O. von HorvĂ th
Un figlio del nostro tempo
A cura di N. Muzzi
Introduzione Una biografia ragionata Una volta Horvàth dichiarò in un’intervista di aver scelto il mestiere di scrittore perché era incapace di svolgerne altri. “Ho tentato ancora con tutta una serie di mestieri borghesi – ma non ne è venuto fuori niente di positivo – evidentemente ero nato per fare lo scrittore”. Una sorta di dichiarazione programmatica, come dire: non sono stato capace di entrare nella vita vera. E in questo non fu diverso da molti scrittori del suo tempo che scelsero di osservare il mondo con l’occhio del critico di costume, qualcosa di più profondo rispetto al critico sociale. Figlio di diplomatici dovette spostarsi in diverse città dell’impero austroungarico e studiare nei vari ginnasi di allora, fra Budapest, Belgrado, Monaco e Vienna, tanto per citare le principali città dove fece le sue esperienze giovanili di studio e di vita. Questa sua ubiquità lo rese un solitario osservatore del suo tempo, un tempo terribile, che scavalcando la Grande Guerra lo immette nell’incertezza weimariana e infine nell’orrore del fascismo. Nasce nell’Austria felix del 1901 a Fiume. Il padre è un diplomatico ungherese che si sposta nelle varie città dell’impero austroungarico. Dal 1902 al 1908, infatti, la famiglia si trova a Belgrado e a Budapest. E nel 1909 il padre viene inviato a Monaco, mentre Ödön inizia ad imparare l’ungherese a Budapest, quindi a partire dal 1913 inizia gli studi ginnasiali a Monaco e dal 1918 li continua fino alla maturità a Pressburg. Nel 1919 si sposta a Vienna e poi a Monaco, dove s’iscrive all’Università e frequenta corsi di Germanistica, di Arte e di Psicologia. La famiglia intanto acquista un appezzamento di terra a Murnau ed è lì che s’installerà anche lo scrittore fino al 1933, alternando questo soggiorno con altri soggiorni a Berlino, a Monaco, a Vienna, e viaggiando per l’Europa. Dal 1924 al 1931 nascono le sue maggiori produzioni teatrali fra cui interessante come anticipazione del Figlio del nostro tempo è da notare l’opera Sladek, der schwarze Reichswehrmann (Sladek, l’uomo nero dell’esercito imperiale) che parla delle formazioni paramilitari di destra e dei loro delitti durante la Repubblica di Weimar.. Ma la pièce che gli dette vera notorietà e gli valse il premio Kleist del 1931 fu Geschichten aus dem Wiener Wald (Storie del bosco viennese). Politicamente Horvàth tende a posizioni d’individualismo anarco-religioso. Le sue convinzioni erano nettamente orientate a sinistra, ma non volle mai aderire ad una formazione politica specifica. Lottava per la realizzazione di due obiettivi: quello di tirar fuori da sé l’elemento autentico: “Veramente io sarei totalmente diverso, ma ci arrivo solo raramente ad esserlo.” (tratto da Zur Schönen Aussicht,1926), e poi quello di smascherare l’ideologia perbenista e ipocrita, cercando la verità e l’autenticità proprio nel linguaggio: “Ho solo due cose contro cui scrivere: la stupidità e la menzogna. E due cose per cui combattere: la ragione e la sincerità.” (1932) L’uscita ufficiale dalla Chiesa cattolica nel 1931 ne fu l’inevitabile scelta conseguente. A partire dal 1933 subisce una vera e propria persecuzione per le sue opere, con atti di censura e proibizioni dall’alto, finché nel 1936 viene dichiarato cittadino indesiderato e deve lasciare la Germania, rifugiandosi a Vienna. Ma il suo impegno si concentra sempre di più sulla lotta contro il nazismo ormai dilagante che non gli permetterà più di vivere nella sua Austria dopo l’Anschluss (annessione alla Germania) del 1938. Da questo momento fugge nelle varie capitali libere: Budapest, Zurigo, Amsterdam, dove si trova il suo editore dell’esilio, e finalmente raggiunge Parigi per dare alcune disposizioni all’editore francese per la pubblicazione del suo romanzo Jugend ohne Gott (Gioventù senza Dio) che riscuoterà all’estero un grande
successo. Nel rientrare all’albergo sugli Champs Elysées viene colpito alla testa dal crollo di un grosso ramo d’albero strappato dal vento e muore sul colpo. Aveva trentasette anni.
Esperienze politiche Murnau non fu solo il luogo d’incontro di artisti all’epoca del Blauer Reiter , fu anche una roccaforte nazista fin dagli albori del movimento che alle elezioni del 1924 aveva conseguito una notevole affermazione e che nella tornata elettorale decisiva, quella del 1933, raggiunse la quota del 55 per cento. In quello stesso anno fu offerta la cittadinanza onoraria a Hitler che aveva scelto Murnau come luogo dove stilare il suo programma politico. I dissensi di Horvàth col nazismo si acutizzano nel 1931 quando testimonia in un processo contro i nazisti per una rissa fra loro e i socialdemocratici in una birreria di Murnau, la birreria Kirchmeir, dove lo scrittore era solito intrattenersi con i più semplici rappresentanti del popolo da cui traeva ispirazione per le sue opere, come per il romanzo Hannes, figlia di lavoratori, scritto sulla carta da lettere della birreria stessa e rimasto un abbozzo. La sua testimonianza durante il processo acquista per lui un aspetto doloroso, in quanto fra i nazisti che avevano alzato la mano nel saluto hitleriano lui aveva riconosciuto molti di quei conoscenti con cui aveva intrattenuto amichevoli rapporti in birreria. Con loro aveva parlato di argomenti quotidiani, ma sempre con un occhio alla formazione dei giovani in famiglia e a scuola. “Guardava ai giovani con affetto e voleva appoggiare con l’affetto la forza di rinnovamento della gioventù”, come affermava Wera Liessem, un’attrice sua amica. S’interessava per questo alla vita dei giovani in famiglia e provava un sincero orrore nel vedere nascere il fascismo nel cuore di un paesaggio idilliaco e in seno a famiglie di apparenti sani principi. E così indagò a fondo i motivi per cui un giovane (come l’eroe di questo romanzo) possa approdare ad una condizione psicologica che l’autore definì, altrove, di Verrohung (abbrutimento). Questa indagine occupò la mente dello scrittore fino al giorno della sua morte. E qui entriamo nell’ambito di quello speciale antifascismo horvàthiano, tanto diverso da quello brechtiano, che oggi, a distanza di quasi ottant’anni, appare più adeguato ai nostri tempi come risposta ad una gioventù inquieta, tentata dalle tante odierne forme di fascismo e di nazismo che caratterizzano il postmoderno, epoca musealizzante che di tanto in tanto veste i panni dismessi dalla Storia per trovare legittimazioni provvisorie e caduche alla propria non-esistenza. L’antifascismo di Horvàth è antidialettico. Nessuna forza esterna antagonista al fascismo, nessuna risposta di classe riuscirà a sconfiggere il fascismo che come un virus si è installato nell’animo di un giovane. Solo le forze interne del suo animo, solo la sua esperienza individuale portata fino all’estremo saranno in grado di “convertire” quel giovane alla democrazia e al rispetto dell’individuo. Questo fronte antifascista interno all’individuo sarà in grado di sconfiggere quell’individuo stesso per trasformarlo in qualcosa di migliore o portarlo addirittura al suicidio volontario, come estrema espiazione di quell’abbrutimento in cui era caduto. La trilogia rimasta incompiuta che era iniziata con Gioventù senza Dio e proseguita con Un figlio del nostro tempo percorre lo stesso sentiero, un sentiero che sarà poi anche quello di Heinrich Böll e ai nostri giorni di Uwe Timm. Un percorso individuale di redenzione o di conversione. Però c’è un’altra esperienza essenziale per il nostro autore negli anni che vanno dal 1920 al 1933. Si tratta dell’esperienza della Repubblica di Weimar. Quest’epoca, a differenza della Kaiserzeit (l’epoca imperiale) terminata con la fine della Grande Guerra, venne inquietata da un fenomeno economico fino ad allora sconosciuto: l’inflazione galoppante. Questo fenomeno non trovò immediate, efficaci misure di contrasto da parte dello Stato e si ampliò a dismisura, creando situazioni sociali abnormi, fra cui si segnalava la perdita di potere di acquisto del ceto impiegatizio e in generale dei redditi fissi, mentre i salariati si difendevano contrattando aumenti salariali. Tutto questo portò scompiglio in un contesto sociale caratterizzato prima della guerra da un certa stabilità delle figure sociali, quelle figure sociali che si presentavano in teatro quasi come marionette kleistiane. C’era il generale, il capitalista, il vescovo, l’operaio e tutta la gerarchia del ceto impiegatizio che costituivano l’ossatura “eterna” della società tedesca. Subentrando la Repubblica di Weimar all’epoca imperiale, le strutture sociali cominciano a traballare, il mutamento sociale si fa tangibile, l’impoverimento d’interi ceti sociali, il fallimento di tutta una serie
d’imprese marginali lo dimostrano. La società diventa più mobile, ma spesso verso il basso, verso il declino sociale generalizzato. E così l’epoca weimariana produsse, sia nella letteratura che nella vita reale, la figura dello Spieβer. Lo Spieβer è il piccolo borghese, ma è insieme qualcosa di più profondo e di più radicato nella cultura tedesca, che parla di Spieβer fin dai tempi di Goethe, per cui il termine viene comunemente e appropriatamente tradotto con “filisteo”. Lo Spieβer è il rappresentante di un medioceto impoverito spesso animato da un astio sociale e un desiderio di rivalsa nei confronti di quei ceti lavoratori che lottano per la conquista del potere o per la semplice autodifesa dall’inflazione e trovano talvolta soddisfazione alle proprie rivendicazioni, mentre lo Spieβer se ne sta in un angolo, privo di potere come un reduce mutilato della Grande Guerra. Horvàth a tal proposito scrive nel 1930 un romanzo dal titolo Der ewige Spieβer (L’eterno filisteo) dove accenna, spesso abbozzando soltanto i personaggi, al destino di una ragazza che “incontra” un mondo fatto di figure sociali tipiche dell’epoca weimariana: dal nobile decaduto, all’artista fallito, all’arrampicatore sociale, al mantenuto, all’arricchito di guerra e via dicendo, tutto in una inquietante instabilità che tende inevitabilmente a derive autoritarie. Quindi da un lato Murnau come crogiuolo di fascismo agrario, dall’altro Berlino come emblema della babelica Repubblica di Weimar, sono le due esperienze culturali fondamentali per capire Horvàth che le trasfigura però, e questo è il punto cruciale, in una sorta di affabulazione religiosa, in una sorta di mistero medioevale. Ormai la sistematica letteraria assegna Horvàth al genere teatrale che va sotto il termine di Volksstück e che in italiano viene tradizionalmente reso con Teatro popolare, ma una visione più intima della ricerca espressiva di Horvàth, che unisca sia il teatro che il romanzo, ci conduce alla scoperta di una dimensione molto più raffinata rispetto al mondo del Volksstück. Il Volksstück della tradizione viennese, di Raymund e Nestroy, usa un linguaggio popolare, colorito, che utilizza il dialetto, il gergo locale, dove la connotazione sociologica è legata al luogo specifico, al mondo piccino o di un villaggio o di una periferia urbana. Invece Horvàth scopre una ben altra dimensione del linguaggio, scopre il Bildungsjargon ovverosia il gergo istruito, che prescinde totalmente dal luogo per abbracciare un’intera società, un’intera cultura o se vogliamo un’intera subcultura. Questa elaborazione teorica da parte del nostro autore avviene in piena Repubblica di Weimar e non investe i piccoli centri, bensì soprattutto le grandi città, dove il sistema scolastico era diffuso e capillare e l’istruzione scolastica e parascolastica molto seguita, e soprattutto vi si annidava quella popolazione di Spieβer cui abbiamo accennato. Il gergo istruito La più grossa difficoltà di lettura di Horvàth consiste proprio nel fatto che nelle sue opere l’eroe lotta contro una nube, quindi non contro un antagonista concreto, inteso come singolo o come Classe o come Società o come Stato, bensì contro un condensato linguistico, elemento opaco e colloso, che l’autore definiva Bildungsjargon, il “gergo istruito” o “gergo dell’istruzione”, ma che significa in ultima istanza il gergo della cattiva coscienza. Questo gergo istruito è il prodotto dell’Europa inurbata che tende a dimenticare il dialetto per “nobilitarsi” gettandosi in un guazzabuglio di sciocchezze in prosa fiorita che vogliono passare per saggezze e che costituiscono l’idiomatica dell’ipocrisia, del genere: volere è potere, gente allegra il ciel l’aiuta, chi si rassegna è un perdente, l’uomo si fa da solo, la guerra, madre di ogni cosa, l’uomo, animale abitudinario, e via dicendo. Non solo l’idiomatica popolare, ma anche il “sapere ufficiale”, veicolato dalla scienza in pillole (oggi Wikipedia), entra a far parte di questo gergo apportandovi dei tecnicismi derivanti da varie discipline alla moda, com’erano a quel tempo la psicologia delle masse, l’etologia, l’astrofisica, l’antropologia religiosa, condite doverosamente di esoterismo, di antroposofia, di teorie astruse sulla terra cava e via dicendo. L’astrologia e l’orientalismo poi la facevano da padroni. Il regista Massimo Castri, mettendo in scena Fede, speranza, carità, parlava di una generica koinè metropolitana, nata dall’inurbamento industriale e dal conseguente superamento dei dialetti originari di provenienza, ma si tratta anche di un gergo del comando. La saggezza idiomatica delle nonne viene presa solo come strame su cui poggiare alcune verità apodittiche in quanto veicolate dai media: verità indiscutibili che affrontano la descrizione del mondo semplificata con nuovo piglio industriale. Un figlio del nostro tempo
In questa koinè menzognera si muove anche l’eroe di questo romanzo, il ragazzo disoccupato che nega il suo status sociale travestendosi da soldato e abbracciando tutta la mitologia negativa che rappresentava l’ossatura ideologica del nazismo. Horvàth entra nel protagonista e lo sdoppia, ne estrae la coscienza e gliela pone a fianco, come voce dialogante, e poi si ritaglia un piccolo spazio d’autore, dove si riserva, sempre per bocca del protagonista, le descrizioni dell’ambiente umano con lo stile della Neue Sachlichkeit (nuova oggettività) e le descrizioni dell’ambiente naturale con piglio espressionista. E tutto questo viene accompagnato da un uso dei tempi non in funzione classica, descrivendo gli avvenimenti rispetto all’ordine della loro successione, bensì in funzione espressiva, per cui il presente indica solo una messa in primo piano dell’avvenimento, e non si tratta solo di presente storico, è come se il tempo presente significasse la presenza del fatto nella mente del protagonista, come un primo piano mentale. Tutto l’ambiente umano in cui si trova immerso il padre del protagonista e la cassiera del Castello maledetto risentono dello stile volutamente modesto della nuova oggettività che rivendica una sua efficacia proprio in questa sua acribia descrittiva di un mondo privo d’ideali il quale si ostina a guardare “l’oggetto” con lo sguardo neutro, escludente ogni altra connessione col mondo: una realtà guardata coi paraocchi. Un oggetto che per ciò stesso nega il resto del mondo, diventa assoluto: la descrizione di una bottiglia risulta importante come quella di una cattedrale. Ma quando si abbandona alla descrizione del paesaggio, tutto si slarga in ampie pennellate espressioniste, gli aggettivi si fanno rari e potenti allo stesso tempo, il tutto diventa gigantesco e sublime, come nella descrizione del paesaggio spagnolo o nei silenzi della notte coperta di neve. La struttura narrativa del romanzo si articola in riquadri. L’elemento teatrale sempre presente in Horvàth funziona anche qui come un susseguirsi di capitoli-scene la cui caratteristica è quella della caduta verso il basso: ogni capitolo-scena si presenta in termini più tragici del precedente. La tragedia in Horvàth non è data da momenti di estrema crudeltà o da episodi cruenti. La tragicità di una situazione è data dall’annullamento delle possibilità di uscirne. Il nostro eroe percorre un itinerario irreversibile e quando ritorna sui suoi passi trova la situazione ancora peggiorata rispetto ai dati di partenza. Alla fine ogni porta si chiude e la minestra del convento risulta ancora più amara di quella dell’inizio. È interessante comunque notare lo stile dell’abbozzo iniziale del romanzo caratterizzato da una prosa poetica non lontana dallo stile di Brecht: Er lag in der Wiege und die Mutter sang: »Flieg Maikäfer, flieg, Vater ist im Krieg — —«
Lui stava nella culla e la madre cantava: “Vola maggiolino, vola, il padre è in guerra - -”
Und die Maikäfer flogen um den Apfelbaum und der Vater blieb im Krieg.
E i maggiolini volarono intorno al melo e il padre restò morto in guerra.
Da weinte die Mutter die ganze Nacht und hat nie mehr gesungen.
Allora pianse la madre tutta la notte e non ha più cantato.
Die Wiesen blühten und die Mutter wurd immer stiller.
I prati fiorivano e la madre diventava sempre più silenziosa.
Der Sommer kam und im Herbst war der Krieg zu Ende. Venne l’estate e in autunno la guerra finì. Die einen siegten, die anderen verloren. Aber der Mutter war das gleichgültig, denn sie hatte ihren Mann verloren. Sie bekam eine kleine Rente, aber die Rente war zu niedrig, von ihr konnte sie nicht leben. Und ihre Arbeit hatte sie auch verloren, denn nun kamen die Männer zurück und nahmen die Stellen der Frauen ein. Da ging sie ins Wasser. Ihr Name stand in der Zeitung unter der Rubrik »Die Lebensmüden des Tages«. Ja, sie war sehr müde. Es war nur eine kleine Notiz.
Gli uni vinsero e gli altri persero. Ma per la madre fu indifferente, perché aveva perduto il suo uomo. Ricevette una piccola pensione, ma la pensione era troppo bassa, non poteva viverci. E anche il lavoro aveva perso, perché ora erano tornati gli uomini e avevano preso il posto di lavoro alle donne. Così si buttò in acqua. Il suo nome era sul giornale nella rubrica “Gli stanchi della vita del giorno”. È vero, lei era molto stanca.
Era solo una piccola notizia
Nel 1937 Horvàth aveva detto: “Così mi sono posto l’obiettivo di scrivere, libero da turbamenti, la Commedia dell’Uomo, senza compromessi, senza pensare al guadagno. Non c’è niente di più schifoso di uno scrittore che si prostituisce. Non batto più il marciapiede e da ora in avanti voglio scrivere la mie commedie sotto il titolo di “Commedia dell’Uomo”, senza dimenticare comunque che in genere la vita umana è sempre una tragedia e solo in casi particolari una commedia”. Theologia angelorum I personaggi di questo romanzo fanno tutti parte di una Theologia angelorum. Il povero diavolo zoppo del padre, l’infermiera grassona, angelo barlachiano, la ragazza del castello maledetto, maga esperta di linee della vita? il mendicante, in cui si ricela Cristo, la moglie del capitano, misteriosa icona di madre fallica, il nano, genietto del male, il Capitano, capro espiatorio, segno sacrificale per eccellenza, e via dicendo sono tutte presenze angeliche o anche diaboliche (angeli caduti) con le quali si confronta e dialoga il nostro eroe. Le parole che dicono, sono da intendere spesso come messaggi da decriptare, ambigue parole che ritornano alla mente e che spesso vengono comprese in ritardo. Così le figure uscite dalla società tedesca dell’epoca crescono immediatamente a simboli, a figure di un discorso teologico in cui la presenza e la volontà di Dio, ambigue e oscure, si manifestano quasi animisticamente, attraverso oggetti parlanti, come l’uniforme, le statue dei santi, i riflessi delle vetrine, attraverso parole sentite nell’aria, attraverso linee tracciate sopra un foglio, senza senso. Eppure se la neve sferra i suoi attacchi, se il freddo assedia, se una matita dimenticata ti conduce alle lacrime di tuo padre, tutto questo vuol dire che il mondo dev’essere visto nei suoi significati profondi, letto proprio come linguaggio ambiguo. E quante pause di riflessione estraniante ci vogliono per la comprensione del testo! Ogni pagina una riflessione, un distacco dall’identificazione con la vicenda e coi personaggi, un ritorno alla mente sobria, analitica e critica, da compiere assieme al nostro eroe per giungere alla fine del romanzo a quelle parole rivelatrici del percorso compiuto dal protagonista, un percorso di svelamento dell’ideologia menzognera: “Signore caro, ma dove vive, sulla luna?” “No, non più” – In fondo si tratta di un romanzo di formazione, ma di formazione politica, si potrebbe aggiungere, se la politica accogliesse quelle esigenze umane che l’autore va incessantemente rivendicando per bocca del suo personaggio. Le icone del femminile Ci sono poi presenze femminili che sovrastano la mente del protagonista. Egli parte da una posizione di estremo sospetto nei confronti della donna: ogni ragazza per lui è un inganno. E poi invece se ne lascia attrarre e non sa come resisterle. C’è una cassiera di un baraccone, niente di speciale come bellezza, ma da subito presenza inquietante per lui. Scatta immediatamente una sorta di sfida, di prova di coraggio. Il fatto d’indossare una divisa diventa per lui un imperativo morale: il soldato deve vincere sulla ragazza. Ma non è così. La ragazza si trasforma da quel momento in poi in una sfinge che traccia linee su di una pagina bianca e poi sparisce per tutto il romanzo, lasciando la descrizione del suo destino alle ipotesi del nostro eroe, anche alle più strampalate. Chi è questa ragazza? Una maga o una madonna? Un’altra icona appare nella figura della grassa infermiera, quasi un grande angelo ammonitore che conosce le debolezze umane e prega per ogni destino individuale, ma non perdona l’errore, né la disubbidienza a Dio. Poi c’è un’icona del femminile che ricorre anche nella Metamorfosi di Kafka. Si tratta della donna con l’ermellino, immagine leonardesca appesa nel salotto del capitano e che in qualche modo domina tutta la casa, esattamente come la donna con il manicotto di pelliccia che sta appesa alla parete di camera del povero Gregor Samsa. Ma un altro Gregor forse traspare in lontananza, ed è il servo della Venere in pelliccia di Masoch…
Infine c’è una donna acrobatica che domina dal trapezio la scena del circo, “volando” con il fratello sulla testa degli spettatori. La Grande Guerra la priva del fratello e lei cade in rovina. Questo “angelo caduto” è capace però di rivelare la verità riguardo alla signorina-sfinge della cassa. Il nostro eroe si muove fra queste presenze piuttosto misteriose. Non sa chi sia veramente la signorina, non sa cosa voglia veramente la vedova del capitano, non capisce fino in fondo le ammonizioni della grassa infermiera, non capisce all’inizio l’ironia della donna-acrobata. Però si muove in questa sorta di rete di notizie e di indicazioni che escono dalla bocca di tutte queste icone. E vaga guidato da una voce femminile che lo attira e lo rassicura e gli dice che loro due non sono affatto estranei, ma che si conoscono da gran tempo. La ragazza, all’inizio oggetto di attrazione sessuale, si trasforma nella sorella, figura fragile da proteggere e da vendicare per i torti subiti. E lui, guidato da questa nuova idea di espiazione, medita la vendetta su se stesso, su quello che era stato e si uccide simbolicamente nella figura del ragioniere politicamente cinico, ma buon padre di famiglia! Uccide nel buon padre di famiglia il veleno dell’ideologia nazista. E finalmente ritrova l’innocenza dell’infanzia. Tutte quelle voci femminili sono state forse una sola voce, quella della madre morta quando lui era molto piccolo: “Mi sembra di aver sentito già prima quella voce, in qualche luogo, in qualche tempo – da una mezza eternità. E a un tratto mi accorgo che non so che voce aveva mia madre.” Di quell’infanzia lui ricorda l’abbraccio del freddo e così vi si abbandona per morirne assiderato. Horvàth usava dire che la sua era un’epoca fredda e la chiamava das Zeitalter der Fische (l’era dei pesci). N. Muzzi ***
La madre di tutte le cose Sono un soldato. Sono contento di essere soldato. Quando al mattino la brina copre i prati o quando la sera dai boschi esce la nebbia, quando il grano ondeggia e la falce brilla, che piova o nevichi o che il sole sorrida, giorno e notte – sempre mi torna la gioia quando sto in riga sull’attenti. Adesso, d’un tratto, ha ripreso senso la mia esistenza! Ero già disperato pensando a cosa dovevo fare della mia giovane vita. Il mondo era diventato privo di prospettive e il futuro talmente esanime... Lo avevo già sepolto. Ma ora l’ho ripreso, il mio futuro, non me lo lascio più scappare di mano: l’ho resuscitato dalla tomba! Appena sei mesi fa esso stava accanto al maggiore medico alla visita di leva. “Abile arruolato!” disse il maggiore, e il futuro mi batté la mano sulla spalla. Lo sento ancora oggi. E tre mesi dopo apparve una stella sul mio colletto vuoto, una stella d’argento. Perché avevo fatto centro sparando a ripetizione: ero il miglior tiratore della compagnia. Sono diventato caporale e questo significa già qualcosa. Soprattutto alla mia età. Perché io sono quasi il più giovane. Ma, veramente, solo d’aspetto. In verità, sono molto più vecchio, specialmente nell’intimo. E di ciò ha colpa una sola cosa, la disoccupazione che dura da anni. Quando lasciai la scuola, mi ritrovai disoccupato. Volevo diventare poligrafico, perché amavo le grandi macchine, quelle che stampano i giornali, i giornali del mattino, del pomeriggio e della sera. Ma non ci fu niente da fare. Tutto inutile! Neppure come apprendista potei farmi occupare in una qualche stamperia dei sobborghi. Nel centro neppure a parlarne! Le grandi macchine dissero:“Abbiamo già più personale del fabbisogno. Non essere ridicolo, levatelo dalla testa!” E io me lo levai dalla testa e anche dal cuore, perché ogni uomo ha il suo orgoglio. Anche un cane di disoccupato.
