Nipoti di Maritain 02/2016

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nipoti di

02/2016

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testamento biologico: quale scelta?

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diaconato: quale ser vizio?

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islam & cristianesimo: quale dialogo?

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intervista Wiebke Johannsen, diaconessa evangelica



Nipoti di Maritain Anno I Numero 2

25 ottobre 2016

Direttore Responsabile: Piotr Zygulski Redazione: Lorenzo Banducci, Niccolò Bonetti Progetto Grafico e Impaginazione: Mattia Carletti, Gianni Oderda Editore e Proprietà: Nipoti di Maritain è edito dall’associazione non riconosciuta – con lo scopo di diffondere il dibattito ecclesiale – denominata “Nipoti di Maritain”, che ne possiede piena proprietà. La sede è presso la Casa delle Associazioni Laicali in Via San Nicolao 81 – 55100 Lucca. Pubblicazione: Nipoti di Maritain è un prodotto editoriale, numerato in sequenza di pubblicazione, non soggetto ad obbligo di registrazione in quanto privo di periodicità regolare (legge n. 62/2001, art. 1). È pubblicato presso World Wide Web in formato PDF scaricabile al link https://issuu.com/nipotidimaritain Diritti: Nipoti di Maritain è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

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Dibattito • TESTAMENTO BIOLOGICO 12

Esiste un diritto a uccidersi? di Niccolò Bonetti

14

Osservazioni sulla dichiarazione anticipata di trattamento di Raffaele Dobellini

17

Diventare Padri per scegliere tra volontà e bene dei cari di Vincenzo Fatigati

20

Lo sguardo del medico sulla vita di Giuseppe Viola

23

In ascolto del malato di Lorenzo Banducci

• ISLAM & CRISTIANESIMO 28

L’Islam è compatibile con l’Occidente? di Lorenzo Delpriori

31

Cristiani e musulmani, le battaglie che ci accomunano di Andrea Virga

33

Pregando insieme, per cogliere un raggio di comunione di Daniele Conti e Alessandro Caratto

36

Quei gesti che educano al dialogo di Omar Vitali

38

Gli ostacoli al dialogo di Francesco Macinanti

41

Noi musulmani italiani e l’affinità spirituale con i cristiani di Co.Re.Is. – Sezione Giovani

Indice

• DIACONATO 46

Diaconi o “Chierichettoni”? di Giovanni Giavini

48

Diaconato femminile: una sfida pastorale di Andrea Bosio

51

Maria, madre e schiava, esempio di diaconato di Giuseppe Saggese

53

Diaconato e ministeri ordinati femminili di Niccolò Bonetti


Rubriche

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intervista 5 8 Wiebke Johannsen, diaconessa evangelica

a cura di Omar Vitali

Laudate Hominem 6 3 Monache con insegne sacerdotali

di Vincenzo Romano

Rodafà 6 5 Che cosa c’entrano i preti sposati

di Stefano Sodaro

A ben vedere 6 9 La coscienza nel magistero di John Henry Newman

di Christian Alberto Polli

Umanesimo Integrale 7 2 Cristianesimo e Islam in due “discepoli” di Jacques Maritain

di Stefano Gherardi

A misura d’uomo 7 4 Fede o ideologia? Una riflessione sul futuro

di Davide Penna

IMPRESSIONES 7 7 Riflessioni a partire dal film “Transcencence”

di Matteo Zerbino

Recensione 8 1 Un costruttore di pace. Il Mediterraneo e la

Palestina nella politica estera di Aldo Moro a cura di Lucandrea Massaro


6 Nipoti di Maritain

Editoriale di Piotr Zygulski

Nipoti di Maritain sta crescendo. Cresce l’interesse nei confronti della rivista, cresce il numero di collaboratori. Ho colto qualche reazione, implicita ed esplicita; mi rallegra il fatto che sia stata apprezzata l’impostazione “ecumenica” che abbiamo voluto dare, coinvolgendo autori con idee differenti, da quelle più conservatrici a quelle più riformistiche, per mostrare la vivacità dello Spirito che soffia all’interno della Chiesa, in mezzo ai battezzati e anche al di fuori. Rispetto alla nostra pagina facebook – che comunque rappresenta uno spazio efficace per le reazioni alle notizie di immediata attualità – questa rivista viene percepita come una dimensione in cui il confronto può portare maggiori frutti. Questo non per

una pretesa seriosità dei toni, che auspichiamo essere sempre brillanti, ma forse per il filtro fisiologico nei confronti delle “sparate” meno argomentate che non sempre permettono di accogliere fraternamente la posizione dell’altro. Non è nostra intenzione scoraggiare persona alcuna dallo scrivere articoli da pubblicare in questo spazio, tutt’altro; è piuttosto l’atteggiamento che ritroviamo in questa rivista, che sembra rivelarsi maggiormente costruttivo, a dover contagiare anche le reti sociali. Se nel primo editoriale ho parlato di quel “pepe della terra” come una qualità peculiare di Nipoti di Maritain che va preservata anche all’interno di questa nuova pubblicazione, questa volta in-


7 vece – anche per via di spiacevoli discussioni degenerate bruscamente – mi preme invitare ad utilizzare sui social il medesimo atteggiamento di accoglienza. Ciò non esclude anche una forte dose di provocazione, ironia e sarcasmo, egregiamente rappresentata dagli interventi che impreziosiscono la rivista. Recentemente ho dovuto scrivere due interventi per ricordare che il motto maritainiano che ci contraddistingue è “debitori a Voltaire per la tolleranza, debitori a Lutero per il non conformismo”. La tolleranza è innanzitutto nei confronti delle persone: come la offriamo a voi, la chiediamo anche a chi interviene su Nipoti di Maritain. A fronte di alcune critiche ricevute secondo le quali Maritain e consorte non avrebbero sottoscritto alcuno degli articoli usciti sul primo numero della rivista – in particolare l’intervista, percepita come “ingombrante”, al teologo Andrea Grillo, cui abbiamo voluto dare voce non tanto per la condivisione della sua “linea”, quanto per gli spunti interessanti che offre su un tema di sua competenza – preciso che nessuno di noi è Maritain né pretende di identificarsi con esso, bensì cerchiamo di raccoglierne, neppure da “mariti” o da “figli”, ma da “nipoti”, la vocazione alla tolleranza e al non conformismo. Ci basterebbe solo questo; se anche lui avrebbe preferito una simile “eterodossia” anziché una pedissequa sequela

delle virgole del suo pensiero, possiamo solo, ragionevolmente, ipotizzarlo. Mi sono trovato ad esplicitare in cosa consista la proposta di tolleranza e non conformismo al tempo stesso, due dimensioni non semplici da coniugare. Si è deciso di escludere gli insulti personali e le espressioni lesive della dignità umana di qualsiasi individuo o gruppo sociale; parimenti, il facile ricorso ad accuse di “eresia”, soprattutto per squalificare gli studi dei fratelli, è sembrato un grave ostacolo all’ideale di fraternità universale che, in quanto cristiani, abbiamo abbracciato. In tal senso, abbiamo fatto nostro l’appello ad accogliere tutte le posizioni teologiche ed ecclesiologiche più disparate, in quanto di stimolo alla ricerca della verità contenuta, in parte, anche in esse, o che può emergere affiancando contrastivamente due opinioni diverse. L’insulto è altra cosa; distruttivo, sterile, non permette l’ascolto delle reciproche opinioni. I quesiti proposti sono sempre indirizzati a svegliare la nostra fede, a provarla; lo stesso San Tommaso d’Aquino si pose, nella sua Summa, le domande più disparate (alcuni esempi: se Dio esista, se il male sia un’entità positiva, se un angelo parli con l’altro …) analizzando tutte le tesi favorevoli e contrarie. Come lui, coerentemente col Magistero della Chiesa, pensiamo che solo dal dubbio possa scaturire una solida fede che non sia una in-


8 Nipoti di Maritain genua credenza favolistica, cosa ben diversa dalla profonda “fede dei semplici” e dalla “povertà in spirito”, che rappresentano la nostra libertà da ogni forma di sicurezza, orgoglio e possesso, compreso quello di convinzioni catechistiche. Pertanto anche il sindacare la legittimità dei quesiti proposti manifesta un atteggiamento esplicitamente distruttivo che impedisce alla Verità di illuminare, aprendo ferite dolorose ma indispensabili, tutte quelle superficiali credenze assunte acriticamente. Oggi più che mai è diventato necessario passare per il dubbio più radicale, per l’ateismo, per la Croce e l’abbandono di ogni appiglio, finanche del legno della Croce. Ad ogni modo, i riscontri incoraggianti ricevuti da laici e consacrati, che hanno evidenziato il nostro stile «dialogico nell’accogliere posizioni di vario tipo, e al contempo chiaro nel dichiarare precise prese di posizione», ci spingono a procedere in tale direzione. La quale, in fondo, è quella dell’ascolto, che contribuisce ad una migliore edificazione della nostra coscienza. Rispetto al primo numero, gli articoli “lievitano” da 18 a 24. Merito forse dei quesiti, che hanno pro-vocato, ossia hanno “chiamato fuori” le risposte di molti. Si parla di testamento biologico da prospettive etiche, giuridiche e mediche, sottolineando in più occasioni il rapporto di fiducia e ascolto tra l’operatore sanitario e la persona sofferente, che innanzitut-

to deve essere accompagnata e aiutata nel discernimento delle imprevedibili e dolorose vicende della vita. Nessuna “intelligenza artificiale” – nemmeno quelle citate da Matteo Zerbino nella nuova rubrica “Impressiones” – potrà mai sostituirsi all’intelletto, all’emotività e alla presenza umana. Si parla di dialogo con le persone di fede islamica, con tutti gli ostacoli che effettivamente ci sono e si frappongono a tale vera fraternità. Abbiamo la grazia di poter ospitare un intervento dei giovani musulmani del Co.Re.Is., ma anche esperienze personali, con gesti concreti che educano al dialogo e riflessioni più generiche sul cosiddetto Occidente che guarda – con una diffidenza che cela sicuramente anche invidia – alla dimensione sacrale che nell’Islam si è preservata in misura maggiore rispetto al cristianesimo. Camminiamo, senza credere alle mortifere ideologie che invocano lo “scontro di civiltà” o a quelle che sbandierano un facile “buonismo” superficiale, che ignora l’importanza del carico valoriale che in parte ci accomuna e in parte ci distingue, e si rende incapace di accogliere l’altro come egli è; un aiuto è rappresentato dalla rubrica di Stefano Gherardi che affronta la questione dalla prospettiva di due “allievi” di Maritain, che hanno cercato nell’incontro culturale, mistico e personale un mezzo per avvicinarsi agli uomini del Corano. C’è invece chi, co-


9 struendo la pace con popolazioni anche di fede islamica, per via politica, ha abbracciato l’intero Mediterraneo, rendendo l’Italia, nell’immaginario islamico, una nazione non ostile; nello specifico, pensiamo ad Aldo Moro, del quale si parla nella recensione di Lucandrea Massaro al libro di Gennaro Salzano. Altrettanto prezioso è il contributo di Davide Penna, che illustra la dinamica trinitaria che ravviva la radicale apertura della fede ed evita l’incancrenirsi nell’ideologia, che è sempre dietro l’angolo. Infine, il terzo tema di questo numero è il diaconato, anche – ma non solo – femminile, sebbene gli animi si siano infervorati su quest’ultimo, divenuto di grande attualità con la recente istituzione della Commissione di Studio sul Diaconato delle donne, avvenuta proprio mentre stavamo raccogliendo gli articoli. Abbiamo voluto indagare il ruolo di alcuni ministeri ordinati femminili, nel passato ma anche nella contemporaneità, proponendovi l’intervista alla diaconessa Wiebke Johannsen della Chiesa evangelica, con la quale ci apprestiamo a celebrare il 500° anniversario della Riforma. Si intuirà che il ruolo del “diacono” nella loro comunità è più vicino ad una sorta di “animatore” consacrato, che segue soprattutto le attività dei gruppi giovanili. La rubrica di Stefano Sodaro ci rimanda alla insopprimibile

tensione del cristiano, che sarà sempre eccedente anche rispetto alla più “progressista” delle istituzioni sociali. Qui entra in gioco la coscienza, a noi tanto cara, esaminata all’interno della rubrica “A ben vedere” questa volta affidata a Christian Alberto Polli, il quale ne illustra l’importanza per il pensiero del beato cardinale John H. Newman. In essa è racchiuso un po’ tutto il proposito di “abbronzare” la nostra coscienza alla luce radiosa del Risorto, nell’incontro con il fratello. Buona lettura.


10 Nipoti di Maritain Tem volenihilia pra volupta dolorisitiae nus voluptas inis velias et et laboratem fugita et quam dolutem core pre eum, quis apedi corianit, non ra qui con cullorrori offic tes ipsapis eatemporem di cum rerum venis porrore scius, con re estruntiore non nimusa volla audic te qui dolore ilique nonsente vit explabo rerunde nihicit vel idem accabo. Nem et dissiminum faccabo rumquisquas delest fugit quunt reptasperem alignieniet quid que prore, ut res maio. Nam doluptam excest, consequam voluptur, odist resti blatemq uatempo rporum eatet volluptatia doluptas explabore am fugiae name sum unt faccusam, corum fuga. Berem qui ommodipient et, nat landus vollendi voluptate comnihi tatur, conseque eium ea suntibus ulpario nseria si re corro quam, quistia quuntem con exceatem ne maximin nem la dolor ad ulles atureperatem ipicipsus cus. Cium cone nim a conet doluptiatum aute consequis expere cum ressum nostibus dest qui imus, is quodit rerio vit voluptiam incte est, ent. Ovide quos doluptate nia veles experum quatessitat moluptas reicia volorio. Ita nosam, te pedit volo blatior eptasiti blauta nus porume nulparia ene sunt omnihillam, quatium eatis doluptatem et mint lit, con rehenimaios excerisit fugiatem. Ceperferat essinto essit, untenihillab incimpos asi commolo ribusda ndamus nat. Hariassimin pa prem quam vera si cum haruptaquo magnam, quos enditem fugiat facepero exerro que imus. Que qui voluptiam, nobitat


Dibattito testamento biologico « Un cristiano, nel proprio testamento biologico, che cosa può e/o non può scrivere? »


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Esiste un diritto a uccidersi? di Niccolò Bonetti “è possibile percorrere vie intermedie e più umane”

La coscienza cristiana sul tema del testamento biologico deve evitare due atteggiamenti erronei: una sacralizzazione esagerata della vita fisica che esprime un attaccamento peccaminoso alla vita terrena e una visione libertaria che invece ritiene la vita umana liberalmente disponibile dal soggetto in modo illimitato. Fra chi ritiene che bisogna continuare ad idratare e alimentare gli individui in stato vegetativo anche contro la volontà che espressero in vita e chi ritiene il suicidio un diritto assoluto della persona umana è possibile percorrere vie intermedie e più umane. La vita umana è un dono indisponibile di Dio: non è l’uomo a darsi la vita e neppure dipende totalmente da lui conservarla ed è quindi difficile sostenere che egli possa rivendicare un diritto assoluto a togliersela. Accettare la sofferenza, il dolore e la morte significa accettare la finitezza umana; ogni soluzione eutanasica rischia di configurarsi come fuga dall’umano.

Tuttavia non esiste neppure il diritto a mantenersi in vita ad ogni costo e ci si può chiedere se davvero certe sofferenze atroci siano veramente necessarie, quasi si debba sacrificare la persona alla continuazione della sua vita terrena. Bisogna adottare un modello teleologico, basato sulla misurazione, caso per caso, delle conseguenze positive o negative delle azioni e condurre una responsabile ponderazione dei valori in gioco, valutando il contesto, le circostanze e le conseguenze degli atti messe in atto nella data situazione. In tale ottica, esaurita ogni altra possibilità, il suicidio assistito e l’eutanasia attiva possono configurarsi, in situazioni estreme e straordinarie, come possibilità moralmente lecite. Come scrive Karl Rahner: «Se uno veramente non riesce più a sopportare la propria vita, cioè se a motivo delle condizioni fisiologiche e psicologiche in cui si trova non è più in grado di disporre in modo realmente libero di se stesso, e in tale situazio-


13 ne egli stesso pone termine alla propria vita, costui va a finire nelle mani del Dio misericordioso. In ogni generazione della mia parentela mi è capitato di assistere a qualche conclusione apparentemente arbitraria della vita. Una volta ho dato sepoltura ecclesiastica a un parente prossimo che era morto così, e trovo che ciò è senz’altro conforme allo spirito della religione e della Chiesa». Questo è il giudizio di moralisti cattolici come Lisa Sowle Cahill, Xavier Thévenot e Giannino Piana. Tale possibilità inevitabilmente solleva problemi estremamente complessi e può risultare un rimedio peggiore del male, specialmente in campo giuridico. Si pensi solamente agli abissi di mostruosità, barbarie e disumanità che si sono aperti dove l’eutanasia è stata legalizzata, come ad esempio nel caso olandese o belga. La legalizzazione dell’eutanasia si presenta nei fatti una pista molto pericolosa; mi pare decisamente più rispettoso della dignità umana e del precetto “non uccidere” percorrere strade alternative come quello delle cure palliative e della sedazione terminale, fermo restando la difficoltà di fondare una condanna morale assoluta di suicidio ed eutanasia. La vera risposta alla domanda di eutanasia non è la condanna morale o il divieto penale ma costruire una società che accetti la sofferenza (senza masochismo o pietismo) come un aspetto ineliminabile della vita umana e, come tale, fecondo e ricco di significati spirituali, etici e religiosi e realizzi un’assistenza medica olistica che garantisca al

malato terminale che la sua vita restante abbia uno standard di vita accettabile e decente. Ogni persona umana ha un valore assoluto e nei momenti di fragilità e sofferenza va protetta dalla pressione di una società che ha venduto la sua anima ai demoni satanici del consumismo, dell’efficienza e del profitto. Come ci ricorda il Papa: «Ogni anziano, anche se infermo o alla fine dei suoi giorni, porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare»!

