Nipoti di Maritain n. 07

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ISSN 2531-7040

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nipoti di

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menzogna

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analfabetismo religioso

democrazia in crisi?

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intervista Gioele Anni, uditore al Sinodo dei Giovani


Nipoti di Maritain Anno II Numero 7

ISSN 2531-7040

20 aprile 2019

Direttore Responsabile: Piotr Zygulski Redazione: Lorenzo Banducci e Niccolò Bonetti (vicedirettori e cofondatori); Andrea Bosio, Rocco Gumina, Lucandrea Massaro, Gianni Oderda, Davide Penna, Giovanni Francesco Piccinno, Filomena Piccolantonio, Emanuele Pili, Christian Alberto Polli, Vincenzo Romano, Rosario Sciarrotta. Progetto Grafico e Impaginazione: Mattia Carletti, Gianni Oderda Editore e Proprietà: Nipoti di Maritain è edito dall’associazione non riconosciuta – con lo scopo di diffondere il dibattito ecclesiale – denominata “Nipoti di Maritain” e composta dai membri della redazione sopraindicata, che ne possiede piena proprietà. La sede è presso la Casa delle Associazioni Laicali in Via San Nicolao 81 – 55100 Lucca. Pubblicazione: Nipoti di Maritain è un prodotto editoriale, numerato in sequenza di pubblicazione, non soggetto ad obbligo di registrazione in quanto privo di periodicità regolare (legge n. 62/2001, art. 1). È pubblicato presso World Wide Web in formato PDF scaricabile al link https://issuu.com/nipotidimaritain Diritti: Nipoti di Maritain è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

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Dibattito • Menzogna 10

Chi è senza menzogna è un mentitore di Immacolata Giuliani e Fabrizio Mignacca

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È davvero possibile mentire? di Michele Ambrogio Lanza

Rubriche Intervista 4 6 Gioele Anni, uditore al Sinodo dei Giovani

a cura di Piotr Zygulski

• Crisi della Democrazia 18

Rilanciare la democrazia: la proposta di Francesco di Rocco Gumina

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Seguendo il ciclo di Polibio: l’Europa odierna e l’oclocrazia di Christian Alberto Polli

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Crisi del liberalismo, non della democrazia di Andrea Virga Fisiologia e patogenesi della democrazia di Mattia Lusetti

Laudate Hominem 5 1 Il fenomeno ludico: abbozzo di teologia

di Fabio Cittadini

A ben vedere 5 4 Oltre il clericalismo

di Manuel Alejandro Serra Pérez

Umanesimo Integrale 5 7 I quattro elementi costitutivi dell’errore morale

di Piotr Zygulski

A misura d’uomo 6 0 La Chiesa si oppone al neoliberismo da parecchi anni

• Analfabetismo Religioso

Indice

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L’analfabetismo e la religione: biopsia di un sintomo di Christian Alberto Polli

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La via pulchritudinis come antidoto: l’esempio di Monreale di Rosario Sciarrotta

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Ripartire dalla Parola per dissolvere l’ignoranza di Giovanni Francesco Piccinno

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Laicità, laicato, teologia nelle università pubbliche di Andrea Bosio

di Lucandrea Massaro

Impressiones 6 3 Sulla trilogia di Matrix e il fondamento dell’esistenza

a cura di Davide Penna

Recensione 6 6 Politica

a cura di Andrea Virga


6 Nipoti di Maritain

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Editoriale di Filomena Piccolantonio

“il senso verso il quale ci muoviamo è da rinvenire nel tema della coscienza”

Questo numero di Nipoti di Maritain si è fatto attendere, ne siamo consci e ce ne scusiamo. Ma ne è valsa la pena. Anzitutto perché il lavoro fatto è stato di ampio respiro, cercando di mantenere anche un filo rosso tra le tematiche. Il senso verso il quale ci muoviamo è da rinvenire nel tema della coscienza: essa è qui interpellata su più fronti, ed è interrogata tanto nel lettore, quanto nel soggetto – più in generale – che è invitato a prendere parte alla vicenda pienamente, con il suo agire storicamente situato e, come tale, tessitore della storia. La coscienza non viene chiamata in campo come mera espressione di un pensiero acritico su una questione piuttosto che su un’altra, ma la scelta dei temi ivi presenti è stata operata perché essi conducano a una più genuina riflessione. Non vogliamo trattare una speculazione fine a se stessa. Nostro desiderio è piuttosto suscitare una vera e propria riflessione su di sé, affinché si possa uscire verso l’altro e lo si possa fare in modo nuovo. L’uomo infatti non vive la sua vita pienamente isolato dal mondo

che lo circonda: a meno che non compia una scelta deliberata in questo senso, di norma vive immerso in una rete di relazioni con l’altro da sé come uomo, animale, ambiente. Gli articoli di questo numero, già nella sezione del dibattito, indagano diversi fronti che nel quotidiano sottopongono ad un certo stress-test la coscienza del soggetto. Vengono messe in rilievo le modalità relazionali umane inquadrandole nel contesto della fandonia, entro la situazione critica della politica e nell’altrettanto difficoltoso terreno della pedagogia del religioso. La tematica della menzogna spiana la pista: essa, sovente, viene ad ergersi come uno dei pilastri dell’interrelazione tra gli uomini, e non solo. Da una breve fenomenologia della menzogna in quanto relata alla vicissitudini – anche emozionali – umane, quindi, attraverso una disamina psicoanalitica del fenomeno, emerge la visione di una specie di survivors’ kit necessario per affrontare un mondo sempre maggiormente complesso. Complessità di certo tessuta, secondo una ben precisa intenzionalità, da ogni singolo

soggetto. Perché il rischio insito nella verità nuda e cruda potrebbe mettere a dura prova la tenuta di una relazione, secondo l’ottica di chi si adagia sulle menzogne, anziché far considerare lo slancio nuovo che per essa invece comporterebbe. E in quanto a ciò è mirabile il confronto posto tra la posizione di Kant e quella di Constant: c’è una tensione etica tra l’imperativo di dire il vero e la realtà relazionale, ed essa assume un certo peso quando i due termini della relazione sono entità politiche in dialogo. Quello che in verità vuole essere chiamato qui in causa non sembra essere la liceità o meno della menzogna, ma l’assunzione di responsabilità come costituiva dell’umano. Circa la questione politica i contributi tratteggiano in quattro prospettive la democrazia, dal modo in cui viene intesa (e fraintesa) alle modalità effettive con le quali si esplica. Si constata come il populismo assurga a una traduzione – goffamente giacobina – della volontà di partecipazione all’azione politica da parte del popolo, senza che però esso sia tanto preparato quanto saggiamente guidato. Per contro, le indicazioni di papa Francesco delineano una vera e propria modalità partecipativa, nella forma di soggetto o corpo intermedio che sia, ma che si configuri come un “esserci per l’altro”, non snobbando gli ultimi – si veda la più volte rilanciata linea dell’inclusione e la lotta alla “cultura dello

scarto” – né estraniandosi in toto dall’ambiente in cui si vive. È efficace anche l’analisi della digressione democratica valutata nei termini di Polibio, il quale, per descrivere un potere non più pregno di solidità, rievoca con le sue disposizioni la fluidità dei miasmi fognari. Ciò non solo per la poca stabilità che genera, ma per la scarsa saldezza in sé che non può ergersi a fondamento della vita altrui, rendendo peraltro palese l’evanescenza del voto che, come tale, non ha più un effettivo peso. O forse lo ha, ma trascinando verso il basso. Ancora, la crisi viene pure letta non tanto in relazione alla democrazia quanto, piuttosto, al liberalismo. Di fatti non si tratta della forma di sovranità popolare toutcourt, ma di una configurazione il cui sviluppo è posteriore ed è legato a precisi fattori socioculturali, sottolineando il nesso tra il concetto di democrazia e la sua ideologizzazione attraverso, ad esempio, la sfera mediatica. L’ultimo accento viene posto sulla democrazia quale freno inibitore di forze lesive l’equo accesso alla gestione del potere. La terza sezione del numero compie una disamina circa la questione scottante dell’analfabetismo religioso. Provocazione attuale che mette in evidenza la perdita dello sguardo essenziale del credente. In sordina cadono la Parola e la vita di fede – a meno che non diventi un semplice formalismo di appartenenza – mentre emergono le difficoltà

“riconoscere tanto le proprie peculiarità quanto le proprie mancanze è indice di una persona in ricerca”


8 Nipoti di Maritain del rapportarsi a un linguaggio che suona stantio. I fattori che contribuiscono a questo modo di vivere lo spazio del religioso sono molteplici e tutti radicati nel tempo e nelle generazioni. Eppure un espediente didattico per un ritorno alla contemplazione – una sorta di Biblia pauperum – potrebbe davvero essere l’immagine. Ne siamo sommersi, ma forse lo sguardo è sopito verso la vera bellezza e sarebbe cosa buona assecondare il desiderio di penetrazione dell’interiorità. Scoprire e riconoscere tanto le proprie peculiarità quanto le proprie mancanze non è certamente sintomo di incompletezza, semmai è indice di una persona in ricerca. E laddove ciò avviene attraverso la formazione e per mezzo della fede, tutto si illumina di una luce diversa e il chiarore rischiara ogni ombra. Con le rubriche ci addentriamo in un’ulteriore stimolante riflessione che, partendo dalla partecipazione al Sinodo dei Giovani e dai suoi esiti, attraversa il carattere «ludico» della teologia – Dio, per mezzo del Figlio, ha vinto per noi – sino a giungere all’urgenza di superare gli errori del clericalismo e del neoliberismo.

Tem volenihilia pra volupta dolorisitiae nus voluptas inis velias et et laboratem fugita et quam dolutem core pre eum, quis apedi corianit, non ra qui con cullorrori offic tes ipsapis eatemporem di cum rerum venis porrore scius, con re estruntiore non nimusa volla audic te qui dolore ilique nonsente vit explabo rerunde nihicit vel idem accabo. Nem et dissiminum faccabo rumquisquas delest fugit quunt reptasperem alignieniet quid que prore, ut res maio. Nam doluptam excest, consequam voluptur, odist resti blatemq uatempo rporum eatet volluptatia doluptas explabore am fugiae name sum unt faccusam, corum fuga. Berem qui ommodipient et, nat landus vollendi voluptate comnihi tatur, conseque eium ea suntibus ulpario nseria si re corro quam, quistia quuntem con exceatem ne maximin nem la dolor ad ulles atureperatem ipicipsus cus. Cium cone nim a conet doluptiatum aute consequis expere cum ressum nostibus dest qui imus, is quodit rerio vit voluptiam incte est, ent. Ovide quos doluptate nia veles experum quatessitat moluptas reicia volorio. Ita nosam, te pedit volo blatior eptasiti blauta nus porume nulparia ene sunt omnihillam, quatium eatis doluptatem et mint lit, con rehenimaios excerisit fugiatem. Ceperferat essinto essit, untenihillab incimpos asi commolo ribusda ndamus nat. Hariassimin pa prem quam vera si cum haruptaquo magnam, quos enditem fugiat facepero exerro que imus. Que qui voluptiam, nobitat

Dibattito Menzogna « È possibile mentire? »


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Chi è senza menzogna è un mentitore di Immacolata Giuliani e Fabrizio Mignacca

“una bugia non è altro che una mancata verità che è arrivata per uno scopo preciso e alla quale abbiamo creduto solo quando eravamo disposti a credere”

Se l’uso della menzogna è così diffuso e codificato nel comportamento umano dobbiamo considerare due variabili principali: la menzogna aiuta a vivere; la menzogna ha bisogno di un pubblico che l’accetti. Al di là della moralità e dell’etica c’è il mondo reale, con le sue mille fenomenologie e l’eterogeneità che lo costituisce. Per ogni bugiardo c’è uno disposto a credere, per ogni bugia c’è un vantaggio anche per chi l’ascolta. Questa è l’unica e pura verità. Siamo nel territorio del grigio, nel territorio della valutazione del grigio perché siamo esseri umani. Di questo dobbiamo farcene carico riconoscendo il fatto che una bugia non è altro che una mancata verità che è arrivata per uno scopo preciso e alla quale abbiamo creduto solo quando eravamo

disposti a credere. C’è una precisa volontà di chi crede, una precisa intenzione che soddisfa un bisogno, un preciso desiderio. La pura e semplice verità non è mai accettabile se non a costo spesso, di lacrime e sangue, di atti dolorosi dei quali non possiamo prenderci né responsabilità, né volontà. La cosa che sfugge maggiormente è l’importanza della menzogna, per prima cosa a se stessi. Questa va di pari passo con l’inconsapevolezza di sé. Winnicott aveva teorizzato l’esistenza di un falso Sé, ovvero una modalità comunicativa propria dell’holding materno in cui la madre tende a comunicare in funzione dei propri bisogni e non in funzione a quelli del figlio. La risposta del figlio è quindi di dare un senso a queste “iniziative” creando una modalità “ac-

condiscendente” in cui il “vero Sé”, ovvero il gesto spontaneo del neonato, viene sostituito per assecondare i bisogni della madre e non quelli reali. Una bugia che fa stare meglio che si trasformerebbe poi in un universo comportamentale più costellato in cui la menzogna diventa la fonte per rendere felici gli altri e non la ricerca spontanea della propria realizzazione. È un meccanismo profondo ed involontario che secondo Winnicott si svilupperebbe in fase primaria: accondiscendere mentendo su quelli che sono i reali bisogni. In tal senso c’è un principio di raccordo con quanto Jung teorizzava circa l’emersione alchemica di stati comportamentali che spesso però erano motivati dall’opposto. Un profilo di bontà manifesta – di accondiscendenza – ha sempre in opposizione una spinta contraria che motiva il primo. Il meccanismo è complesso nella sua semplicità, ma molto spesso per raffigurarlo usiamo la metafora dell’iceberg. Ciò che viene mostrato è solo una parte infinitesimale del “sommerso” ed esso è motivante, assolutamente catturante e spesso dirige la reale volontà del soggetto che mente. Proprio il fatto che la menzogna sia una mancata verità o una verità che permette di raggiungere i propri scopi, essa può definirsi come azione puramente umana e quindi assolutamente normale. Non esiste una persona che dica sempre la verità e chi lo fa evidentemente vive in un mare di menzogne.

Non può esistere, in assoluto, una verità scientifica o una verità fideistica perché alla base c’è sempre la ricerca e la ricerca smentisce o integra le conoscenze di prima. Se si ragiona per assoluti dobbiamo pensare che la realtà stessa sia una menzogna, una rappresentazione fallace che viene tradotta dai nostri sensi. Ciò che percepiamo è definito secondo un complesso di convenzioni che definiscono gli oggetti. A questo non si può sfuggire, tanto che nella Genesi anche Adamo dà i nomi alle cose, ma esse rappresentano una verità umana. Non a caso Adamo è Umanità. Ciò sta a significare che ogni tipo di verità o conoscenza acquisita è puramente transitoria e assolutamente mutabile perché puramente umana. La percezione umana è fallace in quanto è scientificamente provato che l’oggetto percepito, qualunque esso sia, è modificato a livello strutturale dalla luce. È il cosiddetto “paradosso Realistico” ovvero quel principio scientifico secondo il quale la realtà non è indagabile, ma stimabile. Al di là infatti dei modelli fisici, la vera e propria stima della scientificità della realtà è la statistica, ovvero il livello di validità ed attendibilità di una misura che confermerebbe l’esistenza di un fenomeno. Anche qui il termine fenomeno va preso proprio in antitesi con il noumeno. Qualsiasi forma reale è quindi percettivamente una menzogna. Il paradosso qual è? Esso è l’assurdo secondo il quale solo

“non esiste una persona che dica sempre la verità e chi lo fa evidentemente vive in un mare di menzogne”


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13 la menzogna è vera. Ciò che è riconosciuto come falso è vero (o veramente falso) ed esso rappresenta quasi un postulato se non fosse per quella natura umana che rende soggettivi anche i postulati. Freud stesso affermava che la menzogna è parte dell’esistenza, ovvero, per usare un termine contemporaneo, ontogenetica. Legata, insomma, alla vita stessa. Tenendo una linea dura rispetto all’universalità di questo concetto, si spingeva fino ad arrivare a dire che tre erano le grandi menzogne: la religione, la filosofia e l’arte. Bisogna pensare che Freud nasce in un contesto culturale estremamente positivista e quindi legato ad un rigore pseudoscientifico che di per sé era menzognero.

“la nostra essenza è in San Pietro e nelle sue bugie, nella menzogna e nel diniego”

Però bisogna andare oltre, perché le sue conclusioni non hanno un valore di bene o di male, di giusto o di sbagliato, ma semplici costatazioni di quel fenomeno che in seguito sarebbe stato chiamato “compensazione”. La compensazione aiuta la vita e l’esistenza. La compensazione crea la comunicazione e l’espletamento dei bisogni attraverso il meccanismo di difesa. L’abbattimento è deleterio, come affermava Fritz Perls, e spesso la scelta migliore è nella consapevolezza delle proprie menzogne. Questo purtroppo è quel che spesso è evidente in un contesto di cura di tipo psicoterapeutico ed è quello che nell’assoluto fonda ogni tipo di relazione umana. Quindi viene da dire che sicura-

mente la direzione si nasconde nelle parole di chi ha il senno di palare sapendo, fino ad arrivare all’assoluto di chi ha avuto il Verbo per esprimere ciò che di divino esiste immanentemente intorno a noi. Ma la nostra essenza è in San Pietro e nelle sue bugie, nella menzogna e nel diniego; la sua umanità è quella che possiamo scoprire in ognuno di noi quando preferiamo la menzogna. Rifugiarsi nella morale serve a poco finché non sarà vera quella frase, così semplice e sfuggente che recita: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra».