Toglietevi di torno, voi spregevoli ruote dentate, presse, pistoni, giunti di trasmissione! Via di torno! E così mi affidai alla benevolenza prima pubblica e poi privataEd eccomi là in una lunga fila ad aspettare un piatto di minestra. Dinanzi alla porta di un convento. Sul tetto della chiesa si ergevano sei figure di pietra. Sei santi. Cinque uomini e una donna. E io mangiavo a cucchiaiate la minestra. Cadeva la neve e i santi mettevano su alti cappelli bianchi. Io non avevo un cappello e aspettavo il disgelo. Il sole brillava più a lungo e i venti soffiavano più caldi Io mangiavo a cucchiaiate la minestra. L’ho rivisto ieri il primo verde. Gli alberi fioriscono e la donne diventano trasparenti. Anch’io son diventato trasparente. Infatti la mia giacca è logora e i pantaloni pure Quasi quasi la gente mi evita già. Molte idee mi passano per la testa, a dritto e a rovescio. Ad ogni cucchiaiata diventano più disgustose. Tutt’a un tratto mi fermo. Poso sul pavimento di pietra il piatto di latta, ancora mezzo pieno, mentre lo stomaco mi gorgoglia, ma non mi va più di mangiare. Non mi va più! I sei santi sul tetto guardano nell’aria azzurra. No, non mi piace più questa minestra! Giorno dopo giorno la stessa broda acquosa! Mi sento già male quando la vedo quella brodaglia da pezzenti! Buttala via, quella minestra! Via! Assieme alla sporcizia!I santi di sul tetto mi guardano con aria di rimprovero. Non guardate ammirati verso l’alto, aiutatemi piuttosto quaggiù in basso! Ho bisogno di una nuova giacca, di pantaloni interi - di una minestra diversa! Cambiamento, signori miei! Cambiamento! Piuttosto sto in piedi che in ginocchio, a mendicare! E così pensavano anche molti altri nella nostra fila, più vecchi e più giovani di me – non erano i peggiori. È vero, abbiamo rubato molto, spesso generi alimentari di prima necessità. Ma anche tabacco e sigarette, birra e vino. In genere visitavamo gli orti fuori città. Quando l’inverno si avvicinava e i felici proprietari a casa stavano seduti in cucina, al caldo. Due volte sono stato beccato, una volta in una baracca sul lago. Ma me la svignai senza essere riconosciuto. Correndo sul ghiaccio all’ultimo momento. Se il poliziotto mi avesse raggiunto, adesso sarei un pregiudicato. Ma il ghiaccio mi volle bene, il poliziotto ci cadde lungo disteso. E i miei documenti rimasero immacolati, bianchi come un giglio. Sui miei documenti non c’è una sola ombra del passato. D’altronde sono una persona per bene ed era solo la mia situazione priva di speranze che mi faceva oscillare come una canna al vento –per tutti quei sei anni foschi. Il piano diventava sempre più inclinato e il cuore sempre più triste. Sì, ero già molto amareggiato. Ma oggi son di nuovo allegro. Perché oggi conosco la mia appartenenza. Oggi non conosco più la paura di non aver niente da mangiare l’indomani. E quando gli stivali sono logori, vengono riparati, e quando l’uniforme è lacera, ne ricevo una nuova, e quando arriva l’inverno ci vengono dati i mantelli. Grandi mantelli caldi. Li ho già visti. Non mi serve più che il ghiaccio sia benevolo! Adesso tutto è solido. Finalmente in ordine. Addio, preoccupazioni quotidiane! Adesso c’è sempre qualcuno accanto a te. A destra e a sinistra, giorno e notte.
“Attenti” suona il comando. E noi sull’attenti, in fila ordinata. In mezzo al cortile della caserma. E la caserma è grande come un’intera città, non la si può abbracciare con lo sguardo. Siamo la fanteria con artiglieria leggera e pesante e adesso in parte motorizzata. Io ancora non sono motorizzato. Il capitano passa in rivista la nostra fila, noi lo seguiamo con lo sguardo e quando lui è passato oltre il terzo soldato, allora torniamo a guardare dritto dinanzi a noi. Rigidi e compatti. Così ci hanno insegnato. Ordine ha da essere! Noi amiamo la disciplina. Essa è un paradiso per noi dopo tutte le incertezze della nostra gioventù disoccupata – E amiamo pure il capitano. È un uomo sensibile, giusto e severo, un padre ideale. Ogni giorno ci fa l’ispezione e controlla che tutto sia in ordine. Non solo se le teste siano pulite, no, ci guarda attraverso l’uniforme fin dentro l’anima. Questo lo sentiamo tutti. Sorride raramente e nessuno l’ha ancora visto ridere. Talvolta ci fa quasi pena, ma non si può fingere di fronte a lui. Ognuno di noi vorrebbe essere come lui. Ognuno di noi. Invece il nostro tenente maggiore è tutt’altro tipo. Anche lui è giusto, è vero, però spesso si fa prendere da una stizza terribile e rimprovera a urli uno per la minima inezia o per nulla di nulla. Ma noi non gliene vogliamo, lui è vero che è nervoso, ma è a causa dell’eccessivo lavoro. Vorrebbe passare fra gli ufficiali superiori e sta lì a studiare giorno e notte. È sempre con il libro in mano e legge tutta quella roba. A paragone con lui il nostro tenentino è solo un cucciolo. È appena qualche anno più anziano di noi, avrà sì e no ventidue anni. Spesso piacerebbe anche a lui rimproverarci urlando, ma non si fida completamente. Malgrado tutto gli vogliamo bene, perché è uno sportivo coi fiocchi, il nostro miglior velocista. Corre con stile ammirevole. In generale l’esercito ha forti somiglianze con lo sport. Quasi quasi si potrebbe dire che è lo sport più bello, perché qui non si tratta solo di segnare un record. Qui si tratta di molto di più, si tratta della Patria. C’è stato un tempo in cui io non amavo la Patria perché era governata da gentaccia senza patria e dominata da oscure forze sovranazionali. Non è a loro che debbo adesso la mia vita. Non è merito loro se io adesso posso marciare in fila ordinata. Non è merito loro se io oggi ho riacquistato una Patria. Un Regno forte e potente, uno splendido modello per il mondo intero! E un giorno dovrà dominarlo, il mondo intero! Io amo la mia Patria da quando ha riacquistato il suo onore! Perché anch’io l’ho riacquistato, il mio onore! Non devo più mendicare, non devo più far la fila. Oggi tutto è diverso. E diventerà ancora tutto diverso. La prossima guerra la vinciamo noi. Garantito! Tutti i nostri capi anelano, è vero, sempre alla pace, ma io e i miei camerati ci facciamo l’occhiolino. I nostri capi sono astuti e intelligenti, riusciranno a mettere gli altri nel sacco, perché possiedono l’arte della menzogna come nessun altro. Senza menzogna non c’è vita. Noi stiamo sempre lì a prepararci. Ogni giorno ci mettiamo in fila e poi usciamo dal portone, a passo cadenzato. Marciamo attraverso la città. I civili ci guardano felici, salvo alcune eccezioni di gente che non ci degna di uno sguardo, come se fosse irritata contro di noi. Ma si tratta sempre di uomini anziani che comunque non contano più niente. Comunque ci disturba che guardino da un’altra parte o che si fermino a un tratto senza senso davanti ad una vetrina, solo per non essere costretti a vederci. Finché alla fine però ci vedono, finché non notano appunto che noi ci rispecchiamo nella vetrina. Allora si arrabbiano di brutto. Sissignori, voi eterni attardati, messi da parte, col vostro vuoto bisbigliare di pace, non ci potrete evitare! Guardate pure i dolciumi, i giocattoli, i libri e i reggiseno – ci vedrete dappertutto! Noi marciamo anche attraverso le vetrine! Lo sappiamo bene che non vi piacciamo. Io vi conosco – da cima a fondo! Anche mio padre è un tipo del genere. Anche lui guarda da un’altra parte quando mi vede in marcia.
Non può sopportarci, noi soldati, perché odia l’industria bellica. Come se fosse il principale problema del mondo che un fabbricante di armi debba o no fare i suoi guadagni! È lecito che guadagni se rispetta le forniture! Cannoni di prima qualità, munizioni e tutto il necessario – Per noi giovani di oggi non è più un problema. Perché abbiamo capito che il massimo nella vita di un uomo è la Patria. Non c’è niente di più importante. Tutto il resto è senza senso. O nel migliore dei casi una cosa secondaria. Quando alla Patria va bene, va bene anche ai suoi figli. Quando alla Patria va male, non va certo male a tutti i suoi figli, ma cosa significano quelle poche eccezioni di fronte a tutta la vivente massa del Popolo? E alla Patria va bene solo se viene temuta, quando si presenta come un’arma potenteE quest’arma siamo noi. Anch’io ne faccio parte. Però ci sono ancora delle persone testarde che non vedono questi ovvi nessi, in quanto son sempre prigionieri delle loro cadenti ideologie che hanno le loro radici nel diciannovesimo secolo. Anche mio padre è uno di questa vecchia guardia. Una triste guardia. Un esercito sconfitto. Mio padre è un uomo fasullo. È stato tre anni prigioniero di guerra, a partire dal 1917. È ritornato a casa solo alla fine del 1919. Io stesso sono nato nel 1917, sono un cosiddetto figlio della guerra, ma non mi posso ricordare di tutta quella guerra mondiale. E neppure del tempo immediatamente successivo, il cosiddetto dopoguerra. Solo ogni tanto in modo confuso. I miei ricordi risalgono all’incirca al 1923. Mio padre di mestiere fa il cameriere, un raccattamance. Sostiene di essere decaduto socialmente a causa della guerra, perché prima del 1914 lavorava esclusivamente in locali di lusso, mentre ora è finito in un modestissimo locale di periferia. Infatti zoppica un po’ dai giorni della sua prigionia e un cameriere zoppo non ci può stare in un locale di lusso. Però, malgrado la sua tragedia privata, non ha nessun diritto di maledire la guerra, perché la guerra è una legge naturale. Mio padre di principio è un brontolone. Quando abitavo da lui nella sua stanza, litigavamo ogni giorno. Lui maledice sempre le persone che hanno i soldi, e intanto ha nostalgia di loro –come s’inchinerebbe ancora volentieri dinanzi a loro, pensando sempre e soltanto alla mancia! Sì, è un uomo completamente fasullo e non mi piace. Se per caso non fosse mio padre, mi chiederei: ma chi è questo tipo ripugnante? Una volta gli dissi: “Non aver paura della prossima guerra, ne sarai esentato a causa dell’età!” Sul principio rimase molto tranquillo e mi guardò come se volesse ricordarsi qualcosa. “Sì”, continuai, “tu non ci rientri più”. Continuava a restare calmo, ma d’un tratto mi lanciò una terribile occhiata d’odio, come stesse in agguato. E poi cominciò a urlare: “Va bene, vacci alla tua guerra!” gridava. “Vacci e impara a conoscerla! Salutamela tanto! Cadi, se ti piace! Cadi!” Me ne andai. Avvenne tre anni fa. Lo sento ancora urlare e mi rivedo per le scale, mentre ad un tratto mi fermo e torno indietro. Avevo dimenticato la mia matita, per l’appunto volevo andare alle redazioni, dove stanno appesi nelle bacheche i giornali con gli annunci economici, per trovarvi forse un qualche lavoro –sì, allora credevo ancora alle fiabe. Quando rientrai nella stanza, mio padre stava alla finestra e guardava fuori. Era il suo giorno libero. Si voltò un attimo – “Ho dimenticato la matita” dissi. Annuì e tornò a guardare fuori. Che sguardo era? Ha pianto? Uscii di nuovo. Piangi, piangi, pensai, ne hai tutti i motivi, perché la tua generazione è quella che ha la colpa maggiore del fatto che adesso siamo nella cacca – (a quel tempo ero ancora disoccupato e non avevo futuro). La generazione dei nostri padri era attaccata a quegli stupidi ideali del diritto dei popoli e della pace eterna, senza capire che persino nel mondo animale ci si mangia a vicenda. Non c’è diritto senza la forza. Non si deve pensare, bensì agire! È la guerra la madre di tutte le cose.
Con mio padre non ho più niente da spartire. Non lo sopporto più, quell’eterno lamento! Dover sempre sentire: “Prima della guerra erano bei tempi!” – lì divento una bestia. Quei tuoi bei tempi non mi sarebbero andati a genio! Me li posso immaginare esattamente dalle vecchie fotografie. Avevi un appartamento di tre stanze, non eri ancora sposato e menavi una vita da scapolo spensierato, come si diceva a quei tempi. Con le donnine e il gioco delle carte. Tutti avevano i soldi. Era un’epoca depravata. La odio. Ognuno poteva lavorare, guadagnare, nessuno doveva patire la fame, nessuno aveva preoccupazioni – Un’epoca ripugnante! Io odio la vita comoda! Avanti, sempre avanti! March – march! Noi andiamo all’assalto e saliamo a riparo su un’altura per dominare la strada che scorre giù sotto. All’inizio son solo manovre. Ma ben presto si farà sul serio, se ne vedono i segni sempre più chiari. E la guerra che domani verrà sarà tutta diversa dalla cosiddetta Guerra Mondiale! Molto più grande, possente, brutale – comunque una guerra di annientamento! Tu o io! Guardiamo la realtà in faccia. Non la evitiamo, non ci facciamo illusioni – Ora sparano gli obici. In vaste lontananze splendenti. Appena li si sente. Per ora sparano a vuoto. Giù sotto in strada appaiono due ragazze in bicicletta. Loro non ci vedono. A un tratto si fermano e si guardano intorno. Poi una di loro va dietro un cespuglio e si accuccia. Noi ridacchiamo e il tenentino dietro di me ride leggermente. Il maresciallo guarda con il binocolo. Adesso c’è un ronzio su nel cielo. Un aviatore. Vola via passando su di noi. La ragazza non si fa disturbare, guarda solo in su. Vola molto alto, l’aviatore, e non la può scorgere. Lei questo lo sa. A noi non ci pensa. E intanto saremo sempre noi della fanteria a decidere le sorti della guerra – e mai l’aviazione! Anche se si parla tanto di aviatori e poco di noi fantaccini. Anche se loro hanno le uniformi più eleganti – vedremo se valgono quello che s’immaginano di valere! Loro pensano di ridurre un Paese in macerie dall’alto e che noi fanti abbiamo solo le macerie da occupare – senz’alcun pericolo! Una migliore Polizia. Aspettate! Vedremo se noi siamo superflui! O di secondo rango! No, non mi piacciono gli aviatori! Tutta una feccia con la puzza sotto il naso. E le donne, anche loro, sono stupide, desiderano solo un aviatore. È il loro ideale supremo! Anche quelle due laggiù nella strada – ecco, ora si sbracciano per salutarlo tutt’entusiaste. Tutte quelle vacche vogliono ballare con un aviatore! Bestie, non salutate – lui guarda anche voi dall’alto in basso, perché voi non siete capaci di volare! Sissignore, noi siamo qui a ingoiare la polvere delle strade e a marciare nel fango! Ma ci penseremo noi a far sì che il fango lanci la sua polvere fino al cielo! Non abbiate paura! “Per amor del cielo!” strepita il tenentino. Cosa succede?! Scruta verso il cielo – Lassù, verso l’aviatore!
Sta precipitando! “L’ala sinistra è partita”, dice il maresciallo guardando attraverso il cannocchiale. Precipita, precipita – con una scia di fumo dietrosempre più rapido. Noi guardiamo in su esterrefatti. E mi viene in mente: strano, non hai appena pensato: cadi giù - ? “Loro sono spacciati”, dice il tenentino. Tutti eravamo balzati in piedi. “Copertura!” ci grida il maresciallo. “Copertura!” - - Tre bare poggiano su tre affusti di cannone, le tre bare degli aviatori. Pilota, controllore, marconista. Facciamo il presentatarm, rulla il tamburo e la musica suona la canzone del buon camerata. Poi arriva l’ordine: “In preghiera!” Abbassiamo la testa, ma non preghiamo. Lo so che fra noi non c’è più nessuno che prega. Facciamo solo finta. Una pura formalità. “Ama i tuoi nemici” – questo non ci dice più niente. Noi diciamo: “Odia i tuoi nemici!” Con l’amore si va in cielo, con l’odio si va avanti - Perché non abbiamo più bisogno di un’eternità in cielo, da quando sappiamo che il singolo non conta niente – diventa qualcosa solo in fila sull’attenti. Per noi esiste una sola eternità: la vita del nostro popolo. E solo un dovere celeste: morire per la vita del nostro popolo. Tutto il resto è superato. Ci mettiamo in fila. In ordine, uno per uno. Io sono il nono da destra, a partire dai più alti. Il più alto è uno e ottanta, il più basso uno e cinquantasei, io uno e settantaquattro. Proprio la giusta misura, né troppo alto, né troppo basso. Così, visto dal di fuori, mi piaccio. Il castello maledetto Oggi è domenica. Siamo in libera uscita. Dalle quattordici alle ventiquattro. Solo la truppa resta indietro. Ieri ho ricevuto la mia seconda stella e oggi per la prima volta farò la mia uscita con due stelle sul colletto. La primavera si avvicina, la si sente già nell’aria. Siamo in tre, due commilitoni e me. Portiamo guanti bianchi e parliamo di donne. Io son quello che parla meno, mi tengo le mie cose. Le donne sono un male necessario, com’è noto. Ne abbiamo bisogno per assicurarci un numero possibilmente alto di famiglie numerose, senza tare ereditarie, valide per la Patria dal punto di vista della razza. Per il resto però causano solo pasticci. Su questo argomento potrei scriverci un poema! In special modo le classi più anziane e soprattutto quelle più esperte. Ti vengono dietro perché hai un fisico sportivo e se ti metti al loro servizio, allora diventano arroganti. Ti dicono: ragazzo sciocco, immaturo, finisci di crescere e cose del genere. Oppure si fanno avanti con la vita interiore e allora diventano completamente insopportabili. Una donna che non è più giovane non ha diritto di avere un’anima, dev’essere contenta se qualcuno la guarda. Non ha nessun diritto di correre dietro a qualcuno con sentimenti come per esempio la gelosia o il cosiddetto affetto materno. L’anima, nel migliore dei casi, è un privilegio delle ragazze giovani. Un tale romanticismo se lo possono eventualmente solo permettere nel caso che siano carine. Ma anche le carine romantiche, già in tenera età, desiderano solo un tipo coi soldi. Eccolo qui tutto il problema. Io mi muovo più volentieri in compagnia di maschi.
Un mio commilitone dice che trecento anni fa un grande filosofo si sarebbe chiesto se le donne possano considerarsi degli esseri umani. Si potrebbe mettere in dubbio, lo penso anch’io. Col genere femminile non sai mai come ti trovi. Non ci trovi né fedeltà, né fede, arrivi sempre dopo, un nido di bugie, e via dicendo. E per di più ti dovresti occupare anche della loro vita intima - Perché è questo quello che pretendono. Ma questa non è un’affermazione per un uomo vero. Già, già, le donne-padrone son tutt’un capitolo a parte! Ti mettono al mondo e poi ti mandano all’altro mondo. – Le strade del centro sono vuote, perché qui ci sono solo negozi e palazzoni pieni di uffici e oggi sono chiusi. I lavoratori del braccio e della mente fanno festa a casa, mangiano, dormono, fumano – oggi non faranno gite, perché piove ancora una volta. È vero che piove solo un po’, ma comunque la cosa è insicura. C’è silenzio nel centro cittadino, una vera pace, come se fossero tutti morti. Ascoltiamo il suono dei nostri passi, ogni passo risuona sull’asfalto. E torno ad accorgermi che ci rispecchiamo. Nelle vetrine di lusso. Ora attraversiamo un busto. Ora attraverso un’aragosta e un prosciutto, tanto delicatoOra attraverso delle calze da donna. Ora attraverso libri e poi perle, belletti, piumini da cipria. – Stracciateli tutti e calpestateli! C’è un’aria insipida nel centro cittadino e noi ci dirigiamo giù al porto. Laggiù c’è sempre movimento. Certo non si può vedere il mare aperto, che comincia molto più a largo, ma qui all’interno stanno attraccate le imbarcazioni straniere con i marinai neri e gialli. Percorriamo l’ampio viale fin giù al porto. Il viale diventa sempre più ampio e chiassoso. A destra e a sinistra iniziano le attrazioni – grandi e piccole scimmie, ammaestrate e no. Tirassegni e slotmachine, un palazzo danzante e la donna cannone. Una pecora a cinque zampe, un vitello a due teste – giostre accanto a giostre, altalene accanto ad altalene e un modesto otto volante che fa pena. Fattucchiere, mangiafuoco, ingoiaspade, cetrioli sottaceto e molti gelati. Fenomeni umani e animali. Arte e sport. E in fondo in fondo il castello maledetto. Al primo tirassegno passiamo oltre, ma al quarto o al quinto non possiamo rinunciare, sentiamo l’obbligo di sparare. Far centro per noi è un gioco da ragazzi e la signorina che ci carica il fucile sorride piena di rispetto. Quando sono i soldati a sparare c’è sempre tanta gente che guarda. Anche ora è così. Specialmente due ragazze sono presenti, ridono ad ogni colpo, come se valesse per loro. Così stimolano la nostra curiosità. A me non piacciono, però i miei commilitoni attaccano con loro. Io non voglio affatto essere d’impedimento, come la quinta rota del carro, e li lascio al loro destino. Loro vanno a ballare, io resto indietro, da solo. Li guardo da dietro. No, quelle due ragazze non mi potrebbero interessare – Una ha le gambe storte e quell’altra non ha affatto gambe e dove dovrebbe stare il didietro non c’è niente. E la prima ha un dente davanti nero e un reggiseno sporco. No, mi disturbano questi dettagli nell’amore, io per l’appunto sono molto esigente. Entro all’ippodromo. Vi cavalcano due altre signorine e un bambino. Suona la musica, la frusta schiocca, i vecchi cavalli corrono in cerchio. Il bimbo ha paura, le signorine son molto prese dalla cavalcata. Il bambino perde il suo berretto da marinaio e piagnucola, le due signorine sorridono. Le loro gonne sono tirate su e si può vedere la pelle nuda dove finisce la calza. Mi potrebbero anche piacere, soprattutto la più alta! Ma una signorina a cavallo inganna. Perché una signorina su un cavallo può facilmente piacere, non ci vuol molto. Però solo quando è scesa a terra si nota di che cosa si tratta realmente – io le conosco già queste delusioni! Adesso scendono di sella e la più alta continua a piacermi. E la più bassa pure. Ma hanno già un cavaliere.