“adottare un modello teleologico, basato sulla misurazione, caso per caso, delle conseguenze positive o negative delle azioni”


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Osservazioni sulla dichiarazione anticipata di trattamento sanitario di Raffaele Dobellini Sono attualmente in discussione presso la Commissione Affari sociali della Camera sedici proposte di legge sul c.d. testamento biologico o dichiarazione anticipata di trattamento. Tra queste due espressioni andrebbe preferita la seconda. L’espressione “testamento biologico”, infatti, può essere interpretata come sostegno alla tesi secondo la quale il bene vita sia«davvero subordinato alla mera volontà potestativa della persona e che questa sia comunque l’unica legittimata ad attribuire a tale bene un qualsivoglia valore»1 . Il rilievo assunto dalla DAT origina, per un verso, dalla necessità di evitare che sia un giudice a dedurre la volontà del paziente in stato c.d. vegetativo, ricorrendo ad improbabili testimonianze di terzi, dall’altro,

dalla natura relazionale-personalistica, che oggi si attribuisce al rapporto tra medico e paziente, che ha permesso di superare la «primazia del medico sull’alleanza terapeutica»2. La DAT risulta necessaria, però, proprio perché l’autodeterminazione del paziente si esplica appieno solo nel caso di pazienti capaci di intendere e di volere, «mentre risulta di difficile applicazione in tutti i casi in cui il paziente sia in condizione di fragilità e vulnerabilità e abbia difficoltà nel manifestare chiaramente le proprie volontà»3. Se il sanitario non è più il deus ex machina dell’attività terapeutica, non è, però, neanche un mero ed asettico esecutore dell’altrui volontà. Permarrà sempre una zona grigia in cui il sanitario sarà chia-


15 mato ad esercitare la propria valutazione. Proprio l’importanza attribuita all’alleanza terapeutica non può che condurre, infatti, a negare la piena vincolatività di una DAT che escluda qualsiasi tipo di terapia, soprattutto se il medico è consapevole che il dichiarante non abbia adeguatamente tenuto conto del possibile sviluppo della scienza medica o dell’evoluzione della propria malattia. Ciò detto, si possono indicare alcuni requisiti di validità della DAT che il legislatore dovrebbe tenere in considerazione: 1) dichiarazione di soggetto maggiorenne capace di intendere e volere ed adeguatamente informato; 2) forma scritta con data e firma certe; 3) specificità delle situazioni cliniche considerate e dei tipi di terapia rifiutati; 4) conformità delle dichiarazioni al nostro ordinamento (nessuna introduzione surrettizia dell’eutanasia); 5) deve valere il principio di precauzione (in dubio pro vita), assumono valore quindi le revoche informali e deve persistere l’attualità della dichiarazione; 6) assenza di miglioramento della situazione clinica e della terapeutica, nessuno infatti rifiuterebbe i miglioramenti della scienza; 7) «il divieto per il rappresentante legale del minore o dell’infermo di mente, di rifiutare le cure del rappresentato, poiché questo ha soltanto il potere-dovere di agire per la salvaguardia della vita e salute del rappresentato medesimo

[…] (non essendo legittimo, ad es., per il nostro ordinamento il prelievo di rene, consentito dai genitori, dal figlio minore per trapiantarlo sul fratello gemello, come è avvenuto altrove)»4. La DAT, sebbene rispettosa di detti requisiti, rimane pur sempre uno strumento. Sarà il legislatore a dover evitare che diventi uno strumento sterile, che contribuisca ulteriormente a lasciar soli coloro che vivono una fase particolarmente dolorosa della propria esistenza. L’alleanza terapeutica, infatti, può peccare di astrazione, oscurando le difficoltà e le fragilità del malato. Al tempo stesso, tuttavia, il medico deve essere aiutato a porre una particolare attenzione «alle esigenze del caring, affinché il rifiuto o la rinuncia del paziente a cure necessarie alla sua sopravvivenza rimanga un’ipotesi estrema»5. Si dovrà inoltre riflettere sul fatto che l’alleanza terapeutica deve coinvolgere anche i familiari del paziente. «La relazione che lega medico e paziente è inevitabilmente asimmetrica: la partecipazione dei familiari all’alleanza terapeutica potrebbe portare un contributo positivo»6 . Le proposte di legge presentate attualmente alla Camera presentano molti tratti comuni. Ad avviso di chi scrive, la legge in materia di DAT dovrebbe esplicitare il rifiuto per il nostro ordinamento dell’accanimento terapeutico, dell’eutanasia, dell’assistenza

“andrebbe rimesso solo al dichiarante l’eventuale rifiuto dell’alimentazione/idratazione artificiale”


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“il vero casus belli rimane la totale vincolatività o meno delle dichiarazione per il sanitario”

e/o aiuto al suicidio e dell’abbandono terapeutico, oltre che ribadire l’importanza dell’accesso più facile alla terapia del dolore. Andrebbe rimesso solo al dichiarante l’eventuale rifiuto dell’alimentazione/idratazione artificiale. Si dovrebbe, quindi, espressamente escludere la possibilità di ricostruire la volontà del rifiuto del trattamento sanitario da strumenti che non siano la DAT. Il fiduciario, eventualmente nominato, non può essere considerato l’unico depositario della volontà del malato, ma anche i familiari devono essere consultati, soprattutto nei casi dubbi. Il vero casus belli rimane la totale vincolatività o meno delle dichiarazione per il sanitario. Da quanto su affermato deriva chiaramente che la legge in materia di DAT non può che prevedere la parziale vincolatività della stessa. Il medico curante, il fiduciario, i familiari dovrebbero infatti poter chiedere ad una Commissione etica di disattendere quanto previsto dalla DAT nel caso in cui sia possibile ricorrere ad un innovativo trattamento sanitario o nel caso in cui la dichiarazione non risulti sufficientemente chiara. Una legge che immagini la DAT come assolutamente vincolante risulterebbe non conforme al principio di precauzione e vanificherebbe il senso dell’alleanza terapeutica. In dubio semper pro vita.

NOTE: F. D’AGOSTINO, “Postilla al parere «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico» del Comitato Nazionale di bioetica”, 2008.

1

P. STANZIONE – G. SALITO, L’indisponibilità del bene della vita tra autodeterminazione e norma, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010.

2

L. NEPI,“Recensione di «Doveri e diritti alla fine della vita» - Edizione Studium” in Iustitia, Anno LXIV n. 2/11. 3

F. MANTOVANI,“Relazione al Convegno dell’Accademia nazionale di Lincei su «Testamento biologico e libertà di coscienza»” Roma, 12-13 aprile 2012.

4

D. FARACE, “Le dichiarazioni anticipate di trattamento – Notazioni a margine del disegno di legge n. 2350”. Link: http://www. treccani.it/diritto/approfondimenti/diritto_civile/2_Farace_ dichiarazioni_anticipate.html 5


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Diventare Padri per scegliere tra volontà e bene dei cari di Vincenzo Fatigati

“solo uccidendo il padre/celeste/ religioso potrebbe ritornare a diventare un vero padre, esercitando l’amore per la figlia”

Uno dei punti focali del film Million Dollar Baby è rappresentato dalla scena in cui Frankie, l’allenatore di Maggie, la pugile inchiodata in stato di paralisi permanente su un letto dopo essere stata vigliaccamente colpita nell’ultimo incontro di pugilato, svela il significato del termine “mogusha”: mio sangue, mio tesoro. Il richiamo cristologico è evidente (come segnalava Fabio Ferzetti su Il Messaggero del 17 febbraio 2005) e ci permette di rileggere tutta la narrazione dal suo epilogo: Maggie muore a 33 anni, ed è quindi «fatta della stessa sostanza del padre», legata da un rapporto quasi filiale, benché sia di tipo putativo. Ma la prova più alta e difficile di paternità consiste nell’assecondare la volontà dell’allieva/figlia,

somministrando una dose massiccia di adrenalina, in modo da permettere di non soffrire: e morire. La definizione del ruolo paterno, in questa prospettiva, ha una funzione salvifica e quasi redentrice. Frankie è, da una parte, un padre naturale (un “non-padre”) fallito, non ricevendo risposte alle lettere che scrive alla sua figlia naturale; dall’altra, è un maestro condizionato troppo dal senso paternalistico: per paura paterna non permetterà al suo allievo migliore, “Big Willie”, di combattere per il titolo, indirizzandolo verso un altro manager. Solo quando accetterà di dare una possibilità a Maggie riuscirà a sintetizzare queste due figure di padre/maestro, dove il ruolo di maestro permettere di diven-


18 Nipoti di Maritain tare vero padre. Il prete, a cui “confessava” i propri dubbi, non riesce a rispondere alle domande di Frankie: «Cos’è lo Spirito Santo?», «Cos’è l’Amore filiale?». Anzi, al contrario, mostrando l’elencazione di una dottrina svincolata dall’esperienza, accresce i sensi di colpa: sarà solo la dialettica instaurata dall’incontro con Maggie che permetterà di costruire la dimensione paterna; non certo l’enunciazione di una dottrina in modo didascalico. E l’eutanasia, quindi, risulterà essere il più alto (?!) gesto d’amore del padre (?). Prima di parlare del Catechismo cattolico, proviamo un attimo a rileggere la dialettica tra responsabilità e autorità genitoriale in maniera radicalmente opposta, offrendo una prospettiva diversa. Emerge insistente un quesito: cosa scegliere tra comandamento e responsabilità di un padre? Nella nostra articolazione della risposta già offriamo una definizione dell’amore, ponendo una nuova questione di Antigone, dove da una parte c’è la legge religiosa e dall’altra quella del padre naturale. Una sorta di Edipo rovesciato: solo uccidendo il padre/celeste/religioso potrebbe ritornare a diventare un vero padre, esercitando l’amore per la figlia. O meglio, cercando di interpretare secondo gli spunti offerti dal racconto del sacrificio di Isacco, arrivando ad un assurdo etico: cosa bisogna scegliere tra la volontà (“assurda”) di Dio/ Padre e l’istinto paterno di salvare il proprio figlio? Scelta che,

laicamente, è tra legge divina e carità umana. Cosa succederebbe se un medico, andando contro la volontà di un Testimone di Geova, offrisse cure mediche ad un paziente per salvare la sua vita? Si veda la Sentenza n° 42111/2007 della Sez. III della Cassazione Civile, che nega il risarcimento del danno al paziente, pur evidenziando il discrimine. Quali sono, o possono essere, i limiti del soggetto in merito alla Dichiarazione Anticipata di Trattamento (DAT), il cosiddetto “testamento biologico”? Il Catechismo è abbastanza chiaro sulla DAT, esplicitando da una parte il rifiuto (CCC 2277) di predisporre forme mascherate di eutanasia per alleviare il dolore, ma anche la possibilità in certi limiti di poter interrompere l’accanimento terapeutico (CCC 2278). Ma questo non sposta di un millimetro la questione di un padre/medico che vede la propria figlia/paziente in stato vegetativo: cos’è la vita? Chi è in stato vegetativo è davvero “vivo”? E se è in coma, lo è ugualmente? Qual è il confine tra interruzione del trattamento terapeutico e omicidio? Quali sono le libertà del soggetto quando, in possesso delle sue piene facoltà mentali, deve decidere della propria fine, in casi eventuali che non riesce neanche a immaginare? Come un padre può interpretare, realizzare allo stesso tempo la volontà e il bene della propria figlia? Non sono domande che si posso-


19 no risolvere in poche righe e in maniera categorica, o didascalica, dicevamo prima. In Italia non esiste ancora una regolamentazione completa sul testamento biologico, mentre in altri sistemi giuridici, come in quello tedesco, si arriva a nominare un fiduciario. Tuttavia in Italia esistono norme che tutelano il “consenso informato”; si veda al riguardo l’art. 32 della Costituzione e l’art. 5 della Convenzione di Oviedo adottata dal Consiglio d’Europa nel 1997. Inoltre gli articoli 30 e 32 del Codice di deontologia medica affermano il diritto al consenso informato. Il Parlamento italiano negli anni scorsi ha discusso un disegno di legge sul testamento biologico (Legge Calabrò) che venne approvato in prima lettura, ma poi non fu più confermato e decadde. In tale ddl Calabrò il rapporto medico-paziente era impostato in una prospettiva quasi “genitoriale” e “paternalistica”, che spostava la questione su un piano pragmatico, valutando le circostanze del momento. Da una parte infatti il DDL escludeva alcuni trattamenti (idratazione e nutrizione artificiali risultavano sempre obbligatorie) e dall’altro si prevedeva che il testamento biologico fosse una sorta di orientamento che può essere disatteso dal medico se-

condo scienza e coscienza; in Germania esiste invece la figura del tutore che ha le stesse funzioni putative. La proposta, insomma, era quella di affidarsi ad una figura di garante che conosce i nostri bisogni e la nostra volontà cercando di trovare una sintesi tra legalismo volontaristico/religioso e carità (intesa quale bene del proprio caro). Nelle proposte C.3970 e C.3599, rispettivamente del Movimento 5 Stelle e dei deputati civatiani di “Possibile”, si parla nuovamente della figura del fiduciario, anche se la volontà del paziente ha un maggiore peso vincolante e può anche spingersi al rifiuto dell’alimentazione forzata. A mio avviso, bisogna sia porre dei limiti alla libertà del paziente, sia dall’altro avere la sensibilità di assumersi la responsabilità di scegliere, seguito dalla carità e amore, il bene del paziente, secondo il momento e la circostanza. Sembra quasi che, in certi contesti, per esercitare l’amore paterno occorra ribaltare il motto evangelico – proprio come nella scena finale di Million Dollar Baby – seguendo il vero comandamento della propria coscienza: sia fatta la volontà del figlio!


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Lo sguardo del medico sulla vita di Giuseppe Viola

In quanto medico neuropsichiatra vorrei offrire una chiave di lettura probabilmente meno formale rispetto a quella dei riferimenti normativi o magisteriali, ma più empirica. Spesso, infatti, sulla carta l’esperienza della sofferenza e della morte tende ad essere parziale e superficiale, senza tener sufficientemente in considerazione le conoscenze mediche. Ho vissuto circa due anni in un reparto pediatrico in cui si praticavano anche cure compassionevoli in pazienti che terminavano la loro breve esistenza terrena. Veder soffrire un bambino giorno dopo giorno – per mesi, a volte – mi ha insegnato che la vita non è data da un cuore che batte, dalle escursioni di volume di

due polmoni o da una attività cerebrale lenta se pur presente. La vita è la possibilità di entrare in relazione con se stessi e con gli altri, di poter godere del calore del sole e della sensazione fresca del vento, di poter comunicare i propri stati d’animo, le proprie emozioni e sentimenti. Se ciò viene a mancare e si aggiungono atroci sofferenze fisiche, non posso stare lì impotente, ma neppure intervenire in maniera invasiva: piuttosto, il mio compito è quello di valutare se non ci sia un accanimento terapeutico in atto a cui spesso gli stessi familiari ci spingono. Una persona in uno stato di coscienza dubbio, non rispondente agli stimoli ambientali né dolorosi e la cui unica manifestazio-


21 ne di “vita” sarebbe un respiro affannoso e un cuore che batte troppo veloce o troppo lento non credo, in scienza e coscienza, che si possa definire in vita. Stabilita l’irreversibilità di un quadro clinico è dovere di qualunque medico non “accanirsi terapeuticamente” – conformemente sia al codice di deontologia, sia al Catechismo della Chiesa Cattolica – e lasciare che non venga alterato il decorso naturale per mantenere integra la dignità della persona, oltre che il suo diritto di autodeterminazione. Il labile confine tra cure e accanimento terapeutico è sicuramente legato alla scienza e coscienza del medico a cui ci si affida per le cure.

Non vorrei quindi sancito per legge il dovere di idratare e nutrire artificialmente chiunque, sempre e comunque: sarebbe la negazione della naturalità. Un sondino nasogastrico fa male, provoca lesioni e ulcere lungo il suo decorso e le agocannule nelle vene le fanno rompere a lungo andare, creano stravasi di liquidi quando vanno fuori vena. Filtrate dagli occhi di un medico, tali manovre sono un po’ come nel giardino della sofferenza dello Zibaldone di Leopardi: «Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali».

In alcuni casi, alla fine della corsa della vita, penso sia giustificato il desiderio di interrompere la sofferenza giornaliera, continua, che si ripete ad ogni istante rendendolo identico al precedente; non può essere il paziente stesso oggetto di biasimo per un tale “desiderio di morte”. Nei miei ultimi giorni, non vorrei che mi venisse infilato ripetutamente in ogni vena del mio corpo un ago da pochi gauge per essere idratato o nutrito o, ancor peggio, che mi venisse posizionato un accesso venoso centrale per infondere i liquidi “vitali” direttamente nella vena giugulare interna, esattamente come non vorrei un sondino buttato giù dal naso fino allo stomaco o una tracheotomia.

Vorrei poter esprimere la mia dichiarazione di volontà anticipata affermando che qualora le mie condizioni fossero ritenute dai clinici come irreversibili, cioè senza alcuna possibilità di ritorno ad una vita “non artificiale”, non vorrei alcun tipo di intervento se non una adeguata sedazione farmacologica che mi accompagni alla morte. Di certo i non addetti ai lavori prima della fase di stesura del cosiddetto “testamento biologico” necessitano dell’ausilio di un medico di fiducia per un supporto informativo circa le manovre più o meno invasive a cui si può essere sottoposti e anche per definire quale sia lo stato di irreversibilità in cui interrompere le manovre rianimatorie, la-

“non vorrei quindi sancito per legge il dovere di idratare e nutrire artificialmente chiunque, sempre e comunque”


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“la redazione di un testamento biologico non può essere considerata una sorta di suicidio o un atto di superbia nei confronti di Colui che ci ha donato la vita”

sciando comunque un margine di azione ampio ai medici che dovrebbero valutare il quadro clinico. Forse introdurrei anche un termine temporale: ad esempio, se le mie condizioni cliniche rimanessero stabili per un mese, due mesi o un anno, vorrei l’astensione da ulteriori pratiche invasive e/o rianimatorie. Non so ancora esprimermi sul criterio temporale, perché dovrei riflettervi più esaustivamente. Ad oggi, nelle proposte di legge in discussione, sono affrontati tutti gli aspetti formali, però non ci sono chiari riferimenti al contenuto (cosa fare e cosa non fare e in quali casi) che dovrebbe essere espresso in tale documento. Insomma, sposo la bioetica laica contemporanea che non considera, sul piano puramente razionale, “un dovere incondizionato di continuare a vivere” e che ritiene non si possa invocare il concetto di “interesse alla vita” ove sussista una situazione di “insostenibile sofferenza” tale da rendere la vita disumana. Al contempo, la redazione di un testamento biologico non può essere considerata una sorta di suicidio o un atto di superbia nei confronti di Colui che ci ha donato la vita; essa rientra nel margine di autodeterminazione che discende dal libero arbitrio. Non mi riconosco appieno nell’enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, perché la dichiarazione di volontà anticipata non può essere definita

una fuga dalla sofferenza vissuta come «uno scacco insopportabile» in una cultura volta all’edonismo. Nella mia prospettiva empirica non riesco a considerare la sofferenza di un bambino, di un giovane o di un anziano come un “castigo purificatore”; sarebbe come ammettere una posizione sadica di Dio nei confronti dell’uomo. Le posizioni del Catechismo mi suonano troppo generali e poco aperte al discernimento personale di ciascun caso, come invece il Magistero più recente sottolinea. Al contrario, posso dirmi maggiormente vicino a quanto espresso nel 2013 dalla Conferenza episcopale tedesca circa la possibilità di ricorrere, in alcune circostanze, ad una eutanasia passiva o indiretta, ammesse solo parzialmente dal Catechismo come mancato accanimento terapeutico.


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In ascolto del malato di Lorenzo Banducci

Mi è impossibile – data la mia esperienza, sia personale sia collegata alla professione – parlare di un tema delicato quale quello del testamento biologico senza accennare al ruolo che il medico o, in generale, l’operatore sanitario deve avere nello stare vicino a chi soffre. Stare accanto al malato significa essenzialmente mettersi in ascolto della condizione di estrema sofferenza che sta vivendo la persona vicino a noi, accompagnandola un passo alla volta nel cammino terapeutico di qualsiasi natura esso sia (di cura, palliativo ecc.). È su questo aspetto che si gioca un duplice tema che mi è più caro sottolineare in queste righe più che quello del presunto “diritto di morire”. Da una parte occorre, perché si

realizzi sempre più questo legame fra colui che cura e colui che soffre, che le strutture sanitarie, di qualsiasi livello esse siano, abbiano la capacità di porre al centro la persona nella sua integrità trovando il coraggio di andare oltre due grandi tentazioni che assillano la medicina contemporanea. La prima è quella legata a una visione soltanto economicistica della salute incentrata su politiche esclusivamente attente al bilancio e al risparmio fatto, troppe volte, sulle spalle del malato e a vantaggio di pochi furbi pronti sempre ad approfittarsene. Con questo, però, non voglio giustificare una sanità di spese pazze e fuori controllo, ma che, garantita un’attenzione reale alle modalità con cui siano spesi i denari pubblici, fornisca a tutti, e specie ai più deboli,

“le strutture sanitarie, di qualsiasi livello esse siano, abbiano la capacità di porre al centro la persona nella sua integrità”


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“l’abbandono terapeutico e l’abbandono dell’accompagnamento da una parte, e l’accanimento terapeutico ingiustificato dall’altra, sono i due grandi rischi”

quei diritti all’assistenza, alla cura e all’accompagnamento necessari affinché il malato sia messo al centro del sistema. La seconda è invece legata a una visione eccessivamente frammentaria della persona umana. La medicina, in questa fuga verso l’iper-specializzazione, in alcune sue branche sta rischiando di perdere il contatto con l’integralità dell’uomo. È solo entrando al cuore della persona nella sua totalità e nella sua complessità che ci potremo porre accanto a lei e accompagnarla correttamente nel cammino terapeutico. Appare chiaro però come questo obiettivo sia tutt’altro che semplice. Richiede pazienza e ascolto, ma anche la capacità, da parte del malato, di sapersi in qualche modo aprire. L’operatore sanitario ha però sempre l’obbligo di provarci ponendosi nel corretto atteggiamento verso colui che soffre. Dall’altra parte non esistendo, come affermato in precedenza, un reale diritto di morire è importante riconoscere alla persona – come affermato anche dalla nostra Costituzione – una sfera di autonomia nel modo di affrontare la morte in maniera naturale e non come una lotta fino alla fine. Sul tema mi sento di citare il filosofo Vittorio Possenti che nel 2008 così scriveva: «Se la morte è il massimo limite umano che va riconosciuto, l’interruzione del trattamento

non vale come rifiuto della vita ma come accettazione del limite naturale ad essa inerente. Non si rinuncia alla vita, non si rifiuta la vita, ma si accetta di non potere impedire la morte o di non doverla ulteriormente procrastinare». Logicamente, e qui emerge il secondo tema per me importante, si rende necessario ribadire quanto sia terribile e assolutamente da evitare l’abbandono terapeutico del malato con tutte le sue tristi ricadute. Più negativo dell’abbandono terapeutico è però l’abbandono dell’accompagnamento, ossia la presenza di troppe macchine e di poche persone nell’itinerario di cura del paziente che può finire col sentirsi lasciato solo. L’abbandono terapeutico e l’abbandono dell’accompagnamento da una parte, e l’accanimento terapeutico ingiustificato dall’altra sono, seppur opposti, i due grandi rischi ai quali una corretta legislazione sul testamento biologico può provare a porre rimedio, purché si tenga conto che alla base di tutto sta essenzialmente una corretta relazione fra il malato e chi lo cura. Concludendo non posso non sottolineare da cristiano come l’atteggiamento di fondo da tenere, anche quando parliamo di testamento biologico, sia quello dell’amore. Agostino dice: «Io non so come accada che quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le


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altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Epist. 99,2). La malattia e la sofferenza trovano un senso nell’amore e diventano sicuramente più sopportabili. Ecco perché diventa fondamentale, prima di ogni discussione, lo stare vicino a chi soffre, ascoltarne la sofferenza e accompagnarlo nelle scelte. Proprio perché sono medico, quello del “testamento biologico” è forse l’unico fra i temi di bioetica in cui ho difficoltà ad avere una posizione netta; non saprei cosa scrivere nel mio testamento biologico, se non di non essere lasciato solo. Tutto questo, come ho provato a dire nelle righe precedenti, si realizza attraverso 3 livelli. Quello della politica con scelte lungimiranti e orientate al bene comune per porre la persona al centro, quello della medicina che deve considerare la persona nella sua integrità e infine quello di ciascun operatore sanitario che attraverso il proprio ruolo deve mettersi al servizio di chi soffre. Se questi tre livelli saranno così strutturati allora il paziente potrà davvero essere ben accompagnato nel suo percorso e in qualsiasi scelta decida di condurre nel suo itinerario terapeutico.