È davvero possibile mentire? di Michele Ambrogio Lanza

Tenendo da parte il problema della possibilità logica della menzogna, cioè tralasciando la soluzione al “paradosso del mentitore”, cerchiamo di rispondere al quesito con una ricognizione storica del problema. Le principali soluzioni all’enigma della liceità della menzogna sono classificabili, con molta approssimazione, in due macrocategorie: quella “etica” e quella “politica”. Probabilmente la più accurata risposta di tipo etico (anche se nelle intenzioni dell’autore essa è anche “politica”) è quella teorizzata da Kant, con la sua formulazione dell’imperativo categorico. Il filosofo tedesco “perfeziona” (soprattutto nella Critica della ragion pura) il motto “non fare agli altri quello che non vuoi essere fatto a te stesso”, riformulandolo in forma affermativa e traendo da esso ogni norma comportamentale. Nella versione kantiana esso

suona come “Agisci come se la tua massima possa essere universalizzabile”. Da questo principio discendono tutte le norme etiche, tra cui il dovere di dire la verità. Per Kant non è lecito mentire, perché la veridicità di una proposizione non è a disposizione dell’individuo, poiché essa è un dovere che va al di là della volontà del parlante. Inoltre la massima che porterebbe a mentire, cioè ad esempio: “Mentire per salvare gli amici”, non è universalizzabile, perché nessuno potrebbe, in coscienza, volere che gli altri,amici o nemici, gli mentano. A questa posizione kantiana si contrappone l’opinione di Constant, filosofo e politico francese protagonista della Rivoluzione. Egli polemizza direttamente con Kant, attaccandolo a partire da posizioni“politiche” o di “buon senso”. È infatti assurdo, per


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“le principali soluzioni all’enigma della liceità della menzogna sono classificabili in due macro-categorie: quella etica e quella politica”

15 lui, che un individuo debba dire la verità anche a chi vuol fare del male a lui o ad altri. Inoltre, da politico,sa che nella diplomazia è fondamentale nascondere ciò che si sa e che, talvolta, può essere “utile” mentire. Egli prova a tener conto delle conseguenze dell’azione, cioè ad usare, quasi come gli utilitaristi, un principio a-posteriori. Afferma infatti in Des reactions politiques che può essere fuorviante formulare un principio universale, da cui dedurre tutte le norme eticopolitiche. Infatti anche i migliori principi vanno integrati con altri principi, in modo tale che si spieghino a vicenda. Affermare che mentire è sbagliato, perciò, non basta. Questo principio è vero, ma è anche vero che esso debba essere “spiegato” alla luce di altri principi, come la fedeltà agli amici, l’onore e altri. Constant non rinuncia ai principi, come farebbe un’utilitarista, ma li moltiplica! La sua argomentazione segue questa norma: “Dire la verità è un dovere, ma solo verso coloro che meritano la verità”. Kant però boccia l’argomentazione del filosofo francese in “Su un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità”, partendo, e questa è la sua forza, da considerazioni di tipo logico. Dire che l’uomo ha diritto alla verità, ma non sempre, significa far dipendere la veridicità delle proposizioni dalla volontà del soggetto ed è assurdo. Inoltre sulla base di cosa si potrà conoscere con sicurezza chi ha diritto alla verità?

Constant non lo spiega, né può farlo, perché è impossibile, partendo dalla sua formulazione, trovare un principio a-priori, ma si possono soltanto esibire giustificazioni a-posteriori, meno sicure e scientifiche. Ed è proprio questo il vulnus dell’argomentazione del “multi-principio” e, in generale, di quanti si affidano a criteri a-posteriori. Inoltre Kant ammette che è vero che, nella situazione in cui si menta per salvare un amico, lo si fa pensando a cosa potrebbe accadere in caso di risposta veritiera, ma è anche vero che, quando si mente, si fa una scelta che ci rende responsabili di tutte le conseguenze della nostra azione. Dire la verità, invece, non è una scelta, poiché semplicemente si risponde ad un dovere fondamentale. Per spiegare questo principio Kant usa il seguente esempio: immaginiamo che un uomo stia chiuso in casa e si nasconda dai nemici e che un suo amico lo sorvegli. Ad un certo punto i nemici arrivano e domandano al sorvegliante se il suo amico è in casa. Il sorvegliante opera una scelta, disobbedisce al dovere e mente, dicendo che non c’è nessuno in casa. Nel frattempo il suo amico, sentendo arrivare i nemici, salta fuori dalla finestra per scappare e viene scoperto. Per Kant è chiaro che la responsabilità della cattura, o comunque di ogni conseguenza della menzogna, è della menzogna stessa, della scelta operata dall’uomo. Può apparire un esempio debole, ma il punto è che, per Kant,

non si è responsabili quando si dice la verità, poiché si risponde ad un dovere. Dunque se, senza la menzogna, ci dovessero essere conseguenze spiacevoli, esse non sono da attribuire al soggetto che non ha mentito, perché non poteva mentire, ma al soggetto che ha causato le conseguenze spiacevoli. Si potrebbe, però, osservare che questo tipo di logica assomiglia a quella di Pilato, famoso per non assumersi responsabilità. Nel nostro mondo, caratterizzato dalla menzogna ad ogni livello e, teologicamente, dal peccato, il modo di pensare kantiano avrebbe l’unico risultato di essere giusto, ma senza concludere nulla di “buono”, salvando solo la coscienza individuale. A questo punto vale la pena richiamare il famoso “bilancio” weberiano tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, dove la prima è costituita dal dovere di dire la verità e la seconda dalla necessità di valutare le conseguenze. L’applicazione di questo principio però non può prescindere dallo spostamento della “veridicità” dalle singole proposizioni al generale comportamento umano. Se dovessimo essere “veridici” per ogni nostra parola, non potremmo usare il bilancio weberiano. Viceversa sostituendo “l’autenticità” del comportamento alla “veridicità” delle proposizioni questo diviene possibile. Si possono dunque utilizzare a questo punto le armi della retorica

per essere“autentici” senza dire sempre la verità o almeno senza dirla con chiarezza, come nella Dissimulazione onesta di Torquato Accetto. In conclusione se è vero che non è possibile rendere ragione in maniera scientifica della menzogna (cioè non è possibile andare oltre Kant) è anche vero che si “deve” andare oltre Kant, prendendo su di sé le conseguenze delle proprie azioni, anche le menzogne, perché ciò che costituisce l’uomo più in profondità è il suo essere responsabile, a partire dal peccato originale.

“ciò che costituisce l’uomo più in profondità è il suo essere responsabile”


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Dibattito Crisi della Democrazia « La democrazia è davvero in crisi? »


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Rilanciare la democrazia: la proposta di Francesco di Rocco Gumina

«Ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo». (Francesco, Discorso al II incontro dei movimenti popolari)

Ormai da qualche anno, gli studiosi – insieme ai giornalisti e ai cittadini più o meno attenti – si sono accorti della crisi che colpisce il sistema democratico generato dal mondo occidentale tramite la rivoluzione americana e quella francese del XVIII secolo. Secondo molti osservatori, l’ultimo risvolto della crisi della democrazia porta il nome di populismo. Dal primato americano annunciato da Donald Trump allo strano nazionalismo gialloverde operante in Italia, il popu-

lismo ha mostrato come i partiti siano divenuti dei banali cartelli capaci di aggregare solo sulla base delle paure dei cittadini. Il fossato fra il “noi” delle tendenze populiste e il “loro” configurato dall’establishment è talmente delineato che i vari leader eletti a governare permangono in una continua campagna elettorale che li pone, si veda il caso italiano, come anti-Stato anche se primi rappresentanti dello stesso. Se è vero che nella moderna democrazia, quando si avvicinano le elezioni, i partiti diventano un po’ tutti populisti, è maggiormente veritiero che oggi il problema sia un altro, come afferma molto acutamente Nadia Urbinati, cioè: «l’insofferenza nei confronti dei corpi intermedi, che sono descritti come generatori di élite o caste […] fatti contro ideologie; cittadini contro leader dei

partiti. All’opposto, i cittadini e i rappresentanti pretendono di essere in diretta relazione»1. Possiamo dedurne che il populismo sia una degenerazione della democrazia la quale da un lato interpreta il popolo come un tutto organico ideale anziché pratico-organizzativo; dall’altro è una scarpa che può essere calzata da piedi diversissimi e perciò difficile da delineare in modo preciso. Infatti, tale fenomeno – tanto politico quanto culturale e sociale – risulta essere una sorta di reazione agli esiti negativi di una certa globalizzazione, allo sviluppo incontrollato e perciò non totalmente capito della tecnologia, alla fulminea e oppressiva diffusione dei social in grado di materializzare la voce del popolo ma non di aggregare comunità. Quindi, a parere di Sergio Fabbrini, il populismo ha dato voce all’ansia prodotta dalla crisi economica internazionale, ha riproposto in modo strumentale le identità culturali e religiose, ha ripreso le teorie sovraniste e nazionaliste ormai superate dal procedere della storia perciò «è necessario rafforzare i guardrails affinché la democrazia non esca di strada»2. Insomma, la degenerazione della democrazia occidentale – che trova pieno e ulteriore sviluppo nel populismo – ci conferma come 1 N. Urbinati, Su democrazia e popolo, in il Mulino 2(2018), 333. 2 S. Fabbrini, Il populismo e il pericolo dei movimenti «contro», in Il Sole24ore edizione online 4/08/2018.

la politica non sia capace ormai di progettare ed operare poiché tutta impegnata ad ammansire e a gestire gli elettori con il doppio registro della paura e della speranza. Da molte parti giunge l’esigenza di un cambio di passo. Il magistero sociale di Papa Francesco potrebbe configurarsi come una possibilità – culturale ancor prima che politica – per superare le secche populistiche nelle quali è piombata la democrazia occidentale. Il vescovo di Roma parte dalla consapevolezza che nel nostro tempo bisogna rivitalizzare le democrazie attraverso una partecipazione che possa includere i singoli cittadini, i corpi intermedi, i vari movimenti popolari. Tale pratica è destinata ad avviare un processo di cambiamento in grado di superare un sistema istituzionale atrofizzato e formale che ha quasi del tutto perso sia la capacità rappresentativa sia la tensione alla ricerca del bene comune. Così, per Francesco, è fondamentale tornare a riflettere sulla vocazione dei cittadini la quale culmina sempre in una dimensione politica cioè nella chiamata «a costruire con altri un popolo-nazione, un’esperienza di vita in comune attorno a valori, cause e sogni condivisi».3 Quindi, secondo il Papa, il cittadino è un convocato alla costruzione di una società tesa continuamente a garantire 3 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini. Noi come popolo, Jaca Book, Milano 2013, p. 47.

“rivitalizzare le democrazie attraverso una partecipazione che possa includere i singoli cittadini, i corpi intermedi, i vari movimenti popolari”


20 Nipoti di Maritain

21 la libertà e la giustizia per ogni uomo. A parere di Francesco, i primi protagonisti della riforma dell’odierna prassi democratica occidentale sono destinati ad essere i poveri i quali lavorano, si organizzano, studiano e lottano per denunciare le cause della povertà, l’assenza di lavoro e la negazione dei diritti personali e sociali che riguarda milioni di uomini. I poveri sono i primi a dover alimentare le attese e i concreti processi volti al cambiamento. Infatti, rivolgendosi ai movimenti popolari, Francesco afferma che «il futuro dell’umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana della terra, della casa, del lavoro e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento»4. Nel magistero sociale di Bergoglio, tre sembrano essere le priorità tematiche necessarie al rilancio della democrazia: la tutela del lavoro, il rispetto per l’ambiente, l’accoglienza dei migranti. Difatti, il lavoro è legato alla dignità umana e permette una partecipazione economica, morale e sociale della singola persona all’interno della comunità politica. La tutela dell’ambiente è sinonimo del rispetto per la casa comune la quale non può essere sfruttata e depredata all’infinito. 4 Francesco, Discorso ai partecipanti al II incontro mondiale dei movimenti popolari, 9 luglio 2015.

L’accoglienza dei migranti, oltre all’adempimento del dovere di solidarietà dinanzi ai diritti dei sofferenti, è la concreta possibilità per l’Occidente di integrare culture, tradizioni, religioni ed etnie capaci di arricchire la nostra società. Infine, secondo Francesco, il rilancio della democrazia ha bisogno del contributo del cristianesimo il quale – con il suo rivoluzionario programma esistenziale fondato sul comandamento dell’amore – può avere un’importante rilevanza sociale, politica, culturale ed economica. Ciò non significa fondare un partito cattolico ma che i credenti, sulla scia della loro chiamata alla santità, devono immischiarsi in politica poiché questa, per il vescovo di Roma, è una sorta di martirio volto a «cercare il bene comune senza lasciarsi corrompere. Cercando il bene comune pensando le strade più utili per questo, i mezzi più utili. Cercare il bene comune lavorando nelle piccole cose. Fare politica è importante: la piccola politica e la grande politica. Nella Chiesa ci sono tanti cattolici che hanno fatto una politica non sporca, buona»5.

5 ID., Incontro con le Comunità di vita cristiana e la Lega missionaria studenti d’Italia, 30 aprile 2015.

Seguendo il ciclo di Polibio: l’Europa odierna e l’oclocrazia di Christian Alberto Polli La democrazia è in crisi? Seguendo le dinamiche internazionali e nazionali, e comparandole con i principi costituzionali di tutte le potenze che sfoggiano una costituzione democratica rappresentativa, posso rispondere, con coscienza tranquilla, che la democrazia “si sta trasformando”, da qualche decennio a questa parte, in qualcosa che non è più la democrazia intesa classicamente come “governo del popolo”, quanto piuttosto come la rappresentazione di un’evoluzione (o involuzione) dell’istituzione stessa verso un modello costituzionale che ne non rispecchia più l’etimologia stessa. Tale cambiamento di costituzione all’interno di uno Stato (l’anaciclosi) fu elaborato già dal pensiero greco e in particolar modo da Aristotele, il cui pensiero politico fu perfezionato dallo storico d’età ellenistica Polibio il quale, nel sesto libro delle Storie, riprese le forme “positive” di governo aristoteliche (monarchia, aristo-

crazia e democrazia) alternandole alle rispettive degenerazioni da lui individuate (tirannide, oligarchia e oclocrazia). Seguendo la scia di Polibio, dunque, non possiamo che constatare la degenerazione della democrazia nell’oclocrazia (letteralmente, «il governo delle fogne») dovuta, secondo lo storico greco, alla mancanza di riconoscimento del «valore all’uguaglianza e alla libertà di parola»1 da parte delle generazioni che non hanno vissuto l’oligarchia, facendo sì che i ricchi, per giungere ai posti di potere nell’ordinamento democratico, cominciarono ad usare le loro ricchezze «per attirare e corrompere le masse» le quali, corrotte, «realizza[no] il dominio della forza compie[ndo] stragi…finché, ridott[e] in uno stato bestiale, non trova[no] di nuovo un despota e un monarca», ritor1 La traduzione dei passi tratti dal sesto libro delle storie di Polibio è a cura di Domenico Musti. Cfr. Polibio, Storie, VI, BUR, Milano 2012, p. 23.


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23 nando così alla prima forma di governo, la monarchia.

