ISSN 2531-7040
n.04
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nipoti di
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teologia e neuroscienze
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essere cattolici
la sfida del populismo
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riflessioni sul film Silence
Nipoti di Maritain Anno II Numero 4
ISSN 2531-7040
17 luglio 2017
Direttore Responsabile: Piotr Zygulski Redazione: Lorenzo Banducci, Niccolò Bonetti Progetto Grafico e Impaginazione: Mattia Carletti, Gianni Oderda Editore e Proprietà: Nipoti di Maritain è edito dall’associazione di fatto non riconosciuta – con lo scopo di diffondere il dibattito ecclesiale – denominata “Nipoti di Maritain”, che ne possiede piena proprietà. La sede è presso la Casa delle Associazioni Laicali in Via San Nicolao 81 - 55100 Lucca. Pubblicazione: Nipoti di Maritain è un prodotto editoriale, numerato in sequenza di pubblicazione, non soggetto ad obbligo di registrazione in quanto privo di periodicità regolare (legge n. 62/2001, art. 1). È pubblicato presso World Wide Web in formato PDF scaricabile al link https://issuu.com/nipotidimaritain Diritti: Nipoti di Maritain è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale
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Dibattito • TEOLOGIA E NEUROSCIENZE 10
La neuroteologia fondamentale, una proposta di pensiero critico di Montserrat Escribano-Cárcel
13
Dio ha creato il cervello o il cervello ha creato Dio? di Giuseppe Viola
16
Libertà, anima, fede: un invito a ripensarne i concetti di Gianluca Montaldi
19
Per una teologia neuroscientificamente informata di Piotr Zygulski
Indice
• POPULISMO 24
Un papa che ha letto Laclau? di Francesco Garrapa
27
Populismi, nella storia e negli spazi: la vera sfida di Andrea Virga
30
Aiuto, i populisti! di Emanuele Pinelli
33
La scommessa populista di Tommaso Nencioni
36
Il popolo, il mito, la storia: Papa Francesco e Maritain di Federico Stella
38
Come si costruisce un popolo di Alessandro Visalli
42
Il popolo al potere di Rocco Gumina
• CATTOLICITÀ 4 6 Cattolicesimo e “Cattolicesimi”: ermeneutica di un titolo
di Christian A. Polli
49
Credo la Chiesa “cattolica”: unità o uniformità? di Rosario Sciarrotta
52
Il cattolicesimo costituisce la pienezza della verità di Daniele Laganà
55
Cattolico ieri, oggi, domani di Andrea Bosio
58
Perché è ragionevole essere cattolici di Nicola G. Tatulli
61
Sulle tracce dell’identità ecclesiale di Alessandro Clemenzia
Rubriche Laudate Hominem 6 4 Sull’immagine acheropita di S.Domenico di
Soriano di Marco S. Narducci
UMANESIMO INTEGRALE 6 7 Essere cattolici nell’epoca dell’ipercapitalismo
e del disincanto di Stefano Gherardi
A MISURA D’UOMO 6 9 Bene-dire la differenza: la speranza per un futuro
sostenibile di Davide Penna
A BEN VEDERE 7 2 Perdere Dio per Dio. Libera riflessione su Silence
di Emanuele Pili
IMPRESSIONES 7 5 Silence: l’aridità che feconda di Davide Penna
RECENSIONE 7 8 Noi come cittadini, noi come popolo a cura di Lucandrea Mas-
saro
5
6 Nipoti di Maritain
Editoriale di Lorenzo Banducci
Siamo giunti al quarto numero della nostra rivista, che in queste settimane compie anche il suo primo anno di vita. Il progetto, cari lettori, prosegue con il tentativo di confrontarsi su tematiche alte e differenti che ci interroghino come cristiani nella nostra quotidianità. Lo stile che vuole contraddistinguerci è sempre il solito: inclusivo e aperto al dialogo e alle posizioni di tutti. Per me, personalmente, che nell’estate del 2012 avevo contribuito alla realizzazione dell’allora blog di “Nipoti di Maritain”, si tratta della concretizzazione di una bellissima idea: una rivista di chi ama la Chiesa e la società nella quale viviamo. È questo l’obiettivo che continuiamo a porci anche in questo numero.
