NIP #22 Settembre 2014

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #22 Settembre/Ottobre 2014


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Enrico Falqui_ enricofalqui@nipmagazine.it Direttore Responsabile

Stella Verin_stellaverin@nipmagazine.it Direttore Editoriale

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Ludovica Marinaro_ ludovicamarinaro@nipmagazine.it Responsabile Atelier, tirocini

Claudia Mezzapesa_ claudiamezzapesa@nipmagazine.it Responsabile programmazione pubblicitaria e traduzioni Hanno collaborato a questo numero di NIP: Flavia Veronesi, Laura Malanchini, Nicoletta Cristiani, Claudia Magrì, Marta Pieretti, Lorenza Fortuna

con il patrocinio di

Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa Legale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini

Network in Progress Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress” ISSN 2281-1176

Copertina originale a cura di: Alberto Tognetti Editing and graphics: Valerio Massaro Vanessa Lastrucci


Editoriale C

hi passeggia, a Milano, nel Parco Sempione non può non essere colpito da una costruzione in cemento armato, mattoni e pietra, dalle forme “eclettiche” con decorazioni liberty: è il Palazzo dell’Acquario Civico, unico edificio ancora oggi esistente che ricorda il grande evento dell’Esposizione universale del 1906.

pevolezza propria di alcune élites della della borghesia meneghina che i fiumi e i laghi lombardi cominciavano a risentire dell’effetto dell’inquinamento prodotto dalla nascente economia industriale, facendo scarseggiare la quantità e la diversità di specie di pesce sulla tavola delle famiglie milanesi.

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ale edificio sorse per una motivazione che richiama il tema fondamentale intorno al quale è venuto faticosamente sviluppandosi il Progetto per l’EXPO 2015 di Milano. L’idea da cui nacque l’Acquario scaturì dalla consa-

’EXPO 2015 si è strutturato intorno all’idea di produrre cibo per il Pianeta, cercando di dare risposte adeguate alla drammatica scarsità di risorse alimentari che riguarda circa due terzi dell’umanità contemporanea.

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l confronto tra i due EXPO acquista significato solo davanti a questo “paradigma”: la crescita come risposta alla scarsità di risorse.

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l fatto è che, oltre un secolo dopo, la scarsità di risorse alimentari non riguarda più un’élite della popolazione meneghina, bensì due terzi della popolazione che vive sul nostro Pianeta; ai tempi dell’EXPO del 1906, il Futuro era rappresentato da un foglio di carta bianco, tutto da scrivere e da immaginare; nulla sembrava impossibile, la Scienza, la Tecnologia avrebbero portato benessere per tutti e la pace tra le Nazioni.


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uell’entusiasmo verso il Progresso e il Futuro era alla base dei contenuti espositivi, presenti in tutti i 225 padiglioni costruiti nel 1906, a cavallo tra il Parco Sempione e l’ex Piazza d’Armi, collegate tra loro da una ferrovia su alzate in legno.

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uttavia, quella fiducia verso il Futuro e verso la costruzione di un Mondo in pace tra i popoli, che rappresentavano l’anima dell’Esposizione universale, vennero, di li a pochi anni dopo, smentiti dall’olocaustoumano generato da due Guerre mondiali.

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l contesto sociale e culturale nel quale si aprirà l’EXPO 2015 è radicalmen-

te diverso: lo slogan “nutrire il Pianeta” testimonia l’ammissione del fallimento dell’Idea dello sviluppo illimitato, se ancora oggi dobbiamo soddisfare i bisogni elementari di oltre due terzi dell’umanità. La distribuzione “ineguale” delle risorse e delle fonti di energia tra Paesi ricchi e Paesi poveri è ancora alla base degli oltre 400 conflitti bellici sparsi nel Mondo, alcuni dei quali, come le guerre civili in Medio Oriente e in Ucraina, circondano da vicino i confini settentrionali e meridionali dell’Europa.

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ibo e acqua, i temi dominanti all’interno dell’EXPO 2015,sono anche le prin-

cipali cause dei conflitti bellici odierni, le ragioni che spingono milioni di migranti a traversare le sponde meridionali del Mediterraneo per approdare alle sponde del “miraggio” europeo, che svanisce appena gli sventurati superstiti di queste emigrazioni prendono contatto con la realtà dei paesi europei.

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i tutti questi temi non vi è traccia nel programma dell’EXPO e il “dialogo e l’incontro” tra i popoli, che le due vie principali (il Cardo e il Decumano) che attraversano l’area espositiva,vorrebbero rappresentare, si rivelano un artifizio espositivo che si relaziona assai di più con gli artifizi


architettonici dei grattacieli di Isozaki e con la “spirale” di Libeskind, profumatamente pagata dal colosso immobiliare cinese Vanke. Le grandi serre, previste nel progetto originario, dentro le quali dovevano essere ospitate piante provenienti da tutti i Paesi del Pianeta e che sarebbero divenute un eccezionale “nuovo giardino” a disposizione dei milanesi a conclusione

dell’EXPO, sono sparite, perché il messaggio simbolico di “Conservazione della Biodiversità”, come condizione necessaria per la salvaguardia del clima e delle colture tradizionali, avrebbe assunto, nell’EXPO 2015, un’importanza sgradita alle multinazionali alimentari, che intendono diffondere l’uso in agricoltura di tecnologie appropriate per gli organismi geneticamente modificati.

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XPO 1906, EXPO 2015: stessa fiducia nell’uso illimitato delle Tecnologie, stessi cupi venti di guerra mondiale, scarsità versus crescita. Ma ci sono tre differenze fondamentali: l’inquinamento è globale e riguarda il Pianeta, l’Urbanizzazione ha distrutto lo Spazio rurale, le guerre e il terrorismo internazionale possono produrre la catastrofe nucleare.


Cover Story Alberto Tognetti

Un bricco sul tavolo e la carta tanto imbrattata dall’eccessivo chiaroscuro che oramai appariva sul foglio. Qualcosa di più simile ad un braciere colmo, l’eccesso di grafite. Eravamo tutti abbastanza pronti a scommettere di essere stati bravi, perché così a casa ci avevano insegnato a credere. Imbarazzante. Nessuno aveva tracciato l’orizzonte, ovvero la linea del piano su cui poggiava l’oggetto, nessuno intuiva il rapporto di esso con lo spazio e il cielo. La luce posizionava il bricco e lo materializzava. Il bricco non aveva motivo di stare sui nostri fogli senza l’orizzonte, chili di carboncino sprecato.

Era stata la prima lezione di Disegno. Ero al Liceo Artistico di Firenze, dove ho iniziato il mio percorso di Studi. Il disegno mi ha insegnato a provare a costruire e capire tutto ciò che è visibile, oltre l’immediata immagine, e ci aiuta a ragionare sulla struttura delle cose. Figura, modellato, ornato, scultura molte ore passate nei laboratori della scuola. Arrivato da un paese dell’Appennino, Firenze senza dubbio mi ha regalato una libertà che non avrei mai creduto ed il liceo mi ha consegnato degli strumenti che tuttora credo essere fondamentali per l’analisi dello spazio in rapporto alla figura umana.


Ho studiato successivamente alla Facoltà di Architettura della stessa città, ho collaborato con alcuni studi di architettura e tuttora continuo a disegnare, senza però averne fatto una professione. OGNUNO DI NOI HA UN PAESAGGIO DENTRO La copertina raffigura una traccia i cui tratti scalettati e sinuosi, in tempi diversi, dettano il cambiare dei colori e delle forme, ne nascono delle figure in cui si

possono rintracciare le geometrie di una città, le morbidezze della campagna, le vette dei monti o i colori della costa, essa è un percorso che fugge dal rettangolo del foglio per continuare altrove. La figura varia in maniera dinamica per descrivere la continuità di paesaggi e di luoghi nella loro evoluzione seriale. Lo scopo era avere una figura astratta come risultato che non declinasse in modo narrativo il paesaggio ma piuttosto in forma simbolica.


Paesaggio è tutto ciò che lo sguardo abbraccia, così recita il dizionario, semplice ma vero, esso è un grande contenitore di princìpi, naturali ed antropomorfi. Ci muoviamo nel paesaggio e per definizione lo abbiamo dinanzi a noi, assorbiamo le sue regole partecipando ai suoi ritmi, cromie, figure ed elementi, siamo quindi educati dal suo codice che dirige anche la natura dei nostri Pensieri, esso continua dentro di noi. Ognuno di noi ha un paesaggio dentro. Formarsi vedendo nascere o tramontare il sole da crinali piuttosto che da una linea d’orizzonte detta un modo diverso di ragionare, vivere tra i palazzi invece che tra i campi un altro ancora; il nostro paesaggio è una sovrapposizione di molti, visti e soprattutto vissuti attraverso l’esperienza, sotto la quale c’è quello del luogo da cui proveniamo, questo reclamerà a momenti più spazio in quanto sedimentato nello strato più profondo della nostra persona.