“svuotamento della portata del corpo elettorale a favore di forze esterne quali la finanza e organismi sovranazionali di varia natura”

La scia gettata da Polibio, ripresa in età moderna da Machiavelli nei suoi Discorsi, può essere utile per una comprensione “empirica” della crisi democratica attuale dell’Occidente. Uno spunto ci viene dal politologo e storico Massimo Luigi Salvadori nel suo saggio Democrazie senza democrazia2 in cui, dopo aver ripercorso il cammino democratico in Occidente, arriva a parlare di «governi a legittimazione passiva», governi caratterizzati dallo svuotamento della portata del corpo elettorale a favore di forze esterne quali la finanza e organismi sovranazionali di varia natura. La crisi individuata da Salvatorelli, seppur con sfaccettature e gradazioni diverse a seconda dei vari Paesi occidentali analizzati, è di carattere generale e ricorda, a mio avviso, da vicino quella in cui versò il Vecchio Continente in seguito al primo conflitto mondiale, allorché scioperi operai, rivendicazioni revansciste, entrambe accompagnate da un senso di profonda sfiducia verso le istituzioni governative, sconquassarono l’establishment liberal-democratico provocandone, nella maggior parte delle Nazioni dell’Europa Centrale ed Orientale, la caduta. Soltanto Paesi dalla solida tradizione democratica e liberale (Regno Unito, Francia e Paesi 2 M.L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Editori Laterza, Roma-Bari 2009.

del Nord-Europa) resistettero al crollo. Cerchiamo allora di individuare i punti che, insieme, generano il minimo comune denominatore di questa crisi democratica odierna, prendendo spunto dal saggio di Salvatorelli e arricchendolo con alcune mie considerazioni: 1•Lo stato di malessere di una Nazione, ovvero il background socio-politico ed economico che, più o meno cronico, inficia la fiducia dei cittadini nel sistema politico costituito. In quest’epoca, la grande crisi economica che ha investito il mondo intero dal 2009 e che ha colpito in particolar modo Stati già in condizioni precarie, ha ulteriormente raggelato il rapporto tra i cittadini e le istituzioni, viste come incapaci di approntare ricette economiche in grado di rilanciare l’economia nazionale. 2•La presenza delle già citate forze “estranee” alla volontà popolare che, esercitando la propria influenza sulla vita politica di un Paese, accrescono lo stato di malessere dell’elettorato che si vede “defraudato” della propria influenza sulle istituzioni parlamentari. Si veda, a mo’ di esempio, gli slogan dei movimenti populisti anti-europeisti e che denunciano la “tirannia” di Bruxelles sulle decisioni dei singoli Stati nazionali. 3•In aggiunta ai due punti precedenti, si può aggiungere di conseguenza anche lo stato di

salute “morale” delle istituzioni rappresentative stesse: una partitocrazia più o meno marcata, in cui al merito si lascia il posto al clientelismo più abietto, è sintomo di una degenerazione della democrazia stessa, come già segnalato dal democristiano Pietro Scoppola nella sua produzione saggistica3 e che ricorda la degenerazione del popolo espressa da Polibio. 4•Se i primi tre punti sembrano parlare di un’ottica geopolitica limitata (all’Italia o ai Paesi del Sud Europa), con questo punto possiamo estendere il nostro sguardo all’intero Occidente, in quanto ora intendo affrontare un fenomeno di costume dettato in parte dalla globalizzazione, ovvero: una mancata (o non adeguata) educazione “civica e storica” verso le nuove generazioni e il venir meno di sano amor di Patria; un disinteresse progressivo verso ciò che è comunitario a favore dell’interesse meramente privato, ritenendo che le conquiste democratiche siano “eterne e intoccabili”; un permessivismo etico-giudiziario che genera ed è al contempo dettato da un liberalismo etico che inficia le basi della società stessa, come avviene anche in Paesi dalla forte connotazione liberaldemocratica come quelli del Benelux o dell’area scandinava. Con queste considerazioni non 3

Faccio riferimento, in particolar modo, a La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, Il Mulino, Bologna 1997.

intendo invocare regimi autoritari, quanto rimarcare il principio identitario secondo il quale una comunità si identifica necessariamente in un determinato regime di valori imprescindibili e non negoziabili. Valori che sono venuti meno, esattamente come nell’oclocrazia polibiana. Quindi, se dal punto di vista strettamente politologico ed economico (ovvero i primi tre punti) la crisi democratica sembra colpire quelle stesse Nazioni che, come negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, degenerarono in regimi autoritari o in dittature, la crisi etico-formativa investe Paesi dall’apparente e solida tradizione democratica come Francia, Regno Unito o i Paesi del Nord-Europa. La crisi europea sembra evolversi dunque su due binari diversi: se in queste ultime realtà la degenerazione della democrazia avverrà fra una o due generazioni al massimo, come conseguenza dell’apatia educativa più volte ricordata, nei Paesi in cui la crisi economica ha avuto i suoi effetti più devastanti e vede già la degenerazione del sistema democratico a causa di tale apatia educativa e della corruzione del sistema democratico, la democrazia in quanto tale è già finita.

“nei Paesi in cui la crisi economica ha avuto i suoi effetti più devastanti la democrazia in quanto tale è già finita”


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Crisi del liberalismo, non della democrazia di Andrea Virga

“distinzione tra la democrazia come forma di governo e la democrazia come ideologia”

Se parliamo di crisi della democrazia, dobbiamo però fare prima un poco di chiarezza su questo concetto. Sarebbe storicamente inesatto e politicamente pericoloso, infatti, identificare la democrazia con la democrazia liberale, implicando dunque che non sia possibile altra forma di governo popolare che non obbedisca ai criteri ideologici del liberalismo. Che cos’è dunque la democrazia? Secondo il dizionario1: è una «forma di governo in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi», ma è anche «la dottrina stessa, come concezione politico-sociale e come ideale etico, che si fonda sul principio della sovranità popolare, sulla garanzia della libertà e dell’uguaglianza di tutti i cittadini». Sussiste quindi una distinzione tra la democrazia come forma di governo e la democrazia come ideologia, che 1

http://www.treccani.it/ vocabolario/democrazia/

contribuisce a confondere le acque. La prima, in epoca premoderna, è associata principalmente all’esperienza dell’Atene classica, ma ha visto un’ampia diffusione anche in epoca medievale, nei vari comuni urbani (Italia in primis) e rurali (es. cantoni svizzeri, Stato libero d’Islanda), prima di cedere a una centralizzazione del potere in senso oligarchico e/o monarchico, o i contesti tribali (es. la confederazione irochese). In tutti questi casi il potere politico era gestito principalmente dal popolo, anche se questo era spesso limitato ai maschi liberi, spesso con modalità di democrazia diretta. Sul secondo punto, resta irrinunciabile il saggio di Canfora2 che ricostruisce le vicende di questa parola e il significato che essa ha assunto man mano nel corso della storia politica occi2 Cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2008.

dentale. In particolare, lo storico dell’antichità ha messo bene in luce come questo termine sia sempre stato un po’ “scomodo”, in quanto associato ad un eccessivo potere e arbitrio delle masse popolari. Questa concezione emerge non solo nelle posizioni aristocratiche di Platone, ma anche nel discorso messo in bocca allo stesso Pericle, per non parlare dell’epoca moderna. Gli stessi rivoluzionari francesi – nota Canfora –, nel mezzo di un’esperienza considerata la matrice della democrazia moderna, preferivano parlare di repubblica e di libertà, ed era quest’ultimo concetto che Alexis de Tocqueville opponeva alla democrazia. Solo a partire dagli anni ’20-’30, il mondo liberale abbraccia e fa proprio il concetto di democrazia, in opposizione, ideologica ma anche soprattutto morale, ai c.d. totalitarismi comunista e fascista. Oggi, esso continua a rivendicare l’esclusiva sul termine, adottando criteri formali sempre più stringenti. Questi criteri però non sono di per sé democratici, bensì liberali. Il loro fine non è garantire la piena partecipazione popolare alla politica, ma introdurre un sistema di checks and balances che, all’atto pratico, limita il potere politico detenuto dalle istituzioni elettive. Essi sono, infatti, confacenti al mantenimento dello status quo liberale. L’apparente divisione dei poteri, ad esempio, è in realtà svuotata del suo significato teo-

rico, nel momento in cui i principali partiti politici, la magistratura, la stampa, la burocrazia condividono de facto una medesima impostazione ideologica. Peggio ancora, questa rivendicazione si traduce nell’arrogarsi il primato morale e il diritto a demonizzare e sanzionare sia i propri avversari geopolitici (es. la Russia), sia i dissidenti interni (es. l’Ungheria). L’evidenza di questa ipocrisia è uno dei fattori che contribuiscono, insieme all’insufficienza delle risposte verso la crisi economica e sociale, alla grave crisi politica che segna le democrazie occidentali, con l’irruzione sulla scena politica di forze populiste di destra e di sinistra. E qui arriviamo finalmente alla domanda del titolo: la democrazia è in crisi? Il quesito sorge proprio dall’equivoca confusione tra liberalismo e democrazia. Il populismo euroamericano, infatti, attacca lo status quo liberale, anche se quasi sempre solo in termini relativi, senza mettere in discussione né la forma di governo costituzionale, né l’economia di mercato, né l’orientamento geopolitico atlantista. Esso torna a impugnare slogan prettamente democratici, come la sovranità nazionale e popolare, la partecipazione diretta e immediata alla gestione della cosa pubblica. Accostare il populismo al neofascismo, dunque, è tanto con-


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“la crisi di legittimità riguarda essenzialmente il liberalismo”

27 troproducente quanto errato. Rileva giustamente il politologo Marco Tarchi, studioso del fenomeno3, che mentre il secondo è apertamente antidemocratico e antiborghese e rivendica il primato del soldato politico superiore alla massa ignava, il primo invece rappresenta l’uomo qualunque, diffidente verso la politica di professione e le presunzioni di superiorità, che pretende maggiore sicurezza e stabilità e minori sprechi e inefficienze. In effetti, se consideriamo la situazione globale, la crisi di legittimità riguarda essenzialmente il liberalismo, dal momento che le sue contraddizioni e i suoi limiti emergono in maniera tanto più palese, quanto più esso si libera dei fattori mitiganti in senso socialdemocratico e conservatore che lo avevano spesso temperato in passato. Il liberalismo godeva di ottima salute, fintanto che l’economia liberalcapitalista cresceva, le misure progressive assicuravano un buon livello di redistribuzione della ricchezza e di assistenza sociale, e un pizzico di buonsenso “reazionario” si preoccupava di regolare i flussi migratori e tutelare le identità diffuse. Nel momento in cui, però, l’economia occidentale è in grave crisi, e le classi dirigenti liberali, anziché adottare le misure keynesiane che salvarono le 3

Cfr. M. Tarchi, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, Il Mulino, Bologna 2015.

democrazie negli anni ’30, insistono col portare alle estreme conseguenze la rivoluzione neoliberale degli anni ’80, negando ideologicamente la realtà, è evidente che i risultati siano quelli che abbiamo sotto gli occhi. Oserei affermare che, tutto sommato, se la stanno cavando ancora a buon mercato, in relazione alle proprie gravi responsabilità. I nemici del liberalismo, infatti, non stanno riesumando le vecchie ideologie anti-liberali – neofascisti e neocomunisti (con qualche eccezione) continuano ad essere forze marginali – ma invocano più sovranità e più partecipazione popolare. Anche fuori dall’Occidente, del resto, forme di democrazia nonliberale tendono a prevalere rispetto ai regimi autoritari o dittatoriali tradizionali. Iran, Turchia e Russia, ad esempio, dal punto di vista istituzionale, sono molto più vicini alle democrazie occidentali, che non a dittature mono-partitiche. Persino i regimi comunisti come quello cinese o cubano hanno conosciuto tutta una serie di aperture nel corso degli ultimi trent’anni, al punto che non possono più essere definiti “totalitari”, nel senso novecentesco del termine. Insomma, se il liberalismo è in crisi, è proprio perché i popoli, i démoi, sono sempre più desiderosi di difendere la propria sovranità e la propria identità, rispetto alla pretesa universalista (questa sì, totalitaria) dell’Occidente liberale.

Fisiologia e patogenesi della democrazia di Mattia Lusetti

La crisi della democrazia può esser data per ovvia considerando il recente sorgere di proposte per limitarne alcuni tratti essenziali, primo tra tutti il suffragio universale, per esempio quella di un’“epistocrazia”1, cioè un sistema di governo nel quale il voto di chi mostra maggiore conoscenza politica vale più di chi ne è privo. Una certa lettura della democrazia non può che vedere nei regimi autoritari il principale ostacolo alla sua affermazione, in quanto intende l’essenza democratica come qualcosa di negativo/dialettico ovvero come la costante distruzione di rapporti di potere oligarchici: così Zagre1

Cfr. l’intervista a Jason Brennan: https://www.vox. com/2018/7/23/17581394/againstdemocracy-book-epistocracy-jason-brennan.

belsky ad esempio2. Ogni volta che un potere diviene troppo grande, ecco che il democratico deve sorgere per combatterlo. D’altra parte una simile visione giustifica quasi l’idea per la quale la democrazia abbia bisogno dell’oligarchia e dell’autoritarismo come propria nemesi per sussistere in maniera vitale. La politica arrabbiata e aggressiva degli ultimi tempi giustifica questa visione e d’altra parte è anche il segno che tale visione è limitata e incapace di offrire lumi in questa crisi. Cos’è dunque la democrazia? La democrazia è il governo del 2 Cfr. G. Zagrebelsky, Contro la dittatura del presente: perché è necessario un discorso sui fini, Laterza, Roma – Bari 2014.


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“il principio cristiano dell’essenziale uguaglianza di tutti gli uomini è la matrice di senso del movimento che ha portato alla partecipazione decisionale attiva”

29 popolo, e il governo di tutto il popolo data una porzione di territorio ovvero una nazione. Rintraccerei, tra i tanti, due elementi fondanti della democrazia moderna che ritengo essenziali. Il primo è il riferimento all’aurea democrazia ateniese, il caso per eccellenza di democrazia diretta nella quale ogni cittadino aveva la possibilità di esprimersi e di decidere circa ogni questione riguardante la polis. Il passaggio dalla democrazia diretta a quella rappresentativa, che per alcuni potrebbe ammettere un cammino all’indietro, lo ritengo qui trascurabile per la diagnosi (e prognosi) a cui intendo arrivare. Il secondo elemento è in realtà recentissimo ed è quello per il quale va ritenuto cittadino (potenzialmente) ogni persona umana nata o vivente in una nazione, uomo o donna che sia, ricca o povera, istruita o ignorante, credente o atea. Il suffragio universale in Italia è del 1946 e prima solo i maschi, e di un certo censo, erano parte effettiva del governo democratico. Dati questi princìpi fondamentali si può intravvedere un’effettiva crisi della democrazia non quando soltanto di fatto siano in crisi le applicazioni concrete degli stessi princìpi, per esempio per il diffondersi di regimi parzialmente o totalmente autoritari, o le limitazioni di accesso alla cittadinanza. Beninteso che quando sono in gioco queste crisi di fatto esse vanno ritenu-

te pericolose per chi è convinto della bontà della democrazia, soprattutto per le violazioni dei diritti degli esseri umani coinvolti. Tuttavia anche in questi casi accade spesso che coloro che violano la democrazia cerchino di accreditarsi come democratici e di distorcere i fatti in maniera da far apparire democratica una forma di governo che non lo è, o giustificata una limitazione all’accesso alla cittadinanza. La crisi diventa crisi essenziale – e ci siamo dentro – quando anche i princìpi vacillano, come nel caso delle proposte epistocratiche. Tale crisi di princìpi si fa tanto più evidente in quanto si manifesta a partire da sfere di pensiero contrapposte: dalle forze progressiste liberali a quelle “conservatrici” molte voci si levano contro il suffragio universale in specie e la democrazia in genere3. In particolare il principio dell’accesso universale alla cittadinanza attiva è in crisi. Per comprendere in maniera essenziale il motivo della crisi bisogna trovare la radice di senso del principio. L’idea per cui ogni uomo solo in quanto uomo ha diritto ad esprimere la propria opinione nella gestione della cosa pubblica e a veder valere il proprio voto trova una espressione felice nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” del 1948: «La volontà popo3 Cfr. per i “liberali” https:// thevision.com/politica/contro-suffragiouniversale/ e per i “tradizionalisti” https:// www.commonwealmagazine.org/democracyproblem

lare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, [...], o secondo una procedura equivalente di libera votazione» (art. 21). Espressione, appunto, ma il senso da dove viene? Con qualche semplificazione dal punto di vista storico – ma non in maniera fuorviante – il principio cristiano dell’essenziale uguaglianza di tutti gli uomini è la matrice di senso del movimento che ha portato e porta ancora ad includere tutti gli uomini alla partecipazione decisionale attiva. L’uguaglianza asserita nelle sue dimensioni verticale e orizzontale costruisce il senso dell’umanità come quello di una famiglia dalla medesima provenienza e a cui è affidato un compito comune4. Il venir meno di questo orizzonte di senso è un elemento determinante nella crisi odierna della democrazia. L’oggi della crisi d’altra parte è, da un punto di vista essenziale, precisamente l’atteso momento culminante della democrazia. Il Secondo Dopoguerra era ancora caratterizzato per la presenza di “masse” popolari inquadrate in gruppi e guidate da élite “illuminate”: ciò che è evidente visto l’inquadramento dei popoli 4

«Non esiste futuro pacifico per l'umanità se non […] nel pensare all’umanità come una sola famiglia»: http://www. ilsole24ore.com/art/notizie/2018-09-07/ intervista-papa-francesco-i-soldi-nonsi-fanno-i-soldi-ma-il-lavoro-114036. shtml?uuid=AEf2V5lF

in grandi formazioni politiche e ideali nazionali e sovra-nazionali. Oggi è invece il momento in cui il suffragio universale diventa effettivamente operante in quanto gli individui pretendono ora non solo l’esercizio di voto del cittadino, ma un giudizio autonomo e non più eterodiretto. Soltanto adesso emergono tutti i problemi e i rischi connessi a questa situazione che è semplicemente il “destino” della democrazia. La messa in dubbio dei princìpi, la paura nei confronti delle conseguenze della democrazia finalmente presenti in vivo davanti a noi richiedono una risposta non ordinaria. Non già nel senso di sospendere gli ordinamenti democratici, ma nel senso che diventa necessario riattivare il senso della grande scommessa democratica lanciata tempo addietro. Il senso sta nella fiducia piena di speranza per l’attiva partecipazione di tutti gli appartenenti alla grande famiglia umana al governo dei rispettivi stati e comunità. Partecipazione che non è un dato, ma un obiettivo che va voluto e costruito cominciando a guardare con sguardo sicuro e benevolo ogni uomo che viene in questo mondo.