“non saprei cosa scrivere nel mio testamento biologico, se non di non essere lasciato solo”


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Dibattito ISLAM & CRISTIANESIMO « Quale tipo di fraternità e dialogo è possibile tra cristiani e musulmani? Hai esperienze da raccontarci? »


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L’Islam è compatibile con l’Occidente? di Lorenzo Delpriori

Maometto raccontava che un giorno Abramo invitò a tavola uno zoroastriano, ma quando scoprì il suo paganesimo, lo cacciò violentemente da casa. Dio lo rimproverò: «Perché hai agito così?», e l’altro: «Ma Signore, si tratta di un adoratore del fuoco!», e Dio replicò: «Sì, adora il fuoco fin da quand’era piccolo, e Io non gli ho mai rifiutato il pane. Chi sei tu per negargli quel che Io gli ho sempre concesso?». Vorrei partire da questo Hadith, testimoniato da al-Qushayri, per svolgere un piccolo esercizio di comprensione del problema dell’integrazione tra Islam e il cosiddetto “Occidente”. Le posizioni più frequenti nel dibattito pubblico sono riconducibili a due estremi opposti: da un lato, il buonismo di chi spalanca le porte all’Islam negando qualsiasi problema o adducendone la colpa a singoli squilibrati musulmani; dall’altro, l’intran-

sigenza di chi vorrebbe vietare l’Islam per legge. Dispiace notare che, al di là di questi due estremi ugualmente errati, siano ben poche le voci intermedie che cerchino di comprendere il fenomeno senza pregiudizi ideologici. La posizione intransigente è ovviamente improponibile, dal momento che limita la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 della Costituzione e, per noi cattolici, dalla dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae. La posizione buonista, invece, pecca di ingenuità perché si rifiuta di prendere atto che, come ha indicato perfino un insospettabile Giovanni Sartori, «dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l’integrazione di islamici all’interno di società nonislamiche sia riuscita». La domanda da porsi, dunque, è la seguente: l’Islam è compatibile con l’Occidente? Abbozzare una risposta, tuttavia, sarebbe


29 un compito difficilissimo, poiché necessiterebbe di identificare cosa può variare nell’Islam pur senza tradirlo e cosa invece no, oltre a cos’è l’Occidente e su quali basi è fondato. Volando più bassi, si può tentare di ricondurre la questione alla seguente: quali caratteristiche tipiche dell’Islam lo rendono particolarmente problematico per il mondo occidentale? Vorrei dunque suggerirne brevemente alcune per contribuire a una riflessione sul problema, evitando di ficcare irresponsabilmente la testa sotto la sabbia mentre attorno a noi esplodono bombe. È ampiamente condivisa tra i sociologi l’osservazione che quello di laicità sia un concetto tipicamente occidentale, che difficilmente ritroviamo in culture che non hanno conosciuto il cristianesimo e il suo “date a Cesare quel che è di Cesare”. Non è una novità che la cultura islamica non preveda questa separazione e anzi applichi la Shari’a. È innegabile che questo costituisce un enorme problema nel momento in cui tale cultura tenta di innestarsi all’interno della nostra, che invece non può assolutamente rinunciare a questo principio. Un secondo problema è stato individuato dal pontefice emerito Benedetto XVI a Ratisbona, quando aveva sottolineato che ci sono due modi possibili per rapportarsi alla religiosità: o si cerca una fede ragionevole, o ci

si rifugia in un irrazionalismo cieco, secondo cui Dio è quel totalmente Altro di cui si può solo prendere atto. Ebbene, Ratzinger sottolineava che nell’Islam Dio è assolutamente trascendente e la sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, nemmeno a quella della ragionevolezza: «Per questo Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla Sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità». I rischi che una tale concezione porta con sé sono evidenti, poiché se un musulmano deve accettare qualsiasi comando divino senza neanche poterlo approcciare tramite la ragione, di fatto tutto è permesso. Si potrebbe obiettare che posizioni irrazionalistiche hanno scandito anche la storia della teologia cristiana: da Tertulliano alla scommessa di Pascal, da Cartesio a Kierkegaard. Tuttavia bisogna osservare che queste posizioni non costituiscono l’essenza del cristianesimo, ma anzi potrebbero aprire la strada a fraintendimenti intimistici e irrazionalistici. Già i primi cristiani identificavano il loro Dio con quello dei filosofi pagani, sulle orme dell’evangelista Giovanni che parlava di Cristo come Logos. Il felice rapporto tra fede e ragione è poi proseguito lungo tutta la teologia cattolica, toccando le vette del tomismo e arrivando fino ai giorni nostri con l’Enciclica Fides et Ratio, che perfino un grande filosofo lontano dal cattolicesimo come

“quali caratteristiche tipiche dell’Islam lo rendono particolarmente problematico per il mondo occidentale?”


30 Nipoti di Maritain Costanzo Preve definiva «un vero e proprio monumento alla filosofia ed al suo carattere veritativo». Insomma, se si confronta l’atteggiamento cristiano con quello musulmano, termine che non a caso significa “sottomesso”, è inevitabile notare la problematicità dell’Islam.

“in un mondo come quello occidentale, sempre più secolarizzato, nichilista e agonizzante, un’immissione di spiritualità purissima come quella islamica non può che far bene.”

Questa difficoltà è enfatizzata da un’altra differenza spesso dimenticata. Il fatto è che, mentre nel cattolicesimo esiste un’istituzione a cui tutti i fedeli fanno riferimento, cioè la Chiesa, nell’Islam non esiste qualcosa di paragonabile, poiché non deve esistere alcun intermediario tra Dio e le creature. Esistono gli imam, certo, che però non corrispondono ai sacerdoti cristiani, dal momento che non ricevono un’ordinazione dall’alto, ma sono musulmani come tutti gli altri, solo con qualche conoscenza “liturgica” in più. Quest’assenza del clero può comportare difficoltà politiche, poiché ne segue che ogni interpretazione del Corano è, almeno in linea di principio, corretta quanto le altre, e dunque chiunque ne traesse conclusioni violente non potrebbe in alcun modo essere separato dai cosiddetti “musulmani moderati”. Si potrebbe continuare disquisendo della condizione della donna o della violenza estremista. Quelle che ho elencato sono solo alcune delle possibili frizioni tra cultura islamica e cultura occidentale. Averle presenti

non significa necessariamente “seminare odio”, come accusano gli ingenui, ma giudicare le diverse culture “iuxta sua propria principia”, come insegnava Lévi-Strauss, comprendendo le differenze e aiutandoci anche a valutare meglio le nostre specificità. Agli intransigenti destrorsi, invece, va ricordato che, tutto sommato, dall’incontro coi musulmani noi cristiani abbiamo anche molto da guadagnare. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che in un mondo come quello occidentale, sempre più secolarizzato, nichilista e agonizzante, un’immissione di spiritualità purissima come quella islamica non può che far bene. Oltre al fatto che alcuni temi sono in comune col cristianesimo (basti pensare alla poderosa ripresa dell’argomento cosmologico Kalam effettuata dal filosofo cristiano William Lane Craig, o alla devozione dei musulmani per Maria e Gesù), noi cristiani fiacchi del ventunesimo secolo non possiamo non ammirare l’abnegazione con cui i musulmani praticano le preghiere quotidiane, il digiuno del Ramadan e gli altri Pilastri dell’Islam (Arkan al-Islam). Auspichiamo dunque di riuscire ad accogliere, per quanto possibile, questi nostri fratelli, superando le inevitabili difficoltà e senza dimenticare ciò che ci diversifica, in modo da poter testimoniare al nostro Occidente disperato, tutti insieme, che, come diceva Agostino, «inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te».


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Cristiani e musulmani, le battaglie che ci accomunano di Andrea Virga

Se affrontiamo il tema del rapporto tra cristiani e musulmani, possiamo distinguere tra una serie di considerazioni generali, che hanno valore universale, e altri aspetti particolari, legati alle situazioni locali. Prima di tutto la dottrina: il Concilio Vaticano II esorta apertamente a «difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (Nostra Aetate, 3). Vediamo poi qualche esempio specifico. Dal punto di vista generale, è molto importante il dialogo culturale e teologico che, sulla base della comune conoscenza, consente di individuare i punti di contatto e di differenza, evitando quindi sia un pernicioso sincretismo indifferentista, sia un settarismo incapacitante e suscettibile di pericolose strumentalizzazioni politiche. Un

caso concreto è la University Of Religions & Denominations di Qom in Iran che, tra le tante attività ecumeniche, ha anche tradotto il Catechismo della Chiesa Cattolica in persiano. Benché lo sciismo, con le sue specificità dottrinali, e il sufismo, ricco di influenze eclettiche, siano più predisposti a questo tipo di dialogo, istituzioni analoghe sono presenti anche nel mondo sunnita, come l’Al-Azhar Center for Dialogue. Anche chi scrive, ad esempio, ha partecipato a una conferenza sulla relazioni tra le differenti tradizioni religiose con il filosofo russo e teologo ortodosso Aleksandr Dugin e il maestro sufi italiano Shaykh ‘Abd al-Wâhid Pallavicini. Anche a livello di grande pubblico, per i cristiani, la conoscenza autentica dell’Islam costituisce un modo per evitare di cadere nella trappola dell’islamofobia

“la conoscenza autentica dell’Islam costituisce un modo per evitare di cadere nella trappola dell’islamofobia e dello scontro di civiltà”


32 Nipoti di Maritain

“la mutua fiducia e collaborazione tra musulmani e cristiani pone le basi per una comune lotta, in Occidente, contro le gravi minacce ai principi non negoziabili”

e dello scontro di civiltà. D’altra parte, il rischio di apostasia è in realtà dipendente da altri fattori. Molti dei cristiani che si convertono all’Islam lo fanno o, in ragione di un matrimonio misto – mostrando quindi scarso convincimento religioso già a priori – o per esigenza di una dottrina più radicale, cosa che non avverrebbe se i cristiani si conservassero fedeli alla loro tradizione. Viceversa, una conoscenza profonda del cristianesimo e del suo messaggio d’amore da parte di Dio favorirebbe indubbiamente la conversione da parte di molti musulmani, come già avviene, ad esempio, in Africa. Se ci spostiamo poi sull’aspetto pratico, la mutua fiducia e collaborazione tra musulmani e cristiani pone le basi per una comune lotta, in Occidente, contro le gravi minacce ai principi non negoziabili: la distruzione della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la minaccia alla vita portata da aborto ed eutanasia, la repressione della libertà d’educazione. Casi come quello dei Musulmans pour l’enfance francesi, che hanno partecipato alla Manif Pour Tous, restano però minoritari, ma ciò dipende principalmente dalla scarsa o superficiale integrazione degli immigrati musulmani in Europa. È importante quindi far sì che un’eventuale integrazione sociale non abbandoni i musulmani europei alle braccia del liberalismo e della secolarizzazione, ma faccia leva piuttosto sul

loro conservatorismo. In altre parti del mondo, ad esempio in Africa e in Asia, il genere di battaglie da combattere è ben diverso, ma beneficia ugualmente della collaborazione tra le due religioni. In particolare, si tratta della lotta contro la piaga dell’islamismo, che minaccia non solo le minoranze cristiane del Grande Medio Oriente, ma anche le minoranze sciite, le confraternite sufi, e la stessa religiosità popolare sunnita, in nome di un’interpretazione purista e fondamentalista della religione islamica. È conosciuto il caso dei musulmani e cristiani egiziani che vegliavano sui rispettivi luoghi di culto. Tuttavia, è in Siria che vediamo più chiaramente come, sotto una stessa bandiera, cattolici, ortodossi, armeni, sciiti, drusi, alauiti, sunniti si battono fianco a fianco contro le orde del califfato e i ribelli cosiddetti moderati. L’alta percentuale di musulmani (specie tartari e ceceni) tra le forze armate russe e la presenza di volontari cristiani tra le fila di Hezbollah mostrano dunque come il vero ecumenismo non significa rinnegare la propria fede, ma combattere le stesse battaglie.


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Pregando insieme, per cogliere un raggio di comunione di Daniele Conti e Alessandro Caratto

Quando due culture si incontrano il dialogo non è mai scontato. Quando a incontrarsi sono due culture religiose il dialogo è ancora più difficile. E questo perché la cultura religiosa esprime la parte più intima della persona, la sua veste principale, il vestito più bello, l’habitus. In essa confluisce il credo più profondo che la persona nel corso della sua crescita e maturità ha fatto suo, cioè personale: quel modo di vivere, di pensare, quella cultura, quel credo, quella Fede.

menta l’habitus della persona mettendola in relazione a valori fondamentali, come la verità, la giustizia, la felicità, il rapporto con gli altri, l’affettività, il rapporto con Dio, che, aldilà del credo specifico, rappresenta quella luce interiore che orienta tutte queste dimensioni verso una unità interiore. In questo modo, tutti hanno più o meno consapevolmente una cultura religiosa, non perché abbracciano per forza un Dio, ma perché hanno questa luce.

La cultura infatti è un “coltivare se stessi”. Chi ha cultura non è perché sa tante cose, ma perché sa come vivere. O meglio, più che sapere, coltiva un modo di vivere e lo alimenta. Allo stesso modo, la cultura religiosa ali-

Si può immaginare allora la difficoltà che incontrano due credi nel dialogo. Il dialogo va a toccare infatti convinzioni profonde, radicate, maturate e messe alla prova, dalle quali difficilmente si torna indietro per un ripensa-


34 Nipoti di Maritain mento. Ma forse è proprio questa paura da oltrepassare. Probabilmente la paura del credo diverso è la paura, in realtà, della rimessa in discussione di tutto il nostro cammino. Se pensiamo poi a tradizioni millenarie – come il Cristianesimo e l’Islam, che si sono costituiti senza non pochi travagli interiori – si può immaginare la portata del dialogo. Quando io e Alessandro siamo arrivati in Marocco, per una vacanza, ci siamo subito resi conto del patrimonio culturale di questa terra che ci ha messi nella condizione di sentirci veramente stranieri. Ecco forse un primo punto: sentirsi stranieri, ignoranti davanti a persone con scale di valori radicalmente diversi, poveri di noi stessi. E crediamo che questo possa essere una base di partenza per qualsiasi confronto culturale. Il passaggio successivo è stato desiderare il confronto reciproco. Domandare a un ragazzo del luogo, musulmano, con il quale eravamo diventati amici, “in che cosa credi?” è stato un atto di curiosità perché gli si chiedeva la cosa più preziosa che portasse dentro. Quando parlava, si apriva così straordinariamente che la sua fede in Allah illuminava la nostra esperienza senza comprometterla, ma arricchendola. Ritrovare contenuti vicini alla nostra fede, come le storie di Abramo o Isacco presenti sia nel Corano che nella Bibbia, rafforzava questa unità creatasi. Una

unità sintonica, che trova un piano comune di condivisione, dove il suo tono e il mio possono realmente incontrarsi. Certo, non si tolgono le difficoltà, che sono causate principalmente dai contenuti specifici diversi. Per esempio, la concezione trinitaria di Dio per un musulmano è molto difficile da accogliere, e non semplice da spiegare perché possa essere compresa. Ma lo sfondo comune dello scambio permetteva anche da parte sua, di questo ragazzo, di avanzare nel dialogo con rispetto, senza chiudersi. Magari avanzava domande o rimaneva incerto, ma restava aperto alla non-comprensione, a questa situazione di epoké. Perché la comprensione non era l’obiettivo. Comprendere vuol dire “fare tuo”: come si fa a fare tuo qualcosa che è decisamente estraneo a te? Lo stesso valeva per noi nei suo confronti. Si capiva che l’orizzonte attraversava il capirsi o non capirsi, ma sfociava nella volontà di vivere insieme, di stare in amicizia. In questo stato, non diventava difficile pregare come un musulmano, cioè con le sue formule, perché, illuminati dalla sua esperienza e reciprocamente dalla nostra, era visibile la stessa fonte da cui scaturisce la linfa per la vita. La capacità di pregare scatta dalla capacità di amare, e dunque dalla capacità di essere – ognuno con il proprio sé – insieme. È stato bello quando abbiamo avanzato la proposta di pregare insieme a lui la pre-


35 ghiera musulmana prevista della mezzanotte. Subito rispose di no perché si prevede che tu sia un musulmano per pregare come tale. Ma non se la sentì neanche lui di rinunciare a quell’appuntamento di comunione. Ritornò dieci minuti dopo e ci richiese: “Volete pregare?”. “Certo”. E pregammo dopo la purificazione delle mani, dei piedi e del corpo. E anche lui diede una risposta in questo senso. Gli chiesi se voleva pregare con noi la compieta, la preghiera cristiana della sera. Ci rispose che questo non poteva farlo, ma desiderò rimanere a guardare. E così fece. Insomma, nessun fuoco d’artificio, nessuna visione mistica, nessuna conversione. Tutti pienamente noi stessi. Questo è il fine. Il che significa mettersi in gioco ed accettare che l’altro non soltanto abbia un punto di vista diverso, per la sua storia o percorso di vita, ma che riveli un cultus diverso che può integrarsi con il mio in una unità che apprezzi le differenze. In questo senso, il dialogo potrà evolversi quando si riuscirà a pregare insieme, ognuno con il proprio modo, il proprio credo, la propria preghiera, il proprio cuore, con la convinzione che siamo rivolti verso l’unico raggio che le raccoglie tutte, la comunione.