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Contents

RUBRICHE

Frames Architettura che ci piace p Attraverso Elements of Architecture

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di Paola Pavoni

Frames

Rinascita. Uno sguardo sul Corivale

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testo e immagini di Elisabetta Pallini

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FOCUS ON

Streetscape territories

di Daniela Colafranceschi e Kris Scheerlinck INTERVISTA

POETI DEL PAESAGGIO Intervista a Franco Zagari a cura di Enrico Falqui

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IL PROGETTO

ATELIER DES PAYSAGES BRUEL-DELMAR Dal paesaggio al giardino di Tessa Matteini

CREATIVITÀ URBANA

49 The still point of a turning world

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di Simona Puglisi

LE RECENSIONI

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_il libro_ p PAISATGE I PARTECIPACIÒ CIUTADANA Fuori da ogni utopia, al cuore della comunicazione. di Ludovica Marinaro


Architettura che ci piace/ non ci piace Attraverso Elements of Architecture foto e testo di Paola Pavoni

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a Biennale di Architettura di Venezia si presenta solitamente come l’occasione in cui fare il punto sugli ultimi e più contemporanei progetti ideati o realizzati dai grandi nomi, oppure come un momento in cui riflettere sul rapporto tra architettura e città a diverse scale di rappresentazione. Arrivare al Padiglione Centrale quest’anno si potrebbe definire come un’esperienza quasi surreale che provoca un certo disorientamento rispetto alle precedenti esposizioni.

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ddentrandosi nel percorso che Rem Koolhaas ha pensato per i visitatori della 14esima Biennale di Architettura si attraversano spazi allestiti da impianti di areazione sovrastati da una cupola fresca di restauro, maniglie in acciaio nell’habitat della produzione in serie, telai di ogni epoca e materiale, e attraversando un corridoio che narra la storia di se stesso tramite foto e planimetrie tipologiche, ci si può trovare a saltellare su un pavimento per produrre energia. Proseguiamo in uno spazio in cui improvvisamente si percepi-

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uesto senso di smarrimento però porta necessariamente ad una riflessione: perché un curatore cosi conosciuto e degno di tale ruolo come Rem Koolhaas abbia fatto una scelta apparentemente cosi estranea alle precedenti edizioni. Quale pubblico, solitamente affascinato dall’ampio respiro delle “visioni Biennali”, può essere attratto e soddisfatto dall’allestimento di Elements of Architecture?

sce del calore provenire dall’alto come per magia e che ci segue in ogni spostamento, fino ad arrivare in un labirinto di facciate continue in vetro, ceramica, pareti verdi. Il percorso conduce in una stanza distaccata a un livello più alto in cui si elogia il “balcone” come elemento fondante dell’architettura e della storia. Proseguendo si passa sotto una foresta di tetti appesi sezionati, si attraversano una dietro l’altra, a partire da quella di sicurezza dell’aeroporto, gigantesche porte riprodotte in scala dai maggiori trattati di architettura,


Architettura che ci piace/ non ci piace

per poi trovarsi a salire e scendere delle scale sperimentando la diversità di un’alzata oltre misura; si cammina su una rampa che rende gli spazi accessibili a tutti. Un catalogo scala reale di setti murari di diversa epoca e tecnologia incuriosisce e camminando tra un setto e l’altro, se ne osservano il fronte e il retro e soprattutto lo spessore. Il momento di maggiore stupore quando si arriva alla sala dedicata alle toilette in cui sono esposti i wc più rappresentativi della storia, da quello giapponese, a quello chimico accompagnati da una parete di sfondo su cui è apposta tutta la “scienza dell’evacuazione” di A. Kira. Le ultime due stanze quelle di due elementi più “recenti”, la scala mobile di cui si osservano i particolari costruttivi in una sezione a tutta parete e l’ascensore che si presenta in tutte le forme possibili assunte nel corso della storia. Alla fine ci si accorge di aver fatto un piccolo viaggio dentro un manuale di architettura versione pop-up, in cui 15 elementi fondamentali hanno trovato vita: pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, servizi, scale, scale mobili, ascensori, rampe, e hanno la facoltà di coinvolgere tutti.

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orse si è apparentemente persa la visione complessiva dell’architettura che si è abituati a studiare e a immaginare, ma questo percorso ricorda a ognuno che ogni oggetto o elemento che “si usa” ogni giorno, sia che siamo architetti, ingegneri o casalinghe, è il risultato di un percorso che nasce dall’architettura, anche se poi è diventato un oggetto dozzinale prodotto in massa. Uscendo dal padiglione e facendo una passeggiata per le strade di Venezia potreste avere l’impressione di trovarvi ancora all’interno dell’allestimento di Elements of Architecture.


Elisabetta Pallini. Nata il 17 Settembre del 1991 a Fiesole. Nonostante il rapporto di amore e odio avuto fin da piccola, dal 2012 studio fotografia alla Fondazione Studio Marangoni di Firenze. Prediligo in particolar modo la fotografia paesaggistica, e piÚ in particolare soggetti architettonici e spazi urbani. Sono inoltre interessata a tutto ciò che è arredamento di interni. Mail: elisabettapallini@hotmail.it Sito web: www.elisabettapallini.com


Rinascita a cura di Elisabetta Pallini

Il Corviale sorto ai margini di Roma nel postguerra, fu progettato nel 1972 da una squadra coordinata dall’architetto Mario Fiorentino. Il Serpentone (dovuto alla lunghezza di oltre un km, e all’abnorme numero di appartamenti) doveva essere un luogo di aggregazione con diversi spazi comuni. Doveva, essere diviso in lotti ognuno dei quali con sala condominiale. Erano inoltre previsti nel progetto sale per le riunioni, scuole, e un piano interamente dedicato agli esercizi commerciali. L’idea, ispirata dalle teorie di Le Corbusier, era quella di porre freno all’edificazione incontrollata della periferia romana di quegli anni, ed offrire un’alternativa al vivere lontano dal centro cittadino. Purtroppo non andò così. I lavori vennero affidati ad un’unica impresa edile che fallì e che riuscì quindi a concludere solo la parte residenziale del progetto. I primi appartamenti vennero consegnati a partire dal 1982, ma già poco tempo dopo iniziarono anche le occupazioni abusive che sarebbero durate fino agli anni ‘90. Così, il Corviale, che si proponeva in totale contrappunto al modello abitativo dell’epoca, divenne invece la traduzione di questo: un quartiere dormitorio. A Roma tutt’ora è sinonimo di malavita, abbandono e degrado. A vederlo per la prima volta il Corviale si presenta esattamente come lo descrivono. Ogni tanto si vede spuntare da un corridoio o da una finestra una persona che osserva con diffidenza. Qualcuno a volte rivolge una parola amichevole, apre i portoni del proprio lotto e racconta parte della sua storia. Un’anziana signora lì dall’84, dice è casa sua anche se le porte sembrano delle prigioni, ma che stanno tentando di migliorare. Una coppia stizzita dice che il comune non provvede a niente e che ognuno di loro, individualmente, cerca di rendere il proprio spazio più abitabile e accogliente. Nell’alienazione dell’edificio, nonostante tutto infatti, possiamo notare segni concreti della presenza umana. Di quell’attaccamento alla propria casa, abusiva o meno che sia. Corridoi con piante e fiori, porte adornate con ghirlande e luci colorate, tappeti rossi nel salone di ingresso. C’è quella voglia di essere altro, di non essere solo sinonimo di fatiscenza. Il Corviale è prima di tutto desiderio di rinascita.


Elisabetta PalliniŠ



Elisabetta PalliniŠ



Kris Scheerlinck è architetto e urban designer, Associated Professor alla KU Leuven, campus Sint Lucas di Bruxelles e Ghent, dove è direttore dei programmi di Master Internazionale di Architettura. Dopo la laurea in Architettura (Sint Lucas School of Architecture Ghent) e in Pianificazione Urbana (University of Ghent), svolge un Master all’Università Politecnica di Catalogna (UPC, ETSAB) di Barcellona, dove consegue anche il Dottorato in Progettazione Urbana presso la Università Ramon Llull, La Salle Architecture School di Barcellona, con la tesi “Depth Configurations. Proximity, Permeability and TerritorialBoundaries in Urban Project”, seguito dal Prof. Manuel de Solà-Morales (UPC) e AmdorFerrer (URL). Svolge numerose attività di ricerca e una fertile attività di pubblicazione. kris.scheerlinck@streetscapeterritories.com

Daniela Colafranceschi è architetto, professore ordinario in Architettura del Paesaggio presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dove è stata Responsabile delle Attività Internazionali e Direttore Scientifico del programma internazionale Erasmus IP (2008-12) “Changing Landscapes. Mediterranean Sensitive Areas Design”. Ha svolto la borsa di studio CNR NATO sul tema dello spazio pubblico a Barcellona ed è stata consulente per il Comune di Barcellona – Dipartimento progetti urbani negli anni 1996-99. Conduce la sua attività tra Reggio Calabria, Roma e Barcellona, dove ha recentemente diretto la collezione di libri “Land&Scapes” per la Gustavo Gili, oltre alla pubblicazione di numerosi saggi e volumi.


STREETSCAPE TERRITORIES Di Daniela Colafranceschi e Kris Scheerlinck


In alto: Configurazionidi Profondità; spazi collettivi differenziali e la la loro integrazione visiva nella North 5th Street, Williamsburgh, New York City (USA).

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treetscape Territories è un programma di progetto e ricerca internazionale, riferita all’organizzazione territoriale di progetti urbani, indagati attraverso le relazioni culturali e sociali che i distinti casi studio presentano e intessono con i loro diversi contesti di riferimento.

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n questo progetto, la dimensione di streetscape, - riferito alla strada, come ambito fisico nevralgico - è considerata come protagonista di ogni piano urbanistico o progetto architettonico o esperienza applicativa si conduca e, di conseguenza, punto di partenza per ogni osservazione, proposta o riflessio-

ne si esprima, relativa ai progetti urbani.