“speranza per l’attiva partecipazione di tutti gli appartenenti alla grande famiglia umana al governo dei rispettivi stati e comunità”


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Dibattito Analfabetismo Religioso « Come affrontare l’analfabetismo religioso? »


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L’analfabetismo e la religione: biopsia di un sintomo di Christian Alberto Polli

“ripensare non tanto la pastorale, quanto l’ermeneutica (ovvero chi sia Cristo e l’eccellenza del Suo modello) e la trasmissione della validità esistenziale della Sua Parola”

Il fenomeno dell’analfabetismo, sarò schietto, non è associabile esclusivamente alla manifestazione del sentimento religioso: l’analfabetismo civile, l’analfabetismo affettivo che la società contemporanea sta assistendo a causa dei mutamenti sociali e di conseguenza psicologici impongono un’analisi ben più ampia del tanto declamato analfabetismo religioso. Ed è per questo che ho deciso di parlare di biopsia, in quanto il “corpo” di tale manifestazione d’ignoranza investe plurimi settori della società contemporanea. Il problema nel settore religioso, è necessario dirlo, è un problema ancor prima culturale che strettamente legato alla comunicazione dei singoli precetti religiosi tra credenti. Culturale perché, davanti alla secolarizzazione e all’indifferentismo religioso di stampo positivista, l’uomo occidentale ha spostato la sua attenzione maggiormente verso la tecnica o altri campi

del sapere che non riguardino i saperi umanistici: la conoscenza degli episodi della Bibbia, infatti, non dev’essere un’imposizione del credo cristiano, ma uno strumento essenziale per comprendere il linguaggio filosofico, artistico, letterario e anche scientifico che ha contraddistinto la nascita della cultura europea dal Tardo Antico fino ai giorni nostri. Molti studenti di storia dell’arte provenienti dai Paesi Anglosassoni, per esempio, quando vengono a visitare le chiese italiane ed europee, non riescono a percepire l’intensità spirituale dell’artista che, con mosaici, affreschi o sculture, ha voluto lasciare ai posteri, sia per i motivi prima addotti, ma anche per l’impianto del curriculum studiorum tipico di quelle nazioni. L’analfabetismo culturale, che si declina dunque anche in quello religioso, è un macro-problema che invoca l’esigenza urgente di far riscoprire quel bello, nel senso più puro dell’estetica, di cui l’uomo occidentale sente

sempre più profondamente la mancanza a causa dell’oscurità di cui si è circondato più o meno consapevolmente: «Lampada per i miei passi è la tua Parola» (Sal 119,105), dice non a caso il Salmista. Inevitabilmente anche i giovani cristiani, in quanto cittadini del mondo, subiscono l’influsso di questo mutamento culturale: l’ignoranza del significato dei riti sacramentali; la mancanza di un basilare nozionismo biblico necessario alla formazione della spiritualità; la “superficialità” con cui molte volte si prende il percorso di formazione cristiana; il dilagante abbandono della frequenza dei riti dopo aver ricevuto il sacramento della Confermazione da parte degli adolescenti e infine la mancanza di una reiterazione dei fondamenti della fede nell’ambito focolare sono solo alcuni degli elementi che implicano una profonda riflessione, da parte dei sacerdoti e dei laici preposti all’evangelizzazione, di ripensare non tanto la pastorale, quanto l’ermeneutica (ovvero chi sia “Cristo” e l’eccellenza del Suo modello) e la trasmissione della validità esistenziale della Sua Parola nel contesto odierno. Non serve, pertanto, abbondare ulteriormente con lettere pastorali indirizzate ai giovani o con iniziative ludiche di vario genere (oratori estivi, scimmiottamenti di intrattenimenti moderni in chiave cristiana), ma soprattutto con un’autentica vita cri-

stiana che parta direttamente dallo studio della Bibbia, dalla sua attualizzazione nelle nostre vite attraverso anche una contestualizzazione della terminologia (esempio: il “timore di Dio” inteso non nel senso di “paura, terrore”, ma come di “amore filiale, reverenziale”) e che sappia osare una testimonianza radicale e gioiosa del messaggio sublime dell’umanesimo cristiano. Principi espressi efficacemente da Erasmo da Rotterdam nel suo catechismo, l’Enchiridion militis christiani, in cui condannava la superficialità e gli orpelli di una fede (quella della pietà medievale) che aveva smarrito la sua essenza. Questo tipo di analfabetismo finora delineato, quello giovanile, è forse quello che maggiormente cade sotto l’occhio dei cristiani “adulti”, senza sapere a loro volta che esiste un analfabetismo adulto che coinvolge anche chi partecipa ai sacramenti, spesse volte, più per abitudine che per convinzione, ovvero non interiorizzando il fulcro del cristianesimo e lasciandosi guidare da un vacuo fideismo nelle manifestazioni empiriche di quest’ultimo senza conoscerne l’esatto significato: un analfabetismo meno evidente, ma più pericoloso perché intravisto come “farisaico” da chi invece cerca la Verità senza trovare autentici testimoni della Parola. Una reazione che l’induista Gandhi intravide bene e che si può adattare a questo senso di malessere prima formu-

“esiste un analfabetismo adulto che coinvolge anche chi partecipa ai sacramenti più per abitudine che per convinzione”


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35 lato: «Mi piace il vostro Cristo, non mi piacciono i vostri cristiani. I vostri cristiani sono così diversi dal vostro Cristo».

“siamo sicuri che l’analfabetismo sia un fenomeno così recente come si vuol far intendere, o è rimasto nascosto a lungo per il modo di intendere il cristianesimo prima della novità conciliare?”

Attenzione, però: non sempre è fariseismo o abitudine, quello dell’analfabetismo adulto, ma è un fenomeno dovuto anche alla diversa modalità di trasmissione della fede prima del Vaticano II. Durante la lunghissima stagione tridentina, il depositum fidei era in mano ai sacerdoti (posti un gradino più in alto nella comunità cristiana, secondo l’espressione della societas inegualis) e i laici erano tenuti a non conoscere tanto lo spirito del cristianesimo, quanto a praticare opere di pietà o ad imparare formulari religiosi secondo la pedagogia uscita da Trento e rafforzatasi poi con Pio X e il suo catechismo. Dunque, per dirla secondo il mio parroco durante una conversazione che avemmo quest’estate sul tema, siamo sicuri che l’analfabetismo sia un fenomeno così recente come si vuol far intendere, o è rimasto nascosto a lungo per il modo di intendere il cristianesimo prima della novità conciliare? Concluderei con questa osservazione, cercando di completare il ragionamento del prelato alla luce di questa mia riflessione: l’analfabetismo adulto è emerso in tutta la sua evidenza con la rivoluzione del Concilio Vaticano II che “pretende” la conoscenza delle Verità di fede e la loro interiorizzazione da parte di chi è

stato educato ad una fede semplice, quasi “scontata”, in un mondo che si definiva ancora cristiano e che si limitava alle pratiche essenziali di pietà. La rivoluzione dei modelli sociali e psicologici degli ultimi decenni ha generato, però, un cortocircuito nella trasmissione del veicolo della fede tra la vecchia e la nuova generazione, determinando nella prima un’afasia che ha generato, semplificando il discorso precedente, l’analfabetismo giovanile attuale. Ed è, dunque, da noi giovani cristiani più o meno alfabetizzati, che si deve far ripartire la trasmissione del depositum fidei in nome della “militanza evangelica” tanto cara all’umanista Erasmo.

La via pulchritudinis come antidoto: l’esempio di Monreale di Rosario Sciarrotta

“l’arte di ispirazione cristiana testimonia il desiderio di ogni epoca di manifestare la pulchritudo stessa della fede”

L’assunto sulla “nazione cattolica” – eccessivamente ideologizzato – ha fatto sì che si sia radicato il concetto che l’Italia possieda un substrato religioso unitario e che dunque non abbia bisogno di conoscenza. Così è affiorata una buona dose di ignoranza che accomuna tutti, credenti e non, praticanti e non. L’Italia fa i conti con l’ignoranza del sacro: sia quello di matrice ebraico-cristiana da cui traggono linfa le nostre radici, sia quello connesso ai flussi migratori che hanno trasformato il paesaggio delle fedi nel Paese. Una del-

le conseguenze è l’impossibilità di leggere il “tesoro d’Italia” costituito da quell’immenso patrimonio d’arte, letteratura e musica costitutivo dell’identità di un Popolo, il suo sitz im leben. Ecco che si ripresenta, per una via specifica, la questione dell’assoluta novità del cristianesimo. La fede cristiana ha utilizzato ogni registro del linguaggio estetico umano, ma certamente ha determinato un’enorme espansione della rappresentazione figurativa. Questo desiderio di rappresentare il volto di Dio in forme infinitamente varie ha origine


36 Nipoti di Maritain dall’Incarnazione. Il farsi carne del Verbo è l’elemento che ha fatto da spartiacque. Senza il prendere carne, l’assumere “figura” di Dio, non sarebbe pensabile la forma artistica. L’arte di ispirazione cristiana testimo“un ritorno prepo- nia il desiderio di ogni epoca di tente della realtà manifestare la pulchritudo stesdell’immagine a sa della fede. Perché essa non discapito della è semplicemente vera e buona, scrittura nel cam- ma al contempo è bella. La ripo della comuni- flessione teologica contemporacazione” nea, a partire da von Balthasar, ha ripreso l’antica dottrina dei tre trascendentali. La Rivelazione si manifesta come kabod nell’A.T. e come doxa nel Nuovo, cioè come gloria; in quest’ultimo termine si condensa il fascinoso apparire di Dio. Il bello, che Balthasar ripropone come centrale in teologia, non può prescindere ovviamente dal vero e dal buono. Se la bellezza non fosse vera si svelerebbe alla fin fine come mera apparenza effimera. Se non fosse anche buona, alla fin fine sarebbe mero passatempo, dimentico dell’esigenza dell’uomo di imparare la bontà ricevendo amore e sapendolo ri-donare. In Dio, nell’Unum, verum, bonum et pulchrum convertuntur. L’utilizzo dell’arte in catechesi – proprio dell’età medievale, il periodo forse più fecondo della storia della Chiesa e dell’Europa – allora, non dimenticherà la verità e la bontà di ciò che appare. È proprio perché eikon di una verità e di una bontà realmente presenti nel mondo, che la bellezza riesce a sfuggire alla dittatura del cari-

37 no e dell’effimero. L’arte, infatti, restituisce sempre un “corpo” alla parola, permettendole di toccare i diversi sensi. In questo senso l’opera d’arte non si oppone alla parola, bensì la esige e la presuppone e ciò permettere di giungere a quella capacità di sintesi che la maturazione di una fede matura richiede. In questa maniera l’iconografia mostra, a suo modo, la perenne validità della presentazione dei cosiddetti “misteri” di Cristo e, più in generale, dei “misteri” della storia della salvezza. Le religioni non sono statiche ma risentono dei rivolgimenti della storia: perché alla pari degli uomini vivono nell’hic et nunc. A suo modo l’iconografia ripropone, infine, la coessenzialità di Tradizione e Scrittura. Il loro rapporto è stato messo in luce più chiaramente da Dei Verbum: esse sono necessarie l’una all’altra per manifestare la pienezza della Parola di Dio, che eccede sia la Tradizione che la Scrittura. A maggior ragione in questi ultimi anni, dove stiamo assistendo ad un ritorno prepotente della realtà dell’immagine a discapito della scrittura nel campo della comunicazione, la riscoperta della via pulchritudinis ci pare quanto mai urgente e di sicura fecondità, proprio perché un “classicus” che ha vinto il tempo e la storia. Un esempio su tutti, emblematico a nostro avviso, è rappresentato dallo splendore dei mosaici della Cattedrale di Monreale, la “Basilica d’oro”. Mi limito solo a citare la bella pagi-

na che Romano Guardini scrisse ricordando la sua visita, durante la settimana santa del 1929, nel duomo di Monreale e che poi pubblicò nel suo Viaggio in Sicilia. In essa il grande teologo tedesco mostra il suo stupore di credente per la bellezza del Duomo siciliano. Ammirò lo splendore dei mosaici ed ammirò anche il popolo che partecipava alla liturgia. Gli sembrò che esso sperimentasse un modo esemplare di celebrare la liturgia: guardando. I fedeli stavano in silenzio e guardavano, senza stancarsi: «Oggi ho visto qualcosa di grandioso: Monreale. Sono colmo di un senso di gratitudine per la sua esistenza. […] La giornata era piovosa. Quando ci arrivammo – era giovedì santo – la messa solenne era già oltre la consacrazione. L’arcivescovo per la benedizione degli olii sacri stava seduto su un posto elevato sotto l’arco trionfale del coro. L’ampio spazio era affollato. Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, silenziose, e guardavano... Quando portarono gli olii sacri alla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò. Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in

ascolto e agli occhi in contemplazione. La folla stava seduta e guardava. Le donne portavano il velo. Nei loro vestiti e nei loro panni i colori aspettavano il sole per poter risplendere. I volti marcati degli uomini erano belli. Quasi nessuno leggeva. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il “santo” nell’immagine e nel suo dinamismo […]. Ci sono modi diversi di partecipazione orante. L’uno si realizza ascoltando, parlando, gesticolando; l’altro invece si svolge guardando. Quello è buono, e noi del Nord non ne conosciamo altro. Ma abbiamo perso qualcosa che lì ancora c’era: la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella “visione”; di accogliere il sacro dalla forma e dall’evento, contemplando… Me ne stavo per andare, quando improvvisamente scorsi tutti quegli occhi rivolti a me, quasi spaventato distolsi lo sguardo, come se provassi pudore a scrutare in quegli occhi ch’erano già stati dischiusi sull’altare». (Reise nach Sizilien, in R. Guardini, In Spiegel und Gleichnis. Bilder und Gedanken, Grünewald-Schöningh, Mainz-Paderbon 1990, pp. 158-161). La pagina di Guardini può aiutarci ad entrare in questa riflessione per almeno quattro motivi fondamentali. Mi limito a citarne

“la bellezza del duomo non era disgiungibile dalla bellezza del popolo orante”


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39 solo uno, peraltro riprendendolo dalla mirabile e lungimirante riflessione di Cataldo Naro, insigne studioso nonché Arcivescovo proprio di Monreale. Da essa anzitutto possiamo raccogliere un suggerimento prezioso per il nostro rapporto con la Chiesa che ci ha generato alla fede e che ci accompagna nell’amicizia con Dio. Guardini scrive di avere ammirato la basilica e di essersi sentito attratto, nello stesso tempo, dal fascino del popolo che nella basilica pregava. Per la sua sensibilità di credente la bellezza del duomo non era disgiungibile dalla bellezza del popolo orante. Anzi egli dice che «la cosa più bella era il popolo». L’assunto guardiniano dovrebbe prendere “forma” nella vita di ogni cristiano: amare la Chiesa dovrebbe essere vivere la gratitudine per la bellezza del creato e delle tante opere fatte da mani d’uomo costitutive gran parte della bellezza delle città e dei borghi d’Italia. Ma dovrebbe essere anche e primariamente amare il Popolo di Dio che forma la Chiesa e sentire di appertenervi come pure – anzi in principio – di appartenere alla grande e variegata famiglia umana senza distinzioni, senza distanze e con semplicità.

Ripartire dalla Parola per dissolvere l’ignoranza di Giovanni Francesco Piccinno Nel contesto religioso odierno esiste e persiste un problema molto serio che, come tutto ciò che è presente in ogni organismo vivente e/o composto da esseri viventi, per essere completamente estirpato dev’essere, innanzitutto, pienamente conosciuto e capito: il problema dell’analfabetismo religioso, presente soprattutto nella generazione più giovane del contesto religioso italiano, non a caso saggiamente indicata come la «prima generazione incredula» da un analista e studioso del mondo giovanile come Don Armando Matteo1. Volendo soffermare questa riflessione sul problema nel mondo cattolico e in particolare su tale spaccato generazionale non si può ignorare, avendolo rilevato più e più volte sul campo, che una radice molto significativa dell’analfabetismo assume connotati serissimi quando si tratta di accostarsi (o di tentare di farlo) alla Sacra 1 A tal proposito si indicano, come letture d’ambiente due suoi saggi: La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017 e il più recente Tutti giovani, nessun giovane, Piemme, Segrate 2018.