Un ometto basso, un miserabile ratto. Le due si attaccano al ratto e sorridono: “Vogliamo cavalcare ancora – prego, prego!”, “Tutte le volte che volete”, dice il ratto. Do un’occhiata al listino dei prezzi. Una cavalcata costa cinquanta. E tutte le volte che volete? Troppo cara per me. Ma così fanno appunto le belle donne! Meglio un vecchio ratto che puzza di soldi che un giovane aitante che non possiede nulla, al di fuori delle due stellette sul colletto. E anche i guanti bianchi non servono a nulla. Lascio l’ippodromo e mi aggiro lentamente fra le baracche, senza meta. A destra c’è l’uomo con la testa di leone e a sinistra la donna barbuta. Son diventato un po’ triste. L’aria è tiepida – sì, è primavera e di notte i gatti fanno il loro concerto. Li sentiamo anche dalla caserma. Scende la sera e all’orizzonte se ne va il giorno con un saluto viola. Dietro di me è già notte. E mentre continuo a vagare mi viene incontro un pensiero sgradevole: mi colpisce il fatto che quel ratto faccia parte del mio Popolo. E allora mi vedo nel cortile della caserma mentre sto in piedi e giuro di morire per la Patria, sempre per il mio Popolo. Quindi anche per questo miserabile ratto? No, smettila! Non ci pensare! A forza di pensare si arriva a pensieri malsani. I nostri capi sceglieranno per il meglio! Ed ecco un altro pensiero che già conosco. Mi accompagna per un pezzo e non vuole lasciarmi. “Veramente”, dice, “tu non ami nessuno” – Sì, è vero. Non sopporto anima viva – Neppure me stesso. Veramente odio tutti. A parte il nostro capitano. – E continuo a girovagare lungo le baracche fino alla fine e raggiungo il castello maledetto con le sue guglie e torri e bastioni. Le finestre sono inferriate e i draghi e i diavoli vi fanno capolino. Dagli altoparlanti echeggia silenzioso un valzer. Si tratta di una vecchia musica. Questa musica viene sempre coperta da risate e gridolini. Devono provenire dalla gente che è dentro. Si deve sentire dall’esterno che dentro si divertono. Ma io lo conosco già. Tutt’una truffa! Si tratta di un disco di grammofono, ecco tutta questa gioia – solo per attirare il pubblico. Non c’è niente dietro, e io non ci casco, in questi palazzi della follia dove si dovrebbe imparare a conoscere il terrore. Mi sembra tutta una sciocchezza. Me ne voglio andare e lancio uno sguardo verso l’entrata, senza pensare a nulla di speciale, così, meccanicamente. E mi fermo. Oppure mi parve solo di fermarmi e invece proseguivo? Possibile. Però dopo due passi mi fermo davvero e guardo di nuovo da quella parte. È già buio e io sto in piedi nella notte. Alla cassa del castello maledetto siede una giovane donna. Non si muove. Non arriva nessuno. E per un attimo tutto mi resta lontano, tutto il mondo, e penso che il cuore mi si fermi. Non si muove foglia, solo dal castello maledetto esce sussurrando quella vecchia musica. Ha grandi occhi, quella giovane donna, ma non erano i suoi occhi, non era la sua bocca, non i suoi capelli – penso che sia stata una linea – Macché dico?! Pure sciocchezze! So soltanto che mi fermai come se a un tratto si alzasse una parete dinanzi a me – Nonsenso, sciocchezze! Va’ avanti! Vo avanti e inciampo. Su cosa?
Su niente. Non c’è niente per terra. Ma ora ride la ragazza perché sono inciampato. Lei lo ha visto e continua a ridere. Io la guardo con attenzione. Ora non guarda più da questa parte. Prende una matita e scrive – oppure fa finta per non guardarmi? Perché non mi vuole vedere? Probabilmente perché non le piaccio – Lei ne avrà già uno, un qualche re della baracca. Un qualche funambolo, ingoiaspade o pagliaccio – Passa oltre! Vado, ma non arrivo lontano. Solo dall’altro lato della strada. Là c’è un gelataio e ci compro un gelato. Posso ancora vedere esattamente il castello maledetto e la donna che scrive. Continua a non venire nessuno. Io lecco il gelato. Non sa di niente. È così freddo che mi vengono i denti lunghi come quelli di un cavallo vecchio. Fa proprio male – Per quale ragione mi sono comprato questa porcheria colorata? Non mi piace il gelato! E mentre i denti mi diventano sempre più lunghi, confesso a me stesso che me lo sono comprato solo per poter osservare ancora per un po’ la donna dall’altra parte. Strano, non so ancora se mi potrebbe piacere – non so ancora neppure che aspetto abbia in piedi. Conosco di lei solo quella parte che si vede al di sopra della cassa. Forse si tratta solo di una cosiddetta bellezza seduta – E quando sta in piedi forse è più piccola, rispetto a quando sta seduta, oppure tre volte più grande – Forse è totalmente sproporzionata. Vabbe', buona notte! Ora mi sta di nuovo guardando. Stavolta un po’ più a lungo. E sorride di nuovo – perché? Perché sto leccando il gelato col volto così truce? Finalmente l’ho finita questa porcheria. A questo punto sento il gelataio alle mie spalle: “Ancora una porzione?” “Sì”, rispondo, ed eccomi in mano un’altra porzione. Ma che mi succede?! Sono totalmente rimbecillito?! Che mangio qui una seconda porzione, quando la prima mi ha dato la nausea?! Mi rendo totalmente ridicolo con questo gelato, sto lì come uno scolaretto e intanto ho due stellette d’argento al colletto – E dalla rabbia già volevo scaraventare per terra il gelato, quando dall’oscurità uscì fuori un capitano di Cavalleria. Grazie a Dio lo notai all’ultimo minuto e gli feci il saluto. Il capitano ringraziò e passò oltre. Ora ride – è chiaro! Perché ho fatto il gesto di deferenza col gelato in mano, e questo è ovviamente ridicolo. Anch’io sono sciocco la mia parte e lei ride, però le risate dall’altoparlante coprono le sue. Non la sento. Ma ora comincio ad averne abbastanza! Ora non m’importa più di niente! Ora faccio piazza pulita! E subito, a tamburo battente! Scaravento il gelato per terra da farlo spiaccicare e attraverso la strada. Dritto dritto. Verso il castello maledetto. In direzione della cassa. Direttamente verso di lei. Si vedrà se continua a ridere quando mi vede arrivare! Mi vede arrivare e smette di ridere. Aha! Mi guarda solo con occhi spalancati via via che mi avvicino – con occhi spalancati e seri. Hai paura di me? Sta’ attenta che ora arrivo io!
Ho fatto già i tre gradini e ora sto davanti alla cassa. Lei guarda in basso, vedo solo i suoi capelli. Sono morbidi e delicati. Sulla cassa c’è solo un foglio di carta. Prima non ci scriveva, ci tracciava solo dei ghirigori e tutta una serie di righe – Allora dico: “Un biglietto d’ingresso” – suonava quasi severo e mi dispiacque. “Prego”, dice lei. Trema la sua mano? O tremo io? Lei mi cambia i soldi. Prima non ho mai visto cambiare i soldi con tanta eleganza. La linea, la linea – mi vien fatto continuamente di pensare. E poi entro nel castello maledetto. All’inizio tutto si fa buio, si deve avanzare a tentoni –tastando a destra e a sinistra. E mentre vado tastando mi sento costretto a pensare alla sua voce, come poco fa ha detto “prego”. Mi sembra di aver sentito già prima quella voce, in qualche luogo, in qualche tempo – da una mezza eternità. E a un tratto mi accorgo che non so che voce aveva mia madre. Non mi ricordo più neppure di mia madre. Morì subito dopo la guerra mondiale di una febbre quando ero ancora bambino – Spesso quando sto di guardia da solo la rivedo come una antica nuvola, specialmente di notte. Quello che è stato mi riprende. Quindi mi vedo fra tavolo e letto. Avrò tre anni, non di più – La finestra è ancora alta per me, non posso guardar fuori, se qualcuno non mi solleva. E quando guardo fuori, non vedo ancora niente. Oppure me ne sono dimenticato? Oggi so soltanto che entrava uno spiffero dalla finestra – Ma nella stufa non ardeva il fuoco. Nel dopoguerra spesso manca il carbone. “È freddo”, questo è il mio primo ricordo. La prima sensazione che mi è rimasta. Strano che finora non mi sia venuto in mente il fatto di non sapere che voce aveva mia madre – bumm! Fra poco cadevo! C’è un avvallamento, ma solo sulla parte sinistra, di modo che con la gamba sinistra si sprofonda più giù rispetto alla destra. Una cretinata! Finalmente la gamba sinistra è tornata a pari con la destra, ora sprofondo con la destra. È davvero una cretinata! Che bel divertimento! In questo momento lei sta seduta alla cassa e ride di sapermi qui dentro. Comunque ha una bella bocca – ammesso che niente mi stia ingannando. Che aspetto ha veramente? Strano, l’ho osservata abbastanza a lungo e ancora non lo so esattamente – Perché l’ho divorato quel gelato? Che sciocco sono! Però, fermi! Lei ha tenuto il capo quasi sempre abbassato, perché stava tracciando le sue linee, per evitare di guardarmi. Ecco, appunto, quelle linee! Sono loro colpevoli del fatto che ora stia via via inciampando – su tappeti semoventi, ponti oscillanti, passando accanto a casse da morto, in cui giacciono figure di cera decapitate, circondato da spettri, impiccati, suppliziati con la ruota – ma io non ho paura di niente. Altrimenti mi farei davvero pena. Svolto all’angolo e incontro uno scheletro. L’osservo da vicino. Dovrebbe essere uno scheletro originale ed ecco come siamo quando è finito il nostro fascino. E quando son finite le linee – Do la mano a quella mano ossuta. Oltrepassata la porta seguente mi ritrovo di nuovo all’aperto. Accanto alla cassa. Ma non c’è più seduta la mia linea. Bensì una vecchia strega. La guardo interdetto e lei indovina i miei pensieri.
“Mia figlia è andata via”, dice in tono quasi di scherno. “Dove?”, mi viene di dire quasi meccanicamente. “Al cinema”. Le porgo un cenno di saluto e me ne vado anch’io. Dietrofront! Attraverso le baracche via fino al centro della città – svelto o lento non lo so più. A un tratto sento una fitta. Mi fermo. “Perché non hai chiesto alla vecchia in quale cinema è andata la figlia? Sei ancora in tempo, idiota!” Torno in fretta sui miei passi. Ma il castello maledetto è già chiuso e non c’è più nessuno in vista. Sì, oggi è ormai troppo tardi – Ma aspettate, aspettate, io ritorno! Domani ritorno qui, subito alle quattordici – non c’è niente da ridere! Arrivederci, voi linee – Mi scappa sempre da ridere, cosa mi succede? La luna splende, l’aria è tiepida e i gatti attaccano i loro concerti. E quando attraverso il cortile della caserma, lo vedo davanti a me, il castello maledetto, con le sue guglie e torri e bastioni. Le finestre sono inferriate e draghi e diavoli vi fanno capolino. Un giorno, quando l’epoca in cui viviamo sarà trascorsa, il mondo si accorgerà solo allora di quanto essa sia stata possente. Inattesi spesso i più grandi avvenimenti riversano le loro ombre su di noi, ma non ci colgono impreparati. Non c’è ombra del mondo con cui noi sempre non faremmo i conti. Non abbiamo timore! Nella notte del giovedì ci fu un allarme improvviso. Balzammo dal sonno e ci schierammo con tutto l’armamentario. In fila ordinata, uno accanto all’altro. Erano le tre di notte. Lento il capitano ci passa in rassegna – Più lento del solito. Osservò che tutto fosse in ordine – che ora son finite le manovre. Il momento serio è arrivato più svelto di quanto sognavamo. La notte è ancora fonda e il grande momento si avvicina – Fra poco si attacca. C’è un Paese che noi conquisteremo. Un piccolo Stato e il suo nome apparterrà presto alla Storia. Una creatura incapace di vivere. Dominato da un governo penoso, che si richiama sempre al cosiddetto punto di vista del diritto – Un punto di vista ridicolo. Adesso il capitano sta di fronte a me e nel momento in cui mi guarda, non posso far a meno di pensare: conoscessi il nome di lei, le scriverei direttamente al castello maledetto. “Gentile Signorina”, scriverei, “sarei venuto la prossima domenica volentieri, ma purtroppo il dovere me lo impedisce. Ieri era giovedì e oggi è già venerdì, io devo partire di sorpresa per un affare urgente, di cui comunque nessuno deve sapere, pena la morte. Quando ritorno ancora non lo so. Ma Lei resterà sempre la mia linea –” Non posso frenare un sorriso e il capitano ha un leggero sobbalzo. “Cosa c’è?” chiede. “Agli ordini, niente.” Ora sta già di fronte al mio vicino. Che abbia anche lui una linea? Mi passa a un tratto per la testa – Non importa! Avanti! La patria chiama e non guarda giustamente alla vita privata dei suoi figli. Si comincia. Finalmente! – Un giorno, quando l’epoca in cui viviamo sarà trascorsa, il mondo solo allora saprà misurare quanto siamo stati pacifici. Ci strizziamo l’occhio. Perché noi amiamo la pace, esattamente come amiamo la nostra Patria, cioè sopra tutto al mondo. E non facciamo più nessuna guerra, noi epuriamo soltanto. Ci strizziamo l’occhio. C’è un Paese e noi lo prenderemo.
Un piccolo Paese, e noi siamo dieci volte più grandi – quindi sempre avanti energicamente! Chi osa, vince – soprattutto con una superiorità schiacciante. E specialmente se si attacca di sorpresa. Subito un colpo in testa – senza tante dichiarazioni di guerra! Senza tante polverose formalità! Noi facciamo piazza pulita, pulita – Di notte, come ladri, abbiamo superato questo ridicolo confine di Stato. Quelle poche guardie di dogana sono state disarmate in un attimo – domani fanno quattro settimane da quel giorno, ma la capitale è già in mano nostra. Oggi siamo i padroni! Nella valle bruciano i villaggi. Sono avvolti dalle fiamme, circondati da un’aspra catena di montagne. Bravi aviatori! Anche se personalmente non vi sopporto, per correttezza dobbiamo ammettere che siete voi ad aver fatto tutto il lavoro! Niente vi è sfuggito, anche se nascosto fra le pieghe del terreno. Tutto avete cancellato – bravi aviatori! Bravi! Bombardate questa robaccia, riducetela in macerie e cenere, finché non ci sia più niente, solo noi! Perché noi siamo noi. Avanti! Con animo lieto seguiamo le vostre tracce – Stiamo marciano attraverso un altipiano. Intorno a noi si spalancano abissi e giù a valle scrosciano le acque. È una serata tiepida con bianche nuvolette sull’orizzonte rosa. Due ore fa abbiamo preso cinque civili, trovati con lunghi coltelli. Li impiccheremo, la pallottola è sprecata per questa subdola marmaglia. Ma la montagna è nuda e tutta rocce, non c’è neppure un cespuglio. Li portiamo con noi, prigionieri, e aspettiamo il prossimo albero. Sono legati tutt’e cinque ad una corda. Il più vecchio avrà sessant’anni, il più giovane diciassette. La lingua che parlano è orribile, non si capisce una parola. Le case che abitano sono basse, strette e sporche. Non si lavano mai e hanno il fiato puzzolente. Ma le loro montagne son piene di metalli e la terra è fertile. Altrimenti tutto manca. Anche i cani qui non valgono niente. Rognosi e pieni di pulci vagano fra le macerie. Nessuno sa dare la zampa. Intorno a noi si spalancano abissi e giù a valle scrosciano le acque. Passano a volo due cornacchie. Noi stiamo attraversando l’altipiano. Ritornano le cornacchie – È stata una serata tiepida e adesso arriva la notte. Un giorno, quando i giornali potranno riferire veridicamente delle nostre battaglie, allora anche i poeti della Patria si dovranno ravvedere. Il genio del nostro Popolo li sovrasterà e coglieranno nel segno, quando ci loderanno e apprezzeranno per quei modesti eroi che eravamo. Ché anche qualcuno di noi ha morso l’erba verde. Ma neppure i parenti più prossimi ne sono stati informati, per poter essere orgogliosi del loro sacrificio. Le liste delle perdite erano segrete e lo restarono a lungo. Solo clandestinamente filtrava, il sangue – La quinta settimana della nostra avanzata il nostro capitano cadde sul campo d’onore. Cadde in circostanze veramente strane. In generale il capitano era diventato un altro uomo da quando avevamo attraversato la frontiera. Era come si fosse scambiato con un altro. Trasformato dalla testa ai piedi. Noi ci chiedemmo subito se non fosse malato, se non fosse oppresso da un dispiacere che lui teneva nascosto. Il suo volto diventava sempre più grigio, come se ad ogni passo sentisse un dolore. E il 5 giugno arrivò la fine. Senza sospetto ci avvicinavamo ad un villaggio distrutto da cui a un tratto parte una scarica di colpi verso di noi. Ci buttiamo a terra e cerchiamo copertura.
No, non era una scarica – era una mitragliatrice. Conosciamo la musica. Sta nascosta di fronte a noi nel fienile. Intorno tutto è bruciato, l’intero villaggio – Aspettiamo. Laggiù è visibile una figura che attraversa la casa carbonizzata e sembra cercare qualcosa. Uno dei nostri la prende di mira e preme il grilletto – la figura lancia un grido e cade. È una donna. Ora è distesa là. I suoi capelli sono morbidi e delicati, mi passa subito per la mente e per un solo attimo devo pensare al castello maledetto. Mi era tornato in mente. E allora successe qualcosa di assolutamente inatteso, a tal punto che dallo stupore a tutti venne meno la parola. Il capitano si era alzato e stava andando lentamente verso quella donna – Del tutto in piedi e con aria stranamente sicura. Oppure si dirige verso il fienile? Lui avanza, avanza – Gli spareranno – lui va incontro a morte sicura! È diventato pazzo?! Nel fienile sta nascosta una mitragliatrice – Ma cosa vuol fare?! Continua ad avanzare. A un tratto tutti gli gridiamo: “Signor Capitano! Signor Capitano!” Suona come se avessimo paura – Sissignore, abbiamo paura e gridiamo – Però lui continua ad avanzare. Non ci ascolta. A quel punto salto su e gli corro dietro – non so neppure io com’è che mi son trovato senza copertura – Ma io lo voglio tirare indietro a forza, lo devo tirare indietro! A questo punto attacca - la mitragliatrice. Vedo come il capitano stia barcollando, cada giù – completamente arreso – E sento un cocente dolore al braccio – o era il cuore? Mi butto per terra e utilizzo il capitano come copertura. È morto. Allora vedo nella sua mano qualcosa di bianco – È una lettera. Gliela prendo di mano e sento ancora sparare – ma ora mi protegge il mio capitano. “A mia moglie”, sta scritto sulla lettera. La infilo in tasca e poi non so più niente. Il mendicante Non era il cuore, era solo il braccio, però, purtroppo, l’osso. Era stato stritolato. Venne estratta la pallottola e poco a poco i frantumi ricrebbero ricompattandosi. Per lunghe settimane stetti ricoverato nel lazzaretto, all’inizio ancora in terra nemica, in seguito venni trasportato in patria. Perché la ferita era più complicata di quanto si pensasse all’inizio, e io avevo la febbre alta. Speriamo di poter tornare a muovere il braccio correttamente, perché altrimenti sarei costretto a lasciare l’esercito e allora che mi resterebbe da fare? Non possiedo nulla. Nemmeno un centesimo. La riconoscenza della patria sarebbe certa, di ciò ne sono convinto, ma le pensioni d’invalidità sono minime – non ci si vive. E poi ci sono i vestiti, le scarpe... I tempi passati a cui da tanto non pensavo più, riaffiorano di nuovo – La neve comincia a incalzare. Pensavo di avervi dimenticati, voi, giorni della mia gioventù senza futuro –
E invece ecco di nuovo il fumo della minestra che mangiavo a cucchiaiate ed ecco i santi sul tetto della chiesa che tornano a guardarmi. Lasciatemi in pace! Ma non se ne vanno. Mi passano accanto, muti e maligni, sotto un cielo di durezza. Allora ecco apparire i piccoli annunci economici delle grandi testate, le baracche abbandonate in riva al lago, il poliziotto e il ghiaccio sottile – È una vergogna! Io sto gelando. Nevica sulla tomba del mio futuro – “Sta ancora febbricitando”, sento dire da una voce di donna. È l’infermiera grassa, che mi accudisce. La vedo volentieri, perché sorride quasi sempre, leggermente, come se fosse la persona più felice del mondo. Apro gli occhi e intravvedo accanto alla grassona un ufficiale. Mi sta osservando. Io non lo conosco. È un tenente maggiore e mi rivolge la parola. Mi sento dire che io per il valoroso gesto di estremo coraggio con cui volevo salvare il mio capitano, sono stato encomiato e promosso di grado. E così mi dà una stelletta, la mia terza stelletta d’argento. Lui chiede se provo dei dolori acuti, ma non aspetta la risposta, bensì procede oltre, come se fosse convinto che il mio braccio ritorni a posto e che davanti mi si apra un futuro radioso. Forse accenna anche ad una stelletta d’oro – Ma ad un tratto mi viene molto vicino e parla pianissimo per non farsi sentire dall’infermiera. Mi dice che non dovrei dimenticare di aver combattuto non come soldato, bensì come cosiddetto volontario. Infatti in terra nemica secondo la versione ufficiale non ci sarebbe nessuna guerra, ma solo una terribile rivoluzione, e che da parte nostra non ci sarebbero laggiù unità militari di sorta, bensì, come abbiamo detto, solo dei combattenti volontari a fianco di tutti coloro che hanno voglia di costruire e contro masse subumane organizzate – “Lo sapevo già, Signor Tenente Maggiore” rispondo io. “Glielo volevo solo ricordare” aggiunge lui e si stacca di nuovo da me. “Signor Tenente Maggiore!” gli grido dietro “Come andiamo noi?” Lui sogghigna. “Alla grande! Per la verità voi volontari avete già vinto, ora si tratta solo di far piazza pulita.” Aha, piazza pulita – Anch’io non mi posso trattenere dal sogghignare. L’ufficiale se ne va e l’infermiera sistema il mio cuscino. Poi mi porta latte e pane. Fuori canta un uccellino. Guarda – guarda, quindi abbiamo già vinto. Eh sì, furbi bisogna essere, se si vuol essere utili alla Patria. Furbi e non solo valorosi. Adesso verrà installato un qualche governo fantoccio, di creature corrotte, e il Paese che volevamo conquistare ci cadrà in grembo – abile mossa! Me ne rallegro. Se almeno il braccio mi tornasse a posto! Cosa non darei per questo – io penso proprio tutto! Ma se non hai niente, mi viene da pensare. Cosa mai puoi dare per il tuo braccio? Dieci anni della mia vita. Ridicolo! Come fai a sapere quanto vivrai? Son solo vuote promesse! E penso, se credessi ancora a quello che mi è stato raccontato a scuola, allora adesso potrei dire: io rinuncerei alla mia beatitudine celeste e mi farei bruciare tranquillamente nell’inferno. Ma purtroppo non ci sono né angeli né diavoli – Fermo! Ho un fremito. A cosa stai pensando in questo istante? “Niente diavoli?” Mi viene da sorridere. Infatti davanti a me rivedo il castello maledetto. Le finestre sono inferriate e i draghi e i diavoli vi fanno capolino Mi viene ancora da sorridere.