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l modello di indagine è lo spazio collettivo, quando, per una strada, una piazza, un quartiere, un distretto o una regione, definisce una qualità di prossimità e permeabilità, intesa come ambito tra dimensioni fisiche e concettuali distinte. Il presupposto di base, che caratterizza tutto il lavoro scientifico del progetto, è che lo spazio urbano, dalla scala domestica fino a quella della città, possa essere concepito come spazio collettivo (unico) e discontinuo, contenente diversi livelli d’uso comune che sono definiti da distinti confini fisici, culturali, etici.


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streetscapes definisce ed individua condizioni di adiacenza, di sovrapposizione, di integrazione, dove intervengono molteplici agenti, valori, e livelli di intensità variabili nella interrelazione tra questi. Territorialità, permeabilità, prossimità, porosità, sembrano essere oggi i concetti che più si rendono protagonisti della crescita urbana o della trasformazione delle nostre città.

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L’ambiente costruito dove abitiamo la nostra quotidianità, può essere concepito come una organizzazione territoriale di spazi, definiti da differenti modelli di prossimità e permeabilità, come ambiti qualitativi specifici. Uno dei principali aspetti di questo discorso è il modo in cui i confini territoriali sono definiti, sia nel progetto di architettura che in quello di paesaggio. Questa teoria - focalizzata sulla scala del in-between in relazione alla dimensione urbana - considera il progetto e l’appropriazione dello spazio collettivo come il suo leitmotiv: le modalità con cui è delimitato o suggerito l’uso, individuale o collettivo dello spazio, ne possono intimare le sue effettive qualità.

uesta premessa, introduce l’importante esperienza di streetscapes, coordinata, diretta – soprattutto inventata da Kris Scheerlinck e condotta presso la KU Leuven, Faculty of Architecture, nelle due sedi belga del Campus Sint-Lucas di Bruxelles e di Ghent. timologicamente, streetscapes si riferisce ad un sistema di strade e pertanto streetscape territories allude all’esistenza e importanza di sistemi territoriali in relazione alla strada. Esempi in questo senso possono essere un insieme di proprietà di cui sono messi in discussione i confini e le pertinenze da parte di una comunità di vicini; oppure una casa o un magazzino o un negozio che condivida un ambito porticato con lo spazio esterno; altrettanto possono considerarsi le corti, i patii, i giardini, o i passaggi comunemente usati da un ristretto gruppo di residenti dentro un quartiere della città; o anche una piazza, come parte di una successione o di un sistema di spazi pubblici all’interno di un contesto urbano.

uttavia, indipendentemente dalle categorie di scala o di funzione,

In basso: Casi studio internazionali, relativi la Permeabilità e Accessibilità degli Spazi Collettivi (Melbourne versus Miami, DjemaElFna, Paris, Barcellona, New York)

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ertanto, il discorso contemporaneo sulle streetscapes, non è più incentrato su una misura estetica del progetto, sul bel disegno di uno spazio. La qualità di una strada – enuncia la ricerca - non dipende né dalle entità dei lotti edilizi, né dalle dimensioni dei suoi edifici: l’ambiente costruito, insieme con gli elementi costitutivi ad esso correlati è sempre più definito dal controllo ad un suo accesso e alle sue proprie reti sociali.

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tudiate a partire dagli anni sessanta, come reazione ai moderni criteri di pianificazione, le esperienze di streetscapes possono essere lette come configurazioni - semplici o complesse

- di fattori fisici, visivi e territoriali, che definiscono un display morfologico e funzionale di indizi urbani, che vengono codificati e decodificati secondo un ambito socio-culturale di un quartiere. Un modello che, tuttavia, deve essere aggiornato in base ai nuovi fenomeni spaziali e sociali che presenta la realtà della città contemporanea. Ed è proprio questa sfida, che streetscapes assume, come punto di partenza della sua indagine.

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partire da qui, l’esperienza di streetscapes si sviluppa come una ricerca, basata su un particolare modo di vedere all’ambiente in cui viviamo.

Foto in basso e a pagina a lato: Esempi di schema comparativo tra Spazi Aperti, Proprietà Pubblica, Spazi Collettivi, Diagramma Visivo, Diagramma Funzionale con integrazione visiva e Spazio Collettivo(Differenziale), nella sezione trasversale della North 5th streetscape, a Williamsburgh, New York City (USA).

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ella consapevolezza di una globale trasformazione che ha accompagnato negli ultimi decenni i nuovi modelli di sviluppo urbano, economici e industriali di produttività e della mobilità ad essa conseguente, e del forte cambio di scala che si registra nei valori etici, sociali, culturali insiti nel fenomeno urbano, si indagano pezzi di città secondo quelle dimensioni intermedie che aiutino a leggerne e interpretarne i suoi caratteri identitari, come risultato di una pluralità di valori, che ne strutturano la sua abitabilità, come spazio condiviso, come appartenenza a questo di una comunità di persone, come contesto e ambiente di vita collettiva.

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l paesaggio qui è appunto inteso nella sua accezione di spazio pubblico, di piazza, di strada, di spazio coperto, ambito di prossimità, slargo, ambito di pertinenza ‘tra’ un dentro e un fuori, tra un volume e lo spazio aperto, dove è proprio il limite, il bordo, a funzionare da spessore concettuale e fisico che unisce.

1_ N.J. Habraken, “The Structure of the Ordinary” MIT Press Cambridge 1998, p.137

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a, proprio perché questo studio si interessa di spazi (e non solamente di forme), e del sistema sociale delle relazioni tra le persone che essi generano e accolgono, è centrale il passaggio da spazio pubblico a spazio collettivo. “Territorialità” – aggettivo inscindibile da questa ricerca – esprime la relazione tra l’organizzazione dei diversi livelli “collettivi” di un luogo e l’appartenenza ai distinti sistemi spaziali che lo compongono.

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econdo John Habraken, l’ambiente costruito è definito da una organizzazione territoriale e si fonda sul principio di inclusione, all’interno di altri territori. Immaginando diversi modi per accedere a quei territori teorici, N. J. Habraken definisce un suo concetto di “profondità territoriale”. “la profondità territoriale è misurata dal numero di attraversamenti di confine (...) necessari per passare dallo spazio esterno al territorio più interno”(1)

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In alto: Incremento della Profondità Territoriale (schema realizzato successivamente fig. 12.8: N.J. Habraken, “The Structure of the Ordinary”MIT Press Cambridge 1998, p215).

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uttavia, la profondità territoriale non è un parametro statico: entro un certo lasso di tempo, e dopo l’intervento di vari agenti urbani, la profondità può aumentare o diminuire, a seconda delle caratteristiche e delle dinamiche specifiche dell’ambiente costruito.

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n altre parole, la profondità è direttamente correlata alla creazione di spazi collettivi o condivisi a vari livelli, all’interno della gerarchia territoriale. Spazi condivisi possono essere le corti, i patii, i giardini, gli spazi di stoccaggio o di parcheggio, i parchi gioco o i passaggi. A livello urbano, lo possono essere per esempio il mercato, la stazione ferroviaria, gli edifici pubblici, considerati come sistema di spazi collettivi. La profondità territoriale, è strettamente relazionata alla struttura della proprietà, all’interno di una gerarchia, anche se non dipende esclusivamente da questa. L’ingresso ad un mercato dall’area circostante e la relazione che intesse con le attività e gli edifici limitrofi, dipende dal modello di

profondità territoriale applicato.

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n altre parole, la profondità territoriale - considerata come parametro qualitativo nella configurazione di una streetscape - si riferisce alla nozione di spazi collettivi e di come ognuno di essi sia parte di un sistema più ampio, con una specifica posizione e ruolo all’interno del tessuto urbano. Da qui, la considerazione molto cara a Kris Scheerlinck, estratta da un testo di Manuel de Solà Morales: “Spazio collettivo è molto di più e molto di meno che spazio pubblico, se lo riferiamo ad una proprietà amministrativa. La ricchezza civile e architettonica, urbanistica e morfologica di una città è quella dei suoi spazi collettivi, di tutti quei luoghi dove la vita collettiva si sviluppa, si rappresenta, si ricorda. Forse e sempre di più, questi sono spazi che non sono né pubblici, né privati, ma entrambe le cose insieme. Spazi pubblici assorbiti da usi individuali, o spazi privati che assumono un uso collettivo(2)”. 2_ in: Manuel de Solà-Morales: “Espacios Públicos / Espacios Colectivos” articolo pubblicato ne La Vanguardia, Barcelona, 12 maggio 1992

In Basso: Riformulare lo spazio collettivo: un nuovo modo di considerare sequenze di profondità.

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a trasformazione delle filiere produttive tradizionali, la crescente importanza del servizio e dell’industria legata al tempo libero, e la domanda di consumo veloce, insieme ad una dipendenza estrema da Internet e le tecnologie correlate, ha cambiato il modo in cui lo spazio è prodotto, vissuto, consumato e abitato.

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i indagano dunque, possibili e diversi modelli di produzione di questo tipo di spazio, in considerazione che la scala del “progetto urbano”, quella appunto intermedia, assuma la sufficiente flessibilità per assorbire i cambiamenti in atto, ed esprima le potenzialità per attivare una trasformazione di un’area, di un ambito, quando letto ed interpretato nella profondità e specificità dei suoi valori e caratteri.

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alla strategia di agopuntura urbana agli scenari di crescita globale, la scala del in-between sembra consentire una riflessione su differenti ambiti delle nostre città, e una lettura coerente tra

contesto, abitanti e forme di abitarlo.