Siamo tutti consapevoli di avere di fronte a noi battaglie importanti e difficili da condurre per migliorare, partendo dal nostro quotidiano, il mondo nel quale siamo chiamati a vivere e a operare. La rivista prova ad essere uno strumento di crescita e di maturazione, perché non fornisce risposte alle tematiche complesse che volta per volta scegliamo di affrontare, ma prova a dare strumenti per sviluppare ulteriormente le domande e le provocazioni dalla quale traggono origine gli articoli proposti. Un passo ulteriore da fare nei prossimi numeri, a mio avviso, sarà quello di rendere la rivista ulteriormente snella e fruibile da tutti, e non solo magari dai soli “addetti ai lavori”. Una rivista di
7 qualità, ma che rifiuti un certo tipo di elitarismo tipico di altre proposte anche ecclesiali che rischiano di produrre tante belle parole, ma che non sono un aiuto valido alla persona in ricerca (cristiana e non) alla quale proviamo a rivolgerci noi. Eccoci dunque in questa uscita ad affrontare un cammino impervio fra teologia e neuroscienze, evidenziando i legami sempre più stretti fra queste discipline e individuando nuove proposte e nuove forme di neuroteologia che tengano sempre più conto dell’esistenza di una connessione evidente fra spiritualità e benessere/salute della persona, superando vecchi schematismi del passato. Nelle pagine che seguono, affrontiamo un percorso all’interno di una parola che sta imperversando all’interno della politica quotidiana: populismo. I nostri autori provano, guidati dalle parole di Papa Francesco, ad analizzare questo fenomeno vedendolo oltre la sfaccettatura negativa che gli viene spesso attribuita a livello mediatico, cercando di capire in che maniera si riuscirà a far emergere gli aspetti propositivi oltre a quelli semplicemente di protesta che stanno dietro alle nuove forme di populismo. Ci siamo poi concentrati nell’ambito pastorale sul significato di cattolicità. Tutti i nostri autori hanno dato risposte di tipo
ecclesiale dalle quali emerge come il cattolicesimo sia apertura, tensione sconfinata verso l’altro, pienezza della verità, universalità e particolarità insieme, missione rivolta a tutta l’umanità. Manca forse in questi articoli una risposta che sia più personale e individuale sul senso di definirsi oggi cattolici. Una risposta capace di stimolare ciascuno a tradurre nel concreto della propria quotidianità tutti gli aggettivi sopra elencati che riguardano il cattolicesimo. Ma anche in questo sta il bello della nostra proposta: lasciare al lettore la possibilità di interrogarsi in proprio sul suo vissuto di ogni giorno. Arricchenti e interessanti sono le rubriche conclusive, che stimolano un’ulteriore riflessione e aprono altri orizzonti oltre a quelli trattati nei percorsi ormai divenuti tradizionali. Il progetto prosegue così, con i nostri piccoli mezzi, ma con l’idea di fare, nel nostro piccolo, un servizio alla comunità cristiana. Questo rimane il nostro primario obiettivo, speranzosi di crescere ancora e di allargare il cerchio di coloro che ci seguono con interesse e che abbiano voglia di camminare con noi.