Scrittura. Questo, in queste poche righe, si ritiene essere il nucleo fondamentale del problema; non è un caso che un autorevole padre della Chiesa e fine conoscitore della Parola divina, nonché suo traduttore ed ermeneuta finissimo, come Girolamo (347-420) affermi, nel Proemio al Commento del Profeta Isaia che «ignorare le Scritture significa ignorare Cristo». Ciò, per una religione che afferma di non essere religione per sua stessa origine e natura legata ad un codice religioso o ad una parola qualsiasi, sebbene autoritaria, ma alla Parola fatta Carne, Gesù il Cristo, il Figlio che si è fatto come noi e che si è incarnato nella nostra povera umanità, assume toni che richiedono una riflessione seria che qui si può solo accennare e indicare. Il problema non può essere ridimensionato; il Concilio Vaticano II, nell’autorevole Costituzione sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum) afferma a chiare lettere, nel suo sesto ed ultimo capitolo dedicato espressamente al ruolo capitale della Scrittura nella vita ecclesiale nei nn. 25-26, che la lettura della Bibbia – oltre ad essere un esercizio edificante, che dà soste-

“attenzione del mondo culturale laico alla Bibbia”


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“ripartire dalla viva Parola di Dio per ritessere l’identità religiosa e ridare forza a chi desidera incontrare e testimoniare il Vivente”

41 gno e vigore, attraverso l’attenzione e la tensione ad essa del singolo all’intera ekklesia – dev’essere orante e frequente. Ma, oltre alla dimensione confessionale e teologica di tale approccio (quest’ultimo sottolineato nei nn. 23-24 del Documento Conciliare) vi è da secoli sempre stata, e continua ad essere ben presente, anche una attenzione del mondo culturale laico alla Bibbia2, definita da più voci «il grande codice dell’Occidente», codice eternizzato ancora di più da un vivace rapporto con il mondo letterario di cui ne è stato, ed è per molti aspetti, ancora l’anima3, e con il mondo artistico. Da una ricerca piuttosto recente, dal titolo emblematico “Gli italiani e la Bibbia”, edita da EDB nel 2014, emerge un numero alto di persone intervistate (l’82% di 1500 soggetti contattati in tutto) che possiedono in casa tale libro. L’alta percentuale non inganni: non siamo davanti ad un popolo di buoni conoscitori del testo sacro, tutt’altro. Questo fa seriamente riflettere sulla ne2 Basti pensare che nel mese di novembre del 2018 è uscito per Piemme una riedizione aggiornata del libro La Bibbia dei non credenti. I protagonisti della vita italiana davanti al libro dei libri, a cura di Francesco Antonioli, già edito con più che discreto successo nel 2002 dove, si noti, la Bibbia è definita «il libro dei libri». 3 Su questo importantissimo aspetto si vedano in particolare i saggi Il grande codice. Bibbia e letteratura di Northrop Frye, edito da Vita e Pensiero nel 2018 e l’autorevole La Bibbia nella letteratura mondiale, di Karin Schöpflin, edito da Queriniana nel 2013.

Laicità, laicato, teologia nelle università pubbliche

cessità impellente di ridare vigore allo studio, nei più svariati contesti a più ampio raggio, all’approccio al Libro che ha da sempre suscitato l’animo umano, definita da un suo grande e rigoroso studioso come Carlo Maria Martini «il grande libro educativo dell’umanità». E se ci fermiamo a riflettere tale definizione racchiude la sua identità più profonda; essa mette al centro della Storia della Salvezza Dio che è educatore del popolo dell’Alleanza, segnato da un cammino che Israele ha percorso non senza fatica. Accostarsi al grande libro è un’avventura personale e comunitaria, graduale, con fasi di rottura e possibili e vitalizzanti salti di qualità, conflittuale, energica, liberante e totalizzante. Un’esperienza che ha toccato nell’intimo acuti pensatori come Immanuel Kant che affermava a chiare lettere che il Vangelo è «la fonte da cui è scaturita la nostra cultura» e Goethe che addirittura la riteneva «la lingua materna dell’Europa». Dopo un evento sinodale in cui è emersa in modo forte la sete di conoscere profondamente Gesù da parte dei più giovani, in un tempo in cui è l’incontro vivo con i testimoni che cambia il senso delle cose, come non proporre di ripartire dalla Scrittura sacra, dalla viva Parola di Dio per ritessere l’identità religiosa e ridare forza a chi desidera incontrare e testimoniare il Vivente, partendo dalla Parola che laddove è seminata fruttifica in abbondanza, creando comunione fra gli uomini?

di Andrea Bosio

“il problema principale degli analfabetismi contemporanei è l’incapacità del soggetto nel riconoscere le proprie carenze”

L’analfabetismo religioso non riguarda solo alcune confessioni, ma è sufficientemente diffuso da suggerire uno studio che tratti la sua diffusione, la sua radicazione e il suo sviluppo contemporaneo. Qui vorrei però soffermarmi sull’aspetto cristiano e cattolico del fenomeno, pur tenendo in chiusura un riferimento parziale e come ciò sia in relazione con un analfabetismo più diffuso. Il problema principale degli analfabetismi contemporanei è l’incapacità del soggetto nel riconoscere le proprie carenze. In campo strettamente cattolico, una forma è diffusa tra chi ritiene di avere tendenze conservatrici, gruppi sociali dove non pochi elevano forme pseudotradizionali a verità rivelata: i componenti si consolidano vicendevolmente, confermando una credenza che non trova riscontro nella realtà della Chiesa. Nelle aree che si definiscono progressiste abbiamo una struttura diversa: l’analfabetismo più un

rifiuto all’approfondimento, una contestazione generale di posizioni percepite autoritarie, spesso su base stereotipica. Entrambi i casi portano ad azioni e opinioni fondate su una misconoscenza del cattolicesimo, visto solo secondo una propria esperienza diretta e superficiale, tramandata anche alle generazioni successive. Collabora a questo fenomeno anche una scarsa conoscenza dei sistemi religiosi da parte dei mezzi d’informazione. Propongo di affrontare il fenomeno e le sue possibili soluzioni a partire da tre nodi: evidenziano non tanto debolezze, ma fronti d’azione. La lamentela e la segnalazione di problemi deve oggi lasciare spazio all’azione propositiva, tanto nella Chiesa quanto nella società: come cristiani abbiamo l’obbligo di essere d’esempio anche in questo. Laicità dello Stato. L’equa distanza e differenziazione di competenze delle strutture pub-


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“riconoscimento pubblico di un’equidistanza dello Stato rispetto alle religioni”

“consapevoli di avere un’identità aperta, di essere se stessi nel vivere totalmente proiettati verso l’esterno”

43 bliche e delle autorità religiose è un elemento basilare per una sana consapevolezza del proprio sistema fideistico: potrà sembrare controintuitivo, ma dare a ciascuna realtà il proprio spazio aiuta a codificare anche i rapporti reciproci. Non solo: dover identificare il proprio spazio comporta la necessità di autoidentificazione e autodefinizione. Si tratta di uno sforzo complesso, ma anche di un gradino necessario. Non parlo solo di mantenere le questioni religiose estranee alle scelte statali: urge il riconoscimento pubblico di un’equidistanza dello Stato rispetto alle religioni, l’assenza di effettive ingerenze e, quindi, un rapporto paritario tra le diverse entità. Laicità non significa ateismo, tutt’altro. La laicità richiede conoscenza: doverla applicare obbligherà a capire. Formazione del laicato. Questo passaggio si fonda sulla necessaria sinodalità della Chiesa, che deve essere stile e non forma esteriore. Non è la presenza di un Consiglio pastorale a fare sinodalità, è la possibilità che il Consiglio decida e operi a distinguere una struttura verticistica – e immobile – da un popolo di fratelli e sorelle in cammino. Perché consessi ampi decidano e agiscano è necessario che i loro componenti siano formati ed è essenziale che tale formazione non sia elitaria, ma diffusa. L’analfabetismo religioso è un vigoroso ostacolo al processo sinodale, eppure l’avvio della si-

nodalità diffusa è elemento imprescindibile perché l’analfabetismo sia percepito e combattuto dalla comunità. La formazione del laicato deve così avvenire nel mentre di un processo di incremento degli spazi di contribuzione sinodale, a tutti i livelli: la necessità di avere percorsi sinodali efficienti richiede partecipanti consapevoli e formati. Questo spingerà non solo alla partecipazione coloro che saranno formati, ma anche alla formazione coloro che saranno chiamati a partecipare. Il meccanismo dovrebbe sdoganare la formazione religiosa dalle riserve in cui è rinchiusa: preti, religiose e religiosi, diaconi, insegnanti di religione, una manciata di teologi. È importante che la formazione sia patrimonio comune di tutti gli operatori pastorali: genitori, catechisti, insegnanti (di qualunque materia), capi scout ed educatori parrocchiali. Reintroduzione degli studi teologici nelle università pubbliche. L’ultimo nodo è italiano e riguarda la presenza dell’insegnamento teologico nelle scuole – università – pubbliche. Le motivazioni storiche della scomparsa di questi studi dall’istruzione pubblica sono note ed è sterile tornare a discuterne qui: diventa invece fondamentale lavorare su un ritorno delle scienze teologiche in sede pubblica, al fine di portare a contatto istanze incompatibili all’interno delle fedi stesse e, quindi, confinate o misconosciute. La riflessione

teologica deve poter essere parte del dibattito pubblico anche in funzione del primo passaggio: senza il riconoscimento delle teologie specifiche come strumenti scientifici comuni, non c’è laicità, ma dogmatismo di stato (o ateismo). L’Italia vive un’arretratezza nelle scienze religiose preoccupante: la trattazione degli aspetti religiosi nel campo storico, antropologico e sociologico sono quasi sempre marginali nelle università pubbliche. Serve innescare un circolo virtuoso analogo a quello avviato dalla ricerca storico-critica in altri paesi: l’Italia potrebbe cominciare con la storia delle religioni e del cristianesimo, ma è un’opinione di parte. In realtà credo basti cominciare.

“un ritorno delle scienze teologiche in sede pubblica”

Oltre il cattolicesimo. Il nodo dell’ignoranza dei sistemi religiosi è diffusa oltre il cattolicesimo/cristianesimo e il mondo occidentale. Le attività terroristiche che si autodefiniscono islamiche sono un esempio di traviamento del messaggio centrale di una fede religiosa; la passione occidentale per il buddismo è spesso un’approssimata infatuazione per un modello spirituale alieno a ciò che il buddismo è nel suo ambiente proprio. La conoscenza dei sistemi altrui, poi, è ancora più inadatta: è sufficiente leggere le trattazioni europee sull’islam. Le vie prospettate in precedenza vorrebbero anche contribuire a contrastare questo fenomeno: è necessario conoscere molto bene il proprio

sistema culturale di riferimento per confrontarsi con quello altrui. L’unica via che vedo è quella di far uscire il dibattito teologico dai processi misterici in cui spesso ancora oggi è rinchiuso, coinvolgendo attivamente nella formazione il popolo cristiano. Ciò non significa certo mandare tutti sugli altari a predicare: di contro, significa più far tornare a una predicazione attiva e diffusa chi veramente è formato a questo, laico o religioso che sia.


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Rubriche


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47 Che cosa hai fatto, in quanto uditore? Qual era il tuo ruolo?

intervista

Gioele Anni, uditore al Sinodo dei Giovani Editoriale a cura di Piotr Zygulski di Piotr Zygulski

Gioele, tu hai partecipato all’ultimo Sinodo dei Giovani Cipissedis pora sed et repersped come uditore in rappresenqui ne et moloreped quam rem tanza di Azione Cattolica e dei rehente es ma doluptatium fugiovani italiani. Quali erano le giam eaturepe voluptate omniaspettative che avevi quando mus alit laccat ut expe volores sei arrivato al Sinodo? dit, simendebis acitaspitam et volorum fugiam cum faces eriInizialmente le aspettative erabus. no molto alte, perché da quando è stato annunciato mi sembraUgitis as et volorempore nis eseva un’occasione per ricostruire qui dolorum rectatem assinis un po’ quel ponte tra giovani e esed quam et in nus excesseChiesa che – soprattutto nella ces sim voluptatusam sum dusa realtà che vivo nel nord Italia, cum aut adi quia verum re, con ma in generale nell’Occidente – periam, te qui toribusam, autas è venuto meno. Data la distanza ipsandae sed ent mo etum quam, tra i giovani e la Chiesa, l’imponet aut mos abore mi, quibus eastazione del Sinodo mi sembrarum que velit dus acietur sit es va che potesse interessare e dire etur repel inction endesequo una parola a tutti. Poiché oggi to dolum facerro rrovitem eum tra Chiesa e giovani in tanti casi aut venim idellabo. Mil estotata non c’è dialogo, in quanto giovaid ullati aut enit, coruptat pos ne impegnato nella Chiesa e in arum desentiat.

Azione Cattolica ritengo prioritario ricostruire questo legame. Cipissedis pora sed et repersped qui ne et moloreped quam rem Ti aspettavi anche qualcosa rehente es ma doluptatium fudi concreto, qualche cambiagiam eaturepe voluptate omnimento specifico? mus alit laccat ut expe volores dit, simendebis acitaspitam et Riguardo i cambiamenti concrevolorum fugiam cum faces eriti non avevo aspettative, perché bus. non c’era un singolo tema dal quale mi aspettavo qualcosa di Ugitis as et volorempore nis esenuovo e sapevo che il Sinodo qui dolorum rectatem assinis non è il luogo dei cambiamenti esed quam et in nus excessemagisteriali dottrinali. Il Sinodo ces sim voluptatusam sum dusa me lo aspettavo – e così è stato cum aut adi quia verum re, con – come una grande piazza d’aperiam, te qui toribusam, autas scolto in cui condividere espeipsandae sed ent mo etum quam, rienze dai vari angoli della terra, net aut mos abore mi, quibus eaaffrontare problematiche e oprum que velit dus acietur sit es portunità in maniera condivisa e etur repel inction endesequo consegnare il discernimento nelto dolum facerro rrovitem eum le mani del Papa. La mia era più aut venim idellabo. Mil estotata un’aspettativa sul processo che id ullati aut enit, coruptat pos si andava a mettere in atto. arum desentiat.

Come tutti i partecipanti – padri sinodali inclusi – avevo a disposizione un solo intervento programmato di 4 minuti durante le tre settimane; il mio è stato sulla terza parte dell’Instrumentum laboris, vale a dire la sezione dedicata alle scelte e alle prospettive pastorali. Sono intervenuto anche un’altra volta nei momenti di dibattito libero che si creavano a volte a fine giornata. Ho poi vissuto i gruppi di studio e le plenarie che sono stati momenti estremamente formativi. Lo dico con grande gioia: l’esperienza del Sinodo è stata molto bella, di profonda fede, di forte pensiero e di elaborazione, che mi ha messo in discussione soprattutto nel confronto con le testimonianze di chi viene da realtà lontane e di sofferenza. È stata anche un’esperienza divertente nel suo lato umano: incontrare gli altri uditori, i padri sinodali e i cardinali, scambiare con loro quale battuta, percorrere un pezzo di strada insieme, metaforicamente e fisicamente … come quando, per esempio, abbiamo fatto il pellegrinaggio alla tomba di San Pietro nell’ultima settimana. Tutto ciò è entrato nel Sinodo e le aspettative iniziali sono state progressivamente rimescolate da questa realtà. Quali sono a tuo avviso i risultati più significativi di questo Sinodo?

Il Documento finale traccia un profilo di Chiesa che è sinodale e rispondente a quello immaginato da Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Dopo il Giubileo della Misericordia e i due sinodi sulla famiglia, mi pare che il Sinodo riesca a dare concretezza alla Chiesa in uscita di Evangelii Gaudium, con la condivisione dell’episcopato e delle rappresentanze del mondo. Le domande che stavano alla base di questo Sinodo sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale – in particolare: come trasmettere la fede ai giovani affinché possano viverla nel mondo di oggi? Come la Chiesa può accompagnare i giovani in ricerca della loro strada nel mondo in questo cambiamento d’epoca? – richiedevano di elaborare un pensiero che coinvolgesse tutta la Chiesa. Ci si è accorti giorno dopo giorno che non si potevano sviscerare singole questioni e pensare di poter dare risposte su alcuni temi stralciandone altri, ma occorreva una riflessione di insieme. È uscito un processo di Chiesa sinodale che dà sostanza e concretezza al sogno disegnato da papa Francesco. Durante il Sinodo, i giovani italiani e del mondo sono stati attenti e coinvolti realmente? Qualcuno ha osservato che quei pochi giovani che seguivano erano pur sempre le solite persone attive nella pastorale giovanile diocesana e quindi l’auspicato coinvolgimento giovanile non ci sareb-

“testimonianze di chi viene da realtà lontane e di sofferenza”


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49 be stato.

“un processo di Chiesa sinodale che dà sostanza e concretezza al sogno disegnato da papa Francesco”

“la Chiesa nel Sinodo si è fatta interpellare da forme irrituali di espressione dei giovani”

Per i giovani italiani un momento di particolare attenzione e sensibilizzazione è stato l’incontro di agosto, al termine dei pellegrinaggi, che rientra pienamente nel percorso del Sinodo. A livello di conoscenza mediatica, sicuramente questo Sinodo ha avuto meno attenzione del precedente in cui vi erano questioni puntuali più “notiziabili” che stimolavano l’attenzione dei giornalisti. Ma l’intenzione di coinvolgere i giovani era genuina. La Segreteria del Sinodo ha fatto passi concreti, in qualche modo “storici”, per tentare di allargare il numero di persone coinvolte interessate aprendo il processo che solitamente è riservato a chi è dentro al mondo ecclesiale; penso all’iniziativa del questionario online aperto a tutti, forse migliorabile tecnicamente, al quale hanno risposto 200.000 persone. Da un certo punto di vista può anche essere bene che un po’ di attenzione mediatica sia venuta meno se poi quello che è uscito dal Sinodo – il cambiamento di stile verso una Chiesa sinodale – viene poi attuato. I giovani che non si sono accorti del Sinodo se ne accorgeranno nei prossimi dieci anni. È un processo che si conclude rilanciando un processo; magari non prende titoli sui giornali ma può far parlare di sé prossimamente se tutta la Chiesa avrà il coraggio di prendere parte alla conversione missionaria alla quale il Sinodo invita e conforta.