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l paesaggio, nel senso di questa ricerca, è appunto più nella sua accezione di spazio pubblico, di piazza, di strada, di spazio coperto, di slargo, di ambito di prossimità e di pertinenza tra un dentro e un fuori, tra un volume e lo spazio aperto, dove è proprio la strada, i suoi interstizi, la sua porosità, il bordo, a funzionare da spessore concettuale e culturale di interscambio. È il lavoro su questa scala, e su questo tipo di complessità la sfida che permette a questa indagine progettuale il passaggio tra il significato di spazio pubblico a quello di spazio collettivo.

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e vengono coinvolti architetti, paesaggisti, filosofi, antropologi, urbanisti, geografi, sociologi… Altra caratteristica di streetscape infatti, è il dialogo che si condivide tra giovani professionisti, secondo un gruppo di ricerca internazionale, distribuito in diversi paesi del mondo, e che di volta in volta scambia esperienze, laboratori, eventi, attività.

In basso: Il caso di Chihuahua, Messico: prima e dopo la chiusura delle strade pubbliche del quartiere (piano e immagini di Oscar Chavez, MPIA LaSalle Barcellona, 2010)

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n’altra condizione che contraddistingue il modus operandi di questo progetto, è una attitudine critica verso il progetto e l’uso del paesaggio contemporaneo e in senso più specifico, il modo in cui viene previsto e programmato.

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utti i casi studio di Streetscape Territories, tentano di proporre un approccio alternativo per affrontare la crescente domanda di specifiche e segregative funzionalità dello spazio urbano. Ultimamente, si è abbastanza diffusa la prassi di sovraprogrammare gli spazi urbani, contrassegnandone i loro costitutivi microclimi,con funzioni specifiche (vedi la recente comparsa di salotti urbani all’aria aperta come ambiti di relax,o la definizione di pertinenze per i luoghi di incontro, o la zonizzazione di quelle strettamente dedicate ai parchi gioco, etc). Queste tattiche spesso implicano una condizione di streetscapes piuttosto generica che, a parte non presentare rischi, potrebbe proporre situazioni ambientali sterili, piatte, prive di identità propria; così i loro utenti, che non si sentirebbero autorizzati ad interpretare liberamente e appropriarsi liberamente di questi spazi urbani.

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er questo motivo, vengono considerati sia i sistemi formali come quelli informali di produzione dello spazio, nella ricerca di un uso più “aperto” del paesaggio contemporaneo.

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otremmo dire che streetscapes costruisce una importante rete tra istituzioni innanzitutto, offrendosi come programma di studio accademico di intercambio, ma tesse interessi, dialogo e

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strategie attuative anche tra i professionisti, le istituzioni scientifiche, le reti sociali e le amministrazioni pubbliche che coinvolge.

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ra i più importanti casi studio per condurre i laboratori svolti nel corso dei recenti anni: Williamsburg (2009) e di Gowanus (2013), entrambi a Brooklyn (New York); Chihuahua-Mexico (2010); Tel Aviv e Istambul (2011); Bruxelles/Ghent (2012); il Raval di Barcellona, (2014), Cuenca-Ecuador e Addis Abeba (2014), mentre è in corso l’esperienza a Coney Island oltre le altre, molte esercitazioni e workshop condotti da professori e studenti come attività complementari e parallele del programma (nella pagina web si può trovare ogni riferimento: http://streetscapeterritories.wordpress.com).

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aboratori condotti secondo distinti step di lavoro, e distinti apporti in termini di conferenze, presentazioni, letture specifiche e discussioni aperte.

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efinirei con un po’ di ironia steeetscapes come una “capsula” nomade, che tra le sue costanti rotazioni intorno al globo, sceglie quei punti nevralgici e critici dei nostri territori abitati, per atterrarvi; da lì, si imbeve di quella cultura, di quel contesto, di quella dimensione urbana, per captarla ed interpretarne patologie, affezioni e sintomi. Vi istruisce una sperimentazione applicata, capace di generare un campo magnetico di “risonanze” al suo intorno, e che possa, come fosse un seme (o un virus) proliferare, irrorare “qualità di relazione” al suo paesaggio.


In alto: Esiti del workshop Streetscape Territories a Coney Island, New York (immagini di Michiel Geldof e Sam Llovet).

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senz’altro una forma riduttiva di vedere a questo progetto, ma è una immagine efficace a spiegare streetscapes come “decoder”, come dispositivo di captazione di dati e di traduzione di questi in proposte progettuali: genera ricerca, reti, regala a quei luoghi e per quelle situazioni un punto di vista differente e nuovo, simula processi possibili di qualità e rinnovamento, e individua quegli ambiti dove più si esprimono le potenzialità ad una vocazione “collettiva” di spazio.

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n valore aggiunto dell’interscambio interdisciplinare o della sua applicazione in ambiti di “frontiera” è appunto l’acquisizione di diverse e nuove prospettive.

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uella di streetscape è un’avventura investigativa affascinante, condivisa attraverso più punti vista e secondo uno sviluppo trasversale dei suoi conte-

nuti che la vanno arricchendo di valori e significati.

M

olte le proposte di riflessione che mettono al centro l’esigenza di tornare a parlare di “collettivo”, di “comune”di “condivisione” come valori espressivi di una dimensione sociale del vivere, che tanto interessa la dimensione delle nostre città; di mettere al centro l’esigenza di tornare a rendere le persone, la “gente” – e meno gli “individui” (accezione che già di per sé connota qualcosa di puntualmente isolato) - i veri protagonisti dello spazio urbano.

L

o spazio collettivo dunque come protagonista: la strada, la piazza, il giardino, il parco, ma anche gli ambiti di prossimità, i patii, le enclave, gli spazi porticati o coperti, le corti, tutti quegli ambiti interstiziali che – tra esterno e interno – offrono una condizione di spazio che è complessa, ibrida, polisemica.

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N

ella geografia complessa delle nostre città, è utile allontanarsi da una accezione strettamente scientifica di questa componente urbana, come sono le nostre piazze, le nostre strade, i marciapiedi, i passeggi, per trattarla come spazio emozionale della nostra esistenza; come ambito culturale capace di includere meglio quei caratteri antropologici, filosofici e sociali che imbevono la condizione di paesaggio contemporaneo; valori, qualità e sentimenti capaci di accogliere, per estensione, il significato di una scala di volta in volta più aperta e complessa di paesaggio.

È

un invito a guardare al progetto di spazio pubblico secondo la messa in valore di un pensiero trasversa-

le e transculturale ora quanto mai urgente. Un pensiero estetico ed etico al contempo; un pensiero davvero democratico, rappresentativo della vita che vi si svolge e che lì si cerca; che sia spazio di appartenenza ed identificazione della gente che lo abita.

È

tornare a mettere l’uomo, le persone al centro della nostra riflessione progettuale, e quindi tornare a mettere al centro emozioni, stati d’animo, percezioni, modi di relazionarsi e affezionarsi allo spazio, pratiche nel parteciparlo: quando da “pubblici”, gli ambiti urbani passano ad essere collettivi, domestici, partecipati, quotidiani, condivisi. Quando da “spazi” diventano “luoghi”.

In basso: schema concettuale di spazi collettivi: parametri di lettura dello spazio urbano.

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Franco Zagari. Architetto, Paesaggista, professore ordinario di Architettura del Paesaggio, insegna presso l’Università “Sapienza” di Roma (1981-1994, 2012-…) e l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria (1972-1980, 19952011). Molte opere realizzate in Italia, Francia, Scozia, Georgia, Giappone. È autore di saggi e film, fra cui L’Architettura del giardino contemporaneo (un libro, una mostra, sei film RAI), Milano 1988; Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma 2006; Giardini. Manuale di progettazione, Roma 2009; Landscape as a project, un’intervista a 32 università europee afferenti a Uniscape sul progetto di paesaggio (a cura di Bas Pedroli e Tessa Goodman), Melfi 2009; Paesaggi di città non città. Franco Zagari. Quattro progetti di ricerca (a cura di Giovanni Laganà), Melfi 2011; Lettera aperta. Sul paesaggio, Melfi 2013.


Poeti del paesaggio

INTERVISTA A FRANCO ZAGARI A cura di Enrico Falqui


1– Leggendo il suo ultimo libro, Sul Paesaggio. Lettera aperta recensito da NIP in un numero precedente, si capisce che Lei è un Architetto “che fa ricerca”, uno studioso che ha saputo costruire pezzo per pezzo il proprio campo disciplinare e che è anche riuscito a sperimentare nella realtà della Città le potenzialità delle sue ricerche. Lei ha sempre guardato con interesse alle “contaminazioni” dell’Architettura con altre discipline e alle innovazioni tecnologiche e dei materiali. Ad esempio, quando ha progettato Place Victor Hugo, St. Denis, Parigi, lei ha usato pavimentazioni, elementi di arredo e “creazioni” plastiche, per dare “una percezione moderna” di questo Spazio. Vuole spiegarci attraverso quale elaborazione “concettuale” riesce a stabilire il “grado di contaminazione” delle discipline più appropriato per il senso del luogo? Se dovesse progettare la percezione dello Spazio in una delle tante piazze fiorentine (al di fuori del Quadrato del Lusso), come si comporterebbe?

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A Saint Denis la storia è stata molto lunga, faticosa e interessante. Il concorso è durato nove mesi, prima un appello di interesse a scala europea, poi selezione di 22 gruppi cui chiedere una dichiarazione motivata di metodo, fra questi scelti 8 che hanno tenuto una conferenza pubblica, fra questi finalmente scelti tre – (noi con Fulcrand e Sudequip), Yll, Agence Ter - pagati per concorrere. A questo punto abbiamo lavorato per quattro mesi tutti insieme con la committenza per migliorare il bando, alla fine due mesi separati e in segreto, presentazione pubblica degli elaborati: da stroncare un cavallo! Alla fine sapevamo tutto di tutto, era come se si fosse nati lì.