8 Nipoti di Maritain Tem volenihilia pra volupta dolorisitiae nus voluptas inis velias et et laboratem fugita et quam dolutem core pre eum, quis apedi corianit, non ra qui con cullorrori offic tes ipsapis eatemporem di cum rerum venis porrore scius, con re estruntiore non nimusa volla audic te qui dolore ilique nonsente vit explabo rerunde nihicit vel idem accabo. Nem et dissiminum faccabo rumquisquas delest fugit quunt reptasperem alignieniet quid que prore, ut res maio. Nam doluptam excest, consequam voluptur, odist resti blatemq uatempo rporum eatet volluptatia doluptas explabore am fugiae name sum unt faccusam, corum fuga. Berem qui ommodipient et, nat landus vollendi voluptate comnihi tatur, conseque eium ea suntibus ulpario nseria si re corro quam, quistia quuntem con exceatem ne maximin nem la dolor ad ulles atureperatem ipicipsus cus. Cium cone nim a conet doluptiatum aute consequis expere cum ressum nostibus dest qui imus, is quodit rerio vit voluptiam incte est, ent. Ovide quos doluptate nia veles experum quatessitat moluptas reicia volorio. Ita nosam, te pedit volo blatior eptasiti blauta nus porume nulparia ene sunt omnihillam, quatium eatis doluptatem et mint lit, con rehenimaios excerisit fugiatem. Ceperferat essinto essit, untenihillab incimpos asi commolo ribusda ndamus nat. Hariassimin pa prem quam vera si cum haruptaquo magnam, quos enditem fugiat facepero exerro que imus. Que qui voluptiam, nobitat
Dibattito TEOLOGIA E NEUROSCIENZE « Quali sono le acquisizioni che gli studi di neuroscienze possono offrire alla teologia? Come può cambiare il modo di intendere la fede, la libertà e l’anima umana? »
10 Nipoti di Maritain
La neuroteologia fondamentale, spazio di pensiero critico di Montserrat Escribano-Cárcel Domande come queste accompagnano il dibattito tra le teologie e le neuroscienze. Uno dei motivi è l’enorme potere esplicativo che queste ultime hanno raggiunto e che le rende, assieme alle tecnologie farmacologiche e all’informatica, conoscenza legittima per capire cosa accada all’interno del nostro cervello. Inoltre, dalla fine del XX secolo, le neuroscienze hanno superato il loro perimetro scientifico e hanno trovato spazio nella vita sociale. A causa delle loro capacità interdisciplinari sono riuscite a rispondere a molti interrogativi sulla nostra intimità, sulla vita che conduciamo e anche sulle credenze, religiose e spirituali, che sorreggono la vita dei credenti. La conoscenza neuroscientifica offre nuove possibilità mediche, diagnosi più accurate delle infermità cognitive e anche la
scoperta di neurofarmaci che aumentano le nostre speranze per affrontare gravi malattie cognitive che ci affannano. Però allo stesso tempo intende svelare le capacità umane più complesse, come la sessualità, la memoria, la coscienza o le esperienze religiose, trascendentali e spirituali. Finora, di queste questioni se ne occupavano altre scienze, chiamate sociali, tra cui la teologia. Ma dal momento che Sigmund Freud ci ha avvisato della presenza nella nostra interiorità dell’inconscio o dell’Io, è aumentato l’interesse per la coscienza. Ai giorni nostri visualizzare – quasi in tempo reale – l’attivazione di certe aree del cervello ci ha fatto sognare di poter rivelare il senso della loro biologia. Ora si pensa che la materialità del cervello sia il luogo ove si possa comprendere completamente chi siamo, quale
11 sia la nostra intimità, per quale motivo ci comportiamo in determinati modi o abbiamo una certa credenza religiosa. Per la prima volta capiamo la realtà e tutto ciò che ha a che fare con l’identità dal cervello. La neuroscienza culturale rende possibile spiegare scientificamente la vita umana, e al contempo promette di cambiare la nostra comprensione dell’umanità. In questo nuovo scenario, la fisiologia e la complessa architettura cerebrale sono presentate come le uniche responsabili della nostra personalità, dei valori, delle nostre decisioni politiche e delle credenze religiose o spirituali che assumiamo. La loro capacità descrittiva esercita una grande influenza sulla costruzione delle nostre identità sociali e religiosi. Tuttavia, queste spiegazioni scientifiche sono assunte acriticamente come le risposte definitive ai nostri disturbi mentali, alla violenza sociale, alle preferenze sessuali, alle decisioni politiche o alle nostre speranze di credenti. Le neuroscienze sono un quadro di riferimento anche per le altre discipline. Il loro potere esplicativo risiede principalmente nelle evidenze che mostrano le letture delle immagini offerte dai nostri cervelli stimolati nei laboratori. Così i dati neurologici, processati logaritmicamente, inseriti in complicati processi informatici e convertiti in immagini sono adesso considerati responsabili di dar conto di ciò che siamo. La difficoltà è che se noi “siamo il nostro cervello” la vita umana, la storia vissuta o i nostri orizzonti desiderati possono avere la loro spiegazione ultima non