Ma non c’è forse il rischio di parlare in modo autoreferenziale sempre a noi stessi, senza mai concludere nulla? Il Sinodo ha fatto qualcosa per scongiurare questo pericolo? Non è un pericolo: quella di una Chiesa autoreferenziale è una realtà; nel Sinodo è emersa con forza, molto da parte dei giovani e anche da parte di tanti vescovi. L’ascolto non può ridursi a incontrarci tra noi che siamo già “dentro”. La bellezza del Sinodo è stata quella di coinvolgere nel lungo processo – ad esempio nella riunione presinodale – anche giovani che non sono tradizionalmente dentro ai percorsi ecclesiali: giovani del mondo dell’arte, di altre fedi, di esperienze di vita comunitaria o di fatica, che hanno portato tanta concretezza e il grido che a volte non è rappresentato. C’è stato lo sforzo di ascoltare le forme non rituali di espressione dei giovani. Nell’autoreferenzialità si ascoltano i giovani che “parlano bene”, sia per quanto riguarda le modalità di esprimersi, sia per le ritualità dei nostri spazi di incontro… ma oggi i giovani si esprimono anche con linguaggi di protesta, di disagio, di sofferenza o di indifferenza, che però nascondono una richiesta sostanziale di ascolto e di dialogo. La Chiesa nel Sinodo si è fatta interpellare da queste forme non convenzionali – mi piace chiamarle “irrituali” – di espressione dei giovani e ha fatto tanto per mettere dentro tanta vita anche

nel Documento finale. Ci sono altre proposte in questo campo che possano estese a tutta la Chiesa? Il Documento finale delinea alcune tracce per uscire dall’autoreferenzialità e concretizzare i contenuti del Sinodo. Una è l’opzione preferenziale per i poveri quale metro di misura per le proposte pastorali a tutti i livelli: ripensare i piani pastorali avendo a cuore di mettere al centro i giovani che sono lontani dalla Chiesa e quelli emarginati dalla società. La seconda è quella non solo di convocare i giovani, ma anche coinvolgerli, sfidandoli in iniziative, progetti e attività che chiedano al giovane di mettersi in gioco. Poi da lì avere il coraggio, come Chiesa, di accompagnare i giovani che si mettono in gioco verso un cammino che per tanti giovani è di re-iniziazione cristiana, di secondo annuncio. Qualcuno rimprovera alla terza parte del Documento finale un passo indietro rispetto alla prima in cui risuona l’Instrumentum laboris, che secondo alcuni commentatori sarebbe più coraggiosa rispetto agli esiti conclusivi, ritenuti troppo cauti. Ho letto queste osservazioni ma non mi sembra una parte cauta. Mi piacciono molto gli ultimi tre paragrafi che si richiamano alla santità nella Chiesa e chiedono, al termine del processo sinoda-

le, un «deciso, immediato e radicale cambio di prospettiva» (§ 166). Forse qualcuno si aspettava linee guida o qualche prassi più concrete, ma su questo piano il Sinodo ha fatto un passo “di lato” – non indietro – perché dalla discussione è emerso molto che non ci sono ricette o piani pastorali che possano valere dappertutto allo stesso modo. Questo “passo di lato” non è per mancanza di coraggio, ma è di grande fiducia, perché conferenze episcopali, diocesi, associazioni e movimenti facciano il medesimo esercizio sinodale di ascolto concreto dei giovani. E portare così la proposta del Vangelo nella realtà di oggi, per poi pensare e riprogrammare. Qualcuno si aspettava che, come nell’Instrumentum laboris che preparava l’assemblea, comparisse nuovamente l’espressione «giovani LGBT». Invece così non è stato. Ho avuto modo di conoscere la realtà dei cristiani omosessuali della Lombardia, in particolare giovani. È stato un dono: l’incontro con questi ragazzi mi ha fatto uscire da una riflessione puramente teorica per incontrare le esperienze di vita. Ho trovato storie personali magari segnate anche da fatica, con percorsi di accettazione di sé, per capire come vivere la propria appartenenza ecclesiale in contesti a volte rigidi sulla questione dell’omosessualità. È stato edificante: ho incontrato ragazzi

“conferenze episcopali, diocesi, associazioni e movimenti facciano il medesimo esercizio sinodale di ascolto concreto dei giovani”


50 Nipoti di Maritain

“un’attenzione che è prima di tutto quella di uno stile evangelico”

51 che desiderano appartenere alla Chiesa e la cui storia, tra gioie e fatiche, è diventata motivo per amare maggiormente la Chiesa e il Signore. Nel Sinodo si è parlato con tanto pudore e tanta competenza di questi temi, così come anche di affettività, sessualità, convivenze, rapporti sessuali prematrimoniali; sono argomenti di cui i giovani parlano senza tabù. Sulla questione specifica della sigla LGBT, anche i giovani cristiani omosessuali hanno al loro interno delle divergenze: per alcuni è il modo di essere presenti e riconoscibili come realtà, per altri invece c’è il rischio di essere catalogati. Di qui obiezione di chi era contrario all’inserimento del termine LGBT nel Documento finale: la Chiesa non identifica le persone a partire dal proprio orientamento sessuale. Credo che sia molto bello il modo in cui il Documento finale affronta il tema, perché riflette quello che è stato il dibattito: non è partito da una questione nominale, ma dalla prassi pastorale, cioè dalla realtà in cui i giovani cristiani omosessuali vivono la loro appartenenza alla Chiesa. Ci sono già gruppi che li aiutano a crescere e a maturare personalmente e nella vita di fede. Così quel testo, richiamando puntualmente i documenti della dottrina, invita a favorire i percorsi di accompagnamento dei cristiani omosessuali. Però i percorsi sono di vario tipo, con impostazioni diverse: da chi esige l’astinenza

celibataria, a chi guarda con simpatia le coppie omosessuali, vedendo anche nella donazione di tutto il proprio corpo qualcosa di bello e relazionalmente fecondo. Ciascuno di loro ora sta tentando di tirare l’acqua al proprio mulino. Il Sinodo a chi pensava quando si riferiva a «cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali»? Nel Sinodo non c’erano rappresentanze, ma la Segreteria ha ricevuto testi da alcuni gruppi che hanno portato alla formulazione del numero 197 dell’Instrumentum laboris, dove c’era la sigla LGBT. Si è parlato di questo tema con le differenze che vengono dai vari contesti culturali: in alcuni stati africani l’omosessualità è ancora un reato, mentre invece altre parti del mondo vi sono le unioni omosessuali. Alla fine il Documento finale riesce a far riconoscere tutte le varie realtà, perché si parla di un’attenzione che è prima di tutto quella di uno stile evangelico. Penso allo stile di Gesù, che ha incontrato anche le persone che secondo le regole del suo tempo erano escluse dalla salvezza: non ha escluso nessuno, ma ha incluso. Il Sinodo offre questa indicazione di stile non solo per la tematica dell’omosessualità: vale in generale, per il rapporto della Chiesa con tutti i giovani.

Laudate Hominem Il fenomeno ludico: abbozzo di teologia di Fabio Cittadini

“recuperare alcuni frammenti di teologia ludica sparsi in duemila anni di pensiero cristiano”

Perché il fenomeno ludico può essere un vero e proprio “trattato” di teologia? Cosa ha a che fare il gioco con la teologia? Apparentemente sembra esserci una distanza, se non addirittura, date certe idee1, un abisso tra gioco e teologia. In realtà indagando il ludus nei suoi diversi aspetti2 si può agevolmente dimostrare il guadagno per la teologia dell’assunzione della “categoria” del gioco, dopo aver chiarito in cosa 1 Si fa riferimento alla visione nichilista del gioco. 2 Cosa che è stata fatta in F. Cittadini, Esplorazione teologica del gioco. In dialogo con Jürgen Moltmann, Hugo Rahner, Klaus Hemmerle, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano 2018.

consista tale fenomeno umano. Inoltre - dato da non sottovalutare - mettendoci sulle spalle di giganti in teologia, come Jürgen Moltmann3, Hugo Rahner4, Klaus Hemmerle5, con loro e mai contro di loro - anche se questo evidentemente comporta lo smascheramento di quegli elementi critici presenti nelle loro opere - si può proseguire il discorso teologico oltre i citati autori. In effetti è possibile sondare l’ambito biblico, recuperare alcuni fram3 Cfr. J. Moltmann, Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Queriniana, Brescia 1971. 4 Cfr. H. Rahner, L’homo ludens, Paideia, Brescia 1969. 5 Cfr. K. Hemmerle, Preludio alla teologia, Città Nuova, Roma 2003.


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53 menti di teologia ludica sparsi in duemila anni di pensiero cristiano e, infine, mettere in luce quei motivi di estetica ludica che possono essere a fondamento di una strutturata e argomentata proposta teologica.

“giocare appartiene all’umano”

È interessante notare che un possibile compendio di questo possibile tentativo si trova in un dipinto del 1560 di un pittore fiammingo, Pieter Bruegel il Vecchio, intitolato Giochi di Bambini, conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il titolo che è stato attribuito alla tavola è fuorviante; infatti i circa novanta giochi lì rappresentati sono sì giochi di bambini, ma coloro che vi si dedicano, ad un’attenta osservazione, non sono affatto dei fanciulli. I loro volti, che lasciano nell’indeterminatezza l’osservatore (sono bimbi o adulti?), sembrano trasfigurati attraverso il gioco in un’espressione che esprime allo stesso tempo maturità e giovinezza. D’altronde una piazza affollata di soli bambini sarebbe una cosa alquanto strana, allora come oggi. Con questo particolare, di non poco conto, il pittore vuole suggerire che giocare appartiene all’umano e non soltanto ad un’età dell’uomo. L’uomo può giocare, a qualsiasi età. Il gioco, quindi, è una sua facultas. C’è, però, un altro aspetto che deve essere rilevato: a ben vedere è tutta la città e l’ambiente circostante ad assumere una nuova espressione, a configurarsi diversamente. Si possono, infatti,

scorgere case, strade, incroci, alberi, prati e ruscelli tipici di ogni centro abitato, eppure vi è un’atmosfera di festa che tutto avvolge e getta sull’abitato una luce diversa. Gli oggetti che si intravedono sono quelli dell’uso quotidiano: mattoni, scodelle, botti, bastoni, zappe, cestini; ciononostante, in quanto giocattoli, essi non sono più semplici utensili perché manifestano la splendida vitalità di chi ne fa oggetto di divertimento. Nel centro del dipinto, inoltre, vi è una grande strada che, piena di allietate persone, dalla piazza si prolunga fino a sfumare verso l’orizzonte, come a voler condurre il “discorso” al di là del visibile. Guardando questo splendido quadro non si ha l’impressione di stare nel paese dei balocchi; piuttosto a manifestarsi è quel mondo molto spesso scontato, quotidiano, feriale, nel quale tuttavia grazie al gioco che rallegra gli uomini e vivacizza le cose, si palesa il segreto che dall’interno lo sorregge, di cui è la vera “sostanza”. Ci si potrebbe chiedere: dove è Dio? Probabilmente nell’intenzione del pittore oltre il visibile, oltre l’osservabile. Tuttavia, è possibile un altro livello di interpretazione. Se, come la teologia a partire dal Concilio Vaticano II afferma con acume e forza, Dio si è coinvolto nella vicenda degli uomini, allora si può anche sostenere che Egli abbia giocato e giochi. Detto in altri termini è legittimo pensare che egli sia in mezzo a que-

sta massa di homines ludentes, che egli in loro e con loro giochi. Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che gioco “fa” Dio? Non c’è il rischio che egli compia un brutto gioco? La liturgia - lex orandi, lex credendi - ci insegna una cosa semplice e vera, come si evince dalla ben nota Sequenza pasquale: «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello./ Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa». Non è un caso che il duello era ed è uno dei tanti ludi molto praticati, fin da bambini, nel corso della storia. Dio gioca e vince per noi: Gesù è risorto!

“Dio gioca e vince per noi”


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a ben vedere Oltre il clericalismo di Manuel Alejandro Serra Pérez

“Francesco ha voluto collegare gli abusi sessuali con gli abusi di potere e di coscienza”

Papa Francesco ha scritto una lettera quasi all’improvviso, poco tempo fa, sorprendendo tutta la Chiesa con le sue parole, attraverso le quali manifesta la vergogna e il dolore da lui vissuti dopo aver appreso come l’istituzione ecclesiale abbia nascosto gli orribili crimini degli abusi sessuali. Tuttavia sorprende ancora di più un dettaglio. Proprio all’inizio della sua lettera, il Pontefice ha detto: «“Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme»” (1Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate». Il San-

to Padre non ha parlato in maniera isolata del problema degli abusi sessuali, come se questi non fossero relazionati con tante cose che li rendono possibili. In modo particolarmente limpido, Papa Francesco ha voluto collegare gli abusi sessuali con gli abusi di potere e di coscienza, con i quali ci sarebbe una sorta di complice solidarietà malvagia. Questo dato non è affatto superficiale. Sotto tale unione così direttamente esplicitata, egli ha definito così ciò che significa parola clericalismo, pronunciata oggi più che mai. Cosa intende il Successore di Pietro per “clericalismo”? Vediamolo nei suoi differenti interventi magisteriali. Andiamo innanzitutto al suo documento

programmatico, Evangelii Gaudium. In questa Esortazione apostolica il clericalismo appare in due momenti, il primo dei quali quando parla della mancanza di agenti pastorali veramente impegnati dentro la missione della Chiesa nella società (cfr. EG 102). La ragione, secondo il Papa, è l’eccesso di clericalismo, cioè l’identificazione della funzione sacerdotale con la responsabilità integrale dell’annunzio del Vangelo. L’altro momento è immediatamente dopo, al numero 104, dove parla del sacerdozio riservato agli uomini. La ragione che da il Papa per difendere questo insegnamento della Chiesa è che non dobbiamo confondere la potestà sacerdotale con il potere: «Non bisogna dimenticare che quando parliamo di potestà sacerdotale “ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità”», citando la Christifideles Laici. Qui possiamo comprendere il clericalismo come la confusione grave tra potestà ministeriale e potere. Questa idea può offrire una riflessione più accurata, che tenterò di fare nella seconda parte dell’articolo. Il secondo documento è l’Esortazione apostolica Gaudete et exultate: «Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità

di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (GE 104). Penso che Papa Francesco abbia chiaro il problema del clericalismo. Ciò che rende importante e determinante la vita cristiana non è il concetto mal inteso della dignitas. Questo occorre dirlo e ripeterlo perché sì, lo sappiamo, lo ascoltiamo in belle parole e discorsi, ma non lo accettiamo nel cuore e – ancora peggio – non lo viviamo. Per essere santo nessun cristiano deve raggiungere un posto, una dignità, una più speciale consacrazione dentro la Chiesa. L’unica cosa importante che ci rende cristiani è essere discepoli di Cristo, e questo basta. Però lungo i secoli, e influenzati dalle società e dalle sue mondanità, siamo diventati schiavi di strutture e modi di essere contrari al Vangelo e alla testimonianza dei santi. Mi sia ora concessa una valutazione personale. Dopo aver ascoltato molto sommariamente la voce del più recente Magistero ecclesiale, cominciamo a domandarci: qual è la sua origine e quali sono le sue radici? Ho sempre pensato che una data determinante nella storia della Chiesa e dell’Occidente sia il 313 d.C.: l’Editto di Milano. Oltre a tanti

“possiamo comprendere il clericalismo come la confusione grave tra potestà ministeriale e potere”


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“per il clericalismo la vera e degna consacrazione non si trova più nel Battesimo, ma nello stato religioso”

57 aspetti che giocano un ruolo importantissimo, voglio prenderne uno soltanto; questo fatto politico ha portato la Chiesa a una decisione vitale, e le sue conseguenze ancora si fanno sentire. L’Editto nascondeva un premio e un pericolo, che forse non è stato valutato allora. La Chiesa era ancora clandestina, non aveva ampio sostegno sociale e nemmeno politico; era, al contrario, perseguitata fino al martirio, accaduto in diversi periodi. Con l’Editto, l’Impero smette di perseguitare la Chiesa, anzi, vuole convertire la Chiesa nella nuova Religione ufficiale. Finiscono le persecuzioni. C’è la pace e i cristiani possono fare una vita tranquilla insieme agli altri. Il problema è che da quel momento diventare cristiano è un fatto sociale, e pure politicamente interessante. Questo è un cancro che si è inserito nell’organismo ecclesiale. Strutturalmente pian piano i sacerdoti e i vescovi hanno assunto un ruolo e una dignità contrastanti col Vangelo: possessioni, dignità. Si è creato un clero, cioè uno stato speciale per quelli che diventano ministri della Chiesa. Alla fine vediamo che parte dello spirito romano è entrato nella struttura ecclesiale: sacerdozio, liturgia, diritto. Allora cosa è il clericalismo? Qualcosa che fa sì che il presbitero sia un uomo differente. Da qui è nata una teologia – non biblica – che innalza la condizione sacerdotale al di sopra delle altre condizioni cristiane. Per il

clericalismo la vera e degna consacrazione non si trova più nel Battesimo, ma nello stato religioso che, insieme a una concezione neoplatonica e stoica della virginità, ha forgiato un’identità sacerdotale pericolosa. Dunque, da un lato i ministri hanno iniziato a sentirsi uomini rivestiti di un potere e di una dignità non condivisa dal resto dei fedeli, i quali pure contirbuiscono a sostenere questa mal intesa dignità. Dall’altro, le conseguenze pratiche: sentirsi speciali e dotati di un potere superiore (oltre al vero potere spirituale, che è il servizio e la carità); tante volte questo disagio è diventato e si è manifestato in tanti abusi, come quelli di coscienza, e purtroppo a volte sessuali. Quale soluzione? Rivedere sinodalmente il tema dell’identità sacerdotale, dopo un approfondito studio storico-teologico, che tenga conto della sensiblità attuale, che non abbia paura di ascoltare la gente di oggi. Tutti: vicini e lontani; non soltanto quelli che si vedono in Chiesa, poiché a volte sono soltanto uno specchio di quei sacerdoti e teologi che li hanno fatti a loro immagine. Riscopriamo un’identità sacerdotale più vicina alla Tradizione e a Gesù, priva di tanti aspetti mondani.