Un concorso molto duro da perdere ma anche da vincere: 30 sedute di partecipazione per contratto – ne abbiamo fatte poi circa 90 - quello che ci sembrava un teatrino della politica e che invece si è rivelato un percorso molto ricco e appassionante. Noi abbiamo vinto, abbiamo capito in seguito, perché i meno assertivi, i più fluidi, sicuri nelle scelte ma a geometrie aleatorie. Abbiamo lavorato con tutte le risorse umane della città e del Ministero della Cultura (essendo uno dei monumenti più importanti di Francia), assorbendo contributi a volte anche molto importanti, sempre rispettati nel nostro partito figurativo ma sottoposti a una dialettica continua, la cabina di regia disposta dalla città – un organo tecnico-politico – era come un tribunale d’inquisizione più o meno a cadenze mensili, ma quando si usciva di lì le decisioni erano chiare e come notarili. C’è stata insomma una ibridazione forte fra diversi saperi – i nostri preferiti gli archeologi, fantastici, e le massime autorità del ministero che ci hanno molto aiutato credendo nel nostro progetto – e diversi pareri – gli abitanti, con i quali una volta caduta la diffidenza iniziale c’è stato un ascolto reciproco molto sincero - risultato è che il progetto ha avuto un consenso molto forte, che dura nel tempo. Per noi non è stato facile, c’era assoluta necessità di un intervento di riqualificazione per sostenere operazioni spontanee sul patrimonio immobiliare, ma la scena che siamo stati chiamati a modificare era bellissima: una banlieu molto decadente ma con un carattere irripetibile di nobiltà artigiana e operaia, ormai multietnica, mi aspettavo da un momento all’altro di incontrare Jean Gabin o Léopold Senghor e sotto a questo strato la storia della resistenza, dell’industria, di Bonaparte, della rivoluzione francese, di uno dei centri religiosi più influenti della storia di Francia. Quindi immagini il mio stato d’animo. Diagnosi e interpretazione del contesto hanno avuto un rinvio reciproco continuo, cercando di non essere mai didascalici né calligrafici, era il tono, la frequenza, l’alternanza di luci e ombre, i materiali, alcune preesistenze che hanno guidato delle intuizioni che poi poco a poco si sono assestate. Su Firenze non so, chiamatemi, verrò di corsa, inizierà un’altra storia, tutta diversa, la cosa importante è che il progettista non si isoli e non sia isolato.

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2– Il giardino è sempre per sua natura un luogo sperimentale. Nato da profonde esigenze religiose, sociali ed economiche, in ogni cultura è un laboratorio puntuale di forme e idee originali, dove con straordinaria libertà si mettono a punto modelli innovativi di comportamenti e tecniche, che in non pochi casi anticipano la filosofia dello spazio dell’architettura e del paesaggio delle epoche successive. In quali progetti, tra quelli da lei realizzati nella sua prima fase di attività, lei pensa di aver contribuito ad anticipare una cultura del Paesaggio Urbano, ancora oggi assai debole in Italia e a definire un nuovo approccio teorico e metodologico al Progetto di Paesaggio?

Ci sono momenti di stato nascente, stagioni che il giardino, infallibile detector filosofico, mette in luce. Non mi sembra che in Italia questo avvenga nel tempo presente. Io quindi lancio sassi nello stagno, aspettando risposte. Sono sicuro che la strada è questa, che di nuovo un’idea sul giardino potrebbe avere la forza di detonatore di rivoluzioni urbanistiche. Ad esempio lavoro in questo momento su percorsi, flussi, correnti che attraversano quanto già esiste, materia urbana, rurale o naturale, non importa, credo che lavorare su mete e sequenze di senso su degli itinerari sia comunque un modo di creare nuovi caratteri, nuovi orientamenti, nuove centralità, di cosa altro abbiamo bisogno? 34


3– Nel 1990 Lei ha progettato il Giardino italiano nell’EXPO universale di Osaka, dove, successivamente, esso è diventato, raccogliendo un grande consenso sociale. Nel 2015, per il prossimo EXPO di Milano, a Lei è stato affidato il compito di valorizzare l’evento attraverso la progettazione di un sistema di 8 giardini, denominati Hortus, in un’area di oltre 200.000 mq dedicate ad opere paesaggistiche. Vuole illustrare ai nostri lettori quali sono le idee ispiratrici di questo nuovo progetto di giardino e quali sono le relazioni simboliche e culturali tra esso e l’intero sistema EXPO? Quali saranno le destinazioni successive all’evento di questo nuovo “patrimonio” paesaggistico contemporaneo?

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Nel momento in cui le parlo i destini dei miei Hortus sono quanto mai incerti. Devo a Panassociati la mia chiamata, gruppo di forestali,architetti,paesaggisti molto in gamba con i quali ho sviluppato il progetto. Kafka potrebbe scriverne la cronaca. Pure non ho fatto altro che disegnare dei giardini. Credo che i grandi ribassi di gara abbiano indotto l’impresa a una difesa senza quartiere da ogni dettaglio curato. Io ho avuto la colpa di disegnare pergole e spalliere sedute e tavolini originali tutti diversi, per raccontare delle storie interessanti al pubblico che dovrebbe trovare qui riposo, sulle piante del giardino in ordine al tema generale della nutrizione. A Osaka i giapponesi mi hanno aiutato come hanno potuto, qui sembra che noi progettisti siamo in un limbo, vedremo, vi saprò dire. La forza del progetto paesaggistico è altrove, dove i sistemi hanno un assetto più naturalistico. Sapeste, è come se la foresta di Shakespeare stia per arrivare, sono stato a visitare legioni di esemplari bellissimi in Toscana e in Romagna, che sono preparati con quella tecnica che si chiama air-pot. Questa sarà probabilmente la forza del progetto, che del resto credo sia il cantiere di Landscape più grande d’Europa. Cosa avverrà dopo non è noto, abbiamo predisposto tutto perché possa essere recuperato, ma da chi, non è noto. La Fondazione Collodi ha espresso una opzione sui miei tavolini, una collezione che se venisse realizzata penso non passerebbe inosservata.

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4– Alcuni anni fa Lei ha vinto un importante premio internazionale per un “corto” girato da Enzo De Amicis intitolato “Nuovi Paesaggi per la città Mediterranea”, interrogandosi se valesse la pena, in una città come Reggio Calabria, dove il disordine urbano ed edilizio ha inciso profonde ferite al territorio ed alla qualità urbana, di progettare nuovi paesaggi. Marcel Duchamp riteneva che “...la Modernità fosse ciò che trasforma la Città in valore” e Lei parla, in quel breve filmato, di “catarsi della Città mediterranea”. Quale deve essere il modo di operare in simili contesti e quale obiettivo deve porsi chi, attraverso il progetto di nuovi paesaggi, vuole rigenerare lo spazio della noncittà?

Ho promosso prima di lasciare Reggio Calabria “Pettinissa” un grande workshop internazionale che ho affidato alla guida di Enzo Gioffrè, cui ha collaborato anche Betti Bianchessi. Un’idea che mi pare luminosa, trasformare venti chilometri di autostrada urbana di costa, da Villa San Giovanni a sud di Reggio, da un asse di degrado e di frattura a un asse cardanico vivo, attivo, sede di attività e flussi dolci, legati ai quartieri vicini, il tutto senza disturbare lo stato attuale dell’infrastruttura, ma lavorandole attorno. Una riorganizzazione urbanistica il cui effetto avrebbe toccato la vita di almeno 200.000 persone, ma partiti da articoli a cinque colonne sui giornali non siamo arrivati neppure a bere un caffè con alcun esponente politico. 5– Quale messaggio intende rivolgere alle nuove generazioni di paesaggisti che, nonostante la crisi del concetto e della cultura della Bellezza si sia propagato come un virus in tutti gli strati sociali del nostro Paese, vengono formati nelle Università italiane? Nel suo recente libro, Sul Paesaggio. Lettera aperta, sono numerosi i riferimenti che lei fa all’Utopia, come strumento da coltivare tra i giovani architetti paesaggisti nel percorso formativo che produce il Progetto di Paesaggio. Quali “utopie concrete” Lei suggerirebbe a questi giovani che guardano con scetticismo al Futuro, proprio e delle loro Comunità?

Non essere scettici, credere e comunicare al prossimo fiducia, acquisire competenze, offrire servizi, non ripetere errori già commessi, reinventare il proprio mestiere, sparigliare, smontare e rimontare, associarsi, sorprendere, stupire, anticipare, prevedere, sorridere.

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Elisabetta PalliniŠ



Tessa Matteini: Architetto e paesaggista, specializzata in Architettura dei giardini e progettazione del paesaggio e dottore di ricerca in Progettazione Paesistica, lavora come progettista e ricercatrice e ha fondato con Anna Lambertini lo studio Limes architettura del paesaggio. Dal 2001 svolge attività di ricerca con particolare attenzione alla conservazione attiva di giardini storici e paesaggi archeologici. Docente presso le Università di Firenze e Bologna, fa parte della Unità di ricerca IUAV “Architettura e Archeologie dei Paesaggi della Produzione” ed è autrice di numerosi contributi su tematiche relative alla storia dell’arte dei giardini e al progetto di spazi aperti storici ed archeologici.


Atelier des paysages

Bruel-Delmar.