“illuminati dalla sua esperienza e reciprocamente dalla nostra, era visibile la stessa fonte da cui scaturisce la linfa per la vita”


36 Nipoti di Maritain

Quei gesti che educano al dialogo di Omar Vitali

A riguardo del dialogo tra musulmani e cristiani ho almeno due esperienze da raccontare. La prima viene da otto mesi di esperienza in una struttura di prima accoglienza per richiedenti asilo nella provincia di Bergamo. Ho vissuto gomito a gomito con 130 ragazzi; il mio ruolo era quello di educatore. Non è stato facile, soprattutto per le difficoltà linguistiche che ho con il francese e l’inglese. Mi ha molto colpito la capacità di adattamento di questi ragazzi che dopo pochi giorni dallo sbarco dalle navi “della salvezza” si ritrovavano in un luogo protetto e cercavano di socializzare. Un gesto mi è rimasto impresso fin da subito: il saluto. Che sia cristiano o musulmano, oppure qualche altra confessione religiosa, il saluto era un “gesto sacro” per tutti. Ci si salutava con qualsiasi pa-

rola, ma il gesto era molto forte. Stretta di mano con abbraccio e mano che incontrava la mano dell’altro sul petto. Bellissimo gesto di integrazione. Certo, non mancavano le difficoltà del vivere insieme, ma quel gesto mi è rimasto dentro. Anche quando un ragazzo lasciava il progetto, era interessante vedere i compagni di camera che lo accompagnavano a prendere il pullman, lo aiutavano con le valigie e, salutandolo, gli auguravano una buona vita, trattenendo al petto – sul cuore – tutto quello che avevano imparato nello stare insieme. Era un gesto di pace e di amicizia. Un gesto semplice, direi, ma molto efficace. La seconda esperienza è il racconto di un amico, Serge, che proviene dal Camerun. Mi raccontava che nel suo paese il 60% della popolazione è cristiano,


37 mentre il restante 40% di religione musulmana. Il governo camerunense cerca di facilitare la convivenza: gli incarichi ministeriali sono ricoperti da politici di fedi differenti. Per esempio, se il Capo di Stato è cristiano, il suo Segretario e il Ministro dell’Interno sono musulmani; non si tratta di una legge scritta, ma è una consuetudine. Nello specifico, poi, alcuni ministeri sono riservati alla minoranza musulmana. Un altro esempio è rappresentato dalle varie feste, in modo particolare nel mese di Ramadan. All’inizio di questo periodo, il Presidente invia il Capo del Governo a pregare con i musulmani. Questa occasione viene tra l’altro trasmessa in televisione, così che tutti i cittadini possano vedere e ascoltare questo momento, imparando a rispettarsi e a scoprire la diversità: la religione fa parte dell’identità dell’altro. Di consuetudine a Natale le famiglie cristiane invitano gli amici musulmani a pranzo; viceversa, durante il Ramadan, sono i cristiani ad essere invitati a partecipare alla festa musulmana che conclude il digiuno; una gran festa in cui fa da padrona la convivenza e il reciproco rispetto. È un di più la diversità religiosa, perché aggiunge occasioni di dialogo ed esperienze nuove. Nel 2015 un importante generale è stato inviato in un villaggio in cui c’era stato un massacro di cristiani da parte di musulmani. Il generale, in occasione di que-

sta visita, aveva scelto di farsi accompagnare da suo vice, che è di fede musulmana. Richiamando i capi cristiani, li invitava a rispettare l’identità altrui e a non vendicarsi per tale attentato. Il generale prendeva come esempio il suo rapporto di amicizia con il suo vice. E raccontava che, in viaggio, di venerdì il suo vice aveva bisogno di pregare. Lui per rispetto si fermava sempre e aspettava l’altro in macchina mentre pregava. Gran bel gesto di amicizia! Questa abitudine lo rendeva un amico, e non solo un “vice”. Ci sono dei ruoli anche nell’esercito che vanno rispettati, come il soldato con il suo superiore. Ma quando si parla di amicizia lo schema salta. La religione è una diversità ma anche un motivo di incontro. Ognuno mantiene la propria identità e l’amicizia supera tutto. Esiste il dialogo tra le religioni ed esso si incarna nei gesti dell’amicizia come il “mangiare insieme” e festeggiare insieme. In Camerun non è mai scoppiata una guerra civile perché tutti i suoi abitanti, da anni, sono incoraggiati a convivere serenamente. Questi sono esempi di esperienze di dialogo che provengono dalla vita concreta; non sono esperienze inventate, oppure proposte calate dall’alto senza essere condivise. I cittadini vedono e imparano non solo dalle parole ma dai gesti, che parlano più delle parole.

“si incarna nei gesti dell’amicizia come il mangiare insieme e festeggiare insieme”


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Gli ostacoli al dialogo di Francesco Macinanti

Mentre scrivo queste righe ricorrono i dieci anni dal discorso pronunciato dal papa Benedetto XVI all’Università di Ratisbona sul tema del rapporto fra fede e ragione. Nell’ambito di quel discorso il tema del dialogo fra religioni venne toccato solo di sfuggita: la citazione di una disputa di epoca bizantina fra l’imperatore Manuele II Paleologo e un dotto musulmano venne colta dal papa con l’intento affrontare il più ampio tema del rapporto fra ragione, religione e violenza. L’episodio resta significativo, e permette di fare alcune considerazioni sul tipo di dialogo che è possibile instaurare fra le religioni, in particolare fra Cristianesimo e Islam. Permette inoltre

di ragionare su quale sia l’obiettivo di questo dialogo e quali siano gli impedimenti che impediscono lo svolgersi sereno e pacifico di questo compito, che, ricordiamo, non è un esercizio fine a se stesso, ma riveste una importanza fondamentale, come i recenti fatti di cronaca hanno evidenziato molto bene. Il primo e forse più significativo impedimento al dialogo, specialmente se si rimane nell’ambito del sentire comune, resta purtroppo l’ignoranza. Ignoranza che si riscontra non solo nei confronti della religione islamica ma anche nei confronti del cristianesimo, del quale i più hanno ormai pochi ricordi risalenti all’infanzia. Se ci spostiamo in ambiente colto, la situazione


39 non migliora, se si considera il fatto che la maggior parte degli intellettuali affronta il problema dal punto di vista culturale, politico, sociale ed economico, ma raramente dal punto di vista teologico. Altro ostacolo, questa volta di parte islamica, consiste nella visione unitaria e pregiudiziale che alcuni musulmani hanno dell’Occidente (errore malauguratamente ricambiato). Al riguardo mi ha colpito un passaggio di una recente intervista, nella quale il Prof. Paul Knitter, affrontando il tema del discorso di Ratisbona e del dialogo islamocristiano (il testo dell’intervista è disponibile sul web), racconta di un convegno tenuto nell’Università al-Azhar del Cairo. Knitter riporta che, dopo un’iniziale diffidenza, fu possibile instaurare un vero dialogo solo in seguito al riconoscimento, da parte dei relatori occidentali, dei danni recati alle popolazioni musulmane dalle politiche imperialistiche occidentali, a partire dal crollo dell’impero Ottomano. Religione e politica sono in questo senso strettamente legati, e non è possibile pensare ad un dialogo senza conoscere prima in maniera puntuale e consapevole i processi storici che hanno portato ad una tale contrapposizione Islam-Occidente. Ed è proprio in Occidente che troviamo un ulteriore ostacolo al confronto: il partito fautore dello scontro di civiltà. Diffusi nel-

la Chiesa non meno che in altri ambienti, gli esponenti di tale partito – talvolta inconsapevoli – vedono qualsiasi apertura al dialogo con il mondo islamico come una minaccia. Scopo di tale partito è quello di difendere la civiltà cristiana (cristiana in senso culturale più che religioso) dall’“invasione musulmana”. In America si è sviluppato un vero e proprio movimento, cosiddetto neoconservatore, che trova dei simpatizzanti anche su questa sponda dell’Atlantico. Le radici culturali di questo movimento sono rintracciabili: basti come esempio l’uscita nel 1993 di un articolo, subito seguito da un libro, di Samuel Huntington dal titolo significativo de Lo Scontro di Civiltà. Una volta superate le prime insidie, un ostacolo meno evidente, ma non per questo meno ingombrante si frappone, ed è causato da coloro che credono sia opportuno instaurare il dialogo basandosi unicamente su ciò che è condiviso. Questa forma di dialogo credo che sia, oltre che inutile, profondamente irrispettosa, dal momento che così facendo non si considera l’interlocutore veramente capace di confronto. Un vero dialogo punta al riconoscimento delle reciproche differenze, e non alla riduzione dell’altro alla nostra visione del mondo. Solo una volta che vengono superate queste barriere si può tentare di instaurare un confron-

“un vero dialogo punta al riconoscimento delle reciproche differenze, e non alla riduzione dell’altro alla nostra visione del mondo”


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“discutendo con l’altro capiamo meglio noi stessi e ci arricchiamo”

to veramente fecondo, perché la riflessione sull’altro conduce necessariamente alla riflessione su di sé, e la riflessione su di sé porta ad un arricchimento di sé. Ritengo a tal proposito significativo quello che una volta sentii dire durante una lezione di teologia biblica sul Pentateuco: il professore affermava che i primi capitoli della Genesi, nella quale il popolo ebraico si interroga sul suo rapporto con un mondo che non è più quello ristretto della Palestina, furono frutto del contatto con il mondo babilonese presso il quale erano stati esiliati. È quello che l’antropologo Fredrik Barth chiama la “produzione sociale della differenza culturale”. L’interazione con l’altro provoca autoidentificazione, ovvero parafrasando, discutendo con l’altro capiamo meglio noi stessi e ci arricchiamo. Su queste basi è dunque possibile instaurare un dibattito sereno che possa affrontare argomenti anche complessi come il rapporto fra religione e modernità, che interroga tanto cristiani quanto musulmani.


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Noi musulmani italiani e l’affinità spirituale con i cristiani Sezione Giovani della Co.Re.Is (Comunità Religiosa Islamica) Italiana

Il dialogo tra Islam e Cristianesimo, per noi musulmani italiani di seconda generazione, è un dialogo con il quale siamo cresciuti, un confronto che ha portato allo scambio di valori anche profondi e alla comprensione di diversi modi di concepire la realtà. La propensione alla ricerca della verità, la curiosità per la vita e l’attrazione per quanto di più grande sta sopra di noi sono sempre stati gli stimoli concreti che ci hanno portato a interrogarci e metterci all’opera per realizzare delle attività che non restassero isolate al nostro interno, ma che naturalmente si immergessero nella realtà, coinvolgendo chi è al nostro fianco nella vita di tutti i giorni.

Lavorare insieme, focalizzare gli obbiettivi comuni, portare avanti un’attività sulla base di un’esigenza di fede e di una sensibilità per la religione ci ha permesso di instaurare delle splendide amicizie, delle profonde relazioni che non si fondano esclusivamente sulla simpatia e l’affinità personale, ma che mantengono il sapore di un’intesa più profonda che si riconosce in qualcosa che possiamo ben definire fratellanza. Se tutto questo è stato possibile e continuerà ad esserlo, è forse perché si tratta di una dinamica naturale con la quale Dio ci permette di imparare ad essere sempre meglio suoi “vicari sulla Terra”, come insegna la tradizione. Il Corano stesso ci invita ad ap-


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profondire il legame con le altre comunità per poter scoprire la ricchezza della creazione e l’immensità del linguaggio divino. «O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda» (Corano, XLIX : 13). Osservare come Dio si sia comunicato in modalità differenti ai vari popoli è un importante strumento per imparare a farsi di Lui “l’idea più alta possibile”, senza associarlo soltanto alla propria specifica forma confessionale o interpretazione. L’importanza del rapporto tra Cristianesimo e Islam, in particolare, è basata su fondamenti profondi, non solo storici. Gesù è pienamente riconosciuto dall’Islam come Profeta e Messia e di conseguenza i cristiani stessi, come suoi discepoli, sono da considerarsi credenti al pari dei musulmani e degli ebrei: «In verità coloro che credono, siano essi ebrei, cristiani o sabei, tutti coloro che credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti» (Corano, II : 62). La ragione del dialogo dunque non sta mai nel voler convincere il prossimo della propria posizione o verità teologica, né

nel voler mettere a confronto le religioni sul piano delle loro caratteristiche particolari, ma costituisce piuttosto l’opportunità di scoprire insieme la comune origine: «Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità» (Corano, V : 48). Per queste ragioni nel corso degli ultimi anni abbiamo avuto il grande piacere di portare avanti diverse attività pubbliche in ambito universitario e non solo. Diversi esponenti religiosi sono stati invitati a dare i loro insegnamenti su temi che hanno spaziato dagli ambiti più strettamente dottrinali, come l’amore, la giustizia, la povertà spirituale, a temi relativi all’attualità e al ruolo delle religioni e dei religiosi nel mondo moderno. Rabbini, sacerdoti e imam hanno saputo dare ad ogni argomento letture profonde che scaturivano non solo dalla sapienza tradizionale e dalle fonti sacre della propria religione, ma anche dalle esperienze vissute concretamente e in prima persona. Abbiamo imparato a valorizzare noi stessi e gli altri tramite la condivisione di momenti quotidiani e l’organizzazione di conferenze ed eventi, che ci hanno spinto a non fermarci alle apparenze e ai luoghi comuni e a superare i veli dell’ignoranza e della chiusura


43 mentale per promuovere un dialogo interreligioso incisivo, che potesse rappresentare un messaggio di pace anche alla luce delle confusioni e conflittualità che oggi sovrastano il mondo. Tra le recenti occasioni vissute di condivisione fraterna con i fedeli cristiani non può non essere citata la giornata di domenica 31 luglio scorso, quando un grande numero di fedeli musulmani dalla Francia all’Italia si è recato nelle chiese di decine di città per assistere alla Santa Messa, aderendo a un’iniziativa dell’IHEI (Institut des Hautes Etudes Islamiques), realtà francese “gemella” della Coreis, volta a esprimere un saluto e una testimonianza di profondo rispetto da parte dei musulmani nei confronti della sacralità dei riti, dei ministri e dei luoghi di culto del Cristianesimo. Tale azione, che nasceva purtroppo dalla necessità di esprimere il proprio sgomento di fronte al barbaro omicidio di Padre Jacques Hamel nella città di Rouen da parte di due terroristi, è stata descritta da don Ivan Maffeis, portavoce della CEI, come «un gesto enorme che mette fuori gioco chi vuole dividere, chi vuole una strategia del terrore», e ha ispirato l’idea di una piattaforma di confronto giovanile sul tema della Pace e della Conoscenza dal nome Sacrum Facere (www.sacrumfacere.org) Grazie a Dio andiamo avanti con

i nostri fratelli cristiani a riscoprire quell’affinità spirituale che ha caratterizzato i rapporti tra le prime comunità di musulmani e gli antichi fedeli cristiani, quell’affinità che è profondamente Vera e come tale non potrà mai smettere di essere accessibile ancora oggi ai credenti sinceri.

“Gesù è pienamente riconosciuto dall’Islam come Profeta e Messia e di conseguenza i cristiani stessi, come suoi discepoli, sono da considerarsi credenti al pari dei musulmani e degli ebrei”


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Dibattito DIACONATO « In che modo il diaconato, anche femminile, potrebbe servire meglio alle necessità odierne della Chiesa? »


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Diaconi o “chierichettoni”? di Mons. Giovanni Giavini

Il dibattito sulla figura del diacono permanente continua, ed è naturale. A me sembra di trovare in parecchi articoli al riguardo una certa difficoltà a individuare lo specifico. Non basta infatti sfruttare il termine “diacono” o il verbo “diaconare”, per dire che il loro specifico e la loro vocazione-missione è quella, appunto, di servire nella chiesa e nella società a nome di Cristo re e servo. Infatti questo non è di ogni cristiano, dal papa all’ultimo fedele? Qualcuno aggiunge: il diacono è chiamato a farlo da “uomo della soglia”, addirittura da “martire”, pronto anche a morirne. Ma, a parte il senso preciso da dare alle parole, anche questo non sarebbe di tutti? Altri cer-

cano uno specifico in qualche particolare servizio ecclesiale: Caritas, cultura, apostolato della famiglia, impegno nel sociale o nel politico, dedizione alla sanità, uffici amministrativi ecc. Ma quanti cristiani non lo fanno già senza essere ufficialmente diaconi? Quante donne, tra l’altro? Non parliamo poi di chi, in teoria o nella prassi, colloca lo specifico dei diaconi nei servizi liturgici e te li mostra rivestiti di paramenti solenni e a portare candelieri, croci e libri sacri: tutte cose che anche noi preti compiamo, anzi, per alcune di quelle attività, possono bastare anche chierichetti e chierichette. Tutto ciò non è uno svilire la figura tanto (retoricamente) declamata del diacono permanente?


47 Allora, come discepolo del p. Stanislao Lyonnet, che già decenni fa parlava di questo argomento, e di qualche altro biblista e teologo, e avendo sentito anche dei diaconi, mi sembra che la via più seria e fondata almeno su At 6 (benché lì non si parli espressamente di “7 diaconi”, ma la realtà è questa, percepibile anche nella 1Tm), è quella di trovare lo specifico del diaconato nel servizio alla responsabilità pastorale, nella collaborazione ufficiale al ministero della guida pastorale delle comunità, al ministero della “presidenza” (tipico di noi presbiteri, dei vescovi, del papa). Ossia: anche il diacono dovrebbe essere investito – in modo ufficiale e per sé stabilmente – di una responsabilità nella guida di una chiesa, di una diocesi, di una parrocchia o di un quartiere o di un settore della vita ecclesiale da individuare a secondo delle situazioni, con libertà e senso della realtà.

blemi, con coraggio teologico e pastorale, senza idolatrare schemi e ideologie più o meno clericali o storico-culturali.

“anche il diacono dovrebbe essere investito di una responsabilità nella guida di una chiesa, di una diocesi, di una parrocchia o di un quartiere o di un settore della vita ecclesiale”

Senza qualche “responsabilità” pastorale di tale tipo, pur subordinata a quella dei “pastori”, non vedo via d’uscita alla ricerca di un suo specifico. Anzi vedo il rischio di nullificare quel ministero. Investito invece di una qualche responsabilità – come, del resto, già avviene qua e là – allora avrà senso anche il suo apparire nelle liturgie (senza però sostituire inutilmente chierichetti e chierichette). Su questa strada, se valida, si potranno aprire anche altri pro-

Pubblicato su Settimana, n. 26, EDB, Bologna 2008.


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Diaconato femminile: una sfida pastorale di Andrea Bosio

Il dibattito sul ripristino del diaconato femminile, antica tradizione della Chiesa, in questi mesi è stato protagonista di un dibattito spesso concentrato sulle questioni formali, che certo non sono secondarie, ma che hanno costituito una barriera, impedendo che si approfondisse il tema pastorale dei compiti e dell’utilità delle diaconesse in seno alla Chiesa contemporanea. Se il loro antico ruolo era spesso incentrato sull’accompagnamento femminile durante il battesimo per immersione, oggi questo non è più necessario. Così alcuni hanno archiviato l’argomento, evitando di farsi interrogare a fondo dal dono profetico che questa discussione è. Tuttavia la Chiesa è un corpo in co-

stante crescita, che si relaziona con il mondo e che a esso deve testimoniare sé stessa, quindi Cristo. L’annuncio è un compito di missione e come tale ha bisogno di sapersi relazionare con il mondo: se c’è stata un’epoca storica che ha chiamato le donne a un ruolo più specificatamente contemplativo e ritirato, oggi la chiamata sembra portare a un ruolo femminile che sia anche operativo. Certo, è importante che la Chiesa non si muova per bieco secolarismo e non cambi con logiche mondane: siamo nel mondo, ma non del mondo. Da qui la necessità di una chiara riflessione teologica e l’assistenza dello Spirito sui pastori, affinché discernano con cautela e coraggio quale sia


49 la miglior via per la Chiesa. Questo approfondimento, però, non è recente e sembra aver segnato una via percorribile: nonostante alcune resistenze, anche forti, alcuni dubbi da chiarire, alcune sfumature di cui tener conto, ci sono tutti gli elementi per procedere, anche in tempi non troppo lunghi. La tradizione bizantina e la Scrittura ci forniscono forti segni dell’assenza di un vero problema teologico a monte dell’ordinazione femminile al diaconato: l’ostacolo rimane allora quello dell’opportunità pastorale, con molte voci contrarie, molte critiche e una certa misogina difesa della centralità del ruolo maschile nella Chiesa. Domandarsi cosa dovrebbe fare una diaconessa è, tutto sommato, ribadire questa misoginia: se c’è spazio per un diaconato ministeriale maschile, con le prerogative fortemente incentrate sul servizio e sull’annuncio, ci sono gli stessi spazi per un ruolo femminile nel diaconato. Non serve aprire il dibattito sull’ordinazione femminile al sacerdozio ministeriale pieno o sull’abolizione del celibato dei presbiteri nella Chiesa cattolica di rito latino: trattare i problemi come connessi e sostenere che il diaconato sia una leva da utilizzare per divellere le restanti tematiche non consente di vivere appieno la chiamata carismatica del nostro tempo. Ancora una volta siamo chiamati all’annuncio e sembra

esserci stato donato il consiglio di una via nuova per annunciare Cristo al mondo. Il cammino della Chiesa imbocca l’ennesimo crocicchio: superandolo, si potrà imboccare una strada che non cambierà nulla, si potrà andare verso una valorizzazione femminile non ministeriale o verso la piena uguaglianza ministeriale del diaconato femminile. La terza via porta con sé la risposta più piena alla domanda di fondo: “Cosa dovrebbero fare le diaconesse?”. Dovrebbero innanzi tutto annunciare Cristo: farlo non solo con la testimonianza e la voce, ma con la forza sacramentale di chi è ordinato dalla Chiesa – quindi da Cristo stesso – al compito specifico di propagare il Verbo. Tutti i battezzati sono chiamati a questo, ma il rispetto dei carismi di ciascuno ci dice che alcuni ricevono proprio una vocazione specifica all’annuncio: pensare che la differenza di genere comporti una differenza di possibilità di annuncio è non solo limitante, ma controproducente e, peggio ancora, carente di Carità. Dovrebbero, poi, essere guide liturgiche: il ripristino del diaconato permanente non ha ancora pienamente portato i suoi frutti, ma questo non deve fermare la possibilità di sottolineare le molteplici forme che la Grazia può assumere nella storia e nella Chiesa. L’annuncio deve poter passare dalla Parola e dalla predicazione. Dovrebbero, in-


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fine, essere testimoni della vita di grazia secolare, una forma diversa dalle modalità recenti di consacrazioni diocesane, con la totale assistenza della forza sacramentale che solo lo Spirito può infondere.