Quando sarò di nuovo in piedi – sì, allora andrò un’altra volta laggiù. Non può essere molto distante, perché anche l’ospedale si trova nelle vicinanze del porto, là dove stanno attraccate le navi straniere con i marinai gialli e neri. Forse, potendo guardare dalla finestra, lo scorgerei, il mio castello maledetto. Ma la finestra è alta e io posso guardar fuori solo se qualcuno mi solleva, come se tornassi ad essere piccolo piccolo. Sì, ecco, stai ancora a sedere per terra e hai tre anni, non di più. “Fa freddo”, questo resta il tuo primo ricordo – Se solo potessi riavere il mio braccio! Oh, se lo potessi riavere! Solo quando si perde ci si accorge di ciò che si possedeva! Speriamo di ritrovarlo, il mio braccio – Lo voglio ricercare dappertutto, voglio rimettere insieme tutti i frammenti e ricomporli con grande maestria, come fosse un gioco da bambini – “Sta ancora febbricitando”, sento la voce dell’infermiera. La vorrei vedere – Accanto a lei si trova il medico. Mi osserva soltanto e fa “Hm”. Poi passa oltre – Nella mia sala ci sono ancora diciassette degenti. Tutti volontari feriti. Sull’attenti in fila, uno per uno. Qualcuno può già alzarsi e giocare a carte. O a scacchi. Qualcuno è già quasi guarito del tutto. Soltanto a uno manca una gamba. Lui non la recupera più. Due sono già morti. Il primo dieci giorni fa, il secondo stanotte. Mi sono svegliato all’improvviso e ho visto che sul suo comodino brillavano delle candele. Al centro ci stava un crocefisso. Era tutto silenzio. E tutti gli altri dormono? Nessun altro lo vede, solo io? No, tutti avevano gli occhi aperti, ma non si muovevano. C’era sempre più silenzio. L’infermiera stava in piedi di fronte al comodino e pregava. E ad un tratto mi venne di pensare: in questo momento questo volontario sta dinanzi al suo giudice supremo. Così mi hanno insegnato allora. E l’infermiera prega per lui. Prega per la sua anima immortale – Cos’ha fatto lui di male? La grassa infermiera dice al giudice supremo: “Ti prego di essere clemente con lui” – Che delitti ha compiuto? Ma per quale motivo dovrebbe essere clemente, quel tuo giudice supremo? Questo bravo ragazzo è caduto per la Patria, cosa gli si può chiedere di più?! Ha offerto la sua vita, questo basta! Perché tutti i suoi peccati privati vengono cancellati, se uno muore per la vita eterna del suo popolo – notalo bene, sorella! Stai ancora pregando? Ehi, prega piuttosto per me, affinché il mio braccio ritorni sano, sarebbe più sensato! Aspetta, aspetta, grassona, te lo spiegherò ancora alla prossima occasione buona! – E l’occasione venne. Dopo pochi giorni. La grassona portò latte e pane. Il braccio non è migliorato. “Sorella”, le dico, “preghi una volta anche per me, perché possa guarire”. Mi ascolta e mi lancia uno sguardo tagliente, ma solo un istante. La mia richiesta non era abbastanza devota? D’altronde non era intesa seriamente, la volevo solo mettere in imbarazzo – per quale motivo? Per cattiveria. Non ci credo che una preghiera serva a qualcosa, però mi sforzo di guardare la cosa con serietà. “Io prego sempre per tutti i miei malati”, dice e ricomincia a sorridere come sempre: “Anche Lei non la trascuro.” “E crede che possa guarire?” “Questo non si sa”.
Ah sì, penso io, e divento sempre più cattivo. “Con la preghiera si può chiedere soltanto a Dio” continua a dire l’infermiera, “però nessuno può giurare che Lui ci esaudisca, in quanto da semplici mortali non conosciamo tutto il contesto.” “Quale contesto?” “Dio sa tutto, sente tutto e non distoglie lo sguardo da nessuno, giorno e notte, perché per ciascuno Lui ha un progetto.” “Per ogni singolo?” Mi guarda stupita. “Naturalmente”, risponde lei, “l’importante è seguire i suoi comandamenti. Li ha dimenticati – no?” I suoi comandamenti? La guardo fisso. Le sue domande sono così dolci come se ciò non la stupisse affatto. Sta là in piedi grassa e sicura di fronte a me e la sua contentezza mi diventa sgradevole. Mi confonde. “Certo che conosco i suoi comandamenti”, dico e mi viene da ghignare leggermente, “per esempio: ama i tuoi nemici –” “Ecco”, mi ribatte e si fa a un tratto serissima, quasi severa. “Ama i tuoi nemici, ma odia l’errore.” L’errore? Resto in ascolto. Lei ricomincia a sorridere, come se non avesse detto niente. Mi annuisce soltanto – amichevolmente, molto amichevolmente – Arriva il medico. Si accosta al mio letto. E io gli chiedo: “Dottore, come va il mio braccio?” Fa un’espressione amara e non dà risposta. Quindi passa oltre – Lo seguo con lo sguardo e tutt’a un tratto mi prende la paura, una terribile paura. L’infermiera mi sta ancora accanto. Mi osserva. Vorrei piangere, ma mi limito a stringere i denti. Chiudo gli occhi e vedo bagliori. Tutto è confuso – Divento sempre più debole. Bagliori, bagliori! Ho l’impressione che il mio braccio non ritornerà più a posto – La confusione fa cerchio intorno al mio letto e nel centro appare un colle. Un dolce colle. Sul colle sta in piedi un angelo. Mi aspetta e tiene il mio braccio nella mano sinistra. Nella destra porta una spada. I fiori sbocciano, ma è un freddo tremendo. E mi viene da pensare, lo chiederò a Dio il perché di questo freddo. Perché si può anche dialogare con Dio, mi sovviene. Mi ricordo sempre più chiaramente che bisogna promettergli qualcosa in cambio del suo aiuto – Esatto, in cambio del suo aiuto! Bisogna dargli qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche un’inezia, lui ti è riconoscente per ogni cosa – Come se fosse un mendicante. Donagli qualcosa – Dona al primo mendicante che incontri, quando potrai di nuovo uscire – donagli un tallero! No, non uno – tre, quattro, cinque! Sissignore, cinque talleri! Con cinque talleri ci si può comprare un sacco di cose, senza allargarsi oltre la coperta che abbiamo– Cinque talleri sono tanti per me. Li voglio offrire al buon Dio affinché l’angelo mi restituisca il braccio. Bagliori, bagliori --I giorni trascorrono e prendono con loro le notti. Quando viene il medico, non ha più quelle espressioni amare.
Il braccio migliora. Oggi lo posso già muovere, certo con precauzione – Però migliora! Migliora, migliora! Se non mi facesse così male, abbraccerei con lui il mondo intero, tanto appare roseo di nuovo il mio futuro! Presto lascerò questo letto, se tutto procede senza ricadute. Procede, procede – L’infermiera mi porta la mia uniforme. Oggi posso uscire all’aria per la prima volta, anche se solo per una mezzoretta. Amo la mia uniforme. Dove sei stata tutto questo tempo? “Ero appesa in un armadio”, risponde l’uniforme, “accanto a dei vecchi pantaloni e ad un cappotto chiaro – tutta roba da civili, brr!” Mi vesto. “Accidenti”, dice con stupore l’uniforme, “come sei diventato magro! Ci sguazzi dentro! Bisogna che te lo dica: non ho un bell’aspetto!” “Consolati” la tranquillizzo “anch’io ti ho portato qualcosa.” E le mostro la mia terza stelletta d’argento. A quel punto lei ha brillato naturalmente e non le importava più del mio sciacquarci dentro. L’infermiera ce la cucì sopra, la stelletta – La guardo nello specchio. In una tasca sta infilato qualcosa di bianco – Che lettera è questa? “A mia moglie”, sta scritto sopra. Ah, la lettera del capitano! “L’avremmo già spedita”, sento la voce dell’infermiera, “ma non sapevamo a chi spedirla, in quanto Lei non è sposato” – Ah, già, la grassona pensa che questa lettera l’ho scritta io – No – no, io vivo solo. Mia madre è morta e con mio padre non ho più niente a che vedere. In questo momento starà arrancando nella sua trattoria e va bene così. M’infilo la lettera in tasca ed esco all’aria aperta. Io non ho nessuno. Per quale motivo non spiego che la lettera è per la vedova del mio capitano? Probabilmente perché gliela voglio consegnare di persona. È così che si deve fare. So press’a poco dove abita. Quando mi sarà permesso di restare fuori più a lungo, andrò a farle visita, perché lei abita fuori città e forse dovrò pernottare là. Speriamo che sia stata già informata che suo marito è caduto per la Patria – E a un tratto mi ritorna a mente: perché mai suo marito allora avanzò verso quel fienile? Voleva conquistare da solo quella mitragliatrice? Eppure lo doveva sapere di andare incontro a morte sicura, era completamente insensato – a cosa mirava? Che cosa si era messo in testa? Giro l’angolo. Ecco là un mendicante accovacciato – Il primo mendicante – mi prende un fremito. Mi frugo in tasca per dargli i cinque talleri promessi. Il mendicante non fa nessun caso alla mia presenza. È cieco? Oppure porta solo un paio di occhiali blu perché vuole ingannarmi? Cinque talleri sono una bella somma. Forse mi vede perfettamente – Forse questo mendicante ha più di me. Dagli i tuoi talleri – No, non ti do niente e passo oltre. O mio Signore, sono stato allungato, massaggiato, straziato, e sono queste procedure che mi hanno ridato il braccio – capito?
È stata l’arte dei medici e il mio voto non era altro che un sintomo di debolezza. Non facevo che febbricitare ed ero già completamente disperato quando ti promisi i cinque talleri – No, non ero in me. Ma ora son tornato ad essere quello che ero! In casa dell’impiccato Dio sa tutto, diceva l’infermiera. Non perde d’occhio nessuno, giorno e notte – Se questo fosse vero, allora io non vorrei proprio essere il buon Dio. Sempre e soltanto a osservare ogni singolo, quando da tempo il singolo non ha più nessuna importanza – che mestiere ingrato. In generale il buon Dio diventa sempre più inutile. È probabile che non esista più neanche, perché tollera tutto e non fa niente contro. Oppure è solo una mia impressione? In una parola: non si finisce mai di conoscersi e chi può sapere ciò che ancora ci aspetta? Io no. Chi, ad esempio, avrebbe osato supporre che io un giorno nella mia vita sarei entrato in rapporti intimi con la vedova del mio comandante? Nei cosiddetti rapporti intimi, non fosse che per una sola notte. Chi avrebbe immaginato quella notte? Essa appariva ai miei stessi occhi come inimmaginabile a tal punto che in seguito cominciai a rifletterci sopra, pensando a quali semplici leggi dominano il nostro mondo. Leggi su cui non si può scherzare a tal punto che talvolta se ne potrebbe restare terrorizzati. Forse c’è davvero un essere superiore. Se qualcuno prima mi avesse detto: Giacerai con la moglie del tuo capitano, gli avrei risposto: Ma tu vedi i fantasmi! Non lo so neppure io se lo volevo veramente. Io sapevo solo che aveva delle gambe lunghe. Lei dev’essere stata più alta del capitano. Sì, sì, talvolta mi sento in verga e amo le gambe delle donne, ché per me non finiscono mai. E possono attraversare ogni cosa, saltare al di là di ogni cosa, con tanta leggerezza, come se niente fosse. Una volta ho letto un libro sul linguaggio delle gambe. Era una rivista e io la portai in giro con me per qualche tempo. Il sergente me lo trovò e se lo portò a casa. Sua moglie la bruciò nella stufa. “Che porcheria”, disse. Ma non era affatto una porcheria, erano foto di ragazze ben tirate con poco o niente indosso. La copertina riproduceva un dipinto a mezzo busto: la dama con l’ermellino. E mi venne di pensare a quel dipinto appena vidi la vedova del mio capitano per la prima volta. Portava una vestaglia, sebbene fosse già pomeriggio. Lei abita al primo piano di una villettina. Sotto di lei abita un funzionario in pensione e sopra di lei c’è già il tetto. La villa si trova molto fuori città, nell’estrema periferia. Si tratta di un sobborgo nuovo. Cinque anni fa non c’era niente – né luce, né asfalto, né fognature, solo erba. Ma dove prima pascolavano le mucche, si alzano oggi eleganti villette familiari , perché il mondo gira e la vita non si lascia stracciare. Sempre più alto è il nostro sviluppo. Quando scesi dal treno locale, sentii che era già venuto l’autunno. All’interno della città ci si poteva ancora ingannare, ma qui fuori il sole brillava così tristemente come se avesse gli occhi gonfi di lacrime. Tutt’intorno si ammassava la nebbia e in silenzio cadevano le foglie gialle. Un vecchio le raccoglieva con la scopa – Cosa avviene delle foglie gialle? Signor Capitano, dove sei adesso? Non devo affatto pensare a te, sennò le foglie cadono ancor più silenziose. Quando vidi per la prima volta la tua vedova erano appena passate le sei. Il mio treno è arrivato puntualissimamente alle 17 e 9 minuti, ma io non mi sono recato subito da lei, ho bevuto invece un bicchiere di birra al buffet della stazione. Perché ad essere sinceri era penoso per me incontrarla. Forse non lo sapeva ancora che tu non ci sei più, e allora avrei dovuto comunicarglielo io, lei mi avrebbe guardato sconvolta e io avrei dovuto trovare parole di conforto – no, questo non mi riesce, non sta nelle mie corde, non mi piacciono le femmine piagnucolose!
Ma la mia paura era inutile. Infatti quando cominciai a balbettare, lei m’interruppe subito, e venni a sapere che lei ormai da mesi sa che tu non ci sei più. Un tenente colonnello glielo avrebbe comunicato con tatto, che tu saresti caduto come volontario – lei sorrise con una certa amarezza alla parola “volontario”, comunque notai che il dolore peggiore lo aveva già superato. Avevo bevuto la mia birra inutilmente. Una birra miserabile. Sì, allora non avrei ancora pensato che avrei giaciuto con lei, e proprio quella stessa notte. Se allora uno me lo avesse predetto, gli avrei gettato la mia birra in faccia. Non solo perché mi sarebbe sembrato un tradimento iniziare qualcosa con la moglie del mio capitano – però, un momento! Per la verità io non l’ho tradito, perché lui non si trova più fra i vivi. E a parte questo, la carne è debole, questa è una vecchia verità. Mentre bevevo quella birra insipida, tornavo ad osservare sempre quella sua lettera con l’indirizzo: “A mia moglie” – Strano che l’infermiera abbia pensato che io ho moglie. Sarebbe buffo se fossi sposato. Penso di non essere tagliato per questo. Su questo punto siamo simili, o mio capitano. Anche tu eri infelice nella vita matrimoniale – zitto, lo sapevamo tutti! Per questo abitavi con noi in caserma e tua moglie qui fuori città, dalla parte opposta. Tu la vedevi soltanto la domenica e le altre feste. Non c’era comprensione fra voi, era noto. Non ci saremmo immaginati neppure noi che tu potessi intenderti con una femmina, tanti appartenevi a noi. La caserma era la tua unica patria, credi a me. Quando ci passavi in rassegna, lo sapevamo tutti che eravamo noi i tuoi figli. Che cos’era a confronto l’amore di una femmina? Un fioco barlume. Eppure, quando si sta tanto tempo senza una donna, ci vengono di notte dei sogni, dove uno non sa più se è un signore o una signorina – Come dicevo, era poco dopo le sei. Eravamo seduti nel salotto, io e lei. La sua vestaglia aveva uno scollo profondo e sul tavolo da fumo stavano le sigarette. Lei ne prese una e cominciò a fumare, e ne dette una anche a me e fumai anch’io. Portava calze di seta nera e anche da lì si poteva capire che lei aveva già saputo che tu non c’eri più. Alla parete pendeva il suo ritratto, lo sai. Un dipinto a olio. Con un ermellino. Forse fu anche quell’ermellino che mi fece fare il paragone col ritratto sulla rivista. Ma questo glielo dissi solo dopo. Però ti prego di credermi – non fui io a cominciare, fu lei. Fu lei la parte attiva. Mi abbracciava e diceva: perché mi abbracci? Mi sbottonava la giacca dell’uniforme e diceva: ma cosa stai facendo? Mi dava un bacio e diceva: lasciami! Mi stringeva al petto e diceva: allontanati da me – Ma tutto questo lo fece dopo cena. Mi invitò a cena proprio perché il prossimo treno partiva solo alle 9 e 12 minuti, comunque in quel momento non pensavamo a niente di sorta. Per lo meno io, no. Lei forse, sì. Eh sì, noi uomini cadiamo sul campo e le donne cadono a casa loro. Noi uomini andiamo sottoterra e le donne si rialzano e si rivestono. Anche tua moglie, mio caro capitano! Anche la tua! Ma perché ti racconto tutto ciò? Perché? Perché mai penso sempre a te? Suona quasi come se volessi difendermi – No, non ne ho affatto bisogno! Non ho fatto niente di male e anche lei non ha fatto niente di male – e tu, tu sei morto! Sparisci! D’altronde fra me e te si è spezzato un qualche legame da quando ho saputo cos’hai scritto a tua moglie, che io ho letto coi miei stessi occhi!
Perché nella tua lettera m’insulti? Cosa ti ho fatto? Non ti volevo salvare? Perché mi chiami un criminale senz’onore? Capitano, cosa significa tutto questo? Posso solo immaginare che tu sia stato malato quando hai scritto quella lettera – e l’ho detto anche alla tua vedova che tu sembravi non essere più in te, che probabilmente ti erano saltati i nervi e che la tua fantasia confusa ti ha giocato dei brutti tiri. Lei divenne sempre più pallida, leggendo le tue righe, e poi divenne rossa, di un rosso scuro. Intanto lasciava aperta la bocca come un bimbo enormemente stupefatto. E poi, poi mi guardò – no, non stupita, esterrefatta. Non lo dimenticherò mai quello sguardo. Lei ha degli occhi grigio chiaro, lo sai. Quegli occhi mi fissavano, ma avevo l’impressione che non pensasse a niente o come se tutto le scorresse via per la mente. Non disse una parola e nelle sue mani la lettera cominciò a tremare. La cosa cominciava ad essere sgradevole e così volli subito informarmi su quello che avevi scritto, ma lei mi precedette. “Spaventoso”, disse, ma molto sommessamente. Quindi si alzò e cominciò ad andare avanti e indietro. Ma cos’ha? A un tratto si ferma di fronte a me e senza lasciarmi con lo sguardo, dice: “E lui – lui Le ha dato questa lettera?” “Sì, cioè: io gliel’ho presa di mano” – “Basta!” m’interrompe gridando. “Non dica altre parole, mostro! È troppo crudele, nessuna parola, nessuna parola!”. Si getta sul divano e singhiozza. Non mi riconosco più e mi affiora alla mente la parola: isterica. Che fare? Non lo so e la lascio piangere. Piange sempre più sommessamente e poco a poco si riprende, si asciuga le lacrime con un fazzolettino e si soffia il naso con gesto furtivo. Poi ricomincia con me: “Ascolti, mi deve raccontare tutto, tutto, tutto – ora, va bene?” – Perché ora? “Quindi”, continua lei, tentando di dominarsi, “Lei le ha preso la lettera di mano?” “Sì, noto che ha qualcosa di bianco in mano.” “Lo voleva salvare, no?” Mi sento agghiacciare, perché lei sta sorridendo come una pazza – “Sì”, rispondo,”lo volevo salvare.” “Però è arrivato tardi?” “Sì, troppo tardi.” Sta ancora sorridendo. “E lei ha tagliato la corda?” “La corda?!” La guardo fisso, lei cessa di ridere. Tagliata la corda? Mi si confonde la mente – Lei mi osserva. “Mi racconti tutto”, dice e diventa sempre più decisa, “ho diritto di sapere la verità, in fin dei conti ero la sua legale consorte e non ne voglio sapere di chi mi parla di morte eroica e di cose del genere gettandomi il fumo negli occhi! Rinuncio a qualsiasi 'rispetto'! Voglio la verità, la pura verità!” È diventata pazza, mi prende un fremito. “Qui da queste righe, dalla sua ultima lettera, risulta incontestabile che lui non è caduto, bensì che si è impiccato.” Salto su. “Impiccato?!” “Qui sta scritto nero su bianco! Lo scrive lui stesso! E ora voglio sapere tutto esattamente, tutto, tutto!” “Ma non si è affatto impiccato!” “Non dica bugie!” mi urla contro. “Basta con le menzogne!” A questo punto la cosa mi sembra troppo assurda. “Io non mento affatto!” le grido di rimando. “Ma cosa Le salta in mente?! È caduto in servizio!”
“Caduto?!” mi urla interrompendomi e ride freddamente. “Caduto, dice Lei?! Ecco, legga la sua lettera, la sua ultima lettera, mentitore!” Getta la lettera sul tavolo e io la guardo stesa là sopra. Però non la tocco. Lei va alla finestra e guarda fuori. Fuori passa un treno, un treno locale – “La legga dunque!” mi comanda tutt’a un tratto. “La legga e non sia vigliacco!” “Io non sono un vigliacco”, ribatto inferocito. Afferro la lettera di colpo e comincio a leggerla. “Mia cara moglie”, leggo, “poco prima del mio lungo viaggio nell’eternità ti voglio ringraziare ancora una volta, ringraziare per il tuo amore e la tua fedeltà. Perdonami, ma io non posso più vivere così, mi merito il cappio” – Mi blocco. Il cappio? Ma cosa sta scrivendo il capitano? Continuo a leggere: “Non siamo più soldati, siamo miserabili predatori, vili assassini. Non combattiamo onorevolmente contro un nemico, combattiamo con astuzie e bassezze contro bambini, donne e feriti” – Lancio uno sguardo alla moglie. Sta ancora alla finestra e guarda fuori. Contro donne? Sì, è vero. “Perdonami”, scrive ancora il capitano, “ma io non mi ci ritrovo più in questi tempi” – Guardo la moglie del capitano e penso: tu ti ci ritrovi in questi tempi? E poi mi chiedo: e io mi ci ritrovo in questi tempi? “È una vergogna”, continuo a leggere, “e quel che più mi addolora è il declino della mia Patria. Perché da questo momento la mia Patria ha perso il suo onore, e per sempre. Prego Iddio che mi dia la forza di farla finita, perché io non voglio continuare a vivere da criminale, ho ripugnanza della mia Patria” – Ripugnanza? La moglie sta ancora guardando fuori di finestra. Che ci sarà d’interessante là fuori? Probabilmente niente. La guardo e penso al capitano. Dove vuoi andare a parare? Chi riesce ancora a capirti? Perché ti ripugna la tua Patria? Sì, è vero, non volevi stare più con noi, coi tuoi soldati. Ci sei diventato estraneo, lo abbiamo sentito già allora – ti ricordi? Ad esempio, quando hai saputo che avevamo eliminato due prigionieri, cosa non hai fatto allora! E poi non era in fondo che una procedura abbreviata – forse brutale, d’accordo! Ma le guerre non si vincono in guanti bianchi, lo dovresti sapere! Invece tu ci urlasti che un soldato non è un criminale e che quella procedura abbreviata era indegna del fronte! Indegna del fronte? Cosa significa? Ci viene a mente in modo vago che si tratta di un’espressione che risale alla Grande Guerra – noi non l’abbiamo più appresa. E al commilitone che aveva avuto l’idea hai strappato con le tue mani la stelletta dal colletto, la sua stelletta d’argento – Dimmi, Capitano, che senso ha tutto ciò? Il giorno seguente lui l’ha riavuta la sua stelletta e tu, tu hai avuto un severo richiamo – lo sappiamo tutti il contenuto di quel richiamo scritto. Il tenente ce l’ha raccontato. Lo scritto diceva che i tempi erano cambiati e che non vivevamo più ai tempi dei tornei cavallereschi. Capitano, Capitano, non ha alcun senso! Credi a me, che ti voglio bene – Non ti son forse corso dietro con un balzo? Non ti volevo forse strappare dalla morte?