Dal paesaggio al giardino Di Tessa Matteini

« Le regard n’a jamais porté plus au-delà des ses limites que dans le jardin. […] Le jardin, s’il a la capacité à créer un paysage en soi, s’inscrit par ailleurs dans une suite logique qui appartient à des paysages plus complexes. Espace domestique, il concentre sur son assiette les règles que l’homme établit entre nature et artifice. » (1) Anne-Sylvie Bruel, Christophe Delmar, 2010


Priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute-Provence). I campi coltivati intorno al complesso religioso. Foto di Tessa Matteini.

I

l progetto paesaggistico di luoghi stratificati e la rigenerazione di quartieri e siti postindustriali costituiscono ambiti di intervento preferenziali nel curriculum dell’atelier Bruel e Delmar, fondato a Parigi nel 1989. Anne-Sylvie Bruel, recentemente ospite a Firenze in occasione di una masterclass organizzata in collaborazione tra il Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze, AIAPP Sezione Toscana Umbria Marche e NIP(2), ha illustrato due tra i progetti più conosciuti dello studio, dedicati alla ricomposizione paesaggistica di due ecoquartieri: il sistema degli spazi aperti per il sito post-produttivo sulle rive della Haute Deûle, a Lille (20082015) e il parco e la trama degli spazi pubblici per l’area Bottière Chênaie a Nantes (2008-2015).

D 42

ue progetti territoriali che “attraversano le scale”, cercando di recuperare le tracce di relazioni storiche, ecologiche e funzionali sedimentate, di rivelare i corpi d’acqua tenuti in “cattività” e, al tempo stesso di curare il dettaglio, per consentire ad abitanti e visitatori una ottimale possibilità d’uso.

C

ome avviene abitualmente nei progetti dello studio, l’indagine sulle qualità paesaggistiche specifiche del sito e l’interpretazione delle profondità storiche e d’uso dei luoghi costituiscono la base essenziale per reinventare una nuova visione di sistema, costruita essenzialmente sul rafforzamento della struttura degli spazi aperti.

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ltrettanto interessante però, può rivelarsi il lavoro portato avanti nel tempo dai due paesaggisti nell’ambito dell’arte dei giardini, dove vengono applicate, su scala diversa, ma con identica coerenza etica, una visione “sistemica” ed inclusiva ed una profonda conoscenza delle dinamiche ecologiche e relazionali. Significativamente individuati come “paesaggi” all’interno del volume che raccoglie le opere dello studio (3), i giardini disegnati da Bruel e Delmar portano in sé le tracce della complessità e la consapevolezza di una capacità compositiva e gestionale, sperimentate e consolidate nell’ambito di una progettazione di scala più vasta.


Priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute Provence). Il Jardin des temps modernes. Foto di Tessa Matteini.

Priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute-Provence). Il sistema di irrigazione gravitazionale per i giardini tematici. Foto di Tessa Matteini.

Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes ). Il frutteto e il parterre delle erbacee. Foto JP Ballot (courtesy of Anne-Sylvie Bruel).

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n particolare, vorremmo citare i paesaggi disegnati per due luoghi stratificati in ambito mediterraneo: il giardino etno-botanico per il priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute-Provence, 1995) e il giardino a terrazze per il Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes, 19982000). l primo intervento va ad inserirsi nel paesaggio agricolo della pianura di Mane, del quale riprende trama e scala, per disegnare intorno al complesso religioso benedettino un sistema di giardini tematici e didattici, una cintura di campi coltivati ed una sequenza di spazi con differenti caratteristiche ecologiche e diversi livelli di naturalità. La rete idrica preesistente, con i fossati e i canali di adduzione e smaltimento, viene mantenuta dai progettisti come partitura di base per la gestione dei nuovi ambiti coltivati, così da consentire la comprensione del funzionamento della trama agricola storica.

diversi layer di uso del sito compongono una stratificazione densa ed eterogenea di archeologie storiche e culturali: abitazioni galliche, una villa rustica di epoca gallo-romana, una chiesa del XII secolo ed una serie di edifici rinascimentali. er comunicare ed integrare paesaggisticamente questa diversità temporale(4), i progettisti hanno elaborato un masterplan(5), scegliendo di disegnare i giardini tematici(6) come micropaesaggi evocativi: in particolare il Jardin des Temps modernes, che propone una collezione di specie alimentari, industriali e ornamentali coltivate in Alta Provenza in seguito alle grandi scoperte geografiche e alla progressiva acclimatazione della flora proveniente dagli altri continenti ed è irrigato tramite un sistema gravitazionale di canali e bacini che organizzano le parcelle didattiche.

Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes ). La conserva d’acqua circolare e la vista sulla valle di Gap. Foto JP Ballot (courtesy of Anne-Sylvie Bruel).

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Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes). Il giardino terrazzato: il parterre dei bossi e delle rose. Foto di Tessa Matteini.

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d è ancora l’acqua uno degli elementi chiave del progetto di restauro inventivo elaborato da Bruel e Delmar per il giardino del Castello di Charance, integrato all’interno di un Domaine caratterizzato da una struttura paesaggistica e destinato ad accogliere le collezioni di rose antiche del Conservatoire Botanique National Alpin.

F

ortemente legato alla topografia e alla toponomastica(7) del luogo, il jardin clos(8), è stato pesantemente trasformato attraverso la storia tumultuosa della proprietà e delle committenze e, strutturato su cinque terrazze, è caratterizzato da una straordinaria apertura visuale verso la valle di Gap.

collezioni botaniche, in parte legate ai modelli storici (frutteti, rose, spalliere, bossi) ed in parte ispirate alla transizione ecologica della fascia arbustiva compresa tra il bosco di faggi e la prateria (3).

L

a reinvenzione degli elementi tradizionali del vocabolario d’acque mediterraneo (il bacino, la grotta, il canale, la catena d’acqua) e l’introduzione di elementi contemporanei, come il parterre di graminacee, contribuiscono ad attribuire al progetto di restauro un significativo gradiente di intensità progettuale, mentre la varietà e complessità della sua composizione architettonica e vegetale, rendono questo giardino una vera e propria composizione di paesaggi(9).

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ruel e Delmar rileggono la trama storica attraverso l’inserzione di piccole integrazioni funzionali e di una serie di 45


Sopra: Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes). Il giardino terrazzato: il canale con le specie per la fitodepurazione. Foto di Tessa Matteini

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Note: 1_Anne Sylvie Bruel-Christophe Delmar, le territoire comme patrimoine, the territory as heritage, ICI-Interface, Paris 2010, pag. 119. 2_La master class dal titolo “Paesaggi, palinsesti, ecosistemi. Progetti paesaggistici per luoghi stratificati”, curata da Tessa Matteini e Anna Lambertini, si è svolta a Palazzo Vegni il 20 giugno 2014. 3_Anne Sylvie Bruel-Christophe Delmar, op.cit., pag. 79-98. 4_Tessa Matteini, “Biological and temporal diversity in archaeological landscapes” in Margherita Vanore (a cura di) Archaeology’s places and contemporary uses Erasmus Intensive Programme 2010-2011, Design Workshop 2, Università IUAV di Venezia 2011, pagg. 79-85. 5_Con il supporto dei botanici e dei curatori del Conservatoire, in particolare dell’etnobo-

tanico Pierre Lieutaghi. Si veda Pierre Lieutaghi, Jardin de savoirs, jardin d’histoire, Les Alpes de lumière-110-11, luglio 1992, Edisud Aix-en-Provence. 6_In parte già presenti: una prima redazione dei giardini era stata elaborata nel 1986, a cura di Pierre Lieutaghi. Vedi la scheda su Salagon in Marie-Françoise Valery, Alain Le Toquin, Jardins du Moyen Âge, La Renaissance du Livre, Tournai, 2002, pag.137-141. 7_L’etimologia di Charance sembra essere legata al significato di “caduta d’ acqua”. 8_Il giardino è chiuso da mura lungo le due fasce laterali, parallele alla linea di pendenza del versante. 9_«Tout jardin est […] une composition de paysages évoquées par réduction, métonymie, allégorie, transfert, ambiguïté ». Vedi il saggio «Paysage» in Jean-Pierre Le Dantec, Poétique des jardins, Actes Sud, Arles, 2011, pag. 7



Simona Puglisi consegue, nel 2005 (con lode), la laurea specialistica presso la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria con tesi sull’architettura del paesaggio. Dopo un breve periodo professionale in Italia, matura esperienza in Olanda in diversi studi internazionali come UNStudio e KCAP Architects & Planners. Nel 2009 riprende la collaborazione con Olaf Gipser Architects in qualità di partner. Il suo interesse nell’interazione tra architettura e paesaggio si riflette in molti progetti a cui ha lavorato, come il Centro visitatori Oostvaardersplassen, primo premio di un concorso internazionale, e 65 ponti a lenta percorrenza a Rotterdam, primo premio di un bando aperto.


.The Still Point of the Turning World di Simona Puglisi


S

ince time immemorial, mankind has imagined the idea of paradise on earth through the garden and has associated it with places of great beauty. In Ancient Persian the name for garden is pairidaeza which is composed by two words: pairi (around) and daeza (wall). Hence an enclosed space, a walled garden, inside versus outside: outside is the daily life with its repetitive activities and worries, inside is a space in “state of exception”, which, by evoking our senses, has pulled us out of our everyday world to experience the beautiful, maybe even the sublime. It’s a place for protected relaxation in a variety of manners: spiritually and physically. The Persian term was adopted later by Christianity to describe the Garden of Eden or the Paradise.