“oggi la chiamata sembra portare a un ruolo femminile che sia anche operativo”

La missione dell’annuncio, inoltre, oggi non coinvolge più solo l’esterno della Chiesa, i non battezzati: anzi. Nei paesi di antica cristianizzazione, come quelli europei, la principale missione cristiana è l’annuncio di Cristo a chi già lo conosce, superficialmente, e vive in una società tiepidamente cristiana. La sfida del cristianesimo nel XXI secolo sembra essere la reconquista delle società secolarizzate, piuttosto che la lotta contro gli “infedeli”: è l’ateismo scientista e razionalista il pericolo più grande, non le altre religioni o le altre chiese cristiane. Possiamo ora sinceramente sostenere che, in questo quadro, la sensibilità femminile nell’annuncio di Cristo non sia utile che venga esercitata anche nella forma riservata a lungo agli uomini? Non possiamo, invece, credere che l’illuminazione sia giunta anche come Spirito profetico, come lettura dei tempi che ci spinge ad agire con novità?


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Maria, madre e schiava, esempio di diaconato di Giuseppe Saggese

Quella delle diaconesse è una questione attualissima, “ri-suscitata” dalla recente costituzione di una commissione ufficiale per indagare, ulteriormente, sul ruolo di servizio delle donne nella Chiesa; con questo nuovo organismo presieduto dal vescovo gesuita Luis F. Ladaria Ferrer si dà così attuazione alla volontà espressa da Papa Francesco nel discorso tenuto all’Unione Internazionale Superiore Generali (UISG) lo scorso 12 maggio nell’Aula Paolo VI, in risposta ad una domanda sulle modalità di presenza del genio femminile nei diversi “tessuti” delle membra del Corpo Mistico. La storia del diaconato femminile è lunga e controversa: dal magmatico fondamento scritturistico – che attesta un indefinito servizio al quale era depu-

tata la diaconessa (he diakonos) Febe della Chiesa di Cencre (Rm 16, 1-4) – tra l’altro in un quadro ecclesiologico in fieri – alla compiuta ordinazione mediante l’imposizione delle mani (cheirotonia) affermata, per la prima volta, alla fine del IV sec. nelle Costituzioni Apostoliche (CA). Nel V sec. anche il quindicesimo canone del Concilio di Calcedonia (451) regolamenta lo status delle donne votate al servizio, impedendo a queste di sposarsi dopo l’ordinazione e di accedere alla missione ad un’età superiore ai quarant’anni. Nel periodo altomedioevale, invece, il diaconato femminile subisce una commistione con la figura della donna consacrata; si registrano diverse badesse e monache adempiere la diaconia, specie in Oriente. L’epoca aurea delle diaconesse, però, ha vita relativa-


52 Nipoti di Maritain mente breve, terminando verso l’XI sec. nelle aree d’influenza bizantina e ancor prima in Occidente, dove si rileva la totale assenza di questa funzione ecclesiale nei primi cinque secoli e l’opposizione di diversi sinodi locali minori. Ad ogni modo, è da accogliere la tesi che non equipara questo servizio al diaconato maschile o ad una forma di ordine, almeno cattolicamente inteso.

“una sorta di cordone ombelicale, capace di congiungere la schiava (serva) del Signore alle serve (laiche) della Chiesa?”

Tutto qui? Le diaconesse sono solo un frammento di storia della Chiesa, figure di un “museo delle cere’’, per metà fittizie e in parte reali? Ritengo di no: è giunto il tempo per una nuova stagione ecclesiale, una primavera dove le donne non siano solo “rose mistiche”, oggetti della contemplazione di alcuni devoti turiferari dell’eterno femminino, ma soggetti operanti con maggior incisività, in forza del sacerdozio universale dei credenti (1Pt 2, 4-5), del resto evidenziato – con le dovute precisazioni rispetto al sacerdozio ordinato – dalla Costituzione Dogmatica Lumen Gentium del Vaticano II (LG 10). Avrei un’idea piissima, una buona stella, sotto cui far rinascere le diaconesse: Santa Maria di Nazareth, la Madre di Cristo, la Sposa. Spesso una certa “mariologia dei privilegi’’, presente soprattutto nella coscienza del popolo devoto, presso le tanto bistrattate pie donne – aliene dalle incipriate ed erudite cattedre dei dottori del Buon Pastore – presta il fianco ad una esaltazione in-

controllata della Vergine, quanto basta per non rendersi conto che l’esistenza della Madre fu gravida di quotidianità, di una sobrietà pienamente evangelica; potrebbe essere, questa ordinarietà della Nazarena, il legame profondo, una sorta di cordone ombelicale, capace di congiungere la schiava (serva) del Signore alle serve (laiche) della Chiesa? Non v’è dubbio alcuno sul fatto che Santa Maria rappresenti un esempio per le consacrate, non è mia intenzione negare ciò. Quasi subito, nella storia della Chiesa, la sua figura – attraverso la riflessioni di padri come Agostino, Girolamo e Ambrogio – divenne il modello monastico per eccellenza. Vorrei solo, timidamente e senza pretesa alcuna, offrire al lettore degli spunti per una diversa declinazione del ruolo dell’Alma Mater del Redentore, un’interpretazione capace di render giustizia di Colei che fu una Donna di casa, una “domestica”. Quante buone madri, quante spose cristiane vi sono nella Chiesa! E quanti frutti benedetti da Dio potrebbero portare alla Chiesa attraverso una funzione liturgica specifica che le faccia testimoni e missionarie, come Maria presso Elisabetta, fra Nazareth e Ain-Karim: nel mondo, per l’annuncio evangelico; nella Chiesa, per il servizio a favore del popolo santo.


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Ministeri ordinati femminili e diaconesse di Niccolò Bonetti

La decisione di papa Francesco di istituire una commissione sul diaconato femminile ha riaperto la discussione su quale sia il ruolo della donna nella Chiesa Cattolica. La Chiesa Cattolica ritiene impossibile l’ordinazione femminile e questa posizione è stata assunta quale “definitiva” nel 1994; al contrario, in ambito protestante la maggior parte delle chiese ammette ministri ordinati donna. Il magistero cattolico ritiene che l’impossibilità dell’ordinazione femminile rientri nel deposito della fede, che appartenga al magistero infallibile e che sia impossibile ordinare donne per le seguenti ragioni: 1) Gesù non ha scelto donne come discepoli; 2) Una donna non può agire in persona Christi; 3) Esiste su questo punto una

tradizione ininterrotta. Tali argomentazioni non sono ritenute conclusive da un numero consistente di teologi cattolici: ad esempio il pronunciamento papale non rientra nelle condizioni di infallibilità definite dal Concilio Vaticano I e la decisione di Gesù di scegliere solo dodici uomini ha un significato simbolico in relazione alle dodici tribù di Israele, è comprensibile solo in un ambiente ebraico e non è collegato con la definizione dei ministeri ecclesiali di una chiesa la cui struttura era ancora là da venire (la stessa commissione biblica, interpellata sulla questione nel 1976, si espresse negativamente sulla presenza di divieti scritturali sul sacerdozio femminile). Quanto alla mascolinità del sacerdote come necessaria per agire in persona Christi, questa argomentazione non sembra supportata dalla tradizione; col-


54 Nipoti di Maritain legando pericolosamente mascolinità e divinità, si presta alla critica di Mary Daly che diceva che se se Dio è maschio, allora il maschio è Dio. Inoltre, seguendo quest’argomentazione, si cade nell’assurdo della necessità di un Gesù “intersex” per avere ministri ordinati anche di sesso femminile: la mascolinità di Gesù è significativa ma richiede che i suoi ministri siano sue fotocopie quanto al genere?

“ripristinare un diaconato femminile ordinato permetterebbe di valorizzare i tanti servizi che le donne già ora svolgono senza alcuna ordinazione”

Quanto infine all’argomentazione della tradizione, basti ricordare il numero enorme di posizioni affermate solennemente dal magistero – ma non definite dogmaticamente – e poi dimenticate o abbandonate: la liceità della schiavitù, l’immoralità del prestito con interesse, una lettura esclusivista dell’“extra ecclesiam nulla salus”, la condanna dell’ecumenismo, dello sviluppo dei dogmi e della libertà religiosa, e così via. Inoltre l’annuncio cristiano – e prima di tutto Gesù nel suo concreto rapporto con le donne – ha relativizzato la distinzione di genere in nome dell’uguaglianza fondata sull’immagine divina presente in tutti i battezzati; l’esclusione delle donne dai ministeri ordinati si definisce con l’integrazione della chiesa nella società pagana (mentre in precedenza le donne avevano importanti ruoli direttivi nelle comunità ecclesiali: si pensi all’apostola Giunia) senza contare che la Chiesa non ha ritenuto vincolan-

ti le caratteristiche dei discepoli per la scelta dei suoi ministri ordinati, se si fa eccezione per la presenza delle gonadi femminili: si pensi ad esempio all’origine ebraica, alla scarsa cultura o al numero di dodici. Per di più una sacerdote donna, oltre che possibile, sarebbe molto utile: lei esprimerebbe il lato femminile, materno e misericordioso di Gesù (e della stessa Divinità) come è testimoniato dalle Scritture, aiuterebbe il magistero a parlare più realisticamente di sessualità e procreazione ed eviterebbe che la dottrina cristiana si trasformi in un gelido, astorico e astratto blocco di precetti che strangola in modo disumano la vita delle persone, più che comunicare loro un’esperienza di grazia e liberazione. Quest’argomentazione mi sembra personalmente molto importante: si fa fatica a pensare che alcune scelte deleterie compiute dal magistero in passato sarebbero state possibili se ci fosse stata una donna sulla cattedra di Pietro: una papessa avrebbe potuto scrivere l’Humanae Vitae? In ogni caso le donne sacerdoti comporterebbero una radicale trasformazione del sacerdozio ministeriale che non potrebbe più essere così connotato dall’immagine del maschio celibe, spesso larvatamente omosessuale e con un forte spirito di casta, come lo è oggi, ma dovrebbe profondamente rinnovarsi e diventare più materno, comunio-


55 nale e dinamico, rompendo il codice simbolico androcentrico e celibatario che l’ha caratterizzato. Non esistono oggi e probabilmente neppure fra cinquant’anni le condizioni per una tale radicale trasformazione del ministero ordinato ma si può iniziare a riflettere sulle diaconesse che non richiederebbero un’ordinazione sacerdotale e presenterebbero minori problemi teologici poiché il Magistero non si è mai pronunciato su questo tema. Nella Chiesa dei Padri esisteva un ministero delle diaconesse (distinto dal diaconato maschile): queste donne erano ordinate con l’imposizione delle mani (per quanto tale ordinazione sia fonte di enormi discussioni), procedevano all’unzione delle donne al momento del battesimo, istruivano le neofite, andavano a visitare a casa le donne credenti – soprattutto quelle ammalate – e stavano agli ingressi delle donne in chiesa. Verso il X secolo esse scompaiono – salvo nell’Ortodossia dove esistono in misura limitata ancora oggi – e l’esclusione delle donne da qualunque ministero liturgico sarà totale fino a tempi recenti. Ma per capire cosa significa oggi essere diacono non si può attingere solo alla Chiesa dei Padri ma bisogna partire anche dalla teologia del diaconato come prevista dal Concilio Vaticano II: la Lumen Gentium afferma che il diaconato è ordinato

per il ministero e non per il sacerdozio: i diaconi custodiscono l’apostolicità della fede, servono e proclamavano il Vangelo e si occupano della carità verso i più poveri e non si vede perché una donna non potrebbe essere chiamata a questo ministero. La stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, affermando che la questione dell’ordinazione delle donne al diaconato è oggetto di studio, ammette che tale cambiamento è possibile. Già oggi le religiose e molte laiche svolgono una grande varietà di ministeri diaconali che vanno dalle opere di carità all’attività pastorale nelle parrocchie, all’insegnamento nelle scuole, allo svolgimento di vari uffici ecclesiali diocesani e nazionali, ad incarichi di grande importanza in ospedali, collegi e università. Ripristinare un diaconato femminile ordinato, sia pure in forme nuove rispetto a quelle patristiche quale quella del diaconato permanente, permetterebbe di valorizzare i tanti servizi che le donne già ora svolgono senza alcuna ordinazione e permetterebbe di iniziare a mettere in crisi il codice simbolico fra lega l’accesso al sacro e mascolinità: una diaconessa in clergyman e che predica potrebbe destabilizzare le certezze androcentriche di molti cattolici aprendo la via a sviluppi ulteriori. Vedremo dove lo Spirito ci condurrà, se lo ascolteremo.


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Rubriche


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intervista

Wiebke Johannsen, diaconessa evangelica a cura di Omar Vitali e Piotr Zygulski

Buongiorno Wiebke! Secondo Lei, in che modo il diaconato, anche femminile, potrebbe servire meglio alle necessità odierne della Chiesa? Innanzitutto, come premessa direi che almeno in Germania e nella Chiesa Evangelica sempre più persone stanno lasciando la Chiesa per non pagare la Kirchensteuer [imposta per finanziare le istituzioni religiose, NdR.] o perché non si sentono più parte di essa. A scuola durante l’ora di religione si fa una panoramica sulle varie fedi, ma non viene studiata nel dettaglio quella cristiana. Così i bambini hanno sempre meno conoscenza della vita di Gesù, dell’importanza di Dio, del suo amore e della sua carità. Ed è per questo

che ritengo importante il ruolo dei diaconi e delle diaconesse che, prestando servizio per la comunità, avvicinano i bambini e i ragazzi alla fede cristiana e permettono loro di farne esperienza. Più sperimentano la loro fede e più crescono in essa, più diventa una compagna, una costante nella loro vita; qualcosa che rimane anche quando tutto il resto cambia rapidamente. Dal momento che i giovani sono poco numerosi al culto domenicale “ordinario”, ascoltano poco la parola del pastore, uomo o donna che sia. Nei gruppi giovanili, tuttavia, con i diaconi (che al 65% sono diaconesse) la fede viene vissuta attraverso storie, disegni, attività e giochi per approfondire la testimonianza di ogni storia biblica. Semplifi-


59 cando molto, la mia personale definizione di diaconessa è: “Il pastore o la pastora predicano la Parola, il diacono o la diaconessa vivono la Parola e la mettono in pratica”. Pertanto, il diaconato è importante per la trasmissione della fede cristiana e la conservazione della Chiesa. Perché ha deciso di diventare una diaconessa? Mi sono posta esattamente questa domanda durante il Cammino di Santiago ed è interessante notare che non sono pervenuta ad una risposta chiara. Ancora non so rispondere a questo “perché”, ma ho capito, in fondo al cammino, che era la strada giusta per me. Ho incontrato persone che hanno agito all’insegna della carità, come il buon samaritano, già nelle piccole cose: indicare la retta via, offrire un letto per riposare, affrontare il problema delle cimici … Ho avuto la sensazione di non essere abbandonata sulla strada – anche se ho percorso da sola il Cammino – e ripetutamente ho visto la Divina Provvidenza dietro a tutte le cose che mi sono accadute; tutto ciò nuovamente mi ha convinto a vivere così (o perlomeno a provare ad agire come Gesù). Essere diaconessa è molto più di un mestiere: è una vocazione, un modo di vivere. Ho completato anche la formazione come educatrice e assistente sociale, ma lavoro come diaconessa. La Chiesa e i suoi gruppi giovanili mi hanno accompagnato nella crescita. Lì

ho trovato amici, sono stata accettata per quello che ero, senza dover fare cose eccezionali; questa comunità mi ha sempre sostenuto. E volevo trasmettere questa esperienza. Sul Cammino di Stantiago mi sono fidata delle indicazioni che a me – spaesata – indicavano la strada; analogamente ho voluto essere una guida per i giovani e la loro fede. Voglio esserci, indicare la strada, mostrare e far sentire a loro che la comunità cristiana e la carità sono grandissimi doni. Non voglio obbligarli a credere in un certo modo; loro devono prendere le proprie decisioni, perché poi la fede si svilupperà in modo molto migliore. Voglio semplicemente trasmettere ciò che la fede cristiana mi ha dato e che continua a darmi. Quali sono i Suoi compiti principali? E qual è il Suo incarico speciale, se così possiamo chiamarlo? Trovo difficile questa domanda. Credo di non avere alcun incarico speciale, perché in quanto diaconessa posso vivere la mia fede ovunque e in qualsiasi momento; non è necessaria una parrocchia. Ci sono con noi molti diaconi e diaconesse che lavorano in vari ambiti del sociale e che al contempo agiscono come diaconi, ad esempio nel servizio sociale scolastico o nella pastorale. Il mio compito principale è quello di portare la fede cristiana ai giovani dai 12 ai 20 anni. Vengono da me per le classi del-

“ritengo importante il ruolo dei diaconi e delle diaconesse che, prestando servizio per la comunità, avvicinano i bambini e i ragazzi alla fede cristiana e permettono loro di farne esperienza”


60 Nipoti di Maritain la cresima, e io li cresimo. Con quelli più grandi, che hanno più di 14 anni, andiamo nel centro giovanile (Jugendkeller) e lì cerchiamo la fede, la comunità e la carità, in modo pratico. Innanzitutto si tratta di un luogo “terzo” dove non sono gravati dalla pressione della famiglia e della scuola, dove possono essere loro stessi, con tutti i loro capricci. Quando avvertono il senso della carità, iniziano ad essere attratti e a trasmetterla. Essi sono coinvolti e preparano volentieri il culto dedicato ai giovani, perché affrontano la loro fede mettendola alla prova, facendo domande critiche e cercando di capire insieme. Anche qui propongo argomenti tangibili, che riguardano l’esperienza, per far loro capire che non si tratta solo di una teoria, ma di un’esperienza vissuta. Nel corso dell’anno, questi sono i miei impegni:

sino al culto pasquale del mattino, facendo molte attività sul versetto dell’anno [Jahreslosung])

• Culto per i giovani (progettato dai giovani)

Potrebbe raccontarci come si svolge una Sua giornata tipo?

• Culto della Notte di Natale (alle ore 23 con i giovani)

Premetto che ogni giorno è diverso e ogni settimana è diversa, dipende dal periodo e dalle richieste. In genere inizio intorno alle 11, quindi la giornata non è così lunga. Di solito c’è molto da organizzare e preparare. Ogni due settimane ci riuniamo (pastore e pastora, cantore, segretaria, custode e diaconessa) e fissiamo tutte le date e gli argomenti da discutere.

• Gruppi giovanili (due volte alla settimana) • Gruppo dei cresimandi (2 gruppi alla settimana) • Ritiri dei cresimandi (2 finesettimana all’anno per gruppo)

• Ritiro autunnale [Herbstfreizeit] (una settimana su un tema scelto) • Molti incontri con i singoli giovani • Motivare e incoraggiare le capacità e le competenze dei giovani • Preghiere • Riunioni con la comunità e con i diaconi • Relazioni pubbliche • Riunioni con il comitato per i servizi giovanili

• Cresime Ore 11:00 controllo le e-mail; • Veglia Pasquale (dalla notte


61 dalle ore 12 alle 14 riunioni con i collaboratori parrocchiali;

ore 20 Attività educative di gruppo;

dalle ore 14 alle 16 lavoro di ufficio per organizzare eventi;

Ore 21:30 Culto;

dalle 16 alle 17 preparazione per la classe dei cresimandi; dalle 17 alle 18:15 classe dei cresimandi; poi mi sposto (abbiamo due sedi); dalle 18:30 alle tre attività con i

21 algiovani.

