzio delle foreste e, senza badarci (strani strumenti ci spurgavano il cuore), correvamo, correvamo sorpassando le morti mischiate di angeli grondanti. Eravamo così leggeri? Avevamo fallito?

[De certains rêves]

[Di certi sogni]

De certains rêves, nous possédions la langue. Du vide, comme d’un amour, nous épuisions l’élan extrême, puis sa désespérance.

Di certi sogni possedevamo la lingua. Del vuoto, come di un amore, esaurivamo lo slancio estremo, poi la sua disperanza.

Nous avions vu la beauté (un orient au cœur des lettres exécutées), mais n’avions pu trouver de réponse au mal qui battait en nous et ce qui était resté dans nos yeux, avec le vent,

Avevamo visto la bellezza (un oriente nel cuore delle lettere eseguite), ma non avevamo potuto trovare risposta al male che pulsava in noi e quel che era rimasto nei nostri occhi, con il vento,

montait l’éclair.

cavalcava il lampo.

Da Les Manivelles, éditions de l’Hexagone, Montréal 2006.

Traduzione di Nino Muzzi

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Martine Audet a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a Martine Audet, nata a Montréal nel 1961, ha scritto diversi volumi di poesie, fra cui Orbites, pubblicato presso Le Noroît und Les Manivelles presso Hexagone. Le sue poesie appaiono regolarmente in antologie e riviste, soprattutto in Action poétique, Arbre à paroles, Exit, Immaginazione, Liberté e Skald. Ha preso parte a diverse manifestazioni letterarie e artistiche come alla Biennale del Val-de-Marne, al Festival Voci d’America, al Festival di Trois-Rivières e di Namur ed al Festival di Letteratura

Ceco. In occasione di un’intervista del 2015 ad una domanda sulle sue letture ha risposto così: “Chaque livre de poèmes, qui est une expérience véritable, est une poursuite du monde, une promesse, une trouée d’air. Je ne sais pas ce que j’y cherche, mais j’y trouve des passages, des relais, des volcans et des abîmes qui font circuler les mondes en moi. J’y respire. J’y déambule. J’y déplace mon regard. J’y tremble. Je me sens

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redevable, admirative, excitée, intriguée, fâchée, parfois complice, souvent nourrie”. Nella sua dedica sul frontespizio de Les manivelles Martine Audet ha scritto: A Nino Muzzi affinché possa mettere le sue parole nelle mie parole Io le ho risposto che metterò piuttosto le mie parole accanto alle sue. (n.m.)


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