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as it in Western culture not more often been the garden, real or imaginary, that has provided sanctuary from the frenzy and tumult of history? Yet, in its very concept as environment created by man, gardens stand both as a kind of haven and heaven. For the French writer

Voltaire, “notre jardin” is not a garden to escape from the real; it’s a rather place that affirms and cultivates the ethical and civic virtues of our culture.

A

multidisciplinary team, composed of architect and pianist Simona Puglisi, philosopher and architect Leslie Kavanaugh, and artist and innovator Daan Roosegaarde, participated in 2009 to a Call for Proposals for a temporary garden in Les Jardins de Métis, a garden in Quebec, Canada, internationally renowned for its horticultural art. This open call was launched by The International Garden Festival for its 11th edition of the festival. The theme for its 2010 edition was “Paradise”. What does a paradise look like today? How can a garden speak about the history of gardening, about philosophy, about religion, and about history in general – and how can it speak to people with their individual personal history and to contemporary society at large? Where can we escape from everyday life and what are we looking for in our complex and dynamic contemporary societies?


un genere di rifugio e paradiso. Secondo lo scrittore francese Voltaire, “notre jardin” non è un giardino per sfuggire dalla realtà; è piuttosto un luogo che afferma e coltiva le virtú etiche e civili della nostra cultura.

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in da tempo immemorabile, il genere umano ha immaginato l’idea del paradiso terrestre attraverso il giardino e lo ha associato con luoghi di grande bellezza. In persiano antico il nome giardino è pairidaeza che è composto da due parole: pairi (intorno) and daeza (muro). Dunque uno spazio chiuso, un giardino recintato da mura, il dentro in opposizione al fuori: fuori è la vita di ogni giorno con le sue attivitá ripetitive e preoccupazioni, dentro è uno spazio nel suo “stato di eccezione”, che, evocando i nostri sensi, ci ha estrapolato dal mondo di ogni giorno per sperimentare la bellezza, forse anche il sublime. È un luogo per un rilassamento protetto in una varietá di modi: spirituale e fisico. Il termine persiano è stato successivamente adattato dal Cristianesimo per descrivere il Giardino Terreste o il Paradiso.

n team multidisciplinare composto dall’architetto e pianista Simona Puglisi, dalla filosofa e architetto Leslie Kavanaugh, e dall’artista e innovatore Daan Roosegaarde, ha partecipato nel 2009 all’invito a presentare proposte per un giardino temporaneo a Les Jardins de Métis, un giardino in Quebec, Canada, riconosciuto a livello internazionale per l’arte del giardinaggio. Questo invito a presentare proposte è stato lanciato dall’International Garden Festival per la sua undicesima edizione. Il tema per la sua edizione del 2010 era “il Paradiso”. Come ci appare il paradiso oggi? Come può un giardino raccontare di storia del giardinaggio, di filosofia, di religione, e di storia in genere e come comunica alle persone con la loro individuale storia e alla società contemporanea in genere? Dove possiamo sfuggire dalla vita di ogni giorno e cosa cerchiamo nella nostra complessa e dinamica società contemporanea?

N

on è stato nella cultura occidentale molto più spesso il giardino, reale o immaginario, che ha offerto rifugio dalla frenesia e tumulto della storia? Eppure, nel suo stesso concetto di ambiente creato dall’uomo, i giardini si presentano come

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T

he garden design The Still Point of the Turning World renews these ideas of the garden by reinterpreting its traditional forms; namely, the labyrinth and the Baroque garden room. Yet there is no literal citation. The room does not enclose; the labyrinth still entails constant choice whether to go on or to turn back. In the end, where will this journey lead?

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he authors of The Still Point of the Turning World do not wish to predetermine the visitor’s experience, but provide an opening, an invitation to sense the garden in all its multifarious possibilities. To a fast and superficial viewer, the garden doesn’t appear extraordinary: the first glance at the overall garden reveals just a pretty low hedge maze made of a contemporary pattern. The authors offer already a first choice: to enter or not to enter what seems to look like an ordinary garden. Once the visitor

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decides to enter, faces a second choice: to select one of the possible entrances which are the thresholds of different types of paths. While moving inwards, the ground is starting to sink and the hedge is getting higher while keeping a uniform height at its top horizon. The visitor loses successively his overview and orientation, finding himself framed by a narrow green corridor. The path is a threshold zone which leads the visitor to distance himself from the everyday world.

T

here are four types of pathways: a) some paths which lead directly to the secret green room in the center of the garden; b) some paths which lead indirectly, through a turnabout, to the secret green room; c) some vain paths which are leading to an exit without offering any other experience than the one from the path itself; and d) some paths which come to a dead end.


I

l progetto The Still Point of the Turning World rinnova queste idee di giardino con il reinterpretare le sue forme tradizionali; ovvero, il labirinto e la stanza del giardino Barocco. Tuttavia non c’è una citazione letterale. La stanza non rinchiude; il labirinto implica ancora la constante scelta di andare avanti o ritornare indietro. Alla fine,dove condurrà questo viaggio?

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li autori di The Still Point of the Turning World non desiderano predeterminare l’esperienza del visitatore, ma fornire un’apertura, un invito a percepire il giardino nelle sue molteplici possibilità. Ad uno spettatore veloce e superficiale, il giardino non appare straordinario: il primo sguardo del giardino nel suo complesso rivela solo un labirinto di siepe piuttosto basso realizzato con un motivo contemporaneo. Gli autori offrono già una prima scelta: entrare o no in quello che sembra un giardino ordinario.Una volta che il visitatore decide di entrare,

si ritrova di fronte a una seconda scelta: selezionare una delle possibili entrate che sono le soglie di tipi diversi di percorsi. Mentre ci si muove verso l’interno, il terreno inizia ad abbassarsi e la siepe diventa più alta mantenendo un’altezza uniforme al suo livello superiore. Il visitatore perde successivamente la visione globale e l’orientamento, ritrovandosi attorniato da uno stretto corridoio verde. Il percorso è una zona di transizione che conduce il visitatore a distanziarsi dal mondo di ogni giorno.

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i sono quattro tipi di percorsi: a) alcuni percorsi che guidano direttamente alla stanza segreta verde nel centro del giardino; b) alcuni percorsi che guidano indirettamente, attraverso una svolta, alla stanza segreta verde; c) alcuni percorsi vani che conducono ad un’uscita senza offrire nessun’altra esperienza se non quella del percorso stesso; d) alcuni percorsi che conducono ad un punto morto.

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T

he secret green room is the deepest area of this sinking garden. It’s a round room based on the perfect and metaphysical figure of the circle. It is the centre not of the physical limits of the garden but of the mental boundaries of the visitor; of his own real and imagined world. It’s the pairidaeza; it is the place where appearances draw attention to itself demanding the visitor’s powers of observation.

T

he tall hedge walls obstruct the view although, at the same time, they give the possibility to “see” more: the less is visible the more is seen; the less the view is distracted and the more can be seen. The inner gaze of the mind is free to wander. It is the mind, where only ideas meet and embrace each other; the mind which does the seeing by and through the eye. The way of seeing is a depth perception.

A

nd in the centre of the room is the stone. The stone is a central element not only of the Zen Garden but also of the Japanese house and tea garden. It shows a face to the world while its underside is concealed from the view. The stone, partly buried, possesses the special power to transmit energy along its axis. But the visitor of the secret green room has still the choice to get closer to the stone making it “alive”. The stone, as a matter of fact, responds to the visitor’s movements with light and music ultimately contributing to his self-awareness. The stone in the secrete room fixes the central point; the still point of the turning world.

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At the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless; Neither from nor towards; at the still point, there the dance is, But neither arrest nor movement. And do not call it fixity, Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards, Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point, There would be no dance, and there is only the dance. Excerpt from T.S. Eliot Four Quartets /I: Burnt Norton, 1935

I

f the visitor fails to reach the secret green room,he is facing a further choice: to leave the garden with the feeling that he has just crossed a dull hedge maze or eventually to try other paths to see whether he has missed something. If the visitor instead has experienced the inner centre he has still a choice: to turn back to the same direction where he came from or to continue to the opposite way looking for new challenges. Many pathways lead to the paradise, perhaps as many as there are its seekers. Yet one thing is certain - there is no certain pathway to reach it.

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he design ultimately can be seen as a metaphor for our constant search for a meaningful life. Our society, today, is dynamic in three senses of the word. First, it is in the process of change; second, change is taking place at an increasing speed; third, the process of rapid continuous change is completely remaking our society. Changes don’t occur in a context of stability but the entire context is changing. Changes are always ahead of our understanding of them and this dynamism affects us enormously.


L

a stanza segreta verde è la zona più profonda di questo giardino ribassato. È una stanza circolare basata sulla perfetta e metafisica figura del cerchio. È il centro non dei limiti fisici del giardino ma dei confini mentali del visitatore; del suo proprio mondo reale e immaginario. È il pairidaeza; è il luogo dove le apparenze richiamano attenzione su se stesse richiedendo poteri di osservazione da parte del visitatore.

I

muri di siepe alta ostacolano la vista sebbene allo stesso tempo, danno la possibilità di “vedere” ulteriormente: meno è visibile più si vede; meno la vista è distratta e di più può essere visto. L’interno sguardo della mente è libero di vagare; è la mente, dove solo le idee si incontrano e si sposano; la mente che vede con e attraverso l’occhio. Il modo di vedere è una profonda percezione.