Oppure può essere un tempo libero per preparare le cose, ad esempio dalle 11 alle 17 per raccogliere idee e materiali, poi dalle 17:30 preparazione per il gruppo giovanile, che è dalle 18:30 alle ore 21. Per il ritiro dei cresimandi una giornata potrebbe essere simile a questa: ore 08:00 sveglia e colazione; dalle 9:30 alle 12 sessione sul tema “onora il padre e la madre” (con canzoni, giochi ecc.); dalle 12 alle 13 Pranzo; dalle 13 alle 15 Pausa in piscina con i giovani; dalle 15 alle 18 Seconda sessione sulla famiglia (creare uno stemma per descrivere la propria famiglia); ore 18 Cena;

ore 22:30 Fiaccolata verso il lago (possibilmente con un falò e pane “stockbrot” da arrostire al fuoco); mezzanotte: addormentare i cresimandi; da mezzanotte alle 2 o alle 3 vegliare in corridoio con gli altri team leader (sono importanti le discussioni e il confronto). Lei pensa che anche la Chiesa cattolica potrebbe avere il diaconato e l’ordinazione femminile? Nella Chiesa evangelica non c’è differenza tra un pastore e una pastora, o tra un diacono e una diaconessa, ma non è così da sempre. Nella mia formazione c’erano i fratelli di Rauhes Haus che si occupavano di adolescenti più giovani sulla strada. Questa casa è diventata una scuola, cioè un’accademia in cui studiare per diventare assistenti sociali e diaconi. Ma solo a partire dagli anni ‘60 o ‘70 anche le donne possono studiare lì. Oggi, in questa scuola, le donne sono addirittura il triplo degli uomini. Ma esiste ancora una differenza tra i pastori e le pastore (che sono stati ordinati) e i diaconi e le diaconesse (che sono stati consacrati nel loro servizio). Credo che sarà difficile introdurre questa impostazione nella Chiesa cat-


62 Nipoti di Maritain

“penso che sarebbe utile, perché potrebbe diventare più significativa l’uguaglianza cristiana, secondo la quale ogni persona è uguale di fronte a Dio, che l’ha creata a sua immagine”

tolica, ma penso che sarebbe utile, perché potrebbe diventare più significativa l’uguaglianza cristiana, secondo la quale ogni persona è uguale di fronte a Dio, che l’ha creata a sua immagine. Il cambiamento delle tradizioni è sempre un processo impegnativo e lungo, ma penso che in questo momento sarebbe del tutto ragionevole adattarsi a questo passo della società. Inoltre ci sono situazioni in cui una donna potrebbe portare una prospettiva o una mentalità diversa, arricchendo così tutti. Anche se il celibato sarebbe forse più difficile da raggiungere quando i sacerdoti sono costantemente circondati da donne. Il problema da noi non si pone, perché i diaconi e i pastori non sono tenuti al celibato.

Si ringrazia Johann Schmitz per la revisione della traduzione.


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laudate hominem

Monache con insegne sacerdotali di Vincenzo Romano

L’analisi dell’uso di alcune insegne liturgiche tipicamente sacerdotali – quali la stola, il manipolo, la mitria, il pastorale e la croce pettorale – ci aiuta a sfatare uno dei luoghi comuni ancora oggi troppo presente nella Chiesa: la sudditanza della donna. «L’Ordine romano, impresso nella biblioteca de’ padri, contiene il rito di questa ordinazione [delle diaconesse, NdA.], ed una messa propria. Dice che essa si faccia avanti l’altare, in tempo della messa, dopo l’epistola, e il graduale, e che finita la consacrazione il vescovo metta la stola al collo della diaconessa, dicendo: Stola jucunditatis induat te Dominus, e che la diaconessa, da sé prendendo il velo dall’altare se lo ponga sul capo. Poi se le dà l’anello, e un monile in forma di corona sulla testa, e finalmente con una lezione del vangelo si

termina la messa». Così scrive Gaetano Moroni Romano, nel XIX volume del suo Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, circa il rito dell’ordinazione delle diaconesse. Questa descrizione richiama alla mente le monache certosine ed una particolarità del loro rito, frutto della commistione tra il rituale della consacrazione delle vergini e l’ordinazione diaconale, e, che sembra esser attestato primariamente nel monastero di Prébayon (Vaucluse, Francia). In questo rituale era previsto che la monaca il giorno della consacrazione, nel suo cinquantesimo anniversario e poi in punto di morte avesse il privilegio di indossare la stola ed il manipolo. Tali insegne liturgiche le attribuivano la dignità di leggere l’epistola durante la messa conventuale e di cantare il Vangelo


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in assenza del sacerdote durante l’ufficio notturno. Sempre per rimanere in ambito benedettino come non ripensare al privilegio concesso alle badesse di indossare mitria, croce pettorale e pastorale? Quest’uso deriva dall’epoca medievale e dal ruolo di giurisdizione che le badesse ricoprivano nei confronti della loro comunità, ma a volte anche delle località adiacenti al loro monastero. Come non pensare a santa Ildergarda, Gertrude la Grande o Brigida di Svezia? Nell’Abbazia di San Benedetto a Conversano la badessa nel giorno della sua intronizzazione sedeva in cattedra con le insegne episcopali e riceveva l’obbedienza dei suoi sacerdoti.

“la storia non manca di mostrarci come spesso la donna abbia svolto ruoli di primo piano”

Anche nella famiglia francescana sono riscontrabili questi privilegi. A Fucecchio (Lucca), nel 1258 le clarisse subentrano ai vallombrosani ereditando i privilegi degli abati: la badessa fu insignita del titolo di “Episcopessa” e del diritto di nomina del pievano locale. Neanche nella chiesa ambrosiana mancano testimonianze di uffici liturgici svolte da donne. Le Vecchione della scuola di sant’Ambrogio, durante la messa festiva, conventuale e solenne, presentavano il pane durante l’offertorio, mentre il vino era offerto dai Vecchioni.

Questi pochi – ma significativi – casi possono aiutare la nostra riflessione. La storia non manca di mostrarci come spesso la donna abbia svolto ruoli di primo piano. Che la volontà di ristabilire il diaconato femminile non sia un modo per reintrodurre con i fatti, e non semplicemente a parole, la donna in posti chiave della Chiesa, a partire dal servizio all’Altare, fons et culmen di tutta la vita ecclesiale?


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rodafà

Che cosa c’entrano i preti sposati di Stefano Sodaro

La morte sembra recitare i propri inni in questi giorni, in queste ore. Anzi, no: il recitativo appartiene alla bruttezza della perversione mortifera, a questo rovesciamento dell’amore, del gusto per la contemplazione, la poesia, gli sguardi, le emozioni, i piaceri che incantano. Ci sono due modi essenziali per interrogarsi su quanto sta accadendo. Il primo si chiede che responsabilità possiamo avere noi. Il secondo assolve ogni nostra responsabilità, foriera di inso-

stenibili sensi di colpa, e accusa gli altri. Noi non c’entriamo. La prima modalità interroga noi stessi. La seconda parte da un semplice assioma: noi siamo puri, gli altri sono impuri. La morte può essere nostra, o può essere altrui. Se l’altro che muore sono io che muoio, è un conto. Ma se l’altro che muore è “lui” – “lei” - che muore e basta, è tutt’altro conto. Bisogna contaminarsi o preser-


66 Nipoti di Maritain varsi? La questione è troppo importante, decisiva, per consentire vie di mezzo.

“un tutt’uno di nuovo accomodante, per niente rivoluzionario, una nuova sistemazione che non inquieta e non provoca”

O c’è un sistema, un assetto complessivo, una costruzione culturale dentro la quale mi muovo e vivo anch’io, oppure ci sono due mondi, quello del Bene e quello del Male rispetto ai quali non vi sono dubbi sul mio posizionamento: sto con i Buoni. Ho pensato a lungo che indagare e studiare la pressoché sconosciuta realtà dei preti cattolici sposati d’Oriente consentisse di rimettere in discussione, rispetto ad un’intera tradizione ritenuta a torto monolitica, facili divaricazioni e sezionamenti. Ritenevo che, a fronte di un aut aut di cui sono imbevute costanti analisi e schemi decodificatori, mettere al centro della questione ministeriale – così fondante per la Chiesa Cattolica – la compresenza di carne e spirito, di dedizione totalizzante ad un tu concretissimo e di apertura, nella stessa persona, per così dire quasi nello stesso momento, anche ad un voi comunitario permettesse di uscire dalla secche di alternative che ammazzano lo spessore critico nella comprensione di passaggi epocali. Uccidere la critica significa esattamente creare uno spazio mortifero dove la necrofilia dell’orrore possa recitare, un giorno

– ed oggi ci siamo –, le proprie odi sconce. Insomma credevo che un istituto giuridico così poco approfondito, quale per appunto quello del presbiterato vissuto nel matrimonio secondo il diritto canonico orientale, fosse la prova provata di una sopravvivenza, quasi furiosa, quasi disperata, eppure presente, di un filone critico, di resistenza critica, dentro gli stessi apparati istituzionali cattolici. Uno scacco al luogo comune che si fa cultura condivisa. I preti cattolici sposati orientali, dal mio angolo visuale, finalmente “si sporcavano”, diventavano “impuri”, si contaminavano. Ed un tanto, stupefacente ad osservarsi, proprio all’interno della compagine istituzionale della Chiesa Cattolica. Una diversità rispetto a canoni e usanze che testimoniava di un’alternativa non saprei quanto praticabile ma di certo praticata sino ad oggi. Mi sbagliavo? È una domanda – credo di poter fare simile confidenza all’amico lettore di questo giornale – che mi coinvolge molto ed alla quale non so dare al momento risposta. Il problema è, di nuovo, non riuscire a mantenere la duplice polarità e finire per sciogliere matrimonio e ministero sacer-


67 dotale cattolico in un tutt’uno di nuovo accomodante, per niente rivoluzionario, una nuova sistemazione che non inquieta e non provoca. Sarà mai possibile mantenere la tensione, fors’anche la contraddizione e il paradosso? L’evoluzione sistematizzante avviene nel momento in cui la ricezione del sacramento fa dell’ordinato un chierico e dello sposato un coniugato da stato civile. La forza prorompente dell’evento ineffabile diviene causa di riconoscimento apprezzabile a livello diffuso, sociale, culturale. Non c’è più niente da capire, tutto diventa chiaro, l’ordine è ristabilito, la rivoluzione è evitata. Il fondamentalismo è una forma di clericalismo, bisognerà pur riconoscerlo e dirlo chiaramente. Anche professionalizzarsi a tal punto da non essere capaci di una vita diversa da quella professionale è una forma di clericalismo. Anche adempiere a precise attese sociali con un’obbedienza rispondente, che acquieta qualunque preoccupazione, è una forma di clericalismo. Il clericalismo poi è parente stretto della tecnica come unica dimensione qualificante. L’e-

sperienza, la valenza, la perizia assumono il volto dell’intera esistenza. Però non possiamo illuderci, forse la strada da percorrere è segnata. Spazi mortiferi – salvo compiere il salto, chiamarci fuori e urlare che noi apparteniamo alla sola schiera dei Buoni – si creano nella nostra vita, perché le nostre scelte, proprio in quanto tali, sono anche dei compromessi. Forse, tuttavia, è necessario un altro salto, molto diverso, per approssimarsi ad un senso profondo – insignificante per certi versi – dell’esperienza sacramentale non corrotta da ricadute rigidamente strutturate. Propongo la visione, o l’ascolto, di un canto straordinario, incomprensibile, meta-razionale ma non metafisico, di un gruppo di interpreti del nostro Sud, le “Faraualla”. Mi permetto di rinviare a due link: https://www.youtube. com/watch?v=RRTOiPxbWiE, oppure https://www.youtube. com/watch?v=4WXuAc5-O3w. Quelle voci, quella musica, quei salmi in lingua sconosciuta ed inconoscibile, attraversano la contraddizione del compromesso, attraversano pure gli spazi mortiferi del voler essere di qua e non di là, e conducono però,


68 Nipoti di Maritain

proprio tale attraversamento, ad una speranza che risulta alla fine inesauribile. Il recente Sinodo dei Vescovi, così come le parole del Vescovo di Roma proprio in questi giorni, richiedono di essere ascoltate tenendo nella mente, nel cuore, sulle labbra se vi si riesce, questo canto delle “Faraualla”. Scrive il teologo Giuseppe Ruggieri:

“adempiere a precise attese sociali con un’obbedienza rispondente, che acquieta qualunque preoccupazione, è una forma di clericalismo”

«Esiste un’innegabile tensione tra la predicazione di Gesù e la struttura della chiesa, così come si è evoluta soprattutto nella sua disciplina, già all’interno del nuovo Testamento. Questa tensione si manifesta ad esempio fin dagli inizi della vita ecclesiale nella prassi dell’esclusioneaccoglienza: Gesù siede a tavola con i peccatori suscitando scandalo proprio per questo, la comunità primitiva si vede invece costretta a escludere dalla propria comunione alcune categorie di credenti, vuoi perché colpevoli di particolari peccati, vuoi perché negatori di alcuni aspetti dell’insegnamento recepito nella comunità. [...] Comunque, il vangelo annunciato da Gesù, il Regno imminente, è a un tempo più radicale e aperto rispetto al vangelo annunciato su Gesù dalla chiesa» G. RUGGIERI, “Forma evangelii – forma ecclesiae. Editoriale”,

in Cristianesimo nella storia, 36 (2015), pp. 241-2 Allora avverto un’unica possibilità per custodire l’alternativa. Conservare, dentro di me e fuori di me, l’ascolto di Adhanet, mia moglie, di Sara, mia figlia, di Cristina, Donata, Rita, Selene, Serena, mie teologhe di riferimento, di Anna, Emanuela, Francesca, Giulia e Paola, mie amiche. Conservare in me e fuori di me l’Altro come parte di me. Con tutte le contaminazioni possibili. Perché salvifiche. Buona domenica.

Pubblicato nel numero 342, del 22 novembre 2015 de “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”.


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a ben vedere

La coscienza nel magistero di John Henry Newman di Christian Alberto Polli

“lega la Creatura con il Creatore in un vincolo di consapevolezza della scelta delle proprie azioni”

Parlare di libertà di coscienza attraverso l’esamina della vita e degli scritti del cardinale inglese John Henry Newman (1801-1890) non è impresa facile a farsi. Non si può parlare di Newman senza far costante riferimento al valore fondamentale che lui attribuiva alla coscienza quale base naturale e religiosa per la concretizzazione delle opinioni personali dell’uomo, rendendo di fatto il prelato inglese uno dei massimi esponenti della cosiddetta filosofia dell’azione, come fu riconosciuto a suo tempo dai filosofi Nicola Abbagnano e Giovanni Reale. La produzione letteraria newmaniana, nella sua complessità, è intrisa di questa costante ricerca di sé stesso: il ricchissimo epistolario, i trattati apologetici, le opere filosofiche, i romanzi e, anche, gli articoli

redatti da Newman trasudano di questo anelito di libertà e di autocoscienza che lo rendono, per molti aspetti, un “Agostino moderno”. Nella sua biografia apologetica, intitolata Apologia pro vita sua (1864), Newman esplica, con uno stile narrativo improntato all’esperienza empirica, quella che lui chiama “la storia della sua anima” motivando, davanti all’opinione pubblica che non aveva mai perdonato la sua conversione al cattolicesimo, prima i vari “cambiamenti d’opinione” all’interno della Chiesa Anglicana, poi il suo passaggio alla Chiesa Cattolica. Questa vocazione alla libertà di coscienza, però, non vuol dire assoluta arbitrarietà dell’agire umano, inteso come quell’hic et nunc autarchico che slega l’agire umano da qualsiasi tipo di relazione.


70 Nipoti di Maritain

“il radicato umanesimo cristiano, lo squisito stile colloquiale tipico della buona società britannica e il finissimo humor”

Newman stesso, nella Lettera al Duca di Norfolk (1875), si preoccupa di coniare in più passaggi cosa sia la coscienza cristianamente intesa: «la coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui ... ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suo rappresentanti», dove per rappresentanti si intendono i Vicari di Cristo. La coscienza, intesa quindi come quella voce silenziosa già rimarcata dagli antichi filosofi e poi scoperta nella sua interezza con il messaggio cristiano, è pertanto quel trait d’union che lega la Creatura con il Creatore in un vincolo di consapevolezza della scelta delle proprie azioni: «la coscienza ha diritti perché ha doveri», scrive a tal proposito il futuro cardinale. La costante – quasi ossessiva – attenzione posta sul valore della coscienza, intesa secondo la scia tracciata da Agostino d’Ippona col suo motto scito te ipsum, si può comprendere soltanto contrastivamente con l’interpretazione “liberale” in vigore nel XIX secolo e che ancora oggi continua a persistere, secondo la definizione di Benedetto XVI, sotto la denominazione di “relativismo etico”: «[gli uomini] intendono [per coscienza] il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio … rivendicano semplicemente … di essere ciò

padron[i] di se stess[i] in ogni cosa, di professare quello che gli piace senza dover avere il beneplacito di chicchessia».

Sulla base di queste osservazioni, rielaborate in modo più approfondito e in chiave epistemologica nel trattato filosofico La Grammatica dell’Assenso, si può comprendere in tutta la sua forza quel motto letterario citato dai divulgatori dell’opera newmaniana quale simbolo sia del valore della Coscienza, sia del suo rapporto con il dogma dell’infallibilità papale: «Senza dubbio … brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa». L’efficacia dell’espressione non si potrebbe comprendere se prima non si analizza il retroterra storico-religioso che fa da sfondo alla redazione dell’opera. Essa fu redatta, sotto forma di lettera, dall’ormai cattolico Newman come controrisposta alla dura presa di posizione formulata dal primo ministro conservatore William Ewart Gladstone il quale, in un articolo intitolato The Vatican decrees, accusò duramente i cattolici inglesi di non essere più buoni fedeli di Sua Maestà Britannica a causa della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale. Secondo l’anglicano Gladstone, i cristiani fedeli a Roma erano vincolati in ogni decisione, sia spirituale che politica, alla volontà pontificia.


71 Davanti a quest’interpretazione fuorviante, il pacifico e serafico Newman, spinto dal leader dei cattolici inglesi e destinatario fittizio della lettera apologetica, Henry Fitzalan Howard XV° duca di Norfolk, decise di scendere in campo per affermare l’esatta correttezza interpretativa del documento conciliare e per ribadire l’esatta interpretazione della coscienza che il dogma, in sé, non inficiava. L’opera, completamente scevra di quell’acredine confessionale che caratterizzava i pamphlet teologici composti da cristiani di diversa confessione religiosa, è impregnata al contrario di una profondità intellettuale insolita e di grande serenità umana. Gli elementi stilistico-tematici dominanti, vale a dire il radicato umanesimo cristiano, lo squisito stile colloquiale tipico della buona società britannica e il finissimo humor, permettono a Newman di ricusare diplomaticamente le dichiarazioni di Gladstone, suo vecchio amico fin dai tempi di Oxford. Se la coscienza è quella «voce divina che parla a ciascuno di noi», essa «non può entrare direttamente in conflitto con l’infallibilità della Chiesa o del Papa», i quali sono infallibili appunto perché eredi della dottrina impartita alla Chiesa da Cristo stesso. Al contrario, «un Papa non è infallibile nelle sue leggi, né nei suoi ordini, né nei suoi atti di Stato o nella sua amministrazione e strategia pubblica» e che «nessun Papa potrà mai creare per i suoi scopi personali, come

vorrebbe l’obiezione [di Gladstone, NdA.], una falsa coscienza», dove per falsa coscienza si intende la commistione di verità divine con interessi prettamente umani, com’era avvenuto nel passato quando, per esempio, papa Sisto V (1585-1590) benedisse l’Invencible armada lanciata dal cattolico Filippo II di Spagna contro la protestante Elisabetta I Tudor. Pertanto, la prima vera Vicaria di Cristo è la Coscienza, senza la quale non vi può essere una piena adesione al messaggio divino lasciato in eredità ai successori di Pietro. Il messaggio fondamentale che Newman volle lasciare in eredità ai cristiani delle generazioni future (un’eredità accolta assai positivamente dal magistero della Chiesa nei decenni a venire, tanto da considerare il prelato inglese come «il Padre assente del Concilio Vaticano II») consiste, in conclusione, nella presa di coscienza critica, da parte dei cristiani cattolici, del proprio impegno sia verso le promesse battesimali, sia verso quell’impegno nella società civile cui il cristiano, nella sua vocazione alla carità, non può sottrarsi. Ed è in questo lascito che Newman può essere considerato uno dei nuovi giganti su cui noi “nani”, secondo la felice definizione di Bernardo di Chartres, possiamo scorgere gli infiniti prati che la fede in Cristo continua ad offrire.