Adesso so perché sei corso incontro alla mitragliatrice, adesso so che non ti avrei fatto un piacere salvandoti – Ma il mio braccio ha dovuto crederci. Ancora non è del tutto tornato a posto e forse neppure ci tornerà più. Come puoi chiamare criminale, me, io che ti volevo salvare? Come puoi sentire ripugnanza nei miei confronti? Ché anch’io appartengo alla Patria. E anche tua moglie, là alla finestra. Anche se litigavate spesso, lei avrebbe avuto più piacere a vederti ritornare a casa – È vero che lei è una donna relativamente giovane e troverà chi la consola. Ma sebbene – sebbene il singolo non abbia nessuna importanza, tu non avresti dovuto compiere quel gesto, vedi, lei è completamente fuori di sé. E ora glielo dirò che il cappio non c’entra nulla, la tranquillizzerò dicendole che è stata solo una mitragliatrice nemica – E glielo dico. Mi ascolta attenta e poi chiede: “Si tratta davvero della verità?” “Sì” Mi guarda triste con i suoi occhi chiari e sorride leggermente, come se fosse stanca. Poi ambedue torniamo in silenzio. Mi stupisce come sia tornata calma. A un tratto mi chiede: “Mi può promettere una cosa?” “Naturalmente” “Teniamo per noi il contenuto di questa lettera, La prego” – “La prego”Prende la lettera su di sé e si passa la mano sulla pettinatura. “Per me sarebbe molto, molto penoso, se si venisse a sapere la verità su questo avvenimento – io provengo da un’antica famiglia di funzionari di Stato e di Ufficiali dell’Esercito e se questa terribile lettera fosse conosciuta, ci sarebbe uno scandalo colossale.” “Agli ordini.” “Sarebbero allarmati e non lo lascerebbero in pace neppure nella tomba, Lo dissotterrerebbero e lo getterebbero in qualche fossa comune, dove non giace nessun uomo onorato” – “Non sarebbe improbabile.” Mi guarda con stupore. Tu discendi quindi da una famiglia di funzionari di Stato e di Ufficiali dell’Esercito – mi vien fatto di pensare. “Adesso Lei condivide un segreto con me”, interrompe così i miei pensieri e sorride di nuovo leggermente. “Dipende da Lei che la cosa rimanga fra noi, dipende solo da Lei, ché il buon Dio, lui non dirà nulla” – Mi fa un cenno d’intesa e lascia la stanza. Va in cucina e prepara da mangiare. Ché, come detto, dovevo restare da lei a cena, in quanto il mio treno ripartiva solo alle 9 e 12. Ora sono solo. Sul tavolo ci sono ancora le sigarette, me ne accendo una. Nella vetrinetta dei libri si trovano memorie della Grande Guerra. Si tratta di libri militari che appartengono a lui. E sciocchi romanzi che appartengono a lei. In cucina si sente sbattere i piatti. Che ci sarà da mangiare? Probabilmente qualcosa di freddo. Forse un affettato delicato con burro, formaggio e pane – Fuori comincia a piovere e gli alberi grondano, però dentro tutto rimane caldo e quieto. Sì, è arrivato l’autunno. Si fa più buio e la luce della lampada cade sul tavolo grande, nel centro. È qui che mangiavano loro due, il capitano e sua moglie. E a un tratto mi passa per la mente: vedi, qui c’è vita tranquilla – Una vita che tu disprezzi al massimo. A ragione? E nel momento in cui me lo domando, mi viene in mente mio padre. In questo momento starà zoppicando in quel suo locale e comincio a sentirne compassione – Anche lui voleva avere un stanza del genere. Una lampada elegante, una vetrinetta per i libri, la sedia comoda, il tavolo grande e quello da fumo.
E una moglie che sbatte i piatti in cucina. E mia madre sapeva davvero cucinare? Non lo so. Ma devo andare una volta ancora a farle visita, non ci sono stato da anni alla sua tomba. E ad un tratto mi sento strano, come se potessi dimenticare la Patria per una donna – come se uno non volesse più il pane della Patria da quando una donna cucina per lui. Eh sì, gli uomini si prendono per la gola. Mi viene da sogghignare, e vado avanti e indietro. Nell’angolo si trova un grande specchio e io mi guardo passeggiare finché un brivido mi assale: come camminava veramente tuo marito? Tento d’imitarne l’andatura – Non mi riesce. O meglio, due passi erano giusti. Lui camminava così! Un po’ pesante, un po’ tarchiato – Certo, certo, così camminava su e giù aspettando la cena. Aspettava tanto anche lui come me? M’è venuta davvero fame – cosa sta spignattando lei tutto questo tempo, di là? Mentre sto per accendermi la quarta sigaretta, arriva lei finalmente col vassoio. C’è una braciola con l’insalata. Benissimo! Apparecchia e non dice una parola. Coltelli, forchette, cucchiai – tutto in ordine. Tutti in fila ordinata, uno per uno. Adesso divento poco a poco il capitano. Mi siedo a suo posto. Forse è bello sapere che a casa c’è una moglie che apre e chiude gli armadi. Che tiene tutto in ordine. Sì, tutto questo sarebbe molto bello, potendoselo permettere! La felicità è una pura questione di soldi e nient’altro. No, un momento! Il capitano poteva permettersi questa felicità familiare, e tuttavia viveva in caserma. La vedeva solo le domeniche e gli altri giorni di festa. Com’è amaro questo amore, divino e terreno, e l’unica certezza è questa: io non sopporto anima viva. Nemmeno me stesso. Veramente odio tutti. Lo stesso capitano mi è uscito di grazia, dopo la sua lettera. Da quando sente quella repulsione. “Beve vino rosso o vino bianco?” chiede lei. “Io bevo tutto.” Versa del vino rosso, prima per sé, poi per me. Io levo il bicchiere: “Alla salute della padrona di casa!” “Grazie”, dice lei e ne beve appena un sorso. Lei è molto pallida e restiamo ambedue in silenzio. In lontananza si sente uno scampanio – Mi metto in ascolto. “È la cabina della stazione”, dice lei, “quando è buio si possono udire i segnali.” “Che c’entra questo con il buio?”, domando, sollevato per il fatto che parli, perché questa cena in silenzio mi stava già dando sui nervi. “Non lo so, è semplicemente così”, risponde lei. E senza guardarmi, continua a spiegare: “Ci sono tante cose al mondo che non si spiegano, misteri strani, cause ignote – non trova?” Non aspetta la mia risposta, continua, provando qua e là a infilzare l’insalata con la forchetta: “Una volta ho fatto un sogno terribile. Sognavo di giacere su questo divano e di leggere un romanzo, quando ad un tratto entrava mio marito e mi gridava: ‘Vieni! Non c’è più tempo!’ E poi mi rimproverava perché non ero ancora pronta - oh! Come mi rimproverava, perché lui anche nella realtà poteva veramente spazientirsi, sebbene sia stato un buon uomo di fondo. Dunque mi vesto alla svelta e noto ad un tratto che sanguina da una profonda ferita alla fronte. Io lancio un grido di spavento, ma lui sorride soltanto, alza un dito al labbro e sussurra : ‘Piano, i bambini dormono già’ – ma noi in realtà non abbiamo figli. Lo guardo fissamente e dico: ‘Alfons,
cos’hai fatto alla testa?’ e lui risponde: ‘Non dire sciocchezze! Non è la mia testa, questo è il mio cuore’ – a quel punto mi sono svegliata.” “Strano”, dico. “E la cosa più strana è che lo sognai proprio quel giorno in cui lui trovò la morte.” “Molto strano, E poi, ad un tratto, è sparito – voglio dire, nel sogno?” “Sì, cioè, passò da questa porta, ma direttamente attraverso il legno, come non avesse né carne, né sangue.” “E dove dà questa porta?” Mi fissa un attimo e poi dice: “Nella mia camera da letto.” Arrossisce. Perché? Lei vuota il bicchiere quasi convulsamente. Improvvisamente riparte: “Che mestiere fa Lei? È studente?” Io?! Uno studente? Ho l’aspetto di uno studente? Glielo devo dire che senza uniforme io non sono niente? Che addirittura sarei un pregiudicato se il poliziotto non fosse scivolato sul ghiaccio – E io dico: “Sì, sono studente e nel frattempo sono stato arruolato – volontario.” “Ah!” fa lei e diventa serissima. Forse ripensò a lui sentendo la parola “volontario” – Però mi fa sorridere il complimento di ritenermi un accademico. Non si riduce tutto solo ai soldi, c’è anche il fascino personale. Chi ce l’ha, ce l’ha! E all’improvviso mi sento in grado di parlare con lei in maniera sciolta, come se le parole e le frasi venissero su da sole. Inizialmente ero appunto legato, ma ora che ho iniziato a parlare, torno sempre allo stesso pensiero: vedi, anche con una signora della società si può stare a tavola senza difficoltà, ammesso che lei ti creda un accademico. Le racconto un sacco di roba e una volta ride anche in modo sonoro – ma nel bel mezzo della risata si blocca e si guarda intorno timorosa, come se oggi non le fosse concesso di ridere. E io le racconto del mio braccio che non è ancora tornato intero, ma le taccio il motivo del ferimento – cioè perché volevo salvare il nostro capitano. Perché non ne parlo affatto? Perché non le dico che il braccio mi fa ancora male anche bevendo, perché ho voluto con sprezzo del pericolo salvare suo marito? Perché non mi vanto di essere un vero eroe? Non lo sapevo nemmeno io. C’era solo una fioca vocina in me che mi diceva: non rammentare più il suo nome, soprattutto il suo nome – Non deve essere più qui presente. La sua ombra non deve più cadere sul nostro tavolo. Via tutto questo! Via, forse perché prima lei ha riso – Lei non deve più guardarsi intorno! Via tutto questo! – Si fa sempre più tardi. “Ora devo andare”, dico io. “Abbiamo ancora del vino”, risponde lei. E io non ho bevuto vino da tanto tempo, che mi dà alla testa e mi metto a raccontare di una ragazza che mi correva dietro e io non ne volli sapere perché era troppo giovane per me – qui noto che lei mi osserva. Mi fermo interdetto, perché lei sorride sarcastica. A questo punto si sente di nuovo lo scampanio della cabina ferroviaria. Lei ascolta e si scuote. “Cosa c’è?” “Era il suo ultimo treno.” “L’ultimo? E allora, buona notte!” Ma mi tranquillizza. “Può tranquillamente passare la notte qui, qui su questo divano, ammesso che non le rechi danno al braccio” – “Ma no, questo non va bene” –
“Perché non va bene? A me non reca nessun disturbo, al contrario: non sto volentieri sola qui in casa, giù a pianterreno son tutti partiti e la ragazza vien solo domani presto, quindi nella casa non c’è nessuno e spesso vengono dei mendicanti poco raccomandabili” – Mendicanti?! La parola mi provoca una fitta, perché mi fa pensare ai cinque talleri che ho ancora in tasca. E a quello a cui non li ho dati. Mi scorgo allo specchio. Solo ora mi accorgo che dal mio posto mi ci posso vedere. Non mi piaccio. E lei dice: “Questi mendicanti diventano sempre più sfacciati.” Il cane Lei si era ritirata nella propria camera da letto e io ho cominciato a spogliarmi. Ho steso la giacca su una sedia, ma poi me la sono rinfilata perché la notte ha fatto un freddo cane. Infatti è arrivata una tempesta e le tende oscillano. Soprattutto la sinistra e uno spiffero investe proprio il mio braccio malato. M’infilo tutto sotto la coperta che lei mi ha dato, però riesco a dormire solo a momenti. Poi mi sveglio di nuovo – la sua lettera non mi lascia in pace. La notte si allunga sempre di più e la tempesta si abbatte sul tetto. Ora lui là cammina avanti e indietro – Quella lettera, quella lettera! Dormi, cane sciocco, e non rimuginare di continuo – Vedi le alte montagne tutt’intorno al tavolo? Nello specchio sta bruciando una città. Continua solo a marciare – sull’altipiano! Avanti, soldati della dittatura! Intorno a noi si spalancano abissi e giù nel fondo scrosciano le acque. Abbiamo impiccato cinque civili. Uno dopo l’altro. Due cornacchie passano a volo – Ma cosa sta succedendo al capitano? Sembra che nessun colpo lo rallegri. Spesso scuotiamo la testa noi tutti. Hai perso molto della tua amabilità – C’è addirittura qualcuno che mugugna. Certo, passi in rassegna ogni giorno la nostra fila, ma guardi solo la nostra divisa e non solo attraverso di essa dentro di noi. Talvolta ci sentiamo veramente soli, sebbene stiamo tutti in fila spalla a spalla. Come se fossimo indifesi in una notte minacciosa e non ci fosse nessuno che ci protegge – Le cornacchie ritornano. E con nostalgia pensiamo ai bei giorni nel cortile della caserma. Com’era bello quando lui ci passava in rassegna, quando assentiva con quel suo modo sicuro, perché tutto era in ordine, fuori e dentro. Ah, capitano, dove ci condurrà tutto ciò? Dove? Queste erano le mie domande, quando tua moglie è apparsa sulla porta della camera da letto. Si è avvicinata bianca come latte e tremava. Mi alzo di scatto – Ha poco indosso, si siede su una sedia, poggia il volto sul tavolo e piange. “Cosa Le succede?” chiedo. “Non posso più restare di là”, piagnucola, “forse sono solo i nervi, però non posso più restare da sola, sento sempre dei rumori, come se qualcosa passasse accanto al mio letto” – “Cosa per esempio?” Lei mi guarda con gli occhi umidi e dice lentamente: “Un cane.” Un cane? “No!”, si mette ad un tratto a gridare, “Non ci torno! Mai più, mai più!”
Piange sempre più forte. Mi alzo, ché avevo solo sfilato gli stivali, e le offro il mio divano, ma lei vuole dormire sulla poltrona. Questo non lo permetto e tocco leggermente la sua spalla. Allora si gira inferocita e mi dà un colpo sul braccio. Mi arrabbio e le do una spinta – “Cosa Le passa per la testa?!” si mette ad urlare. “Silenzio!” le comando. “Il mio braccio è rotto! Là c’è il divano e basta con le parole!” “Basta con le parole?” chiede distesa e non cessa di fissarmi. Come se fosse il mio nemico mortale, lei sta in piedi di fronte a me. Calma e crudele. Mi viene in mente il ritratto della dama con l’ermellino – ma io non abbasso lo sguardo. C’è sempre più silenzio. Un angelo vola nella stanza, come dicono i bambini. Vedo solo la sua bocca. Non la chiude – Le sue labbra sono umide. “Sdraiati”, le dico sommessamente. Lei s’inalbera: “Cosa Le salta in mente di darmi del tu?!” Le ho dato del tu, io? Non me ne sono reso conto – Sto per scusarmene, quando lei mi passa lentamente le dite fra i capelli. Le sue labbra si muovono – “Cosa ha detto?” “Niente.” Lei mente, io ho sentito bene. Infatti ha detto: “Che mi stai facendo?” Il figliol prodigo Veramente io non la volevo più rivedere, la vedova del mio capitano, e anche lei non mi voleva più rivedere. Allora, quando cominciò ad albeggiare e io svelto svelto mi accomiatai per poter prendere il primo treno locale, lei disse soltanto: “Dimentichiamo tutto questo, amico mio” – Pensava che fossi uno studente. E questo ancor oggi mi fa piacere. Sì, era stata una cosiddetta avventura, come ne avvengono a milioni e milioni, di notte e di giorno. Ma forse tutte queste situazioni son di natura puramente esteriore. A dirla tutta ero addirittura contento del fatto che ambedue dovessimo dimenticarlo, ché in fin dei conti non eravamo fatti l’uno per l’altra. Naturalmente non so perché, se dipendeva dalla sua pelle o dal fatto che era troppo focosa per i miei gusti – in breve: malgrado tutto non ne era nato nessun legame intimo, di nessuna natura, e l’unica cosa che mi rimase fu il mio vecchio sospetto che anche le signore dell’alta società sono semplicemente delle comuni donne. Mi sentivo affermato e non volevo sapere più niente di lei, perché anche la figura con l’ermellino mi sembrò in seguito una specie d’illusione ottica. Ma nella nostra vita ci sono appunto delle cause ignote su cui non si può scherzare – tutto ciò mi si fa poco a poco sempre più chiaro. Mi sarebbe accaduto di rivederla ancora una volta, la vedova del mio capitano, sebbene in una occasione del tutto diversa. Circa tre settimane dalla nostra notte mi trovavo di nuovo in una stazione di periferia – “Birra fresca!” gridava la ragazza al buffet. No, grazie, bevitela tu codesta porcheria! Che io ritornassi da lei fu colpa di mio padre – sissignore, del mio signor padre! Quest’idea era spuntata sul suo concime, è stato lui e nessun altro a mettermi questa pulce nell’orecchio! Il braccio stentava a migliorare e il mio destino sembrava segnato, perché troppi nervi erano stati lacerati. Il giorno seguente a quella notte mi visitò il medico e disse: “Ma cosa succede? L’osso è addirittura peggiorato!” Mi prese un enorme spavento. “Ha alzato, portato o trascinato qualche peso?” “No”, risposi io e mi venne involontariamente da sorridere, sebbene la cosa fosse piuttosto da piangere. “Non si sottoponga a sforzi eccessivi!” disse il medico e passò al paziente accanto. L’avrei dovuta svegliare quando dormiva sul mio braccio. Ma la volevo lasciar riposare in pace e ora sto peggio io. La mancanza di riconoscenza è la ricompensa del mondo. Avrei dovuto chiamare il cane che stava nella sua camera da letto. Allora sì che sarebbe saltata su – Quanto peserà una donna così?
Pesava come un vitello. Di certo 70 chili, Non le voglio fare dei rimproveri per il fatto che il mio braccio non guarisce più – è da ieri appunto che la cosa è medicalmente assodata come una roccia – però anche lei ha portato la sua pietruzza, il suo minuzzolo al gran mucchio che ha schiacciato definitivamente il mio braccio. Sì, è stato un duro colpo quando si è chiarito irrevocabilmente che io devo lasciare l’esercito. Ma i colpi duri rendono duri. E senza batter ciglio ho detto: addio, stellette d’argento! È vero che posso indossare ancora l’uniforme, ma non per tanto tempo. Solo come misura di trapasso – Ancora non so che cosa mi aspetta. So solo una cosa: non si raccoglie nulla ad essere buoni. Bisogna essere cattivi, calcolatori e sempre freddi – Senza scrupoli all’estremo! Perché, se lo lasci dormire in pace, nessuno si occupa di te. Se lo svegli poi, ti calpesta il futuro. Oh, se non avessi mai tentato di salvarlo, quel capitano! Quel cavaliere fuori moda con le sue vedute estreme – Dalle corde così delicate che gli prendeva un malore se mai da qualche parte vedeva bambini morti – È vero, non si ritrovava nel suo tempo! Lo avessi saputo prima, oggi avrei ancora il mio braccio! Ché a chi non è adatto ai suoi tempi, non si deve tagliare la corda. Si deve lasciare appeso al suo patibolo volontario, fino a che le cornacchie se lo portino via! Mi senti, capitano? Mi senti da giù sottoterra?! Giaci pure nella tua tomba dell’eroe – mentre io devo vivere di una miserabile pensione d’invalidità, eh? Il tuo nome sta scritto con lettere di bronzo nel libro delle onorificenze del nostro Popolo, mentre io devo guardarmi intorno per vedere cosa posso trovare – non ho capito! Sta’ attento che non passerà molto tempo fino a che io non arrivi a odiarti definitivamente! Perché sei stato un debole che per la sua Patria non è stato neppure capace di sparare a qualche donna del nemico – sissignore, un debole! Un ragazzetto a cui fa schifo il proprio Popolo! Chi si occupa di me?! Ti ho offerto il mio futuro e tu mi hai lasciato indietro da solo e giù nella bara non te ne frega niente che io abbia o no da mangiare. Mi potresti almeno apparire come fantasma per illuminarmi su ciò che devo intraprendere! Ma tu non ci pensi neppure a fare il fantasma, tu stai tranquillo a marcire come se tu non avessi fatto niente di male! Se non lo avessi promesso alla tua vedova, diffonderei la tua lettera ai quattro venti – tutti devono saperlo che tu sei andato incontro alla morte da vile, da disertore, da canaglia, da porco! Ti dovrebbero dissotterrare dalla tua tomba dell’eroe per gettarti in una fossa comune nell’angolo più sperduto, dove i criminali si augurano l’un l’altro la buona notte – Voglio raccontare della tua lettera a tutti quelli che incontro per via, tutti lo devono sapere che anima sei stato – garantito! Però, un momento – un momento! La tua immacolata vedova naturalmente negherebbe tutto, lei oserebbe pronunciare ogni spergiuro, è probabile anzi che abbia già bruciato la lettere da quel dì, lei è un tipo astutissimo – e allora io apparirei come un cane sciocco e verrei forse addirittura condannato per calunnia. Attento, attento, amico caro! Non affrettare nulla, rifletti su tutto a capello! Ora ti trovi di nuovo all’inizio e non in fila uno per uno. Oggi nessuno ti sta spalla a spalla, né a destra, né a sinistra. Sei solo, solo tu – Però questa volta affronta la cosa in modo più intelligente. Più intelligente! Prendi in mano una matita e fa’ il conto di chi ti rimane. Ti rimane solo una persona. Tuo padre. Il tuo caro padre. Lui ti ha messo al mondo senza chiederti se tu fossi o no d’accordo – perciò è lui che ti deve aiutare anche se dovesse sudar sangue. Lui non ti piace, non importa. Utilizzalo!
Sii gentile con lui! Frena la lingua le volte che lui maledice in quel suo modo sciocco l’industria degli armamenti – Chissà, forse non ha del tutto torto! Perché, quando un industriale degli armamenti perde il suo braccio, non perde ancora le sue commesse. Malgrado tutto continua a fornire. Cannoni di prima scelta, munizioni e tutto l’occorrente – Una pensione d’invalidità per lui non è un problema. Non contraddire tuo padre, che fra l’altro ti ha generato. Nell’anno 1917. Dev’essere stato a Carnevale, perché è in autunno che ho visto la luce di questo mondo. Onora il padre tuo così da poterlo spremere. Va’ da lui, cadi in ginocchio e pregalo di darti la sua benedizione! Ti deve dare i soldi. Vacci, lo conosci il locale dove lui si guadagna la pagnotta! Vacci! --E così andai da mio padre fuori città nell’estrema periferia. La sera autunnale calava mite sulla vasta piazza e dalle strette viuzze avanzava triste la notte. Senza alcuna luce in cielo, come se fossero tutte cadute le belle stelle d’argento. Ora devo voltare ancora a destra, poi a sinistra e là dall’altro lato – là accanto alla latteria e al negozio di fotografo, là incontrerò il caro padre. Sto in piedi di fronte alla trattoria e leggo l’insegna: La città di Parigi. La città di Parigi ha solo due finestre. Le tende sono tirate e io mi metto a guardare dentro da uno strappo. L’aria dentro è opaca e grigia. Vedo solo pochi clienti, ma fumano come se fossero il doppio. Ed ecco – ecco che viene lui in persona! Mio padre. Sta portando due bicchieri di birra che appoggia sopra un tavolo. Vi stanno seduti tre camionisti e giocano a dadi. Mio padre quasi non è cambiato. Non è invecchiato e mi pare addirittura che zoppichi meno. È possibile che una ferita da sparo migliori? Oppure è solo la forza dell’abitudine che rende più elastici col tempo? Oppure me lo ricordo solo zoppicante? Un camionista paga, mio padre incassa e s’inchina, servile. Sì, sì, è rimasto il solito. Un raccattamance – E certo guadagna benino. Le mance si sommano appunto. Anche le più piccole. Forse ha già un palazzo. Mi scappa da ridere – Stai vivendo di nuovo un’allegra vita da scapolo, eh? Con le donne e il gioco delle carte, come prima della guerra? Passato, passato! Questo accadeva un tempo – almeno trecent’anni fa. Quant’anni hai oggi? Mi guardo intorno e metto piede nella città di Parigi. Mi metto subito a sedere accanto alla porta. Mio padre non mi riconosce, pensa che sia un semplice avventore e viene verso di me, però a tre passi da me ha un sobbalzo e mi fissa sbalordito. Io sorrido gentile. Finalmente lui ritrova la parola. “Tu?” chiede disteso – “Sì, sono io.” Ancora non si muove e continua a scrutarmi soltanto, quasi indagando. Mi alzo e gli tendo la mano. “Buona sera, padre!” Lentamente prende la mia mano, come se fosse fragile, e si riprende dalla sorpresa. Poi dice: “È bello da parte tua che tu pensi ancora a me. Cosa ti devo portare, cosa bevi?” “Quello che mi dai.” Sorride, lusingato.