E

al centro della stanza c’è la pietra. è l’elemento centrale non solo del giardino Zen ma anche della casa giapponese e il giardino del tè. Mostra una faccia al mondo mentre il suo lato inferiore è celato alla vista. La pietra, parzialmente interrata, possiede il potere speciale di trasmettere energia lungo il suo asse. Ma il visitatore della stanza segreta verde ha ancora la scelta di avvicinarsi alla pietra e renderla “viva”. La pietra, infatti, risponde ai movimenti del visitatore con luce e musica contribuendo in ultima istanza alla propria consapevolezza. La pietra della stanza segreta verde determina il punto centrale; il punto fermo del mondo rotante.

Al punto fermo del mondo rotante. Non corporeo né incorporeo; non da né verso; al punto fermo, là è danza, ma non arresto né movimento. E non chiamatelo fissità, il luogo dove passato e futuro sono uniti. Non movimento da né verso, non ascesa né declino. Fuorché per il punto, il punto fermo, non ci sarebbe danza, e c’è solo la danza. Estratto da T.S. Eliot Quattro quartetti /I: Burnt Norton, 1935; trad. e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2012 (XI ed., I ed. 1995), pp. 99 e 101

S

e il visitatore fallisce di trovare la stanza segreta verde, si ritrova di fronte a un’ulteriore scelta: lasciare il giardino con la sensazione che ha semplicemente attraversato un monotono labirinto di siepe o eventualmente provare un altro percorso per vedere se ha perso qualcosa. Se il visitatore invece ha sperimentato il centro più interno ha ancora una scelta: ritornare nella stessa direzione da dove è venuto o continuare per la via opposta cercando nuove sfide. Molti percorsi conducono al paradiso, forse tanti quanti sono i suoi cercatori. Tuttavia una cosa è sicura – non c’è un percorso certo per raggiungerlo.

I

l progetto infine puó essere visto come una metafora di una nostra costante ricerca di una vita ricca di significati. La nostra società, oggi, è dinamica in tre sensi della parola. Primo, è nel processo di cambiamento; secondo, il cambiamento si svolge a una velocità crescente; terzo, il processo di rapido e continuo cambiamento sta completamente riorganizzando la nostra società. I cambiamenti non avvengono in un contesto di stabilità ma l’intero contesto sta cambiando. I cambiamenti sono sempre più avanti della nostra comprensione degli stessi e questo dinamismo ci influenza enormemente.

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he inability to see a garden in its own entire presence is the consequence of a metamorphosis of our mode of vision which is bound up with the changes of our mode of being. Today we are both consciously and unconsciously spectators of a continuous unfolding of images and information around us. We spend most of our time in front of a two-dimensional screen and seem no longer to see the visible world at all as we may daily cross a place without “seeing� it. Human vision in the present age sees primarily images rather than appearances. The images merely give an indication; by contrast, appearances that can be sensed, offer the possibility of engaging in a deeper, intimate communication. The real world becomes less and less visible because of a transformation in the framework in and through which the dynamic world reveals itself.

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he garden design The Still Point of the Turning World, with its labyrinthine pathways and the secret green room, represents ultimately the need, in a frenetic and congested world, to find our own meaningful ways and targets with deeper attention,focus and concentration. At the very last is required a willingness to stillness, repose, beauty, and harmony and a readiness for thought that our present frenzy finds often unattractive. We need to get off-line and to return to gardens, to our delight in nature, in order to relearn the art of seeing and re-access the deep space and time both in their subjective and objective dimensions.


L

’incapacità di vedere un giardino nella sua intera presenza è la conseguenza di una metamorfosi del nostro modo di vedere che è connesso con i cambiamenti del nostro modo di essere. Oggi siamo sia consciamente che inconsciamente spettatori di un continuo dispiegamento di immagini e informazione intorno a noi. Trascorriamo la maggior parte del nostro tempo di fronte a uno schermo bidimensionale e sembra che non vediamo più completamente il mondo visibile visto che possiamo attraversare un luogo quotidianamente senza “vederlo”. La capacità visiva umana nell’età presente vede principalmente immagini piuttosto che apparenze. Le immagini forniscono essenzialmente un’indicazione; al contrario, le apparenze che possono essere percepite, offrono la possibilità di coinvolgerci in una più profonda e intima comunicazione. Il mondo reale diventa

sempre meno visibile a causa di una trasformazione del contesto nel quale e attraverso il quale il mondo si rivela.

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l progetto del giardino The Still Point of the Turning World, con i suoi percorsi labirintici e la stanza segreta verde, rappresenta infine il bisogno,in un mondo frenetico e congestionato, di trovare le nostre vie e obiettivi significativi con più profonda attenzione, focus e concentrazione. Alla fine è richiesta una buona volontà di quiete, riposo, bellezza e armonia e una disponibilità al pensiero che la nostra presente frenesia trova spesso poco attraente. Abbiamo bisogno di essere offline e di ritornare ai giardini, alla nostra gioia di essere nella natura, per imparare nuovamente l’arte del vedere e riaccedere alla profondità dello spazio e del tempo nelle loro dimensioni soggettive e oggettive.

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Elisabetta PalliniŠ



Ludovica Marinaro Responsabile Atelier; Tirocini

il libro

Phd Candidate Architetto

NoguĂŠ, Joan; Puigbert, Laura; Sala, Pere; Bretcha, Gemma (eds.) 2010. 60


Le recensioni di Paisatge i partecipaciò ciutadana Fuori da ogni utopia, al cuore della comunicazione. a cura di Ludovica Marinaro

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udàcia, audàcia i més audàcia!”

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proprio ripensando alle parole di uno dei grandi padri della rivoluzione francese, G. J. Danton, che Jean François Seguin, Presidente della Conferenza del Consiglio d’Europa sulla Convenzione Europea del Paesaggio, riesce a descrivere in un lampo lo spirito sovversivo e innovatore che caratterizza l’approccio catalano al tema della partecipazione. Il percorso da seguire per creare una una solida e rinnovata cultura del paesaggio è infatti tutt’altro che scontato e manca oggi di esempi efficaci nelle politiche di governo del territorio in Europa.

il libro

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l libro racconta la sfida dell’Osservatorio del Paesaggio della Catalogna in stretta collaborazione con il Dipartimento dell’Interno, Relazioni Istituzionali e Partecipazione, nel cimentarsi con i desideri e le aspirazioni della cittadinanza, così come stabilito dalla Convenzione Europea del Paesaggio, che il governo della Catalogna ha accolto nel 2000 e messo in pratica in maniera assolutamente pionieristica a livello europeo. Paisatge i participaciò ciutadana, «è un libro aperto, una proposta di dialogo con il lettore» dice Joan Noguè, direttore dell’Osservatorio, perchè, fuggendo da ogni tentazione normativa e dall’inutile pretesa di compiutezza, si costituisce come un laboratorio di esperienze, animato dalla volontà precisa di contenere ed interpretare i moti di quel fluido dinamico che è il capitale umano. Il cuore è il processo che, narrato nella semplicità del susseguirsi delle sue indagini, interpretazioni e sintesi, fa emergere una prima possibile traiettoria sul terreno sdrucciolevole della “partecipazione”, tema che ha assunto un ruolo cardinale nella CEP e che negli ultimi decenni ha infiammato campagne elettorali e procedimenti di approvazione dei piani territoriali. È possibile trovare una sintesi reale e produttiva di tali propositi? Il manuale,

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il libro

insieme ai Cataloghi, è la risposta tanto modesta quanto efficace, sulla vera essenza del processo partecipativo, inteso come guida alla trasformazione condivisa di un territorio, da una condizione data, talvolta inerte, ad un nuovo assetto che, traducendo le aspirazioni della gente, genera un plus-valore, integra la dimensione del lavoro ed accoglie perciò le mani ed i desideri dei suoi abitanti.

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« iente è stato certo sin dall’inizio» prosegue Noguè, che non intende con questa pubblicazione fissare un paradigma ma piuttosto stabilire aspetti chiave che bisogna considerare qualora si voglia intraprendere un percorso di tale portata. Le strade intraprese per la creazione dei Cataloghi del paesaggio della Catalogna sono state numerose ed eterogenee, questo è evidente dalla ricchezza metodologica e dalla molteplicità delle pratiche, tutte minuziosamente descritte nel libro, con cui l’Osservatorio ha condotto i lavori: interviste telefoniche, studi d’opinione, questionari e consultazione tramite web, ma anche focus groups, incontri pubblici e conferenze, workshop e interviste ai funzionari preposti alla partecipazione ed al paesaggio negli enti e nell’amministrazione, tutti strumenti che avevano sin dal principio la duplice finalità di tracciare profili quantitativi e soprattutto qualitativi della percezione del paesaggio catalano. Questo grande bagaglio di esperienze, unito alla capacità di creare un linguaggio comune a professionisti e pubblico, ha reso possibile parlare di Obiettivi di Qualità del paesaggio per la Catalogna, non più una qualità presunta o imposta, bensì un insieme di valori sentiti dalla comunità, capace di tracciare sul territorio una struttura corposa ed impaziente di confrontarsi con le trasformazioni future.

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’approccio innovativo della Catalunya, non è contraddistinto da una pratica induttiva di mera elaborazione empirica dei dati statistici, indaga al contrario la dimensione qualitativa del paesaggio catalano, perchè nasce dalla sottile deduzione che “il paesaggio è una realtà vissuta e percepita da ogni persona, non tanto per i valori oggettivi che vi sono presenti, ma soprattutto per i sentimenti e i valori condivisi che la popolazione vi attribuisce. Per comprendere questo meccanismo di valorizzazione del paesaggio, è imprescindibile domandare alle persone, ascoltarle, dialogarvi ed infine rispondergli.”



Elisabetta PalliniŠ



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