nella realtà di un Dio che ama tutti, bensì nei nostri correlati neuronali. È vero che le neuroscienze forniscono quadri esplicativi che ci aiutano ad avere una conoscenza sempre più precisa di quanto accada nel nostro cervello. Ma è anche vero che di per sé non possono spiegare la varietà presente nella vita sociale umana e politica né di quella religiosa o spirituale. Quindi, sebbene i contributi delle neuroscienze siano rivoluzionari, dobbiamo anche considerare la questione in senso inverso. Vale a dire, cioè, tenere a mente ciò che le teologie possono fare per queste discipline. A questa domanda cerca di rispondere la neuroteologia fondamentale. Si tratta di una nuova disciplina il cui obiettivo è quello di pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici a loro disposizione. La mia proposta è presentata all’interno della tradizione cattolica, ove termini come salvezza, conversione, liberazione, immagine di Dio, incarnazione, trascendenza, libertà, grazia e perdono sono fondamentali. Ciascuno è intimamente legato ai testi biblici. In essi, metafore, analogie, immagini e linguaggi risvegliano la nostra immaginazione e diventano guide che ci orientano eticamente. La loro efficacia spirituale permette esperienze che ci trasformano e che, seppur registrate nei nostri neuroni, non si riducono ad essi. La plasticità e la capacità rigenerativa delle connessioni neuronali sono qualità sorprendenti del cervello. Conoscere la loro
“pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici”
12 Nipoti di Maritain
“occorre interessarsi e conoscere a fondo le neuroscienze, ma ricordando loro che la corporeità non è solo uno spazio privato”
esistenza ha cambiato la nostra comprensione degli esseri umani e può portare a mettere in questione ciò che intendiamo per divinità o per trascendenza. La teologia ci ricorda che le nostre esperienze, le ricerche e i desideri sono possibilità di avvicinarsi a Dio. Inoltre, misericordia, compassione e ospitalità sono chiavi etiche centrali che indicano il modo corretto per relazionarsi umanamente. Questo contrasta con uno sguardo neuroscientifico strettamente interessato all’individualità umana. Il compito della teologia, nel frattempo, si è specializzato nel riflettere sulla interiorità e sulla corporeità come luoghi ecclesiali e politici di incontro, di cambiamento e di trasformazione. Certamente occorre interessarsi e conoscere a fondo le neuroscienze, ma ricordando loro che la corporeità non è solo uno spazio privato o apolitico. Quindi la mia proposta di neuroteologia fondamentale vuole essere uno spazio di pensiero critico, un approccio creativo interdisciplinare in grado di fornire un proprio orientamento etico. Responsabilmente vuole cercare di chiarire i termini centrali come esperienza religiosa, la conversione o la trascendenza. Vuole destabilizzare le strette visioni cerebralizzate che fissano l’umanità riducendola
al valore biologico dei dati che producono i cervelli o che negano la neurodiversità esistente. Ma soprattutto deve proporre le metafore bibliche e gli strumenti ermeneutici come metodologia interdisciplinare. Così, la neuroteologia fondamentale, umilmente, potrebbe segnalare alcuni degli orizzonti di senso che apre il Vangelo.
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Dio ha creato il cervello o il cervello ha creato Dio? di Giuseppe Viola
Chi ha creato chi? Questo è il gioco che sta alla base della neuroteologia. Da neurologo, riconosco la paternità di questa recente e strana scienza al mio collega americano James Austin, con il quale condivido la formazione medica e specialistica. Nel marzo 1982, durante il suo anno sabbatico a Londra, Austin si trovava alla fermata della metropolitana in attesa di un treno quando fu colto egli stesso da una esperienza di depersonalizzazione e derealizzazione con perdita del limite del proprio corpo e la sensazione di eternità nella luce, con dissoluzione di ogni tipo di paura. Scrive nel suo libro: «Avevo avuto in dono la comprensione della natura ultima delle cose». Lontano da interpretare tale esperienza come la prova di un’esistenza divina, da buon neurologo l’ha considerata – ironicamente – la prova dell’esistenza del cervello.