“Allora ti porto qualcosa di molto speciale, un gotto sopraffino – però mi devi raccontare tutto dalla a alla zeta” – Mi fa un cenno d’intesa e io lo vedo al bancone che dice: “Per mio figlio!” “Oh!” sento fare da una voce femminile e poi si sporge da sopra il bancone una grossa, vecchia testa di porco e mi osserva. Aha, è la sua signora e padrona! Io annuisco rispettoso e lei contenta raggrinza il grasso delle guance. Adesso arriva mio padre con un bicchiere di vino. “Non posso sedermi”, dice, “sono in servizio.” “Alla tua salute!” dico io. “No, no, alla tua!” Vuoto il bicchiere in un sorso. “Oho!” dice ridendo mio padre. “Però trinchi!” “E ha ragione!” grida la testa di porco. “Franz! Gli porti ancora un vino, i soldati valorosi hanno sempre sete!” Franz è mio padre. Mi porta ancora un gotto sopraffino, si piega verso di me e sussurra: “Hai conquistato d’assalto il cuore di questa vecchia megera, in genere lei è l’avarizia in persona, ma dico io: non per niente è mio figlio!” Con orgoglio dà un’occhiata in giro e ad un tratto il suo sguardo si appunta sul mio colletto: “Cosa? Abbiamo già tre stellette? Tre stellette d’argento?! Congratulazioni – congratulazioni” – “Ti ringrazio”, lo interrompo subito, “ma non le porterò più a lungo.” “Non più a lungo?!” Riceve un colpo in fronte. E io gli racconto del mio futuro nell’esercito, quando ancora ne avevo uno, perché a quel tempo ero il miglior tiratore della compagnia e ho ripetutamente fatto centro. Ma poi mi sono offerto volontario, nell’azione di epurazione contro quei subumani best... – Lui m’interrompe in fretta: “C’eri anche tu?” “Sì, certo!” “Aha!” Che cosa intende con quell’ aha? Non riesco a capire e racconto con circospezione del piccolo Paese che volevamo conquistare – “È già nostro”, m’interrompe di nuovo. Lo guardo con aria insospettita. Questo “nostro” lo sta dicendo con ironia? Da lui infatti mi aspetto di tutto, ogni forma di sarcasmo e di critica mordace – E mentre lo sto osservando di nascosto, vado avanti con il mio racconto. Dei bravi aviatori che io personalmente non sopporto, ma che hanno compiuto il loro dovere con esattezza e sprezzo del pericolo, delle città e dei villaggi stranieri che abbiamo distrutto, della spregevole feccia nemica che ci ha affrontato abbastanza spesso, armi alla mano, della sgradevole lingua di quei criminali, delle loro catapecchie luride e dei loro cani rognosi. Lui sta attento accanto a me e ad un tratto mi disturba il fatto che non si possa mettere a sedere, e così abbrevio sempre di più il mio racconto. Gli faccio il resoconto della mia ferita grave, in quanto appunto volevo salvare il nostro capitano, ma gli taccio della lettera del capitano, ché sennò porterei solo acqua al suo mulino – e non dico neppure una parola della notte con la sua vedova, perché su certi punti io sono cavaliere e non faccio nomi, parlo solo in generale. “Hm”, dice lui alla fine del mio racconto, “un braccio spezzato non è più niente. Povero ragazzo, hai veramente sfortuna! Però, intanto non ti preoccupare eccessivamente – quando domani o dopodomani dovrai lasciare l’ospedale, sappi che puoi sempre abitare da tuo padre.” Perfetto! Penso io. E dico: “Sarebbe molto gentile da parte tua” – “Non si tratta di gentilezza”, m’interrompe di nuovo, “è una cosa ovvia! Non starai molto comodo, perché io adesso ho un’altra camera.” “Un’altra camera?” “Sì, è un po’ più piccola, veramente notevolmente più piccola della prima – la situazione economica generale non è proprio rosea, anche se noi abbiamo conquistato quel Paese.” Noi? L’hai conquistato tu quel Paese? Ma cosa sta blaterando?
“Comunque tutti questi movimenti turbolenti, questi arresti e queste difficoltà saranno senz’altro di natura passeggera. Raccoglieremo ancora i frutti della nostra vittoria, ci puoi contare!” Dannazione, lo pensa seriamente o no?! La cosa sta diventando troppo stupida. “Mi stupisce che tu parli così”, gli dico. “Perché, come sarebbe?” “Prima dicevi sempre che ogni vittoria in fondo è una sconfitta e che a profittarne sarà sempre e soltanto una potenza, che si vinca o che si perda, solo una potenza, quella dell’industria degli armamenti” – “Che insensatezza!” m’interrompe all’improvviso. “Per noi non è più un problema, tutto questo lo abbiamo superato, grazie al cielo! Dal primo gennaio la nostra industria degli armamenti sta sotto il controllo statale, in un certo senso è come se fosse statalizzata e per questo oggi le cose si presentano sotto un aspetto diametralmente diverso! Oggigiorno la collettività trae profitto da ogni vittoria, noi tutti, io, tu, il popolo intero - - perché mi guardi con aria così intelligente?” Lo guardo con aria intontita, perché a un tratto mi trovo a pensare: perché tu e perché io? Io ho perso il mio braccio e tu hai una stanza più piccola – No, non voglio pensare oltre! Pensare fa male – Ma tutto ciò non serve a niente, è una questione che arriva e si siede al mio tavolo. Non cessa di fissarmi, mentre mio padre parla incontenibile come un fiume in piena. “Consolati soltanto, la cosa funzionerà, ognuno ha i suoi pensieri, che sia ricco o che sia povero” – così sta scrosciando il fiume accanto a me e la questione sorride invisibile. Essa si appoggia allo schienale della sedia come un insegnante in cattedra: “Allora, figliolo, rispondi dunque! Cosa significa mai la collettività?” Ad un tratto per un attimo mi si abbuia la mente e sento mio padre come in lontananza: “È vero, certo, che non hai imparato niente, nessun mestiere civile come si deve, la cosa è ovviamente penosa, ché oggi per fare l’apprendista saresti troppo vecchio e come operaio comune non ti possono assumere perché ti manca la forza sufficiente nel braccio – però succede la stessa cosa a cento mila altri, non sei il solo, tienilo a mente! Purtroppo sei un figlio della guerra, non ce n’è uno che abbia imparato qualcosa come si deve, sempre fallimenti, o perché erano precoci o perché erano tardivi – però, un momento – un momento! Mi sta venendo un’idea che potrebbe essere un’uscita da questo labirinto, ascoltami, tuo padre non è fra i più stupidi! Io penso appunto che tu abbia bisogno di una piccola protezione” – “Protezione?” “Forse il buon Dio ti aiuta e tu conosci qualcuno che ti può proteggere – non conosci nessuno di persona?” “No.” “Nessun ufficiale o roba simile?” “No, cioè conosco qualcuno, ma non è un ufficiale, bensì la sua consorte, la vedova del mio capitano” – “La conosci?” “Sì, una volta le ho fatto un servizio.” “Meraviglioso! Ti aiuterà, lei deve aiutarti! Rifletti bene, figlio mio: nella vita tutto si ottiene attraverso le donne” --Così avvenne che mi recai di nuovo fuori città dalla vedova del capitano. Le prese un colpo quando mi aprì la porta, ma si tranquillizzò subito quando sentì il motivo della mia visita. E lei mi promise di proteggermi, in quanto conosceva il fratello di un consigliere ministeriale che forse mi avrebbe potuto procurare un incarico statale di attendente – e mentre lei me lo prometteva, io l’osservavo di sottecchi e mi stupivo che allora avesse potuto piacermi. Nei miei ricordi sembrava vent’anni più giovane. O era solo apparenza? L’animale pensante Adesso abito da mio padre. Lui esce verso mezzogiorno e rincasa dopo mezzanotte. La sua stanza è veramente povera. Un armadio, un tavolo, un letto, due sedie e un sofà mezzo sbilenco – tutto qui. Oltretutto il sofà è troppo corto per me. In compenso sento musica per mezza giornata.
Infatti accanto abita una commessa disoccupata con un grammofono gracchiante. Possiede solo tre dischi, tutta musica da ballo. Perciò sempre la stessa musica, che però non mi disturba, si ascolta sempre volentieri qualcosa di allegro. Sto leggendo un libro sul Tibet, il misterioso regno del Dalai-Lama sul punto più alto del mondo. Mio padre l’ha avuto da un cliente abituale, un cliente abituale che non poteva più pagare il conto perché aveva perso il posto a causa di un minimo ammanco. Il libro vale un piccolo menu, ma senza composta di frutta. Questa commessa non è carina. Sarà difficile che trovi un impiego. Se non vuole morire di fame, dovrà mettersi sul mercato del sesso. Anche se non varrà molto – Veramente è troppo magra. Per lo meno per i miei gusti. A me piace appunto l’aspetto sano. Nei giornali scrivono che non ci sarebbero più disoccupati da noi, invece è tutt’una bufala. Perché nei giornali ci sono solo i disoccupati che ricevono il sussidio – quando uno però dopo poco tempo non riceve più la disoccupazione, non sta più nei giornali nella lista dei disoccupati. Anche quando uno si suicida per non morire di fame non può figurarvi, perché è severamente proibito darne l’annuncio sul giornale. Solo quando qualcuno ruba, allora può essere messo sul giornale, nella rubrica Casi giudiziari. Non c’è giustizia, di questo mi sono già accorto. A questo anche i nostri capi non possono porre rimedio, anche se in politica estera si muovono con genialità. L’uomo per l’appunto è solo un animale e anche i capi sono solo animali, anche se con doti speciali. Perché io non sono dotato come loro? Perché non sono un capo? Chi decide in questo senso di un uomo? Chi dice ad un altro: tu sarai un capo. E ad un altro: tu sarai un subumano. E a un terzo: tu sarai una magra commessa disoccupata. A un quarto: tu sarai un cameriere. Ad un quinto: tu sarai una testa di porco. Ad un sesto: tu sarai la vedova di un capitano. Ad un settimo: dammi il tuo braccio – Chi è quello che deve comandare tutto ciò?! Non può essere nessun Dio buono, perché questa distribuzione è ingiusta. Se io fossi il buon Dio, farei tutti gli uomini uguali. Uno uguale all’altro – stessi diritti, stessi doveri! Ma a questo modo il mondo è un castro di maiali. La mia grassa infermiera all’ospedale diceva sempre, è vero: Dio ha un progetto per ognuno di noi – Oggi mi dispiace di non averle risposto: e per me? Che progetto ha per me, il tuo buon Dio? Che cosa ho fatto di male, perché lui mi sottragga sempre il mio futuro? Cosa mai vuole da me? Che cosa gli ho fatto?! Niente, assolutamente niente! Io l’ho sempre lasciato in pace – Il grammofono suona, nel libro sul Tibet sto leggendo del lago salato Tchargut-tso, ma i miei pensieri vagano altrove. Perché io non ho più paura di pensare, da quando non mi resta altro. E sono contento dei miei pensieri, anche quando scoprono deserti. Perché pensando non resto più solo, perché in questo modo mi accosto di più a me stesso. Ciò facendo scopro in genere solo immondizia. L’uniforme la posso ancora portare, d’altronde non avrei altro vestito e l’anno passato in caserma è stata la mia età dell’oro. Forse avrei dovuto dare a quel mendicante i miei cinque talleri, forse il mio braccio oggi sarebbe di nuovo sano – no, questa è un’idea troppo balzana! Via, via con questa idea! Mio padre diceva: abbiamo vinto –sissignore: noi. Come se anche lui fosse stato lì e c’è stato un tempo in cui ha maledetto la guerra, la sua guerra mondiale, perché l’ha vissuta. Ma la mia guerra lo mette in un turbine di entusiasmo – Sì, lui è e rimane un uomo fasullo. Non gliene voglio, se penso a questa stanza. Quando uno è povero gli è permesso farsi delle illusioni – è suo diritto. Forse l’unico suo diritto. Mi affaccio alla finestra e guardo fuori. Giù sotto per strada vanno due bambini.
Con piccoli passi rigidi – anche tu una vota camminavi così. Un ciclista passa oltre. Poi viene una donna anziana e un uomo con uno zaino. Un signore col sigaro e un camion – Tutto ciò appartiene al tuo popolo. Eccotela la tua Patria – è il tuo tutto. Tutto questo sarà tuo. Tu l’hai difesa – ora sei un menomato. Trasalgo. “Difesa?” Chi l’avrebbe minacciata? Quel piccolo Paese? Ridicolo! Il ciclista ha visto il camion, ha cominciato a traballare ed è sceso di sella per prudenza, perché la viuzza è stretta. Anche la mia Patria comincia a traballare. I camion diventano sempre più grandi – L’industria degli armamenti è statalizzata, dice mio padre. Quindi è lo Stato che ci guadagna. E lo Stato è il Popolo. E io allora perché non ci guadagno? Non faccio parte anch’io del mio Popolo? Però ho soltanto perso – Aspetta e vedrai, presto non ci sarà più niente da ridere! Come diventa fredda la luce, quando si pensa – Il cuore mi comincia a gelare. Nel giornale c’è scritto che avremo la neve. Quest’anno l’inverno arriva presto. Stiamo già riscaldando, io e mio padre. A lui il caldo non basta mai e io invece dormo male a finestra chiusa. Questo è causa di soventi battibecchi. Sono ormai diverse settimane che abito da lui e ho la netta sensazione che lui tirerebbe un sospiro se finalmente mi togliessi di torno. Comunque non dice niente del genere, solo ogni tanto lancia qualche freccia avvelenata. Specialmente quando uso il suo rasoio! Com’è, mi devo lasciare la barba lunga? Mai, mai e poi mai! Voglio essere rasato a modo, liscio liscio. Piuttosto rinuncio al fumo! Smetto di guardare dalla finestra e mi metto sdraiato sul sofà, ma il libro sul Tibet lo lascio sul tavolo. L’indagine di quella macchia bianca sulla carta geografica no, oggi m’interessano altri argomenti! Come rinuncerei volentieri a tutte le spedizioni solo se il postino mi portasse finalmente una piccola letterina – Basterebbero un paio di righe. “Con la presente viene invitato a presentarsi giovedì prossimo fra le 10 e le 11 munito dei propri documenti militari e civili per prendere servizio come aiuto attendente” – segue firma illeggibile. E la firma illeggibile controllerebbe i miei documenti dicendo: “Lei ha fortuna, perché gode della più alta protezione! Da ora in poi sarà un aiuto attendente con impiego statale e diritto alla pensione – congratulazioni!” Il servizio era veramente di tutto riposo. Devo recarmi all’ufficio postale tre volte alla settimana a ritirare e spedire la posta. Ecco tutto. Ora non abito più da mio padre, bensì abito in una stanza tutta mia, direttamente nel palazzo ministeriale. È alta e luminosa e dà su di un parco imponente in cui l’edera si attacca ai vecchi alberi. L’uniforme è riposta nell’armadio, mi son comprato un vestito blu, a rate, perché oggi me lo posso permettere, non è come in passato – Il grammofono continua a suonare. Quando ti metterai sul mercato, mia care vicina? Da me non avrai niente. Peccato che adesso non ci sia più la mia grassa infermiera, ce ne avrei da dirgliene!
“Perché curi uomini malati?” le chiederei. “Ce ne sono di sani più che a sufficienza, prega per loro, affinché non debbano mettersi sul mercato, e lascia che i malati siano malati!” Cosa risponderebbe? Lo so già. Lei direbbe: “Ama i tuoi nemici, ma odia l’errore” – E che cos’è l’errore? Non mi piace questa parola! Perché non ci si raccapezza mai con l’errore e perché lui mi torna sempre di fronte, il capitano! “Che c’è?” mi chiede. “Agli ordini, signore, niente.” Mi giro indietro – No – no, continua a pensare, non essere vile! È venuto un freddo così forte che tu non puoi sentire più niente . Nessuna puntura, nessuna spinta, Via – via! Ma perché ti agiti? Cos’è che non ti lascia in pace? Sento di nuovo come mi si avvicina – Aveva ragione a provare ripugnanza delle sua Patria? Sì o no? Certo era un porco – ma aveva ragione? Può un porco aver ragione? Quando per esempio in quei giorni vedevamo come i nostri aviatori bombardavano l’ospedale da campo nemico e radevano al suolo con le mitragliatrici i ricoverati che saltellavano qua e là, allora il capitano volse via la testa di scatto e se ne andò dietro le nostre linee a camminare avanti e indietro. Guardava sempre a terra, come sprofondato in gravi pensieri. Solo ogni tanto si fermava e guardava nel bosco silenzioso. Quindi annuiva con la testa come se dicesse: “Sì. sì” – Oppure ad esempio quando in quel villaggio abbiamo fatto man bassa, lui ci si è parato di fronte, tutto pallido gridandoci che un soldato onesto non fa razzia! Dovette essere messo al corrente dal nostro tenente, quel giovane cane, che la razzia non solo era permessa, ma addirittura sollecitata. Da istanze superiori. Allora si allontanò da noi il capitano. Andò lungo la strada senza guardare né a destra, né a sinistra. Alla fine della strada si fermò. Io l’osservavo attentamente. Si mise a sedere su una pietra e scriveva sulla rena con la sua spada. Stranamente mi ritrovai a pensare a un tratto al castello maledetto e alla ragazza alla cassa che tracciava delle righe Lei non voleva vedermi. Ecco, appunto, il castello maledetto – esiste ancora! Strano che non ci abbia più pensato, ultimamente – Certo, le finestre sono inferriate e i draghi e i diavoli vi fanno capolino. Quasi, quasi me n’ero dimenticato. E invece volevo sempre ritornare là – Ma come successe? Ecco, sì, io mi ero comprato due porzioni di gelato. Era apparsa la luna, l’aria era tiepida e i gatti facevano il loro concerto. Ma il gelato non mi piace e lei è forse solo una bellezza seduta, di lei conosco solo quello che si vede al di sopra del banco della cassa. Forse ha delle gambe storte – No – no, impossibile! Ricorda bene! Lei stava tracciando le sue linee e per un attimo tutto ti apparve così lontano, il mondo intero, e tu pensasti, il cuore si ferma. Non si muoveva neppure una foglia, solo dal castello maledetto usciva leggera quella vecchia musica. Non le volevi scrivere? Ah sì, sì – “Gentile signorina”, volevi scrivere, “ieri era giovedì e oggi è già venerdì. Quando farò ritorno ancora non lo so, ma lei resterà sempre la mia linea” – Mi vien da ridere. Domani ci vado.
Nel regno dei lillipuziani Nella notte ha nevicato e adesso è tutto bianco. Io vado al mio castello maledetto. La città con la neve si è fatta silenziosa, non si sente il rumore dei propri passi. E andando là, noto di nuovo che mi sto rispecchiando. Nelle vetrine prestigiose. Ora sto attraversando un prosciutto. Ora attraverso dei libri e poi delle perle, piumini da cipria – Una volta volevo stritolare tutto, pesticciandovi sopra – che sciocchezza! Oggi vorrei mangiarmi quel prosciutto, leggere quei libri e le perle e i piumini li vorrei regalare – Ma a chi? Forse alla signorina alla cassa – forse si avvererà più in là. Vedremo! Per la verità sei molto solo – Vedremo, vedremo! Sto scendendo giù al porto. Il grande viale diventa sempre più ampio e sonoro. Sì, qui c’è sempre fermento, estate e inverno. I marinai neri e gialli mi evitano perché indosso ancora l’uniforme. Con le mie tre stellette d’argento – Se questi esotici stranieri sapessero che io non sono più niente! A destra e a sinistra cominciano le attrazioni – scimmie piccole e grandi, tutte freddolose. Tirassegni e slotmachine, la pecora a cinque zampe e il vitello a due teste – niente è chiuso, malgrado l’aria gelida che è venuta dal mare. C’è ancora tutto. Sull’otto volante le persone lanciano risate stridule e dall’ippodromo escono due donne, una più alta e una più bassa. Sono state a cavallo e si mettono ancora in ordine le gonne. Sì, mi potrebbero piacere ambedue, ma hanno già un cavaliere. Un omino, un ratto miserabile. Niente è cambiato. Tutto è rimasto eguale, solo che nel frattempo è caduta la neve. Anche quel ratto è mio compatriota e anche per questa merda ho dato il mio braccio – Mi viene da ghignare, perché se avessi da dire qualcosa, allora sbatterei il mio braccio sul cranio di quel ratto. Fino a farlo crepare. Passo più rapidamente lungo le baracche, perché il mio castello maledetto viene solo alla fine. A destra c’è l’uomo a testa di leone e a sinistra la donna barbuta. E laggiù, esatto, laggiù c’è ancora il mio gelataio! Ci compro le mie due porzioni di gelato, anche se il gelato non mi piace. Oggi però è arrivato l’inverno e lui non vende più gelato, bensì mandorle tostate. Non comprerò le mandorle tostate, anche se mi piacciono molto – no, oggi vado direttamente da lei! Fai bene attenzione, ora arrivo io! Ma cosa succede?! Sussulto – Mi fermo. Come se a un tratto si parasse un muro davanti a me – Che succede?! Che significa tutto ciò? Il mio castello maledetto – non c’è più! È sparito – via, completamente! Dov’è andato?! Al suo posto ora c’è una cosa tutta diversa, un autoscontro o qualcosa del genere – E la mia linea – la mia bella linea? Alla cassa sta seduta un’altra signorina. Guardo ancora in quella direzione. E per un attimo sento una fitta al cuore, come se avessi perduto qualcosa che non ho mai posseduto. La neve cade sempre più silenziosa e una nostalgia mi attraversa l’anima – Sì, un tempo era primavera, ma dovetti partire. La Patria chiamava e a buon diritto non guardava alla vita privata dei suoi figli.
A buon diritto? Il vento soffia, freddo e umido, i gatti non tengono più il loro concerto e io sento il mio braccio rotto che non ritorna più sano – Dove si trova la mia signorina? Faccio un passo e inciampo. Su cosa? Su niente. Non c’è niente per terra. Ma ecco che ride l’altra signorina perché sono inciampato. Lei se n’è accorta. Continua a ridere e mi guarda. Guardami, guardami, tanto non mi piaci! Voglio andarmene, ma non vado lontano. Solo fino all’altro lato della strada. Là si trova il mio gelataio e ci compro mandorle tostate. Sono buonissime. Getto uno sguardo all’autoscontro dove la gente si muove su piccole auto, sempre in cerchio, sempre uno da solo, e io chiedo al gelataio:”Ma qui una volta c’era il castello maledetto, o no?” “Sì”, risponde, “era tempo fa.” “E perché non c’è più?” “Non rendeva più.” Ah, ecco – “Era troppo fuori moda”, sento che dice il gelataio, “non si addiceva più ai nostri tempi.” Sto ascoltando. Come diceva? Non ai nostri tempi? Ma dove mai ho sentito già questo discorso – Esatto, il capitano! Lo ha scritto nella sua lettera! È lì che l’ho letto per la prima volta, nero su bianco: io non mi ci ritrovo più in questi tempi – Cosa mai significa? Perché il mio castello maledetto non è più adeguato ai nostri tempi? E il tuo autoscontro invece è più adatto? Questo sciocco autoscontro dove ognuno viaggia per conto proprio e s’illude di poter viaggiare con la sua auto dove gli pare – E intanto non fa che girare intorno. Che sciocchezza! Allora i miei draghi e diavoli era gente di tutt’altro stampo! E primo fra tutti lo scheletro in persona – me ne ricordo ancora esattamente. E l’oscurità generale nella quale si sarebbe dovuto sentire il brivido tutte le volte che si metteva un piede nel vuoto – oddio, mi è piaciuto di più anche se era solo una sciocchezza. Ma era una sciocchezza più carina. Oppure sono anch’io che non sono adatto a questi tempi? Assurdo! Io sono qui e non potrò mai uscirne, non me lo lascio mettere in testa! Certo che sono adatto a questi tempi, solo in quelle penose automobiline non mi ci adatto! Non mi piace girare sempre in cerchio, mica sono scemo! Ora basta col rimuginare – Fine! Scaravento per terra le mandorle tostate, per fracassarle e attraverso la strada. A diritto. Verso l’autoscontro. “Un biglietto d’ingresso?” chiede la signorina alla cassa. “No”, rispondo, “vorrei solo un’informazione.” “Prego!” “Qui c’era prima qualcos’altro” – “Certo, signore”, m’interrompe, “il castello maledetto.” “È vero. E allora qui stava seduta alla cassa una signorina, un’altra signorina, come potrei descrivergliela” – “Lo so, lo so”, m’interrompe di nuovo, “ma quella signorina non è più da noi.” “Bensì?” “Su questo non so darle informazioni, non ne ho proprio idea. Però tenti in ufficio, guardi di là la parete bianca con la porta nera – loro probabilmente lo sanno dove la signorina si è cacciata adesso.” Ringrazio e mi dirigo verso la parete bianca. Sulla porta sta scritto: Non bussare! Quindi io non busso ed entro direttamente, ma una voce stridula m’investe gracchiando: “Non potrebbe bussare?!” Volevo rispondere per le rime, quando chi mi vedo di fronte?