umanesimo integrale

I quattro elementi costitutivi dell’errore morale di Piotr Zygulski

“la consapevolezza per l’interiorità è progressivamente cresciuta: intenzioni, circostanze e attenuanti hanno assunto un ruolo fondamentale nel discernimento”

Nell’ottava delle “Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale” (Editrice Massimo, Milano 1996) Jacques Maritain affronta due “concetti fondamentali pratici”: diritto ed errore. A differenza dei “concetti fondamentali sistematici” di bene/ fine/valore/norma, quelli pratici hanno una valenza più etica e la loro razionalità si trova sempre intrecciata con il contesto sociale, culturale, antropologico e religioso in cui sono vissuti. Possiamo tentare di distinguere filosoficamente tra il germe razionale e la semente che ne costituisce il suo involucro storico relativo che ci si presenta alla vista; occorre però una certa attenzione. Venendo in particolar modo al concetto di errore – qui si inten-

de l’errore di tipo morale, quello che teologicamente si definisce “peccato” – Maritain lo descrive esplicitando quattro elementi costitutivi. Il primo è l’atto esterno cattivo implicato nell’errore, vale a dire l’oggetto astrattamente inteso, a prescindere da ciò che desidera il soggetto; pensiamo ad esempio all’uccisione di una persona, che può essere volontaria oppure no, eppure la soppressione di una vita umana resta sempre un atto oggettivamente cattivo. Allora perché si possa parlare di un errore che sia anche peccato occorre almeno un secondo elemento: la volontà di compiere quell’atto cattivo. Un’uccisione involontaria può rientrare nel tipo dell’“errore tragico”, come


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59 quello irredimibile di Edipo, schiacciato dalla sventura del Cosmo, ingannato dal sadismo degli dèi. Al contrario, una volontà che non rispondesse delle proprie conseguenze oggettive può essere definita “innocenza perversa”. Storicamente, anche grazie all’avvento del cristianesimo, la consapevolezza per l’interiorità è progressivamente cresciuta: intenzioni, circostanze e attenuanti hanno assunto un ruolo fondamentale nel discernimento, che non per questo risulta più agevole. Tutt’altro: è molto più semplice fermarsi all’esteriorità che non scrutare i moti interiori dell’anima. Alla coscienza non si può non obbedire, anche qualora ordinasse qualcosa di male: va obbedita anche la “coscienza invincibilmente errata”, che non permette di riconoscere un atto come cattivo; ciò può dipendere da uno squilibrio mentale oppure no. Maritain porta come esempio quello di una madre che sopprime il figlio subito dopo il battesimo per mandarlo immediatamente in Paradiso – applicando in modo demenziale due concetti corretti: il significato redentivo del battesimo e la beatitudine dopo la morte – e quello di alcuni ragazzini di periferia che compiono piccoli furti senza la consapevolezza del fatto che sia sbagliato farlo. Anch’essi, pur assecondando la coscienza, fanno male: l’unica possibilità di agire bene passerebbe per la riforma della propria coscienza.

Oltre all’atto esterno e alla volontà entra allora in gioco la responsabilità psicologica, sempre più considerata in ambito penalistico; sforzo nobile da un lato, ma con risultati spesso deludenti. Se si dice che la Chiesa non può giudicare l’interno della coscienza stessa – perché tale ruolo spetterebbe solo a Dio – perché mai un magistrato, in nome della società, dovrebbe giudicare la psiche di un uomo? Questo si domanda Maritain, caldeggiando una separazione tra il ruolo giudiziario del tribunale che dovrebbe limitarsi all’atto esterno tenendo conto di intenzioni, circostanze e attenuanti – ma presupponendo la piena responsabilità psicologica dell’imputato – e il ruolo scientifico di saggi periti psichiatrici, esperti ai quali eventualmente ricorrere dopo la condanna perché valutino con saggezza una mitigazione della pena. Vi è infine il quarto elemento costitutivo: contro chi si compie quell’errore morale? Il filosofo francese presenta tre possibilità: l’universo della società (vita civile, comunità politica); l’universo dell’Essere (creazione); il Tutto trascendente (Dio). Se – magari con intenzioni buone – la disobbedienza a un ordine di un generale dell’esercito, il sostegno a un governo tirannico e il gettare una sigaretta accesa per terra rientrano nella prima casistica, il pensiero greco si soffermava soprattutto sugli errori del secondo tipo. Per il pensiero ebraico-

cristiano invece è l’errore contro il Tutto trascendente a venire giudicato con maggiore severità: offendere Dio, in termini filosofici, significa privare l’Atto puro della Sua Beatitudine. Non si tratta solo di una nozione di fede rivelata: la ragione ha tutti gli strumenti per riflettervi sopra in termini laici. Usando le parole di Maritain, si consuma un deicidio quando, peccando, si «priva la volontà divina di qualcosa che realmente ha voluto» (p. 229), vale a dire la salvezza di tutti gli uomini e la bontà di tutti gli atti umani. Il peccato fa morire eternamente la possibilità della bontà di un atto buono, amato e voluto da Dio. Pertanto con il suo agire l’uomo può limitare Dio, rendendosi causa “nientificante” di una privazione che non intacca il bene di Dio, bensì effettivamente la Sua Volontà antecedente ogni cosa da lui amata e voluta. Sebbene la Sua pace in sé non possa venire mai meno, il peccato “impoverisce” Dio negli effetti e negli affetti. Gli spezza il cuore, nella misura in cui tale atto cattivo sia indirizzato alla nientificazione di Dio, a calpestare l’amore che ha per le singole creature. «In ciò si può dire che Dio è il più vulnerabile degli esseri» (p. 230), perché è sufficiente un lieve moto interiore all’interno di un soggetto libero che la volontà divina viene ferita. Il peccato, per iniziativa della creatura, impedisce di fatto a Dio di amare così com’è un altro tassello del creato che – in quanto creato – Egli nella Sua

libertà ha voluto realmente custodire nel suo cuore e condurre alla salvezza. Da sempre.

“il peccato fa morire eternamente la possibilità della bontà di un atto buono, amato e voluto da Dio”


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a misura d’uomo

La Chiesa si oppone al neoliberismo da parecchi anni a cura di Lucandrea Massaro

Per la Chiesa la questione della dimensione umana e sociale del lavoro è sempre stata centrale. Si potrebbe iniziare anche solo citando Paolo: «Quando eravamo da voi vi abbiamo sempre imposto questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (2Ts 3,10). Siamo dunque agli albori della cristianità e il ruolo sociale del lavoro è centrale. Lo è nella Bibbia tutta a dire il vero, ma è in particolare nel Magistero sociale della Chiesa degli ultimi due secoli circa che il rapporto tra umanità, lavoro, economia

viene approfondito a partire dallo sviluppo capitalistico e dalla cosiddetta “questione sociale”. La risposta di Leone XIII con la Rerum Novarum si pone come via mediana tra liberalismo e socialismo, pur mettendo le cose in chiaro su alcuni diritti degli operai. Tuttavia una critica – in nuce – a quello specifico sviluppo del capitalismo finanziario che noi oggi chiamiamo neoliberismo, a mio parere, esiste e andrebbe esplorato maggiormente nell’ot-

tica di uno sviluppo organico di una teologia politica che sia di ispirazione e guida per il laicato cattolico che abbia responsabilità in campo legislativo, sindacale, cooperativo o imprenditoriale. Questo è necessario perché solo politicamente si potranno cambiare gli assurdi vincoli che rendono gli stati inermi sia di fronte ai poteri economici, sia di fronte alle esigenze della popolazione, tanto più in tempi di crisi e di riassetto industriale. Benedetto XVI ebbe a dire, nel 2007 durante un Angelus da Castel Gandolfo, che: «L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile». Su Vita (2013, all’indomani delle dimissioni), lo storico dell’economia Giulio Sapelli guarda più in profondità e spiega perché il salto voluto dalla Caritas in Veritate completa e supera la Rerum Novarum ponendo un po’ più in là l’asticella del rapporto tra Chiesa e capitalismo: «Ratzinger è stato il Papa della Caritas in Veritate, un’enciclica che ha la stessa importanza della Rerum Novarum di Leone XIII. Anzi, direi che è ancora più

importante, perché con quel testo la Chiesa per la prima volta ha ammesso nel modo più chiaro possibile la “poligamia delle forme di scambio”, la necessità che esistano diverse forme di proprietà: non solo quella capitalistica, ma anche quella cooperativa e quella del no profit, in vista di un’economia che sia davvero al servizio della persona. La Caritas in Veritate indica che ci può essere una formazione economico-sociale oltre al capitalismo, che mi sembra non abbia dato buone prove di sé in questi ultimi decenni. Credo che questa enciclica avrà un’importanza straordinaria non solo sul piano teologico, ma anche su quello della riflessione economica: ha denunciato la finanza fine a se stessa, la speculazione, la disoccupazione. La Caritas in Veritate è animata da un vero e proprio atto d’accusa contro l’accumulazione capitalistica e il profitto fine a se stesso». Cresce la consapevolezza che l’assetto capitalistico di per sé mina la dignità dell’uomo. Non è un caso che un pontefice come Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae abbia scritto: «Siamo di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera “cultura di morte”». Per Giovanni Paolo II dunque al di là delle scelte personali che fanno capo

“cresce la consapevolezza che l’assetto capitalistico di per sé mina la dignità dell’uomo”


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63 alla coscienza e possono essere peccaminose o meno, esiste una dimensione quadro in cui tutti i rapporti sociali vengono viziati, le cosiddette “strutture sociali di peccato”, una categoria che oggi ben si adatta a descrivere le condizioni di vita delle persone, anche nella ricca Europa. La precarizzazione della vita lavorativa ha avuto effetti devastanti sulla vita personale e familiare, minandone le fondamenta o distruggendone i presupposti. Dichiarazioni come quelle a cui ci ha abituato Papa Francesco non sono quindi una novità, se non forse nei toni, ma un ragionamento che prende vita dalla tradizione magisteriale dei suoi predecessori che nel tempo hanno aggiustato il tiro. Così Bergoglio fin da subito dopo la sua elezione: «La crisi mondiale che tocca la finanza e l’economia sembra mettere in luce le loro deformità e soprattutto la grave carenza della loro prospettiva antropologica, che riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo. E peggio ancora, oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo incominciato questa cultura dello scarto». «Questa deriva si riscontra a livello individuale e sociale; e viene favorita! In un tale contesto, la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di

una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce». «Questo squilibrio – affermava il Papa - deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole». Non solo: «L’indebitamento e il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti». Ne deriva quindi una lettura del tutto negativa da parte della Chiesa del capitalismo finanziario in particolare e dopo le prese di posizione sull’ambiente del capitalismo tout court, dove i costi sociali del consumismo ricadono principalmente sui poveri e i poverissimi del mondo. Questo non fa della Chiesa un alleato della “sinistra” politica, ma è evidente che mette la Chiesa in una posizione necessariamente oppositiva al mercato. I pontefici stanno facendo il loro lavoro, ma i laici?

Impressiones

Sulla trilogia di Matrix e il fondamento dell’esistenza di Davide Penna

“un trattato cinematografico di ontologia”

Il capolavoro dei fratelli Wachowski ha, senza dubbio, inciso profondamente sulla storia del cinema. Non solo per la storia, quanto mai originale, e per le sequenze avvincenti, ma anche per il modo stesso di concepire la narrazione, la grafica e il movimento dei personaggi. Tutti abbiamo in mente come Neo riesca a schivare le pallottole, come Trinity salti da un palazzo all’altro e come Morpheus colpisca, a colpi di karaté, gli avversari. Ma la grandezza del colossal, su cui voglio riflettere dalle colonne di questo numero di Nipoti, va oltre la mera storia o gli straordinari effetti scenici del film. Matrix è, infatti, una vera e propria fucina di temi filosofi-

ci, come il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione di essa, oppure tra umanità e robot, o ancora sui sistemi ideologici e, quindi, sulla effettiva, o meno, libertà delle nostre scelte. I nomi stessi degli eroi della saga (Neo come anagramma di One, l’Uno, Trinity, Morpheus) rivelano, a ben vedere, un significato profondo, tra il biblico e il mitologico, in cui sarebbe interessante entrare. In un breve articolo, pertanto, non si può avere la pretesa nemmeno di entrare in tutta la complessità di questo straordinario capolavoro cinematografico. Vorrei, tuttavia, riflettere su uno degli aspetti che più affascinano della narrazione: ovvero la profondissima e audace riflessione sul senso e il


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65 fondamento dell’esistenza.

“l’amore è il vero virus, ciò che le macchine non possono controllare”

Sì, avete capito bene. Matrix potrebbe essere tranquillamente inteso come un trattato cinematografico di ontologia. In un film avvincente e mai noioso, infatti, i registi e gli sceneggiatori sono riusciti a proporre una tra le domande più profonde che l’essere umano si pone e si è sempre posto: Qual è l’origine del mondo? Perché c’è l’essere piuttosto che il nulla? Esiste la libertà e la scelta o tutto è frutto di un programma di rapporti causa-effetto il cui ultimo fine è la pura e semplice volontà irrazionale e irrefrenabile di potenza, di essere, di esistere? Molto della narrazione cinematografica potrebbe portare a propendere per la seconda opzione, secondo cui niente e nessuno può sfuggire alla profonda causalità che, in fondo, non rivela altro che una insaziabile e disperata casualità metafisica. L’agente Smith, il Merovingio e Matrix sono le incarnazioni di questa ordinata logica il cui fondo è un vuoto disperante. Tutto è strettamente collegato e preordinato, perfino le sensazioni e gli umori umani più irrazionali; nulla sembrerebbe sfuggire alla pre-visione delle macchine, in grado anche di pre-dire le variabili conseguenze e reazioni della non-libertà umana. Neo, infatti, in Matrix Reloaded, su rivelazione di un altro straordinario personaggio, l’Architetto che tutto sa e tutto mette insieme, scopre

di essere solo uno dei tantissimi eletti ovvero codici, per così dire, impazziti, che, sebbene sembrano sfuggire all’organizzazione perfetta delle macchine, in realtà, con la loro ribellione, conservano, dimostrano e permettono di rafforzare il controllo robotico sull’umanità. Neo è solo un ingranaggio costruito per illudere gli uomini che ci sia spazio per la loro ribellione, la quale, in profondità, dice libertà di auto-determinazione. Le macchine, conoscendo il “folle” amore per la libertà degli uomini, hanno introdotto, come parte del sistema, la possibilità di ribellarsi ad esso. La libertà, in Matrix, è, quindi, sintomo di una più profonda malattia e schiavitù. Il trauma è paralizzante per il personaggio interpretato da Keanu Reeves, a cui è riservata la possibilità di scegliere due vie: o salvare quel che resta dell’umanità per farla reintegrare, in un nuovo e più sofisticato, sistemaMatrix o salvare l’amore, Trinity, pur nella consapevolezza della limitatezza di questa esperienza. Neo, e sembra essere questo il nucleo forte del messaggio del film, sceglie il limite consapevole, e, quindi, sceglie l’amore. Perché? Perché l’amore è il vero virus, ciò che le macchine non possono controllare. In che senso? E che cos’è questo Amore? Le figure dell’amore nel film sono tre: Neo, Trinity e l’Oracolo (che, come sappiamo dal primo film, sulla cucina ha appesa una scrit-

ta incisa sul legno, Temet nosce, l’antico avvertimento delficosocratico, fatto proprio da una lunga tradizione cristiana, del Conosci te stesso). Neo e Trinity sono capaci di dare la vita l’uno per l’altro; ma questa capacità si rivela, nel corso del film, autentica se aperta anche agli altri. Questa realtà dell’Amore viene rappresentata, infatti, durante il film come «gli occhi dell’oracolo, qualcosa che non può essere preso ma solo dato»; quella realtà, potremmo aggiungere, che è, solo nella misura in cui è perduta; che, se diventa qualcosa “da prendere”, uccide; ovvero quella profonda consapevolezza per cui la volontà di potenza è piegata, annullata, sciolta nella dimensione oblativa, dispiegata dal pensare e volere che l’altro sia, contro ogni calcolo che ritiene la gratuità semplice follia. Neo e Trinity possono darsi la vita reciprocamente se aprono e offrono, questo dono reciproco che l’amore è, a tutta l’umanità. A questa logica, sembrano piegarsi perfino le macchine, che quasi contemplano il sacrificio finale di Neo. Non solo Matrix, ma tutta la realtà, compresa quindi quella reale delle macchine, accettano la pacificazione portata da questo strano e non previsto eletto: l’amore che conduce al dono di sé. Il vero nemico si risolve, alla fine, nell’agente Smith, quel custode di Matrix che vuole l’annientamento di tutto ciò che è altro da sé in nome di una fredda e disperata volontà di potenza.