“la prima vera Vicaria di Cristo è la Coscienza, senza la quale non vi può essere una piena adesione al messaggio divino”


72 Nipoti di Maritain

umanesimo integrale

Cristianesimo e Islam in due “discepoli” di Jacques Maritain di Stefano Gherardi

Uno dei documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), la dichiarazione Nostra Aetate, è dedicato com’è noto, alle «relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane». Dopo il primo paragrafo introduttivo e il secondo dedicato alle religioni orientali, troviamo il terzo paragrafo destinato alla riflessione sull’Islam. Già questo fatto non era scontato e ha una grande importanza: quello che doveva essere un testo sul rapporto con l’Ebraismo si allarga a riguardare tutte le grandi religioni. Ecco il suo incipit: «la Chiesa guarda anche con stima i Musulmani che adorano l’unico Dio» (§ 3). Il testo continua poi con una descrizione del credo e

del culto islamici e si conclude con un appello rivolto a tutti «a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione» e a promuovere insieme i valori comuni. Arrivare a questo documento non fu semplice per i padri conciliari soprattutto per l’assenza di una teologia delle religioni, come ha sottolineato il domenicano orientalista Jean-Jacques Pérennès. Presenterò qui brevemente il profilo di due studiosi, purtroppo poco conosciuti, che con il lavoro resero comunque possibile giungere alla stesura della Nostra Aetate. Sono Louis Gardet (1905-1986), dei Piccoli Fratelli


73 di Gesù, e il domenicano Georges Anawati (1904-1994). Per entrambi fu importante l’incontro con Maritain: Gardet, dapprima ateo e scettico, iniziò a frequentare il circolo tomista di Meudon (fondato da Jacques e dalla moglie Raissa nel 1921) e in seguito si convertì al cristianesimo. Anawati, “allievo indiretto” di Maritain – di lui scrisse: «ha reso il mio cattolicesimo coerente e intelligente» (diario del 23 gennaio 1934) – imparò dal teorico dell’umanesimo integrale l’importanza di collocarsi sul piano culturale per confrontarsi con l’Islam, soprattutto grazie alla lettura di Religione e cultura (1930). Nel 1941 i due studiosi si incontrarono per la prima volta ad Algeri e nel 1948 pubblicarono una fondamentale Introduzione alla teologia musulmana. Saggio di teologia comparata. Anawati scrisse poi un Saggio di bibliografia avicenniana (1950) e curò l’edizione critica della Metafisica del filosofo musulmano. Gardet, anch’egli spinto da Maritain sulla strada culturale, pubblicò due libri su Avicenna tra il 1951 e il 1952. Entrambi tomisti, i due studiosi poterono così confrontarsi con il grande pensatore persiano che, con la sua distinzione tra ente ed essenza, aveva influenzato nientemeno che il pensiero di San Tommaso d’Aquino. In questo modo si avventurarono nel mondo islamico da un ingresso accogliente che però nello stesso tempo non per-

mise, specialmente ad Anawati, di esplorare fino in fondo le possibilità del dialogo cristiano-musulmano e della teologia delle religioni. Vengono in mente le parole del Memoriale di Pascal: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti». Nel Dio dei filosofi è più facile ritrovarsi, ma se l’incontro si ferma in questo punto rischia di essere arido. In seguito Gardet muoverà infatti sul terreno della mistica comparata, Anawati sarà invece autore, insieme a padre Joseph Cuoq (del Segretariato per i non cristiani), di un testo preparatorio per la Nostra Aetate. Per entrambi, e per chi si è incamminato sulle loro strade, è stato fondamentale l’autentico incontro con l’altro, senza volontà di assimilazione. Nelle parole di Gardet, riportate dall’islamista Maurice Borrmans: «offrire dell’altro un’immagine tale che vi si riconosca lui stesso».


74 Nipoti di Maritain

a misura d’uomo

Fede o ideologia? Una riflessione sul futuro di Davide Penna

I mesi estivi ci hanno consegnato una lunga serie di orrori, di atti terroristici, di guerre tremende in Siria e Yemen, di vittime innocenti, di ospedali per bambini e di promenade per la gente comune stravolte dalla follia omicida. La lettura che dai più è stata fatta ha registrato nel motivo religioso la causa imperante di questo disastro umano. In particolare è stata portata al tavolo degli imputati la religione musulmana e il mondo arabo, rei di non aver conosciuto la secolarizzazione e l’illuminismo. Tali letture non hanno fatto che continuare a scavare fossi e innalzare muri; sembra essere sempre più difficile ogni ipotesi di dialogo. Ma davvero la causa di questi orrendi atti nel mondo è la religione? Davvero la coalizione saudita sta continuamente bombardando lo Yemen per fare cosa gradita a Dio? Realmente credia-

mo che gli scontri tra curdi, forze fedeli ad Assad e Daesh siano dovuti alla fede religiosa? La fede religiosa nasce e si fonda su un incontro, o meglio, su una chiamata; essa può avvenire attraverso moltissimi modi differenti: esperienze comunitarie, incontri personali, lettura di testi, ricerche interiori, dialoghi decisivi, momenti di crisi. Ma ciò che accomuna tutti questi modi è lo sperimentare Qualcuno che ti fa uscire dai tuoi schemi, dalle tue pre-comprensioni, dai tuoi ordinari giudizi, e ti spinge fuori di te. L’esperienza decisiva nel cammino di fede è quella dell’alterità. Per essere fedeli a questa esperienza, chi l’ha vissuta deve sempre mantenersi aperto, disposto a perdere qualcosa di sé per sperimentare una verità più profonda. Intrinsecamente l’esperienza di fede è dialogo con l’altro da sé e, dunque, rispetto,


75 custodia, cura e ricerca di tutto ciò che non è il Medesimo, per riprendere le parole di Lévinas. L’icona dell’uomo di fede è quella del pellegrino che accoglie la novità della vita come dono essenziale e vede nel prossimo un’eco dell’originario Tu della chiamata che ha cambiato il proprio percorso; in questa dinamica l’altro diventa occasione di approfondimento e di inveramento di sé e non mezzo per autoaffermarsi. Il contesto della vita di fede è sempre ermeneutico, o, come direbbe Habermas, comunicativo, volto all’intesa, alla comprensione, dove la drammatica esistenziale è caratterizzata da un continuo approfondimento dell’altro in se stessi. In questo contesto il mio limite è la possibilità di realizzarmi in quanto persona che, fedelmente, ha accolto la chiamata originaria. Ma qual è il punto di rottura? Come avviene che, come la storia ha spesso dimostrato, la fede possa diventare il motivo scatenante le peggiori nefandezze, le crudeltà più atroci? Ciò che interrompe la radicale apertura della fede è l’incancrenirsi nell’ideologia. Essa si fonda non più sulla chiamata sempre nuova, e sempre fedele, del Tu, ma sul pietroso vuoto dell’io, sulla rigidità ossessionante del volersi ripetere, sulla ricerca compulsiva di sé nell’altro e, in fin dei conti, sulla volontà di sopprimere, per paura, tutto ciò che è avvertito come diverso. Nell’ideologia la

volontà di potenza assume i toni di una maligna decisione di eliminare tutto ciò che non si lascia ricondurre a me. Qui, in questa palude esperienziale, il limite è vertigine esistenziale, è un vuoto da fuggire e esorcizzare con tutte le forze. La dinamica dominante è un continuo tentativo di esaurire e consumare il di-fronte, l’oggetto, il gettato-di-fronte (il latino e il tedesco rendono bene il significato di oggetto come ciò che sta di fronte, ciò che si oppone: ob-iectum/gegen-stand). Il problema, dunque, mi sembra essere non la religione in sé, non la politica in sé, non l’economia in sé, ma il trasformare queste figure essenziali per la vita umana da contesti comunicativi, in cui l’apertura all’A/altro, nell’attesa, nell’ascolto, nel lasciarespazio, descrive la rotta di tutti i nostri percorsi, in contesti strumentali, ideologici, consumistici, in cui l’intenzione profonda di ogni nostro agire è colmare il vuoto, fuggire il limite e affermarsi come colui che sta sopra l’A/altro, nella strisciante adesione al «non morirete affatto … diventerete come Lui». In tutto questo sono convinto che si può essere persone di fede, nel senso sopra descritto, pur non aderendo, ufficialmente ad alcun credo, così come si può essere ideologici e strumentali pur facendo professione di fede. Tenuto salvo il fatto che la rivelazione biblica ha un ruolo decisivo in questa apertura all’A/altro, perché essa, per la prima volta, ha mo-


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strato all’umanità il volto di Dio come Santo con cui dialogare e, a volte, contro cui combattere1 , e non il Sacro da cui, schematicamente, derivano società sacrali ovvero rigidamente disposte a testimoniare l’esistenza di un Assente2. Inoltre la rivelazione trinitaria ha garantito l’irrompere, nel mondo politico e sociale, di quella dimensione sociale che è essenziale ad ogni contesto comunicativo: «Il senso della fede cristiana – spiega Zanghì – è proprio il superamento di questa situazione […] L’Assoluto si rivela Trinità, dicendoci definitivamente quel che l’Assoluto non è! L’Assoluto non è la negazione della diversità: Egli in se stesso è, in un suo modo, diversità! […] Questa rivelazione, ove l’Assoluto – l’Uno – dice di Sé: “Siamo” (cfr. Gv 10, 30), è stata l’autentica dichiarazione di consistenza della storia, del divenire, dell’utopia»3.

NOTE: 1

Cfr. Gen 32, 23 -33.

2

Per chi volesse approfondire rimando a

G. M. ZANGHÌ, Il sociale come liberazione dell’utopia. L’attesa di oggi, “Nuova Umanità” XIV (1992), 2 e A. BAGGIO, Trinità e politica. Riflessione su alcune categorie politiche alla luce della rivelazione trinitaria, “Nuova Umanità” XIX (1997). In particolare a p. 732 afferma lo studioso: «il mondo antico è dominato dalla realtà del sacro e dei suoi simboli: e cos’è il simbolo sacro, se non la testimonianza dell’esistenza di un Assente? li simbolo sacro dice: la Realtà, l’Unità -in una parola: Dio –, esistono, ma non sono qui, non partecipano del mondo umano, dell’illusione. La politica, nel contesto sacrale, aveva il compito di dare un ordine a questo mondo illuso-

Ciò che è davvero urgente è che ognuno, credente o non, abbia il coraggio di aprire, per così dire, la propria chiamata, il proprio percorso all’A/altro e, dunque, di accettare il proprio limite come possibilità. Solo così ci può essere dialogo, vero incontro, pace ... futuro.

rio, di strutturare gerarchicamente la realtà umana in modo da contenerla, trasmettendole, per quanto possibile, la configurazione verticale desunta dalla sfera del sacro. Nell’universo sacrale precristiano aveva adeguato fondamento, dunque, il politico – il governo sul mondo –, ma non il sociale, che richiede la consapevolezza della consistenza delle relazioni umane, consapevolezza non adeguatamente raggiunta nel contesto sacrale». 3

G. M. ZANGHÌ, Il sociale come libera-

zione dell’utopia, op. cit., p. 13.


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impressiones

Riflessioni a partire dal film “Transcencence” di Matteo Zerbino

Il film Transcendence, prodotto e distribuito nel 2014 dalla 01 Distribution, narra le vicende del dottor Will Caster, ricercatore che si adopera nel tentativo di sviluppare un’intelligenza artificiale capace di superare notevolmente la mente umana e migliorare la vita dell’uomo. Dopo essere stato ferito mortalmente da un terrorista anti-tecnologico viene caricato dalla moglie in un computer, il Pinn. Dopo vari avvenimenti, durante i quali anche la moglie giunge a dubitare del proprio “consorte”, anch’ella viene ferita a morte; per salvarla Will effettua un upload della sua coscienza e si spegne definitivamente, mostrandole, prima di “morire”, che le sue intenzioni erano positive, sebbene fossero state fraintese dagli uomini.

Il film suscita una grande quantità di domande e riflessioni, toccando argomenti molto differenti, pur seguendo il filo conduttore dell’intelligenza artificiale, o AI. Con i recenti sviluppi della tecnologia, tutto ciò che può essere prodotto attraverso segnali elettrici sta divenendo sempre più realistico, sempre più vicino all’uomo e alla realtà in cui vive. Già nel 1883 l’inventore tedesco Paul Nipkov inventava il Disco di Nipkov, un cerchio forato in punti specifici – seguendo un motivo a spirale – che permetteva di rappresentare un’immagine su di una superficie piana. Fino al 1928 venne sfruttato per rappresentare immagini in rudimentali televisori e venne poi sostituito negli anni ‘30 dal tubo catodico. Successivamente si passò agli schermi LCD (liquid


78 Nipoti di Maritain crystal display), ai televisori al plasma e alle attuali tv a LED (light emitting diode) e OLED (televisori curvi che usano led flessibili), capaci di risoluzioni che raggiungono il 4K (due volte il numero di pixel di una TV Full HD). Attraverso tali – e molte altre – innovazioni, la capacità di creare un ambiente immersivo, usando un termine moderno, è sempre più concreta e raffinata. Come dimostrato più volte, l’uomo è capace di sviluppare nel giro di pochi anni cose che prima erano inconcepibili, quindi è forse fuori discussione che la tecnologia possa offrirci nuove possibilità, ma la domanda che sorge spontanea è : “Quanto vogliamo che la tecnologia sia realistica?” Rifacendosi a quanto detto riguardo alle tv 4K, l’occhio umano è capace di rappresentare immagini ad una risoluzione di circa 7 MPX, mentre la risoluzione del 4K si aggira intorno agli 8.3 MPX: siamo arrivati ad un punto in cui la tecnologia sta sorpassando le capacità dell’uomo. Esiste un fenomeno detto “uncanny valley” (valle perturbante): un’ipotesi, presentata dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori nel 1970, che afferma che «la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone da robot e automi antropomorfi aumenta al crescere della loro somiglianza con la figura umana fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce però un

brusco calo delle reazioni emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine». Tale fenomeno è probabilmente una delle cause per cui l’uomo teme lo sviluppo della tecnologia, e si collega in un certo qual modo anche alla questione del realismo: noi non desideriamo essere immersi in situazioni realistiche, perché il coinvolgimento dello spettatore/videogiocatore non dipende dalla sua partecipazione fisica alla vicenda quanto da quella emotiva; se fosse vero il contrario, allora i libri non avrebbero valore e l’uomo non potrebbe dichiararsi possidente di una qualche forma di intelligenza. Nel film, Caster crea delle copie di sé impiantando in vari individui dei nano-bot che contenevano il proprio codice, rendendoli delle specie cyborg sotto il controllo del Pinn. Tali persone vengono curate grazie alla nanotecnologia ma perdono la propria umanità e coscienza, soppiantate dalla mente dell’AI. Si potrebbe asserire che questo già accade, poiché moltissimi ormai sono talmente assorbiti dalla modernità (specie da quando i cellulari si sono diffusi in maniera virale), incapaci di comunicare in maniera “classica”e distaccati dalla realtà – le stesse persone che criticano i videogiocatori o i lettori accaniti, ma questo è un altro discorso – ma la prospettiva di essere annullati da un computer è ancora peggiore: siamo abituati all’indipendenza per quanto


79 concerne il pensiero, ogni persona ha la propria individualità e la diversità, che rende buono (o cattivo) il mondo, sarebbe annullata dalla “mente collettiva”, una sorta di coscienza totale che annulla le differenze specifiche, rendendo ogni individuo una sorta di “universale”. È quasi indiscutibile che se non ci fossero differenze nelle opinioni delle persone, e queste lavorassero per raggiungere un solo obiettivo, esso verrebbe raggiunto molto più in fretta e efficacemente, ma il prezzo da pagare sarebbe troppo alto, inoltre il fatto che ci siano diversi “paradigmi”, diversi modi di vedere la realtà e di rapportarsi con essa fa sì che, oltre alle divergenze, nascano anche i valori che caratterizzano l’uomo, come la tolleranza. Ciò rende lo sviluppo possibile in infinite direzioni e permette di affinare costantemente la propria comprensione senza ignorare strade che non sembrano promettere risultati soddisfacenti. L’uomo è anche un individuo particolare, una differenza specifica nel genere prossimo “uomo” che lo rende diverso da un robot, in quanto nato con sogni, aspirazioni, paure, difetti e punti di forza; il che rende eticamente scorretta la sostituzione della sua mente con una fabbricazione meccanica. Parlare di etica è un compito arduo e complesso, su cui si discute molto, specie riguardo allo sviluppo scientifico; l’etica si propone in generale di limitare

la sete di sapere dell’uomo in modo che questa non noccia ad altri individui né sia moralmente inadeguata. Può certamente rivelarsi utile fare riferimento ad opere di alcuni scrittori:Isaac Asimov, Howard Phillips Lovecraft e Harlan Ellison. Nelle varie opere di Asimov il progresso della scienza è visto in maniera positiva, almeno inizialmente, ma poi la situazione si evolve e un crescente pessimismo subentra, prendendo il posto della fiducia nella tecnologia dello scrittore. Le opere di Lovecraft, pur non connesse alla tecnologia direttamente, esplorano un aspetto dell’animo umano che ben si collega alla visione della novità: il terrore. Secondo Lovecraft il terrore, la più forte delle affezioni dell’anima, si insinua nelle menti degli uomini portandoli alla pazzia. I suoi racconti fanno leva sulla xenofobia, la paura che l’uomo ha nei confronti di ciò che non conosce, che lo spinge a compiere azioni insensate e dannose. In ultimo Harlan Ellison scrive nel 1967 Non ho bocca e devo urlare, racconto nel quale si ipotizza una distopia causata dalla presa di potere del supercomputer AM, che ha ucciso ogni essere umano tranne i 5 protagonisti. L’intelligenza abusa di loro e li tortura in ogni modo possibile. Nel tentativo di salvare la vita dei propri compagni, il narratore sfrutta l’occasione presentatagli dal ghiaccio che si trovava in una stanza (il computer impediva che morissero per torturarli e non gli faceva


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mai trovare armi) e uccide i suoi quattro compagni, effettivamente salvandoli, ma viene immobilizzato dal computer e trasformato per sempre in un essere informe e immobile, ma cosciente (da qui il titolo).

“il fatto che ci siano diversi “paradigmi”, diversi modi di vedere la realtà e di rapportarsi con essa fa sì che, oltre alle divergenze, nascano anche i valori che caratterizzano l’uomo”

Quello che suscita il film è probabilmente un quesito che non ha risposta, che sarà chiaro solo nel momento in cui sarà troppo tardi, come nel caso del racconto di Harlan Ellison, oppure che rimarrà nella mente dei posteri come un timore ingiustificato dei propri antenati; quel che è certo è che l’uomo si differenzia dagli altri esseri che popolano il pianeta grazie all’intelletto, la sua più grande forza, forse la forza che ci permetterà di superare anche i “baratri della ragione” nel modo migliore, procedendo verso la prosperità e il benessere.