Un nano, un lillipuziano. Ha un volto tirato e crudele. Non c’è da meravigliarsi che sia sempre arrabbiato, visto com’è rimasto piccolo. Sembrava che andasse avanti e indietro, il lillipuziano, e che si sia fermato di botto quando sono entrato io. Ora soltanto noto un secondo uomo – sta davanti ad un leggio e scrive in dei grossi libri, è una sorta di ragioniere o roba del genere. Mi osserva al di sopra degli occhiali. Il nano gli fa un cenno imperioso, mi rivolge le spalle in modo ostentato e guarda con aria importante in certe carte. “Desidera?” chiede il ragioniere. Inizio a chiedere della signorina, ma non arrivo tanto lontano – Con uno scatto il nano si volta e dice:”Ah” – Lo dice disteso e fissandomi. Poi sogghigna. E anche il ragioniere sogghigna. Ma che cos’hanno quei due? Che significa tutto questo? Il nano continua a osservarmi e poi, ironico, dice:” Lei, dunque, è quello famoso”Quale famoso? Come sarebbe? “Siete dovuto partire in guerra?” continua col suo interrogatorio. “Sì, cioè sono partito da volontario”Il nano m’interrompe con un movimento della mano, come se volesse dire, lasci stare, lo sappiamo, siamo fra noi – Mi osserva di nuovo dalla testa ai piedi e poi dice al ragioniere: “È lui.” Il ragioniere sogghigna come una vecchia zitella. La cosa mi diventa fastidiosa. “Chi sarei io?”chiedo quasi minaccioso. “Lei è un soldato, caro signore,” risponde il lillipuziano con ironica cortesia,“e la signorina di cui chiede notizie si era appunto innamorata di un soldato, sembra a prima vista, conoscendolo appena, forse solo all’aspetto – vabbe', e poi un bel giorno quel signor soldato non si è fatto più vedere.” Lo guardo fisso. “Lei gli avrebbe scritto?” “Continuamente, ma lui non ha mai risposto. Nemmeno una riga, signore mio” – Il ragioniere continua a ridacchiare. Dispettoso, molto dispettoso. “In guerra appunto molte lettere vanno perdute”, dice il nano e ride un istante. La testa mi diventa totalmente confusa. Lei mi avrebbe scritto? Subito, a prima vista? Da dove sapeva il mio nome, chi ero e cose simili – Forse solo all’aspetto? Escluso! Escluso – E io dico: “Signori miei qui sembra che ci sia uno scambio di persona” – “Non direi!” m’interrompe il nano. “Ma è impossibile” – “Niente è impossibile!” “No, non posso crederci, non può essere!” “Un momento, caro signore!” m’interrompe di nuovo il nano. “Qui non siamo un ufficio informazioni e dobbiamo lavorare. Prego, se ne convinca di persona, il ragioniere Le darà l’indirizzo della signorina” Fa un breve inchino e scompare dietro una porta nella tappezzeria. Io lo seguo con lo sguardo mentre il ragioniere sfoglia uno schedario. “Chi era quel piccolo signore?” chiedo automaticamente. “Il direttore della nostra troupe di lillipuziani.” Aha. Sto aspettando l’indirizzo. E anche il suo nome. Come si chiamerà? Eulalia? Mi viene da ridere. No, non posso credere che sia io quello a cui lei ha scritto – avrà scritto ad un altro soldato, però voglio andare fino in fondo alla faccenda, sebbene si tratti di un semplice scambio di persona. Già in primavera mi era parso chiaro che dovesse avere qualcuno un qualche principe della baracca.
Pensavo ad un equilibrista o ad un ingoiaspade o a qualche pagliaccio – ma ad un soldato non avrei mai pensato. Piuttosto ad un lillipuziano – ammesso che puzzasse di soldi. Però adesso, come ho detto, voglio andare fino in fondo alla faccenda, ché se io non mi confondo, allora sarebbe un vero e proprio sogno. Il ragioniere continua a sfogliare e io mi osservo intorno. Alle pareti del suo ufficio stanno appesi dei manifesti del circo o simili. Una domatrice, ad esempio. Con tigri del Bengala. Un numero di equilibrismo e un mago. Un orso bruno e uno bianco. E la donna cannone. No, quella non sarebbe per il mio braccio – “Eccola”, sento ad un tratto la voce del ragioniere, “adesso ci siamo finalmente, ecco quel maledetto indirizzo – un momento, Glielo scrivo!” “Grazie mille” – “Non c’è di che!” Si toglie gli occhiali e se ne mette un paio di più forti, e mentre scrive su di un biglietto l’indirizzo della mia signorina, dice così di sfuggita:”Era una brava signorina, una signorina gentile. Mi è dispiaciuto molto” “Perché?” Lui sorride in modo strano. “Si era ammalata e allora è stata licenziata.” “Malata?” “Sì, sì, abbastanza” – e ridacchia di nuovo e mi diventa insopportabile. “Cosa le mancava, dunque?” “Oddio”, risponde,”niente in particolare” – Adesso ha finito di scrivere il biglietto per me, si alza, si toglie gli occhiali e si rivolge a me – Si blocca e mi guarda allarmato con i suoi occhi acquosi. Oppure è solo miope? No, ha paura. Perché? Non cesso di fissarlo. Lentamente mi allunga il biglietto, quasi esitando, come se avesse paura di darmelo – “Ecco”, dice e la sua voce ad un tratto suona diversa, vuota, come da un avello. Gli prendo di mano il biglietto e leggo la prima parola: Anna -
Anna, la ragazza del soldato Dio ha un progetto per ogni singolo individuo, diceva la mia grassa infermiera e comincio a credere che avesse ragione. Perché non è colpa mia di quello che è successo un’ora fa. Adesso, quando rifletto su come mai è successo, la neve volteggia dinanzi ai miei occhi, come se avessi ancora la febbre. Un angelo sta in piedi nella notte e tiene in mano il mio braccio, il mio povero osso, da me offerto alla Patria che ha perduto il suo onore, e per sempre – Sì, il capitano aveva ragione! Adesso ripugna anche a me la mia Patria. – Il campanile della chiesa batteva la mezzanotte, quando stavo attraversando la piazza vuota, lentamente, diretto alla Città di Parigi. Appena sono entrato, mio padre ha tirato un chiaro sospiro di sollievo.”Dio mio, dove sei stato per tutto questo tempo?” ha chiesto, sorpreso. “Mi sono fatto già tanti pensieri, se mai ti fosse successo qualcosa, ogni giorno vengono messe sotto sempre più persone!” Io l’ho tranquillizzato dicendogli di aver incontrato per caso un amico che mi ha invitato al cinema e poi a bere una birra. Era una bugia, ma mio padre ci ha creduto. “Spero che tu abbia già cenato”, ha aggiunto, “perché adesso la cucina ha già chiuso”“Non ho appetito.” Mi ha rivolto uno sguardo indagatore.
Non sarai mica malato? Sta’ attento con la tua ferita, ancora non è tornata a posto – che hai la febbre?” “No.” “Non fare troppi sforzi! Aspetta un po’, voglio vedere di procurarti qualcosa da mangiare, qualcosa di freddo – l’uomo deve mangiare, sennò va in malora!” È scomparso dietro al bancone, io mi son tolto il cappotto e messo a sedere, dove sedevo sempre, subito dietro la porta. C’erano ancora pochi clienti, tassisti della stazione più vicina. Giocavano a dadi come sempre. Qui hai mangiato per diverse settimane, penso, a pranzo e a cena, anche se a prezzo scontato, comunque a spese di tuo padre. È un brav’uomo fasullo. Sarebbe brutto se dovessi fargli un torto, perché ormai non mangerò più tanto spesso a sue spese, forse stanotte è l’ultima volta Forse domani all’alba arriva già la polizia e mi porta via. Sciocchezze! Come fa la polizia a saperlo? Chi ne è stato testimone? Nessuno. Ma la polizia criminale è astuta, me ne ricordo bene. Ha tutti gli apparecchi e tutte le attrezzature a disposizione, arriva a scoprire le cose più impensate, prima o poi – e forse c’è stato un testimone, qualcuno a cui non si pensa, è possibile che qualcuno mi abbia osservato attentamente, una uniforme resta sempre impressa, specialmente una con tre stellette, con tre stellette d’argento – Mio padre mi porta pane e formaggio. E un bicchiere del gotto sopraffino. Io lo guardo stupito. “Vino?” “Eccezionalmente!” dice sorridendo. Perché son contento che tu non sia stato investito, ma anche per consolarti –non ti spaventare! Stasera per l’appunto hai ricevuto una lettera, la mia padrona di casa è stata così gentile e me l’ha portata apposta, ha avuto l’idea giusta e cioè che ci fosse qualcosa d’importante, in quanto io non conosco nessuno che mi scriva, e infatti è una cosa importante, anche se triste” – “Via, dimmelo!” “Va bene, va bene, non essere impaziente! Te lo dico subito! Dunque, questa lettera viene dalla vedova del tuo capitano, lei scrive – ma leggila da solo! Per il posto di attendente niente di niente, niente da sperare, niente da fare” – Leggo la lettera e la metto da parte. “Va bene”, dico e comincio a mangiare il formaggio. Mio padre mi guarda esterrefatto. “Va bene, dici? Questo era l’ultimo appiglio, è una catastrofe” – “Ci sono catastrofi peggiori.” “Non mi sembra, figlio mio, non mi sembra! Che cosa ci resta da tentare, ora? Non puoi mangiare qui in eterno, a questa mensa da gatti, io personalmente non avrei niente in contrario – pago volentieri, certo, però arriva un momento che anche questo cessa! Non dimenticare che sono un uomo vecchio, da un giorno all’altro il diavolo mi porta via, e tu, tu sei ancora giovane – tu devi tentare qualcosa!” “Franz!” chiama l’altro autista. “Il conto!” Mio padre si muove verso di lui. Io continuo a mangiare tranquillo il mio formaggio e penso: sì, devi tentare qualcosa – L’attendente ministeriale – svanito. Mi sembra già quasi comico. Abitare in una stanza tutta per sé, direttamente nel palazzo del ministero, con vista su di un parco prestigioso, in cui l’edera si arrampica agli alberi secolari – quant’era ridicolo! Mi son comprato a rate un vestito azzurro e tre volte al giorno devo recarmi alla posta– macché, macché, non sono nato per fare l’attendente! Sono diventato un’altra cosa. L’essenziale è e resta un fatto: che non venga scoperto. Dopodiché tutto sarebbe in ordine. Perché ho agito giustamente in quello che ho fatto, sissignore: giustamente! Mi ricordo ancora esattamente com’era schifoso quel ragioniere, quando gli ho chiesto: “E cosa fa adesso la signorina Anna?” Lui ha alzato le spalle e ha detto: “Lo sanno gli Dei!” Tutti si richiamano agli Dei, ma al buon Dio non ci pensa nessuno.
Quattro ore fa pensavo ancora: è escluso che abbia scritto a te le sue lettere. Come avrebbe potuto sapere chi ero io? Avrebbe dovuto seguirmi allora di nascosto e avrebbe dovuto informarsi dalla guardia della caserma per arrivare a sapere il mio nome - no, è escluso! Quando stasera ho lasciato il ragioniere, ho pensato: ora, almeno, sai dove abita. Abita molto lontano. Se ci vai a piedi, ci metti un’ora e mezzo almeno, ma risparmi i soldi del tram, è vero che l’aria imbrunisce, però la notte è ancora lontana. Rapidamente sono passato accanto alle baracche. Ci sono milioni di Anne a questo mondo, ognuna è diversa e nessuna è quella che cerchi. Bionda o bruna o nera di capelli – ci saranno anche Anne dai capelli rossi. Grasse o magre, alte o basse, più vecchie o più giovani. Quante Anne hai già avuto? Mi sembra solo due, se non mi sbaglio – Di alcune non so neppure come si chiamavano, le ho conosciute solo per una notte. Come stanno le tue due Anne che hai avuto? Lasciatemi in pace! Se vivono ancora non m’interessa, ora m’interessa solo una terza Anna – Perché? Che cosa ci hai sgranocchiato? Forse perché allora per causa sua ho fatto qualcosa che non volevo fare Ho mangiato allora due porzioni di gelato. Smetti di canzonarmi! Non c’è bisogno di vergognarsi quando uno è felice! Amare non è vergogna! – Ho percorso la strada in gran fretta. La città diventava sempre più silenziosa. Come ci può diventare freddo il mondo E d’un tratto, non so da dove, mi volò nell’anima un pensiero – e tutto mi si fece così chiaro e caldo che senza volerlo mi fermai. Non avevo mai visto niente di così bello. Era un canto di cui però non riuscivo a capire le parole. Chi è che canta nella mia notte? È la mia signorina? Fermo, ora lei mi vuol dire qualcosa – “Ascoltami”, mi dice,”quando allora ti vidi, dinanzi al nostro castello maledetto, pensai che mi avresti riconosciuta” – Riconosciuta? “Ricordati, ricordati – tu ed io eravamo già conoscenti” – Già conoscenti? “Da prima, da prima – e io speravo sempre che saresti tornato da me, ma tu ti sei limitato a comprare un biglietto d’ingresso e non hai riconosciuto la tua signorina” – Chi sei, tu? “Più tardi, più tardi – allora io naturalmente non feci parola e disegnai solo le mie linee, perché ogni essere umano ha il suo orgoglio” – Il suo orgoglio? “Non dir niente, niente –continua solo a camminare, è tanto che ti aspetto” – Aspetti? Mi guardo intorno. Il vento soffia e la neve volteggia. “Vieni, vieni – ormai sei vicino. Vedi la casa gialla davanti a te? È là che abito, là” – Sì, abiti qui. Sono alla meta. Sul biglietto sta scritto: al terzo piano. Dietro quale finestra? Ancora non lo so – Nell’andito della casa incontro la portinaia. Dà il cencio in terra. Saluto e chiedo se è qui che abita la signorina. Lei mi guarda con certi occhi e non dice una parola. Di colpo lancia un grido: “Gesù, Giuseppe e Maria! È Lei?! Ora La riconosco, pensavo che fosse già morto!”
Chi? Io? Morto?! “Pensavo che fosse caduto in guerra”, dice e si raddrizza. “Povera ragazza, ha aspettato tanto una lettera da Lei” – Io la guardo costernato. “Mi conosce?” Lei mi osserva lentamente dalla testa ai piedi. Poi sorride astutamente: “No-no, non ho detto niente” – “Ma allora chi sono io?” “Se non lo sa Lei, signore mio… In ogni caso è bello da parte Sua di essere ancora venuto” – Si blocca in mezzo alla frase e resta muta. Mi cresce sempre di più la confusione in testa, incerto guardo su per le scale – e ad un tratto mi sembra un luogo conosciuto, come se avessi già visto in sogno queste scale. Sicuro, qui conosci tutto! A destra salgono le scale e a sinistra dietro l’angolo abita questa portinaia e sopra c’è un corridoio scuro con tre porte per ogni piano – Mi prende un timore inquieto. Ma qui dove mi trovo? “La signorina però non abita più qui”, sento dalla voce della portinaia, “è già traslocata da sei mesi.” “E dove?” Sorride di nuovo astutamente.”Vada, vada al terzo piano, la signora dalla quale abitava Glielo dirà di certo dove può andare a farle visita – la povera signorina ne proverà una gioia immensa se La vede ritornato di nuovo fra i vivi, specialmente dopo il grande dispiacere che ha dovuto provare” – “Dispiacere?” “Eh certo, semplice non è stato!” – “Cosa non è stato semplice?” Lei tace e sogghigna. Io insisto. “Ma parli chiaro, io non ne so niente!” Lei mi guarda fisso e comincia a ridere. “Certo – certo i signori della creazione sono sempre assolutamente innocenti e non ne hanno idea, come se non fossero capaci di contare fino a tre, anche il mio caro signor marito” “Ascolti”, la interrompo bruscamente, “che sciocchezze sta raccontando?!” Lei fa spallucce. “Ci pensi bene, giovanotto, e lo indovinerà” – “Io non so indovinare niente!” “E io non dico più una parola, mi dovessero ammazzare – me ne guardo bene! Non voglio aver niente a che fare con questa faccenda! Vada su personalmente a farsi rinfrescare la memoria da lei! Buona notte!” Mi lascia perdere e torna ad occuparsi del pavimento. Lo strofina con acrimonia. La guardo ancora un po’ e quindi vado su al terzo piano. Da quella signora dove la mia signorina prima abitava e poi ha traslocato. Ma dove ha traslocato? Questa portinaia è una bestia velenosa – Ce ne sono anche di diverse, grazie al cielo, io ne conosco anche di molto accettabili. Di persone ce ne son sempre di due specie. Ma c’è solo una signorina È vero, questa scala mi sembra di conoscerla. Aspetta, presto ti renderai conto – Ora mi trovo al terzo piano. Suono alla seconda porta, come sta scritto sul biglietto. Una signora mi apre timorosa e io vedo a colpo d’occhio che lei non sa invecchiare. Avrebbe i capelli grigi, ma li tiene neri come la pece, e porta un accappatoio di colore sgargiante – un indumento di altri tempi. Lei mi scruta sospettosa, lo vedo subito che chiuderebbe la porta se io non indossassi un’uniforme. La gente ha fiducia in una uniforme. “Desidera?”, chiede. Parla con una lisca accentuata.
“Mi scusi se La disturbo di sera, così tardi, ma vorrei una semplice informazione” – e le dico che sto cercando la signorina. Mi scruta sempre più sospettosa. “Chi cerca il signore?” Accenno ad un inchino. “Mi scusi, ma la portinaia mi ha mandato qui da Lei, dicendo tutta una serie di cose abborracciate, che non mi sembra più di riconoscere neppure me stesso” “Si può sapere”, m’interrompe “in che rapporti è Lei con la signorina – voglio dire: siete parenti?” Faccio un sorriso di cerimonia. “La portinaia pensa che sia stato il fidanzato della signorina” – “Via – via!” m’interrompe delusa. “Quella è una persona impossibile che chiacchiera, chiacchiera e racconta veramente le cose più inverosimili, oltre a prendere una persona per un’altra. Mi sembra che non sia del tutto normale – Lei, signore, non è qui come fidanzato, il fidanzato vero era anche lui un uomo dell’esercito, è vero, ma per quell’idiota di donna giù sotto uniforme è uniforme e poi lo avrà visto fra sì e no una volta, il fidanzato giusto e di sfuggita, ché lui è stato qui una sola volta – eh sì, la felicità dura poco!” Allora mi viene da pensare: quindi non sei tu quello a cui lei scriveva le lettere – si trattava di un altro soldato. “Hm”, dico soltanto e stranamente ora mi è completamente indifferente se era un altro o se ero io – come se sapessi chela cosa principale ha da venire. “Anche Lei è stato in guerra?” mi chiede la vecchia con interesse. “Sì, cioè come volontario” – Ora è lei che fa un gesto con la mano come prima il lillipuziano. Sì, sì, lo sappiamo tutti, lasciamo perdere, siamo fra noi – Quindi m’invita ad entrare in casa, ché “non ci si può mica intrattenere con un eroe in un freddo pianerottolo.” M’introduce nella sua stanza. “Mi scusi se La faccio entrare in camera mia, ma è l’unica stanza che riscaldo, anche se abbiamo conquistato mezzo mondo” – Lo dice con ironia e io non mi oppongo. Certo, abbiamo vinto! Lei continua nella conversazione: “Stento a credere che riusciremo a raccogliere i frutti delle nostre vittorie. Temo – temo che almeno io nel mio piccolo non vedrò più quelle fortune profetizzate, ormai siamo dell’età della pietra” – “Ma gentile signora!” “Via, via, via!” dice minacciandomi con l’indice. “Lei è uno di quelli!” “Dico solo la verità”, aggiungo io, mentendo. “È molto lodevole, però spesso s’incorre in certi pericoli – Guardi, io sono stata tutto questo un tempo!” Accenna alle sue quattro pareti disseminate di fotografie. La riconosco vagamente in una ragazza in calzamaglia. Chi era un tempo il mio partner? Stacca una foto dalla parete. “Io e mio fratello.” Un’artista? Trapezio e anelli e riflettori – “Il mio fratello maggiore, morì nella grande guerra. Sì, sì, insieme eravamo una grande attrazione –molto, molto richiesti! A quell’epoca era ancora una bambina.” Una bambina? Vabbè, è un po’ esagerato. No, no, con quel seno eri di certo già una diciottenne. E calcolo rapidamente quanti anni avrà oggi quella bambina. “Quelli erano ancora tempi!” sospira. “Ma oggi? Cosa producono questi nuovi artisti alla moda? Son tutt’un bluff! È sufficiente essere una larva carina! – ma io parlo, parlo qui di me e della mia sfera d’interessi privati e noi ci allontaniamo completamente dallo scopo della Sua visita! Si voleva informare della povera signorina Anna? Ora, però, mi scusi per la mia indiscrezione, ma per diverse ragioni naturalmente vorrei sapere perché, cioè, con quale diritto Lei se ne interessa? È un parente della signorina?” Io? E cosa mai devo dire? In qualche modo devo appartenere a lei, altrimenti non sarei qui – ma parente? Non saprei-
Vorrei sogghignare, ma la bambina invecchiata mi osserva attenta, come stesse in agguato. E io, senza batter ciglio, rispondo: “Sono il fratello.” “Il fratello?!” “Sì.” “Non è possibile!” “E perché no?” Per la sorpresa lei non dà risposta. Stiamo in silenzio. “Quindi Lei è il fratello”, ricomincia,finalmente, “e non si è occupato di Sua sorella” – “Non avevo tempo.” “Scuse! Niente altro che scuse! Per un essere umano bisogna aver sempre tempo – l’uomo viene prima di tutto, tutto il resto viene dopo!” “Sì, è possibile” – “È sicuro! Senno dove si finirebbe?” Già, dove? E come mi pongo la domanda, la nebbia ingiallisce sempre di più – diventa spessa e sporca e così si posa sulla mia anima. Si alza un albero, un albero morto. Al bordo di un grande altipiano. Intorno a noi si spalancano abissi e giù a valle scrosciano le acque – Abbiamo catturato cinque uomini e ora li appendiamo all’albero. Prima i più vecchi e poi i più giovani. Ché ai più vecchi si dà precedenza. Noi facciamo piazza pulita, pulita! E il capitano strappa via una stelletta, una stelletta d’argento – Capitano, Capitano cosa mai scrivi in quella tua lettera? “Non siamo più soldati, bensì miserabili predatori, vili assassini. Non combattiamo con onore contro un nemico, ma con spregevole astuzia contro bambini, donne e feriti” – Strano,la conosco a memoria! Le parole mi sono rimaste in mente. E le cornacchie ripassano accanto e il capitano si è allontanato da noi – Non guardava né a destra né a sinistra. Ora sta seduto su di una pietra e traccia segni nella rena con la punta della spada. Non mi vuole vedere. Che segni traccia? Linee? E come mi rivolgo la domanda, la nebbia fitta diventa trasparente, lo sporco diventa bianco e ad un tratto mi si fa chiaro. Sempre, quando pensavo fugacemente : ora succede qualcosa di spregevole, allora mi veniva in mente lei, la mia cara sorella, e non potevo far a meno di pensare: in verità vorrei venire da te – “Se il signor fratello fosse venuto prima”, sento che dice la voce di chi mi sta di fronte,”allora, forse, sarebbe andato tutto diversamente con quella disgrazia.” “Disgrazia?” “Mi dispiace tanto che sia toccato in sorte proprio a me il compito di comunicarGlielo, ma con la sorte non si discute – insomma si tratta di una brutta faccenda che si riassume in poche parole. La Sua povera sorella aveva un impiego di tutto rispetto”“Nel castello maledetto” – “Esatto, però un bel giorno è stata licenziata”“Per via dell’autoscontro?” “Autoscontro? Ma no! Lei è stata licenziata perché aspettava una piccola creatura – un bambino.” “Un bambino?” “Sì, e in questo stato di dolce attesa lei non avrebbe potuto naturalmente assolvere sempre i propri compiti minuto per minuto, dovendo ogni tanto fare pausa una mezza giornata. Così l’hanno licenziata. La ditta non se ne sarebbe neppure accorta se qualche volta avesse speso un paio di centesimi per una collaboratrice. Pensi solo che si tratta di una società immensa, questa gente possiede laggiù quasi la metà del viale in attrazioni di media grandezza, per l’appunto in questi tempi di crisi incessante si è potuta comprare tutto in blocco – ma questa è gente così, gente che non porta rispetto al singolo, loro assumono e licenziano, senza preoccuparsi se qualcuno resta sotto le ruote. Ce ne sono abbastanza, pensano loro, che se lo lasciano fare e
per di più il padre del bambino era addirittura un soldato, un valoroso difensore della Patria, anche lui un famoso volontario! La Sua povera sorella gli ha scritto a tutto spiano e non ha mai ricevuto una risposta – chissà per quale ragione? Un giorno tutte le sue lettere sono tornate indietro ancora sigillate con un timbro statale: destinatario deceduto in operazione militare. A quel punto lei era ovviamente disperata, non aveva niente, né soldi, né impiego – e così si è lasciata spingere a fare una sciocchezza, una sciocchezza senza rifletterci sopra. Si è lasciata portar via il bambino da una qualche oscura persona, la cosa è venuta alla luce e ora, ora è in prigione.” “In prigione?” “Pensi un po’, le hanno dato due anni!” “Due anni?!” “È orribile” – Restiamo in silenzio. Mi viene in mente il lillipuziano. È il direttore della troupe lillipuziana – E certo è anche legato finanziariamente alla ditta, altrimenti non si sarebbe comportato in modo così imperioso. Ha una faccia tirata e crudele - non c’è da meravigliarsi che sia sempre arrabbiato, visto com’è rimasto piccolo. E la sua rabbia lui la scarica sugli altri. Licenzia. Senza scrupoli. Bisognerebbe che una volta gli si desse un colpo sul cranio – A un nano? Vuoi accoppare un menomato? E perché no? “Forse sarebbe stato tutto diverso, come dicevo, se il signor fratello fosse venuto prima”, continua a chiacchierare la vecchia. “Lo dico sempre io che al mondo tutto andrebbe meglio se gli uomini si preoccupassero maggiormente delle donne, invece di occuparsi solo di sé stessi. Il buon Dio ha creato Adamo ed Eva e non reggimenti, compagnie e divisioni” – “In quale carcere si trova?”, chiedo. “Dall’altra parte del mondo, sennò le avrei già fatto una visita a quella poveretta, le visite si fanno un giorno al mese – in ogni caso le scriva subito una lettera affettuosa!” “Sì, le scriverò senz’altro” – Mi alzo e lei mi accompagna fuori di camera. “I giornali in ogni numero parlano sempre di calo delle nascite e di protezione della vita dei nascituri figli del popolo, parlano del popolo minacciato di estinzione e cose simili, ma una povera ragazza viene messa sul lastrico quando accenna a diventare madre – qui dovrebbero intervenire i nostri capi!” Mi viene da ghignare. “E non intervengono?” “Signore caro, ma dove vive, sulla luna?” “No, non più” – “Da noi, qui sulla terra, una ragazza madre disoccupata nel migliore dei casi potrà godere di una modesta pensione di cui non può vivere né la madre, né il bambino, ammesso che non abbiano una persona presso cui possano mangiare e abitare – non ne ha mai sentito parlare, visto che mi guarda perplesso?” “No”, dico io e vedo mio padre davanti a me. Zoppica. E la mia pensione. Quella zoppica ancora di più. Ora ci troviamo sul pianerottolo. “I nostri capi”, dico lentamente, “sono proprio dei grandi ingannatori” – “Pss!” mi dà sulla voce spaventata, guardandosi intorno con sospetto. “Per amor del cielo, non parli così forte! E per di più in uniforme – faccia attenzione!” “Sì.” “Tanto non avrebbe senso” – “Possibile.” “Mi stia bene – e si occupi piuttosto di Sua sorella!” “Buona notte, gentile signora!” Scendo le scale – gradino per gradino. Calmo, calmissimo. Non mi si nota nulla. Ma dentro di me c’è una rabbia terribile, un odio spaventoso – Ora vorrei far piazza pulita!