Esso viene pertanto considerato il catalizzatore di ogni tipo di percezione, quindi anche delle esperienze spirituali e mistiche di cui si sta cominciando pioneristicamente ad individuare le basi neurobiologiche. Vent’anni dopo, quando le neuroscienze avevano già avuto uno sviluppo esponenziale – dimostrato dalla pubblicazione di centinaia di libri e manuali – i neurologi Andrew Newberg ed Eugene D’Aquili dell’Università della Pennsylvania hanno studiato con tecniche di neuroimaging (SPECT) il cervello di monaci buddisti in meditazione e di suore cattoliche intente alla preghiera, cercando di disegnare una mappa delle aree di maggiore e minore attivazione neuronale. Il flusso ematico, che è proporzionale in linea diretta al grado di attività della zona irrorata, aumentava nel lobo fronta-
14 Nipoti di Maritain
“esperienze mistiche e funzionamento cerebrale sono fortemente legati”
le e diminuiva nel lobo temporale. Cosa avveniva? L’esperienza mistica religiosa potenziava l’attività delle aree deputate alle funzioni esecutive, alla pianificazione e alla coordinazione del movimento e del comportamento e anche di alcuni aspetti della comunicazione verbale. Nello stesso tempo, il grado di attività neuronale nei lobi temporali diminuiva proporzionalmente al flusso ematico in tali aree deputate all’orientamento spaziotemporale e alla propriocezione del proprio corpo con delimitazione del limite del sé. Questo spiegherebbe anche la perdita del limite corporeo e la tensione all’infinito e al senso di eternità. Le stesse sensazioni sono descritte in maniera più esasperata da pazienti affetti da epilessie temporali e che svilupperebbero secondo alcuni studi scientifici – ma non secondo altri – un “bisogno religioso” non presente prima della manifestazione della malattia. Nella epilessia temporale il lobo temporale perde la sua funzione durante la crisi epilettica per presenza di scariche elettriche che interrompono la trasmissione del segnale nei circuiti neuronali coinvolti; esattamente come durante l’esperienza di preghiera, si ha un rallentamento dell’attività neuronale da cui dipende in particolare l’ovattamento della sensazione del limite. Austin potrebbe aver avuto – parlando in termini clinici – una crisi epilettica temporale; forse la ebbe anche
San Paolo, sulla via di Damasco. Esperienze mistiche e funzionamento cerebrale sono fortemente legati, ma non è possibile – se non con il dono della fede – credere che sia stato Dio a fornirci un cervello che potesse percepirLo. Naturalmente le interferenze negli studi “neuroteologici” di questo tipo sono tante. Innanzitutto non è noto che cosa il soggetto stia pensando al momento in cui viene scattata l’immagine neuroradiologica, visto che ogni attività cerebrale comporta l’attivazione più o meno intensa di diverse aree e di diversi circuiti; ciò è stato dimostrato anche dai recenti studi sui “neuroni a specchio”, che hanno messo in crisi un modello topografico con aree specifiche deputate a specifiche funzioni. Inoltre, bisogna considerare la neurodiversità per motivi epigenetici da individuo ad individuo, che può portare a risposte anche molto diverse anche ai medesimi stimoli e può dare una predisposizione diversa alle esperienze mistiche e religiose, a fronte delle quali si può risultare anche resistenti. Personalmente credo che non si possa trascurare neanche la plasticità cerebrale a cui va incontro, per la strutturazione dinamica nel tempo delle connessioni interneuronali, nel corso della vita; pertanto chi fa esperienza di talune attività potenzierà alcune connessioni anziché altre. Anche l’età influisce sulla costituzione delle reti neuronali,