Anche Smith è ribelle, infatti dal secondo film non è più incaricato dalle macchine; ma la sua ribellione nasce dalla volontà di controllare il mondo, non di salvarlo. Neo, Trinity, e l’Oracolo fondano il loro sacrificio e i loro progetti su una ferma, decisa, irrevocabile scelta: che l’altro sia.

“una ferma, decisa, irrevocabile scelta: che l’altro sia”


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recensione

Politica (Gilbert K. Chesterton, NovaEuropa, Milano 2017) a cura di Andrea Virga

“stile brillante e paradossale dell’autore inglese”

«L’intero mondo moderno si è diviso in Conservatori e Progressisti. Il compito dei Progressisti è andare avanti facendo errori. Il compito dei Conservatori è impedire che questi errori siano corretti».

da lui profuso anche in questo ambito, spesso in collaborazione col suo sodale Hilaire Belloc. Anche in questo caso, però, l’interesse del lettore si concentra piuttosto sul distributismo.

Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton non è certo sconosciuto al pubblico italiano, in particolare a quello cattolico, e numerosi libri a sua firma sono stati tradotti e pubblicati nel nostro Paese, per i tipi di varie case editrici, a partire dalla Lindau. Tuttavia, a fare la parte del leone sono le opere di narrativa, come i gialli che hanno per protagonista Padre Brown, e di apologetica. Meno note e diffuse sono invece le sue opere politiche, nonostante l’impegno

Del resto, questo vuoto non era del tutto casuale. Infatti, per i cattolici italiani odierni, troppo spesso appiattiti su posizioni democristiane o liberalconservatrici, certe posizioni sono sicuramente scomode. La sua penna non può che riuscire molesta a chi accetta come dogmi lo Stato moderno, l’Occidente e il libero mercato. Né è certo meno tenero verso la sinistra, magari ancora legata a posizioni altrettanto dogmaticamente

socio-assistenzialiste o costituzionaliste. Chesterton, dopo aver attaccato liberalismo, capitalismo e imperialismo, non manca di fustigare progressismo, umanitarismo e socialismo. Anzi, in generale, lo stile brillante e paradossale dell’autore inglese costituisce un ulteriore pungolo nei confronti dei suoi correligionari che cercano di conciliare Dio e Mammona o Dio e il Mondo, distinguendo tra devozione privata e impegno pubblico. Viceversa, questa antologia di testi mira invece ad offrire una visione più ampia ed esaustiva della produzione pubblicistica e della visione politica di Chesterton. Non a caso, si tratta di una piccola casa editrice emergente, la NovaEuropa Edizioni, che si propone di vivificare e approfondire il dibattito sul comunitarismo da una prospettiva molto plurale, sia negli approcci che nei linguaggi. Il presente testo, quindi, inaugura la collana “Auctores”, assumendo lo scrittore inglese tra i precursori del discorso comunitario. “Politica” si compone, dunque, di una selezione di 20 scritti di Chesterton, tratti dalle sue pubblicazioni sulla stampa inglese dell’epoca, che abbracciano un periodo di tempo molto ampio, dal 1902 fino al 1936, anno della sua morte. La traduzione dall’inglese è di Camilla Scarpa, a cui si deve anche un piccolo indice dei personaggi storici citati, utili a orientarsi nella politica britannica dell’epoca. In coda

vi è un saggio del curatore ed editore, Orazio Maria Gnerre, su Chesterton e il comunitarismo, che rende ragione di questa scelta editoriale, sottolineando la radicale alterità del pensiero politico chestertoniano, a partire dal distributismo, rispetto al liberalcapitalismo egemone allora (come oggi). Infine, il tutto è introdotto da una prefazione del saggista cattolico Paolo Gulisano, vicepresidente e fondatore della Società Chestertoniana Italiana, dedicata al rapporto tra individuo e società in Chesterton. Chi scrive non è un grande estimatore delle sillogi, dato che costringono inevitabilmente a operare dei tagli più o meno arbitrari rispetto invece a edizioni complete, che consentono di divulgare in maniera più esaustiva l’opera di un autore. Tuttavia, va dato atto che questo testo riesce sicuramente nell’intento di presentare al lettore italiano le posizioni politiche dell’Autore, anche prescindendo del tutto dalla teoria economica del distributismo, che è quella che è più spesso associata al nome di Chesterton. I testi scelti sono piuttosto indicativi tanto dello sviluppo storico del suo pensiero, quanto della varietà dei “bersagli”, contro cui lo scrittore inglese lanciava le sue “frecce” polemiche. Del resto, questi articoli, nonostante risalgano al secolo scorso, sono ancora attuali e pungenti. Non manca neanche la pars construens, laddove


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69 Nipoti di Maritain Chesterton, dopo aver smontato le astrazioni liberali, vi contrappone il buon senso comune dell’Inghilterra rurale, adottando come punto di vista sempre quello del lavoratore e dell’uomo della strada, vittima di una vera e propria persecuzione da parte delle classi dominanti (di destra o di sinistra che siano).

“mai supini oppure megafoni delle ideologie e delle mode di turno, ma sempre sanamente critici e realisti”

È un’opera che dimostra come – checché ne dicano gli eurasiatisti più sfrenati – neanche il moderno mondo anglosassone possa essere ridotto polemicamente a una distesa di banche e grattacieli, ma contenga invece tanti autori che, dal ventre della balena, non hanno mancato di criticare il “mondo libero” occidentale e avanzare le loro proposte, non mutuate dall’esterno, ma congeniali alla propria cultura e tradizione. È il caso di Chesterton e Belloc, ma anche di Pound, MacIntyre, e tanti altri scrittori e pensatori di provenienza angloamericana, ma a vocazione comunitaria. In conclusione, Politica colma effettivamente una lacuna nella bibliografia chestertoniana in italiano, attirando l’attenzione anche sul pensiero politico di un Autore, forse più citato che letto. Al tempo stesso, inoltre, costituisce un invito a riscoprire il ruolo dei cattolici di fronte al mondo moderno: mai supini oppure megafoni delle ideologie e delle mode di turno, ma sempre sanamente critici e realisti.

Autori Gioele Ferruccio Anni Nato a Bertonico (LO) nel 1990, ha conseguito la Laurea triennale in Lettere moderne all’Università Cattolica di Milano e la magistrale in Editoria e scrittura alla Sapienza di Roma con una tesi sul posizionamento dei giornali cattolici di fronte al compromesso storico DC-PCI. Ha concluso il praticantato giornalistico alla Scuola “Walter Tobagi” dell’Università Statale di Milano e ha lavorato per l’ufficio nazionale di Pastorale giovanile della CEI in vista della Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia 2016, occupandosi di ufficio stampa e social media. Cresciuto nell’Azione Cattolica di Lodi, sino al 2017 è stato segretario nazionale del Movimento Studenti di Azione Cattolica (MSAC), per poi divenire Consigliere nazionale per il Settore Giovani di AC. Lorenzo Banducci Nato a Lucca nel 1988, si è laureato in Odontoiatria a Pisa nel 2012 e dal 2013 esercita la professione in vari studi della Toscana. È stato fra i rifondatori del gruppo FUCI di Lucca nel 2009 per poi esserne responsabile regionale per la Toscana dal 2010 al 2012. Dal 2011 ad oggi ha incarichi diocesani in Azione Cattolica di Lucca dove attualmente è VicePresidente del Settore Giovani. Con Niccolò Bonetti è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. iaffo@hotmail.it Niccolò Bonetti Nato a Lucca nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la laurea triennale e poi quella magistrale in Filosofia presso l’Università di Pisa, con particolare interesse per la storia del pensiero patristico e medievale. È impegnato nell’Azione Cattolica e nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale di cui è vicepresidente diocesano. È stato impegnato nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, per la quale è stato consigliere centrale. È segretario del centro culturale “P.M. Vermigli” fondato dalla Chiesa valdese di Lucca. Con Lorenzo Banducci è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. Andrea Bosio Nato a Genova nel 1980, si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova con una tesi sulla narrazione della fisica nella società contemporanea; insegnante, studia Scienze religiose presso l’ISSR di Albenga-Imperia e si occupa di storia contemporanea della Chiesa. Fabio Cittadini Nato nel 1984 a Recanati (MC), dopo la maturità classica ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il Baccalaureato presso la Pontificia Università Lateranense e la Licenza in Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Dal 2008 al 2014 ha scritto per il settimanale

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diocesano “Emmaus” di Macerata. Dal 2015 è redattore del quotidiano online “Korazym. org”, assistente in Teologia alla Cattolica di Milano a docente di Religione in una scuola di superiore della città. Tra le numerose pubblicazioni si segnala “Introduzione alla vita cristiana di un politico” (Segno 2013).

Religioni presso l’Università di Roma Tre ha collaborato con la divisione radiofonia della RAI e con alcune testate del mondo del lavoro. Giornalista professionista, attualmente è co-editor e social media manager di Aleteia, network sulla fede cristiana. lucandrea.massaro@gmail.com

Immacolata Giuliani Nata a Foggia nel 1975, vive a Roma dal 1990 ed è laureata in Psicologia dei processi cognitivi presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Criminologa, esperta in persone scomparse, è consulente di parte civile e per la procura in molti processi conosciuti alle cronache nazionali e internazionali: Trattativa Stato/Mafia, Mafia Capitale, omicidio di Meredith Kercher e altri, oltre che per la redazione de “I Fatti Vostri” di Rai 2. È docente nei seminari di Scienze forensi presso la Scuola Militare Nunziatella di Napoli e Direttore scientifico della rivista “NOUS: Scienza e politica nel sociale” (Aracne editrice).

Fabrizio Mignacca Nato a Roma nel 1974, è psicologo psicoterapeuta laureato all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi empirica dal titolo “Donne in Aeronautica Militare. Studio sull’impatto del personale femminile in servizio nella Forza armata sullo staff maschile” e specializzato presso il Centro Studi Psicosomatica di Roma, indirizzo Gestalt-Analitico. Già docente a contratto della Facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università di Roma “Tor Vergata”, attualmente insegna nei seminari di Scienze forensi della Scuola militare Nunziatella di Napoli, presidente dell’Associazione “Progetto Vittime”, coordinatore scientifico dell’Unità di prevenzione e analisi criminologica e caporedattore della rivista “NOUS: Scienza e politica nel sociale” (Aracne editrice).

Rocco Gumina Nato a Caltanissetta nel 1985, insegna Religione nella Diocesi di Palermo. Dopo la licenza in Ecclesiologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi su Dossetti, ha conseguito un master all’Istituto di Studi Bioetici di Palermo – con cui ora collabora come docente – con uno studio sulla bio-politica di Habermas. È dottorando in Teologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Dal 2009 al 2011 ha presieduto il gruppo FUCI Caltanissetta; dal 2014 è presidente dell’associazione culturale “A. De Gasperi”. Collabora con l’Ufficio IRC della Diocesi di Palermo e pubblica su Ricerche teologiche, Ho Theológos e Bio-ethos, della quale è redattore. Michele Ambrogio Lanza Nato a Nocera Inferiore nel 1995 ma Irpino Doc, dopo la maturità classica ha conseguito, con lode, la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Salerno con una tesi sui dialoghi delfici di Plutarco. Si occupa prevalentemente di filosofia antica ed è regista e autore nella “Compagnia teatrale fuorisede” da lui fondata. È attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l’Università di Salerno ed è segretario dell’Associazione studentesca “Koinè”. Scrive presso il trimestrale “Il Seminario”. Mattia Lusetti Nato a Mondovì (CN) nel 1985, inizia gli studi teologici presso lo S.T.I. di Fossano conseguendo poi il baccellierato in Teologia a Roma (Pontificia Università Gregoriana) con un lavoro sull’Incarnazione in Tommaso d’Aquino; prosegue gli studi filosofici conseguendo la laurea triennale (Università Tor Vergata, Roma) con un lavoro sulla Husserl e la licenza in Filosofia (Pontificia Università Gregoriana, Roma) con un lavoro sull’etica di Aristotele. Insegna da cinque anni Religione Cattolica in Licei e Istituti Tecnici a Roma. Lucandrea Massaro @Jarluc Nato a Roma nel 1980, dopo la laurea in Storia e la laurea magistrale in Scienze delle

Davide Penna Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova, ha conseguito il Diploma in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, con indirizzo Ontologia Trinitaria, presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. Nel 2015 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia; dallo stesso anno ha iniziato a insegnare nei licei e il percorso di dottorato presso il consorzio FINO - Università di Genova. Dal 2017 è professore di ruolo presso il liceo Carlo Amoretti e artistico di Imperia. È presidente dell’Associazione culturale “Arena Petri” e di Amici di Sophia. Giovanni Francesco Piccinno Nato a Nardò (LE) nel 1989, dopo aver conseguito la Laurea in Filosofia a Lecce presso l’Università del Salento ha proseguito gli studi filosofici a Firenze e successivamente ha conseguito la Laurea in Scienze Religiose presso l’ISSRM di Lecce, dove conclude il percorso di studi nell’indirizzo pedagogico-didattico della Laurea Magistrale con una tesi dal titolo: “Il Messia sconfitto e vivente. Una lettura esegetico-teologica di Mt 26-27”. Da settembre 2018 è Docente IRC della Diocesi di Albano, attento alle dinamiche didatticocomunicative della Religione Cattolica e nutre vivo interesse per la Storia delle Origini cristiane e la Teologia Biblica. giopic24@gmail.com Filomena Piccolantonio Nata a San Giovanni Rotondo (FG) nel 1986, si è laureata in Lettere Moderne a Ferrara e ha conseguito la specializzazione in Storia Moderna presso l’Università di Pisa. Attualmente studia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e insegna religione cattolica nelle scuole primarie.

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Christian Alberto Polli Nato a Monza nel 1989, da sempre vive a Brugherio. Dopo la maturità classica ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ottenendo nel 2013 la laurea triennale in lettere moderne e nel 2015 la laurea magistrale in Filologia Moderna con una tesi storico-religiosa incentrata sulla visione che l’ancora anglicano John Henry Newman aveva dell’ufficio pontificio. Cresciuto nella spiritualità dehoniana, è poeta e studia presso l’Archivio di Stato di Milano. Impegnato nella ricerca storica locale, da due anni insegna Storia d’Italia all’ACU (Accademia della Cultura Universale). Collabora inoltre attivamente alla redazione di voci d’ambito storico e umanistico su wikipedia. Manuel Alejandro Serra Pérez Nato a Murcia (Spagna) nel 1980, presbitero dal 2005, dopo una Licenza in Teologia Morale presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II sul fondamento metafisico dell’etica, ha studiato in Gregoriana, terminando nel 2015 la Licenza all’Università ecclesiastica S. Dámaso (Madrid) con una tesi sulla quinta via tomista all’esistenza di Dio. Nel 2018 all’Università cattolica S. Antonio da Murcia ha conseguito il dottorato su “Gilson: un estudio del actus essendi de Tomás de Aquino”. Ha insegnato all’Istituto Teologico S. Fulgencio e all’Istituto Giovanni Paolo II di Murcia. Dal 2014 è docente di pedagogia e didattica della religione all’Università pubblica di Murcia. Andrea Virga Nato a Casale Monferrato (AL) nel 1987, ha frequentato la Scuola Normale Superiore di Pisa (2006-2011), laureandosi all’Università di Pisa in Filosofia (2009) e in Storia e Civiltà (2013), e conseguito il dottorato in Political History presso IMT Lucca. Nel corso degli anni, ha condotto studi e ricerche all’estero in Germania, Francia, Spagna, Brasile e Cuba. Ha scritto numerosi articoli e saggi per pubblicazioni cartacee e virtuali, occupandosi prevalentemente di storia delle idee e delle ideologie. Attualmente studia Scienze Internazionali presso l’Università di Torino e collabora con diverse riviste (es. “Diorama Letterario”, “Trasgressioni”) e case editrici (NovaEuropa, La Vela). Piotr Zygulski @piozyg Nato a Genova nel 1993, dopo la maturità scientifica e la laurea in Economia all’Università di Genova, ha proseguito gli studi all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano e all’Università di Perugia, conseguendo due lauree magistrali rispettivamente in Ontologia Trinitaria e in Filosofia, con una tesi sull’apertura teologica dell’attualismo gentiliano. È dottorando a Sophia sotto la guida dei teologi Mohammad Ali Shomali e Piero Coda su tematiche escatologiche cristiane e musulmane. L’ultima sua pubblicazione è “Il battesimo di Gesù” (EDB 2019). Giornalista pubblicista, è redattore della testata Termometro Politico e dal 2016 dirige Nipoti di Maritain. pz.senet@hotmail.it

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nel prossimo numero: Ambito etico/morale: Come ripensare la teoria della “guerra giusta”? Ambito politico/sociale: Quale impegno per i cristiani in politica: un partito, una rete o qualcos’altro? Ambito pastorale/ecclesiale: Cosa può ancora dire san Tommaso d’Aquino alla Chiesa di oggi? Accettiamo interventi di risposta di massimo 1000 parole da farci pervenire all’indirizzo inipotidimaritain6@gmail.com entro il 30 giugno 2019.

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