Un repulisti da far volare gli stracci! Ora vorrei essere un aviatore, un bombardiere pesante e volare in cerchio sulla testa dei nostri capi – quando stanno riuniti tutt’insieme e si spartiscono il Paese, quel piccolo Paese che anch’io vi ho conquistato. Quella creatura incapace di vivere, dominata da un governo penoso, che si richiama sempre al cosiddetto punto di vista del diritto – Un punto di vista ridicolo o come? Non stento a credervi! Ditemi, voi capi laggiù sotto di me, a chi tocca quel Paese conquistato? A chi?! Io vedo solo un carcere. Voi parlate sempre di una missione storica mondiale – Voi non avrete nessuna missione storica! Non rendeteci tonti, se vi preme solo rubare! – Rapido mi avvio nella notte scura ancora una volta giù verso il porto. Nel regno dei lillipuziani. Perché voglio chiedere alla sua ditta per quale motivo ha licenziato una signorina. La cosa è vero che non mi tocca direttamente, ma non si può accettare tutto! Chi sopporta ogni cosa? Un mascalzone. E io non sono un mascalzone, il mio cuore è un mare nero. Sotto un cielo arruffato. Le nuvole trascorrono piene di collera – Sta’ attento, sta’ attento! Porti ancora l’uniforme e questo ti può costare la testa. Non ti fare accorgere di niente – Nascondi il tuo mare e il tuo cielo! Camuffati, finché non ti sei calmato! Camuffati! – Passo accanto all’autoscontro dove girano in cerchio gli ultimi clienti. Buon divertimento! E là c’è la parete bianca con la porta nera che è già chiusa. “Quand’è che qui c’è di nuovo qualcuno?” chiedo ad un ragazzo dell’altalena. “Domani alle otto.” Benissimo, allora ritorno domani. – M’incammino lentamente per il viale sulla via del ritorno, tanto oggi non ho più niente da perdere. La maggior parte delle baracche sono chiuse. L’ingoiaspade e i mangiafuoco non ingoiano né mangiano più niente. La donna barbuta, l’uomo con testa di leone e la donna cannone giacciono già nei loro lettucci e sognano azzurre nebbie. Solo uno scimmiotto gela di freddo nella notte. Vorrebbe tremare a più non posso, ma non c’è un’altra scimmia accanto a lui con cui tremare insieme. I cavalli all’ippodromo sono già nella stalla e anche i tirassegni hanno già chiuso. Ora i giorni si accorciano sempre di più. A sinistra cade una luce sulla neve da una casa della birra. È aperto sempre – ora vado a prendermi una birra. Sarebbe bello potersi permettere ancora una sbornia come si deve per poter recuperare un po’ di senso del futuro – Poso già la mano sulla maniglia della porta, ma mi fermo all’ultimo momento. Ché dentro a questo palazzo della birra scorgo un vecchio conoscente. È l’uomo che mi ha dato il biglietto con l’indirizzo di mia sorella. È il ragioniere. Sta mangiando in questo momento un’aringa. Come mangia con delicatezza – o mi dà solo questa impressione perché è miope? Lui lo sapeva il motivo per cui lei ha perso l’impiego, lo sapeva con esattezza – Lui ha anche detto: “La signorina si è ammalata.” E io gli ho anche chiesto: “Cosa le mancava?” E lui ha detto: “Niente di particolare” – Niente di particolare? O aspetta, aspetta! Sta ancora mangiucchiando.
Vedo che porta dei polsini di lana, per non gelare. E io mi sento salire un pensiero: tu devi gelare. E non devi mangiare neanche un’aringa – Getta uno sguardo sulla porta a vetri e ha un sobbalzo. Il boccone gli casca dalla forchetta. Mi ha riconosciuto? Ha subito distolto lo sguardo – Sissignore, lui lo sa chi sono – malgrado sia miope. Ora lascia perdere l’aringa – Ti è andato via l’appetito? Si alza dal tavolo, ma resta ancora nella casa della birra, anche se non compra altro. Non si decide ad uscire, anche se di tanto in tanto guarda furtivamente verso la porta a vetri se io sono ancora lì. Sì, sono ancora qui fuori e non entro dentro. Aspetto che il signore si degni di uscire – Perché ti voglio chiedere a quattr’occhi per quale motivo avete licenziato la signorina. A quattr’occhi, perché c’è la possibilità che te ne assesti un paio. Aspetta, aspetta, ti tiro fuori io! – Lascio la porta e mi allontano di un paio di passi a destra – ora penserà che me ne sono andato. Mi schiaccio contro il muro. La porta si apre, ma appare solo un ubriaco. Canticchia fra sé e barcolla verso casa. Finalmente arriva il mio uomo. Resta sulla porta sospettoso e si guarda intorno – sì, lo sai benissimo che è stata una porcata – Non può vedermi. Mi trovo nell’ombra di un’altalena. Tutt’a un tratto si mette in cammino – verso sinistra. E io lo seguo. Curva in una viuzza secondaria – ancora non la conosco. Arrivano due piccoli ponti, qui è tutt’un canale. Ci troviamo dietro le case, ci sono solo magazzini – Ora lui procede lungo una spalletta. Va’ vai, tanto ti riacchiappo! Tira un vento freddo. “Signor ragioniere!” lo chiamo. “Un momento!” Si guarda intorno, mi vede e si spaventa – Comincia a camminare più svelto. E io ora gli sono già alle calcagna. “Lei cammina svelto”, gli dico, “ma so camminare svelto anch’io” – Con due passi gli sono davanti e gli sbarro la strada. Ora si deve fermare. “Cosa vuole da me?” chiede, guardandosi intorno in cerca di qualcuno. Ma non viene nessuno, siamo noi due soli. “Le vorrei chiedere qualcosa a proposito della ditta”“Venga domani in ufficio”, m’interrompe e cerca disperatamente di apparire sicuro. “Domani” sogghigno. “Chi sa se domani sono ancora vivo!” “Speriamo che non sia così”, dice con un sorriso di paura. “Ascolti bene”, gli dico serio,“ si tratta della signorina del castello maledetto. Oggi pomeriggio lei mi ha detto che la signorina a suo tempo si era ammalata” – “Purtroppo, purtroppo” – “Lei sapeva cosa le mancava?” Mi fissa un momento, poi si passa una mano sugli occhi e guarda in su verso il cielo – cerchi aiuto lassù? Cerca, cerca, intanto sei in mano mia! Ad un tratto si dà una scossa e s’informa a voce bassa: “Mi scusi – è davvero Lei il papà?” “No.” “No?” chiede sollevato e mi osserva da capo ai piedi. Diventa disinvolto. “E allora cosa Le interessa di quella signorina?” “M’interessa e basta!” “Mi lasci andare!” “Ancora no! Lei trova giusto che quella signorina venisse licenziata?”
“Io non so cosa vuole da me” – “Voglio avere una risposta!” “Prego – prego! Siccome la signorina Anna non poteva più svolgere correttamente le sue mansioni, abbiamo dovuto licenziarla. Non dimentichi che siamo una grossa ditta e abbiamo anche grandi responsabilità” – “Per chi?” “Abbiamo da pensare a 240 persone, impiegati, artisti e simili – in tale contesto nessuno di noi può pretendere che ci occupiamo di ogni singolo individuo” – “Perché no?” “Perché il singolo individuo non ha più nessuna importanza.” Lo guardo fisso. Nessuna importanza? Anche io lo dicevo una volta – Che sciocchezza, che sciocchezza! “Dobbiamo restare produttivi”, continua a dire, “anche la battaglia concorrenziale in fondo è una guerra, e una guerra si sa non si può vincere in guanti bianchi, lo dovrebbe sapere anche Lei” – In guanti bianchi? Ma queste erano anche le mie parole – Quando il capitano gridava, un soldato non è un criminale. Il ragioniere mi guarda un attimo ironico e ridacchia. Oppure mi parve soltanto? Quindi continua a recitare la sua paccottiglia e io ci sento me stesso, ci sento me stesso – Tutte queste frasi, tutti questi motti di saggezza, senza pudore e pieni di boria, recitati a pappagallo, sillabati come una preghiera – Mi faccio schifo da solo. Mi vien la nausea dell’ombra del mio passato – Sì, il capitano aveva ragione! Odiavo la vita tranquilla e avevo l’infatuazione per la vita inquieta – Che razza di bugiardo ero! Sissignore, un vile bugiardo – ché è comodo ammantare della parola Patria le proprie infamie, come dentro al candido mantello dell’innocenza! Come se un’infamia non restasse un delitto, che avvenga in nome della Patria o di una qualsiasi altra ditta – delitto resta delitto e di fronte ad un giudice imparziale ogni ditta si riduce a niente. Per il Bene e per il Male si deve sentire responsabile soltanto il singolo e in nessun caso la Patria inserita fra cielo e inferno. E il mio essere inquieto, tanto agognato, non era che una quieta palude di menzogne! Io me ne stavo in riga sull’attenti e non m’importava se mia sorella stava o no in prigione. Che schifo, che razza di bestia ero! Se oggi incontrassi me stesso come ero allora credo che mi potrei accoppare – E questa miope carogna che ho dinanzi, ora sta dicendo addirittura: “La guerra è la madre di tutte le cose” – “Silenzio!” gli dico interrompendolo di colpo. “Lo sapete cosa è successo alla ragazza?” “Non ne ho idea!” “È stata messa in carcere.” “In carcere? Perché?” “In buona sostanza perché ha perso l’impiego” – “Mi dispiace.” Gli dispiace? Lo dice, ma sembra quasi che ci si diverta per il fatto che lei debba soffrire, perché sta guardando con aria tranquilla e sicura – come se mi avesse dimenticato del tutto. Ma io sono ancora qui e non ti perdo d’occhio. Ora solleva le spalle. “Signore caro, la cosa è sempre quella: purtroppo il singolo non interessa” – Sorride e mi vien da pensare: tu sei una creatura, una creatura menzognera – Mi stupisco della mia stessa calma. “Lei è un cane”, gli dico. Lui mi fissa come se avesse capito male, ma poi s’inalbera: “Mi permetta” – “Non Le permetto un bel niente, perché Lei è un cane, sicuro, uno stupido cane che non pensa che un bel giorno anche lui potrà perdere il posto esattamente come la signorina, siccome ‘purtroppo’ il singolo non interessa!” Mi esamina con odio.
“Giovanotto”, dice, “non mi paragoni ad un impiegato qualsiasi. Io sono il ragioniere capo e lavoro da ben trentasei anni presso la stessa ditta” – “Per questo non lo sarà più!” “Oho, giovanotto!” Adesso sogghigna ironico. “E poi non dimentichi che io non potrei essere in stato interessante” – Ridacchia e io vedo rosso. Lo afferro per il colletto e gli assesto un pugno in faccia – gli cadono a terra gli occhiali. “Mi bastona?!” grida. “Bastona un uomo anziano?! Aiuto! Aiuto!” Mi getto su di lui e gli tappo la bocca, lui mi si aggrappa al cappotto e io gli assesto ancora un paio di cazzotti – Barcolla. Ad un tratto scorgo il canale. C’era già da prima? Lui mi morde la mano. Aspetta, delinquente! Levati di torno! Nel canale, nel canale – Giù! - - Non mi guardo più intorno. Il vento soffia e la neve volteggia – e me ne andai alla Città di Parigi. Gli occhiali, li raccolsi e glieli gettai dietro. Così vedrà meglio il fango. Ora se ne sarà già accorto se il singolo ha o no importanza. Mi sento benissimo. Perché se c’è qualcuno che dice che il singolo non ha importanza, dev’essere eliminato. L’uomo di neve Sono passati due giorni e oggi son tornato ad essere quello di prima. Perché ieri e l’altro ieri ero già molto inquieto, pieno d’insicurezza, col dubbio che venisse più o meno alla luce che sono stato io. Addirittura avevo ricominciato a dialogare col buon Dio. Gli devi dare qualcosa, mi affiorava vagamente alla memoria, qualsiasi cosa, foss’anche la più piccola, Lui è riconoscente per ogni cosa – Come se fosse un mendicante. Donagli qualcosa – Dona al primo mendicante che incontri, donagli cinque talleri – Però fermo! Ne possiedi solo uno. Ma anche un tallero è molto denaro e per te rappresenta ancora di più. Regala tutto al primo mendicante perché la cosa non venga alla luce! Così vagai senza posa per tutta la città, ma non trovai da nessuna parte un mendicante, come se li avesse tutti ingoiati l’inferno, quei signori sembrava che non ne volessero sapere più niente di me – Ed era bene così perché nel giornale di oggi finalmente c’è una breve notizia, e cioè che un ragioniere tornando a casa è stato vittima di un incidente. Sembra che a causa della sua forte miopia sia scivolato sulla passerella ghiacciata nella fitta oscurità. Lascia una vedova in lutto, un figlio sposato e due figlie nubili. Ecco, non viene alla luce. Sì, c’è ancora una giustizia superiore. E il giornale chiede alla autorità competenti: quando verrà messo il parapetto al canale? Già, quando? Adesso è pomeriggio – due giorni fa a quest’ora era ancora giorno. Durante la notte è arrivato l’inverno e i vetri alle finestre sono pieni di fioriture di ghiaccio. Sono seduto nella camera di mio padre e ho appena scritto una lettera, una lettera alla signorina che era diventata la mia sorellina. “Gentile signorina”, ho scritto, “ Lei probabilmente non si ricorderà più di me, ma io volevo scriverLe da tanto tempo. Io ero un soldato e allora facevo volentieri il soldato. È vero che La conosco solo di vista, però ho pensato spesso a Lei e L’ho anche cercata dappertutto. Ora conosco la Sua triste vicenda e abbia fiducia in me che non mi scorderò di Lei e le offrirò sempre il migliore aiuto che potrò, perché amo la giustizia” –
Chiudo la busta e scendo in strada per imbucare la lettera. Da ieri è un freddo da cani. L’aria è un crepuscolo azzurro scuro – sì, ora regna il gelo. E come ho imbucato la lettera, non tengo più niente in mano. La mano appartiene al mio braccio che non potrà migliorare per tutto il tempo che mi resta da vivere. Non mi darà pace – Chissà se lei riceverà la mia lettera. Chissà se risponderà. Non deve mai sapere cosa ho fatto per lei. Ché sarebbe troppo pericoloso per me. Le donne chiacchierano sempre – E poi che gliene viene a lei se le autorità competenti non hanno ancora costruito i parapetti? Niente! Che le giovi o no, poco m’importa del futuro, m’importa solo di ciò che non ha da essere. Non ha da essere che il singolo individuo non conti niente, anche se si tratta dell’ultima delle signorine. E chiunque affermi il contrario dev’essere eliminato – assolutamente! Cosa verrà dopo si nasconde ancora nella nebbia del futuro. Ora la mia lettera è partita. – E così me ne vado per strada. Lento o svelto, non mi si fa chiaro e tento di mettere in ordine tutto dentro di me, ma per quanto mi sforzi, devo sempre ricominciare daccapo e a un tratto mi sento completamente abbandonato, come se il mio cuore fosse fuori di me – come in un eterno addio. Un tempo pensavo che con l’odio andremo avanti. Ed eccomi marciare in fila ordinata – Com’ero stupido, com’ero stupido! Perché se anche uno marcia sempre accanto a te, a destra e a sinistra, giorno e notte, resti comunque un monte ghiacciato solitario. E i monti, loro crescono giorno e notte, ma tu, tu decresci. Tu ti ritiri in te stesso e ti accovacci dentro di te come un vecchio gufo. Di giorno sei cieco e di notte non acchiappi niente. Ché dovunque tu voli, là cessa la vita. Muori di fame o mangia te stesso! – Mi fermo e mi guardo intorno. Ma dov’è che vado veramente? Sei già così lontano da casa – Torna indietro! Sei già diventato così stanco – certo – certo, non c’è da stupirsi! Questo è solo il risultato di questi due ultimi giorni e soprattutto delle notti, non le vorrei trascorrere ancora una volta, infatti siamo stremati, quando ci si spaventa. Mi viene da sorridere involontariamente. Adesso è tutto in ordine! Lui è scivolato sulla passerella ghiacciata etcetera, etcetera. E avanti così – Resta ancora un po’ all’aria, affinché tu possa dormire meglio. Non torno indietro, e le case si fanno più rade. A destra inizia un’inferriata e dietro ci stanno alberi e cespugli, grandi e piccoli – Aha, un parco. Non si vede nessuno e io respiro profondamente. L’aria sa di neve. Qui è veramente bello. Un grande cancello mi si para davanti e sul cancello sta appeso un cartello : “Aperto dalle 8 di mattina fino all’imbrunire”. Sebbene l’aria sia già imbrunita, il cancello è ancora aperto – vieni, entra! Le piccole stelle d’argento brillano così chiare, come se il cielo fosse di velluto nero. Ma ad oriente si erge una parete di nubi, un’ intera montagna di nubi – sì, sì, nevicherà ancora questa notte. E come mi aggiro per il parco, mi sento più sereno, perché, se non mi sbaglio, dietro al prossimo angolo ci dev’essere uno spazio giochi per i bambini – esatto, eccolo che arriva il mio spazio!
È qui che un tempo hai giocato nella sabbia, prova a ricordare! Ci hai costruito dei castelli e una città – dove sono finiti quei castelli, dov’è finita quella città? La sabbia è coperta di neve. Tutto è passato, passato! Arriva una nuova epoca. Mi metto a sedere su una panchina e chiudo gli occhi. Come può diventare silenzioso il mondo – E come certe cose vanno e vengono senza far rumore. Ad esempio il ricordo – Anche dagli angoli più remoti. Su negli alberi sento il ticchettio di un orologio – non addormentarti mi raccomando! E io sbadiglio e sbadiglio mentre arriva una notte profonda. Sì, è tempo che tu torni indietro, altrimenti chiudono il cancello. Mi prende uno spavento – cosa volevi dire? Che strana frase hai pronunciato? Una frase senza senso, no? – Ora arriva la neve. Il vento me la soffia in volto – solletica e punge, come tante formiche. Loro scavano e costruiscono. L’aria si fa più fredda e pungente. E ad un tratto la ritrovo la mia frase, quella strana frase di prima – ora la so addirittura a memoria: All’inizio di ogni nuova era nel buio silente stanno in piedi gli angeli dagli occhi spenti e le spade infuocate. Che abbia stracciato quella lettera la moglie del mio capitano? O forse qualcuno la ritroverà un giorno? Uomini diversi – Va’ a casa, altrimenti ti chiudono il cancello! Lascia perdere, lascia! Ora dormono anche le formiche e il freddo diventerà più caldo – Nevica, nevica – come in un libro di fiabe. Dove mi trovo? La stanza è scura e io sto seduto per terra. Le finestre sono alte, posso solo guardare di fuori se qualcuno mi solleva. Sì, sì, dopo una guerra manca spesso il carbone – Chiederò al buon Dio per quale motivo ci devono essere le guerre. “È freddo”, questo resta il mio primo ricordo - - La notte trascorre, lentamente ritorna il giorno. Io sono pieno di neve e non mi muovo. Passa una giovane donna con un bambino piccolo. Il bambino mi vede, batte le mani e chiama: “Guarda, mamma! Un omino di neve!” La mamma guarda verso di me e i suoi occhi si fanno grandi. Mi fissa spaventata e grida poi: “Per l’amor del cielo!” Afferra il bambino e lo porta via con sé gridando: “Aiuto! Aiuto!” Adesso ritornano i due e con loro c’è un terzo: un poliziotto. Egli si piega su di me e mi osserva attentamente. “Sì”, dice, “fra l’altro è congelato. Per lui è finita” – La mamma non osa più guardare dalla mia parte, ma il bambino quasi non si può staccare da me. Sempre di nuovo si volta e mi guarda coi suoi occhi tondi, curioso. Guarda, guarda! Un uomo di neve siede sulla panchina, è un soldato. E tu, tu crescerai e non dimenticherai il soldato. Vero? Non lo dimenticare, non lo dimenticare! Ché dette il suo braccio per una causa immonda. E quando sarai grande, allora ci saranno forse giorni diversi e i tuoi figli ti diranno: quel soldato non era che un comune assassino – allora anche tu non infierire su di me. Pensa solo questo: non seppe come comportarsi diversamente, era infatti un figlio del suo tempo.