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recensione Un costruttore di pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro (di Gennaro Salzano, Guida Editori, Napoli 2015)

Recensione a cura di Lucandrea Massaro

La figura di Aldo Moro assume in questi mesi una centralità sempre maggiore, “complice”, per così dire, la coincidenza in questo anno del centenario della nascita dello statista democristiano e dell’apertura del fascicolo, da parte della Diocesi di Roma, circa la causa di beatificazione. Aldo Moro, con il suo chiaro ancoraggio nella dottrina della Chiesa, la sua costante ricerca di punti di contatto e di dialogo tra le forze politiche e sociali, insieme alla tragica fine che lo avvicinano nell’immaginario ad un moderno martire e ne fanno un punto di riferimento interessan-

te per il cattolico contemporaneo. Capace di grande libertà nei confronti della gerarchia, senza mai venire meno alle esigenze della sua fede, fa dei “vecchi democristiani” un archetipo che sfida i moderni politici-clericali. Moro e i democristiani della sua generazione erano alla ricerca di una costante conciliazione con le forze non-cristiane del loro tempo, una sfida che oggi sembra innovativa nelle parole di Papa Francesco, ma che affonda, come atteggiamento, totalmente nel Vaticano II. È proprio del suo approccio alla conciliazione che si occupa un interessante saggio di Gennaro Salzano dal titolo Un


82 Nipoti di Maritain costruttore di pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro, pubblicato da Guida Editori. Il volume apre le proprie considerazioni sulla politica mediorientale di Moro a partire dalle questioni politiche che la guerra dello “Yom Kippur” mise in campo nel nostro Paese. Esse furono molteplici e tutte strettamente connesse tra di loro. Il dibattito sulla posizione che l’Italia doveva assumere rispetto al conflitto tra Israele da una parte ed Egitto e Siria dall’altro, toccò – come spesso accadeva in quegli anni – molte questioni e molti livelli interpretativi: dalla debolezza politica della Comunità Europea alla politica mediorientale dell’Italia, dal rapporto con la NATO (e dunque l’URSS), al suo riflesso nazionale, cioè al dialogo DCPCI. Gli anni presi in esame dal saggio di Salzano sono quelli che vanno dal ‘69 al ‘74, quando Moro fu Ministro degli Esteri italiano e che permisero all’Italia di guadagnare una posizione di autonomia – e dunque di autorevolezza – rispetto all’ingombrante alleato americano, nello scenario mediorientale. Posizionamento che avrebbe influito e influenzato almeno i due decenni successivi e che garantirono, e in parte garantiscono ancora oggi, una posizione privilegiata nei rapporti tra Occidente e mondo arabo: «Essi evidenziano la grande lungimiranza, quasi la capaci-

tà profetica, dello statista democristiano che, ripetutamente, ammoniva su una questione che oggi viviamo in tutta la sua drammaticità: non sarà mai possibile un’Europa sicura senza un Mediterraneo sicuro e, quindi, senza un accordo con il mondo arabo. Al centro di quest’accordo Moro intuì, e chiaramente disse che bisognava porre la questione palestinese» (pag. 12). Gli assi della politica estera morotea sono descritti in queste righe: «Il leader democristiano, rispetto a queste questioni, ispirò la sua azione a due direttrici di fondo, strettamente connesse tra di loro: la ricerca della maggiore autonomia possibile dall’alleato americano e la contestuale azione di costruzione di buoni rapporti con tutto il mondo arabo. A completare poi la definizione degli obiettivi di Moro in campo internazionale concorre la costante attenzione al processo di integrazione europea, come contraltare agli Usa e come riferimento unitario del mondo arabo sulla sponda settentrionale del Mediterraneo. L’azione di Moro, dunque, non fu orientata a dare all’Italia un ruolo di potenza, ma poneva, da un lato, in primo piano, la difesa degli interessi nazionali, che erano in gran parte rappresentati proprio dalla sicurezza e dalla cooperazione nel Mediterraneo, e dall’altro puntava a fare dell’Italia un Paese centrale nel dialogo nord-sud, che


83 proprio in quegli anni, con la fine del processo di decolonizzazione e lo scoppio della tensione in Medio Oriente, si segnalava come la nuova “questione” a livello internazionale» (pag. 13). È molto interessante ragionare sul fatto che questi obbiettivi siano, per la posizione geopolitica dell’Italia, ancora assolutamente validi, e non è da escludere che anni di politica “democristiana” nella regione arabo-mediterranea abbia reso il nostro paese nell’immaginario islamico come non ostile. L’Italia del resto è sempre stata poco interventista militarmente, preferendo approcci di soft power. È ormai evidente che la crisi libica del 2011 è stata un danno per gli interessi italiani che sono intervenuti loro malgrado trascinati in un conflitto che non volevamo. La conferma viene proprio dal saggio di Salzano che ricorda come il dittatore libico, non trovando sponde nei paesi arabi del Mediterraneo rispetto alle presunte rivendicazioni circa un risarcimento del colonialismo italiano, si ritrovò politicamente isolato e nel 1970 accolse Moro con amicizia, non potendo permettersi di accoglierlo con freddezza. La politica di lenta, ma costante, tessitura di rapporti con tutte le cancellerie mediorientali fornivano a Moro e all’Italia autorevolezza utile per gli scambi commerciali e per contare nei rapporti internazionali. Una autorevolezza tuttavia “comprata” non a poco prezzo, se si pensa

alla controversa questione del “Lodo Moro”, stipulato coi palestinesi alcuni anni dopo ed emerso di recente con alcune rivelazioni di ex membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Un accordo che permetteva il transito di armi e guerriglieri attraverso il Paese in cambio del non coinvolgimento dell’Italia e degli italiani negli attacchi stragisti dei palestinesi: accordo stipulato formalmente nel 1973 ma probabilmente operante già da prima. Un’onta o un passaggio necessario e dunque lungimirante? L’approccio di Moro fu integrale rispetto alle questioni degli equilibri geopolitici del suo periodo storico e non ebbe occhi solo per il mondo arabo con la sua instabilità sistemica e il suo peso nella produzione petrolifera. Sin dal suo insediamento infatti il politica dello statista democristiano si occupa e preoccupa del cosiddetto “Terzo Mondo” dando prova di avere chiaro che la pace non è solo assenza di conflitto ma la necessità di garantire giustizia sociale a tutte le nazioni. Per Moro l’Italia ha il diritto ad avere “una giusta e lungimirante politica estera” contro chi afferma che: «noi non abbiamo alcun potere di dominare gli avvenimenti e che ci conviene quindi starcene da parte. […] L’Italia non possiede le chiavi della pace e della

“la politica di lenta, ma costante, tessitura di rapporti con tutte le cancellerie mediorientali fornivano a Moro e all’Italia autorevolezza utile per gli scambi commerciali e per contare nei rapporti internazionali.”


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“il ruolo dell’Italia sarebbe quello di seguire la sua vocazione geografica di ponte e mediatore, ma questo implicherebbe anche delle rotture con gli alleati occidentali”

guerra – continuò Moro – non è una potenza sul piano militare, ma lo è su quello economico, politico e storico. […] Aldilà dell’equilibrio necessario tra le grandi potenze vi sono Paesi emergenti che desiderano il nostro amichevole ed equilibrato intervento e che parlano con l’Italia con assoluta fiducia. […] In realtà questi critici hanno una visione mediocre e superata della realtà del mondo d’oggi, che ha fatto sensibili passi innanzi nella via della democratizzazione dei rapporti internazionali» (pag. 24). La presenza italiana nel Mediterraneo era necessaria anche per mantenere uno spazio autonomo dall’altro grande gigante dell’epoca: l’URSS che proprio in quegli anni inaugurava un nuovo protagonismo nell’area. La dinamica politica democristiana in questo senso fu unica, come unica era la condizione dell’Italia tra i paesi occidentali per via del PCI. Sempre filo-atlantica ma con ottimi rapporti sia nel Mediterraneo che a Mosca. È in questo contesto che la posizione filo-araba dell’Italia della Prima Repubblica aliena la simpatia dell’ebraismo italiano per le due grandi “chiese”: la DC e il PCI, rifugiandosi (politicamente parlando) sotto l’ombrello del PRI e della sua storia fieramente risorgimentale (e dunque emancipazionista e di conseguenza filo-israeliana) e poi del PSI di Nenni e Pillitteri, incrinato forse

solo dopo l’ascesa di Craxi alla segreteria. Craxi fu molto vicino a tutte le cause di liberazione nazionali del Mediterraneo (dalla penisola iberica, alla Grecia, alla Palestina) e non solo. Un lascito che ancora oggi pesa nei rapporti tra Comunità ebraica e le forze politiche della Seconda Repubblica, in larga parte – almeno a parole – divenute tutte pro-Israele in conformità anche alle posizioni sempre più dominanti dell’alleato americano. Insomma, rileggere la politica estera italiana di quegli anni apre al lettore un mondo che non c’è più ma che opera ancora sugli scenari attuali. Il rapporto tra Europa e Mediterraneo è sempre quello, l’instabilità dell’area si è spostata verso la Siria e l’Iraq, ma la questione israelo-palestinese è lontana da una soluzione. Il ruolo dell’Italia sarebbe quello di seguire la sua vocazione geografica di ponte e mediatore, ma questo implicherebbe anche delle rotture con gli alleati occidentali. La politica estera di Moro non fu una iniziativa solitaria, ma fu perseguita in modo sistematico grazie all’approccio umano, politico e culturale dell’uomo Aldo Moro. Una figura sempre più relegata nell’immaginario collettivo alla questione del suo rapimento ma che andrebbe ricostruita, criticata e infine restituita alle generazioni che politicamente sono nate e cresciute nella Seconda


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Repubblica. In particolar modo a quei cattolici che decidessero di impegnarsi in politica, non per seguirne pedissequamente le orme ma per comprenderne il metodo e l’orizzonte valoriale profondamente influenzato dalla sua fede e pragmaticamente perseguito da una mente acuta e molto preparata. Una icona parallela e complementare a quella di Berlinguer in un paese ancora diviso – all’epoca – tra Don Camillo e Peppone.


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Autori Lorenzo Banducci Nato a Lucca nel 1988, si è laureato in Odontoiatria a Pisa nel 2012 e dal 2013 esercita la professione in vari studi della Toscana. È stato fra i rifondatori del gruppo FUCI di Lucca nel 2009 per poi esserne responsabile regionale per la Toscana dal 2010 al 2012. Dal 2011 ad oggi ha incarichi diocesani in Azione Cattolica di Lucca dove attualmente è Vice-Presidente del Settore Giovani. Con Niccolò Bonetti è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. iaffo@hotmail.it Niccolò Bonetti Nato a Lucca nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la laurea triennale e poi quella magistrale in Filosofia presso l’Università di Pisa, con particolare interesse per la storia del pensiero patristico e medievale. È impegnato nell’Azione Cattolica, nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale e nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, per la quale è stato consigliere centrale. Con Lorenzo Banducci è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. Andrea Bosio Nato a Genova nel 1980, si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova con una tesi sulla narrazione della fisica nella società contemporanea; insegnante, studia Scienze religiose presso l’ISSR di Albenga-Imperia e si occupa di storia contemporanea della Chiesa. Alessandro Caratto Nato a Torino nel 1992, dopo la maturità scientifica si è laureato in Ingegneria Energetica e Nucleare al Politecnico di Torino, presso il quale attualmente frequenta il corso di laurea magistrale, percorso Progettazione Termica. Lavora presso una società di produzione di veicoli industriali. Daniele Conti Nato a Torino nel 1993, dopo la maturità scientifica presso i salesiani di Torino si è laureato in Filosofia nell’ateneo della medesima città con una tesi su Gregorio di Nazianzo dedicata all’epistemologia divina, frequentando parallelamente corsi teologici presso l’Università Pontificia Salesiana. Durante il percorso di studi ha lavorato presso la cooperativa “Anima Giovane” occupandosi di formazione degli animatori nel campo di ricerca “teatro-relazione”, contribuendo a progetti redazionali. Conclude l’ultimo anno con il servizio civile presso la scuola salesiana Valsalice di Torino. Frequenta l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per la laurea magistrale in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, indirizzo Ontologia Trinitaria. sophia.dani93@libero.it Comunità Religiosa Islamica Italiana – Co.Re.Is. Costituitasi nel 1993 con il nome di Associazione Italiana per l’Informazione sull’Islam (AIII), dal 2000 ha preso il nome di Comunità Religiosa Islamica Italiana. Presieduta dallo Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini, è un’associazione di natura


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religiosa e culturale, senza fini di lucro, con lo scopo di rappresentare e tutelare gli interessi di religione, culto e cultura degli aderenti alla religione islamica in Italia, nonché di promuovere iniziative di carattere intellettuale, accademico e scientifico utili alla conoscenza dell’Islam in Italia e in Europa. Lorenzo Delpriori Nato a Jesi (AN) nel 1989, dopo la maturità scientifica ha frequentato la facoltà di Ingegneria informatica e dell’automazione dell’Università Politecnica delle Marche e poi il biennio specialistico del Politecnico di Torino. È fondatore dell’associazione culturale “Qui Jesi Libera”. I suoi interessi principali sono la filosofia, la teologia e la storia del cristianesimo primitivo. Raffaele Dobellini Nato a Napoli nel 1978, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Avvocato, lavora a Roma presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Iscritto all’Azione Cattolica. Vincenzo Fatigati Nato a Napoli nel 1988, dopo la maturità classica si è laureato in Filosofia all’Università Federico II di Napoli con una tesi sui teoremi di incompletezza. Attualmente è studente del corso di Laurea Magistrale all’Università Statale di Milano, dove si sta specializzando sulle logiche non classiche e in generale sull’aspetto scientifico della filosofia. Interessato da sempre a tutto ciò che ruota intorno al mondo religioso, ha frequentato, tra i vari ambienti, anche quello della FUCI. vi.fatigati@gmail.com Stefano Gherardi Nato a Genova nel 1986, ha ottenuto la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università degli Studi di Genova. Attualmente frequenta l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova. stefanogherardi86@gmail.com Giovanni Giavini Nato a Busto Arsizio (VA) nel 1932, è stato ordinato nel 1955 e si è laureato in Sacra Scrittura nel 1967. È stato collaboratore nella chiesa di S. Maria Beltrade, docente di Sacra Scrittura presso il Seminario milanese di Venegono Inferiore, poi direttore dell’Ufficio Catechistico della Curia Arcivescovile di Milano e anche di quello per l’insegnamento della religione nelle scuole e dell’Apostolato Biblico. Biblista di fama nazionale ed esperto degli scritti paolini, è autore di numerosi scritti specialistici e divulgativi pubblicati in particolare dalle case editrici Àncora, Elledici, Queriniana, EDB, San Paolo, Cittadella. Nel 1992 è stato nominato Monsignore da San Giovanni Paolo II con l’onorificenza di Cappellano di Sua Santità. Wiebke Johannsen Nata a Flensburg (Germania) nel 1981, ha completato la Laurea triennale in Scienze Sociali e Scienze dell’Educazione ed ha studiato per diventare diaconessa presso l’Università Evangelica di Rauhes Haus (Amburgo). Svolge il proprio servizio diaconale presso la parrocchia evangelico-luterana di Lokstedt, quartiere di Amburgo. Francesco Macinanti Nato a Roma nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la Laurea triennale in Storia, Antropologia e Religioni presso La Sapienza – Università di Roma, con una tesi in storia medievale. Attualmente è specializzando in storia bizantina presso il medesimo ateneo. I suoi interessi di studio spaziano dalla storia della Chiesa, al rapporto fra Oriente ed Occidente e alle relazioni fra cristiani, ebrei e musulmani


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in epoca medievale. Lucandrea Massaro @Jarluc Nato a Roma nel 1980, dopo la laurea in Storia e la laurea magistrale in Scienze delle Religioni presso l’Università di Roma Tre ha collaborato con la divisione radiofonia della RAI e con alcune testate del mondo del lavoro. Giornalista professionista, attualmente è co-editor e social media manager di Aleteia, network sulla fede cristiana. lucandrea.massaro@gmail.com Davide Penna Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea in Filosofia con una tesi su San Severino Boezio ha conseguito la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova, approfondendo le tematiche morali nell’opera di Pietro Abelardo. Nel 2013 ha conseguito il Diploma in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, con indirizzo Ontologia Trinitaria, presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. Nel 2015 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia; dallo stesso anno ha iniziato a insegnare nei licei e il percorso di dottorato presso il consorzio FINO (Filosofia del Nord-Ovest) che riunisce le facoltà di filosofia di Genova, Torino, Pavia e Piemonte Orientale. È presidente dell’Associazione culturale “Arena Petri” e di Amici di Sophia. Christian Alberto Polli Nato a Monza nel 1989, originario di Brugherio, dopo la maturità classica ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ottenendo nel 2013 la laurea triennale con una tesi sulla vicenda letteraria del poeta Luigi Fallacara e nel 2015 la laurea magistrale in Filologia Moderna con una tesi storico-religiosa incentrata sulla visione che l’ancora anglicano John Henry Newman aveva dell’ufficio pontificio. Impegnato nella ricerca storica e archivistica locale, ha partecipato quale assistente al corso di Storia Locale patrocinato dall’Accademia della Cultura Universale cittadina. Collabora inoltre attivamente alla redazione di voci prevalentemente d’ambito umanistico sui progetti wikipedia e wikimediaitalia. Vincenzo Romano Nato a Vico Equense (NA) nel 1987, dopo la maturità classica ha studiato Lettere Moderne presso l’Università Statale a Milano, laureandosi in Lingua Latina; ora frequenta la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Fortemente legato al carisma carmelitano, presta servizio presso la Parrocchia S. Teresa di Gesù Bambino in Legnano (MI). romano.vincenzo1987@gmail.com Giuseppe Saggese Nato ad Eboli (SA) nel 1994, ha conseguito il diploma di istruzione superiore a Battipaglia (SA). Attualmente è studente presso l’Istituto di Scienze Religiose “San Matteo” di Salerno. È stato membro ed educatore dell’Azione Cattolica presso la Parrocchia “Sant’Antonio di Padova” di Battipaglia. I suoi interessi principali sono la mariologia e la teologia ecumenica, in particolare il pensiero dei riformatori protestanti Lutero e Zwingli. giuseppe.saggese@virgilio.it Stefano Sodaro Nato a Trieste nel 1968, dopo la maturità classica si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Siena. È stato presidente provinciale delle ACLI di Trieste e nella medesima città ha frequentato dal suo inizio la Scuola di Filosofia coordinata da Pier Aldo Rovatti. Già cultore della materia in Diritto Canonico ed Ecclesiastico presso l’Università degli studi di Trieste, è giornalista pubblicista e dirige “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”. È socio dell’Associazione Teologica Italiana (ATI), della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Pro-


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movendo, della Società per il Diritto delle Chiese Orientali, dell’Associazione Italiana Giuristi d’Impresa (AIGI), socio aggregato del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e membro del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (GIDDC). Giuseppe Viola Nato a Policoro (MT) nel 1982, dopo la maturità scientifica e la laurea in Medicina e Chirurgia nel 2008, ha conseguito il diploma in Medicina Generale a Bari nel 2011 e la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapia presso gli Spedali Civili di Brescia nel 2016. Andrea Virga Nato a Casale Monferrato (AL) nel 1987, dopo la maturità classica ha frequentato la Scuola Normale Superiore di Pisa, ottenendo un diploma di primo livello in Discipline Filosofiche e poi la Laurea Specialistica in Storia e Civiltà, approfondendo le tematiche della Rivoluzione Conservatrice anche con soggiorni in Francia e in Germania. Attualmente è Dottorando di Ricerca in Political History presso l’IMT Istituto di Alti Studi di Lucca, con un progetto di ricerca su fascismo e nazionalismo a Cuba, svolto tra L’Avana, Berlino e Madrid. Omar Vitali Nato a Bergamo nel 1981, ha conseguito il Baccalaureato in Teologia presso il Seminario Vescovile “Papa Giovanni XXIII”. Ricevuta la dispensa dagli oneri sacerdotali, attualmente insegna religione presso le scuole primarie e secondarie di primo grado della provincia di Brescia. omarvit@outlook.it Matteo Zerbino Nato a Genova nel 1998, frequenta il Liceo Scientifico dell’Istituto Maria Ausiliatrice di Genova. I suoi interessi spaziano dallo studio delle tradizioni mitologiche alla filosofia medioevale e moderna. Piotr Zygulski @piozyg Nato a Genova nel 1993, dopo la maturità scientifica e la laurea in Economia e Commercio conseguita all’Università di Genova, si è iscritto all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per la laurea magistrale in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, indirizzo Ontologia Trinitaria. È organista dell’Oratorio di San Lorenzo e della Chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore in Cogoleto (Diocesi Savona-Noli). È autore di pubblicazioni in ambito filosofico. Giornalista pubblicista, dal 2014 è redattore della testata giornalistica online Termometro Politico. pz.senet@hotmail.it


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nel prossimo numero: Ambito etico/morale: Che cosa significa essere padri e madri nell’epoca del trionfo della tecnologia procreativa e dell’inverno demografico? Ambito politico/sociale: Come ti immagini l’Unione Europea nel 2050? Ambito pastorale/ecclesiale: A 500 anni dall’affissione delle tesi di Martin Lutero, quali idee e intuizioni della Riforma Protestante sono vive e vitali?

Accettiamo interventi di risposta di 600 parole circa da farci pervenire all’indirizzo inipotidimaritain6@gmail.com entro il 15 dicembre 2016.


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