15 in termini di formazione e di distruzione di sinapsi. Studi recenti sulla neurobiologia cerebrale hanno individuato periodi della vita dello sviluppo cerebrale in cui si ha una maggiore suscettibilità allo stabilizzarsi di alcuni circuiti piuttosto che altri. Molto probabilmente quindi anche la predisposizione a vivere una esperienza mistica muta nel corso della vita; ciò potrebbe anche dare una spiegazione di quanto cambi anche la modalità di percepirla all’aumentare degli anni. Per quanto concerne la libertà dell’uomo e il libero arbitrio, penso che la neurobiologia sia legata bidirezionalmente alle esperienze. Esse, in particolare quelle di relazione, vanno a determinare variazioni neurobiologiche a livello di circuiti neuronali; nello stesso tempo le basi neurobiologiche – intese come reti, connessioni neuronali e neurotrasmettitori – vanno ad influire sul comportamento dell’uomo. Difficile stabilire il margine di libero arbitrio presente. Quanto una tempesta di neurotrasmettitori possa alterare il comportamento – e di conseguenza compromettere la libertà – lo si può capire nel soggetto affetto da psicosi e disturbato da allucinazioni, ad esempio. Nello stesso tempo alcune terapie e la psicoterapia stessa provocano – secondo molti autori – modificazioni della neurobiologia cerebrale, andando quindi a sottolineare la bidirezionalità tra biologia ed esperienza. Alla
luce della mia pratica clinica e delle scadenti conoscenze teologiche che possiedo, mi è difficile esprimere un giudizio personale circa l’apporto specifico che possa dare la scienza medica – in particolare quella neurologica – alla teologia. Ad ogni modo, non può essere negata l’interconnessione tra spiritualità e salute: è evidente sia in termini psicologici (penso ai pazienti oncologici credenti e praticanti) sia di influsso sulla salute fisica, positivamente (tra le varie cose, il potenziamento delle difese immunitarie) ma talvolta purtroppo anche negativamente (nei casi di delirio mistico e gravi disturbi ossessivo compulsivi a tema religioso).
“bidirezionalità tra biologia ed esperienza”
16 Nipoti di Maritain
Libertà, anima, fede: un invito a ripensarne i concetti di Gianluca Montaldi
In Italia la teologia è ad un punto di svolta: parlando in generale, sinora non si è data molto peso di assumere un confronto con il contesto1. La breve epoca innovativa della stagione postconciliare ha aperto strade per toglierla dal ghetto culturale nella quale era stata relegata per scelte operate fuori e dentro la chiesa, ma spesso ha assunto un linguaggio ed un atteggiamento ancora troppo ecclesiastico, quando non puramente clericale. Il confronto con le neuroscienze può esserne un esempio. Il nucleo essenziale della problematica è legato alla costituzione del sé (self): l’organismo umano, per come ci viene presentato, non nasce subito “perfetto”,
ma attraversa esperienze prima e dopo il parto che entrano a far parte della sua storia personale e che contribuiscono a formare la persona che man mano cresce, si stabilizza ed invecchia. È un processo che termina unicamente con la morte, poiché i vari livelli e i vari stati di coscienza che vengono organizzati all’interno delle funzioni cerebrali influiscono sulla costituzione personale. Che il cervello si evolva o che pian piano si atrofizzi e che contemporaneamente il corpo gli mandi più o meno stimoli ha una importanza decisiva sulla percezione del sé e sulle relazioni con gli altri e con il mondo ambiente. L’antropologia teologica, di fronte a questi dati, può certamente
17 attenersi alla correttezza formale delle sue risposte tradizionali: l’anima è creata immediatamente da Dio al momento del concepimento in modo da essere la forma del corpo che man mano si sviluppa e da costituirne il principio spirituale e la guida morale. Questo, però, è solo l’inizio del cammino della riflessione teologica, perché altrimenti restano irrisolte questioni importanti. I casi potrebbero moltiplicarsi. La libertà, per esempio, si costituisce sostanzialmente a partire da una complessa organizzazione neuronale e cerebrale basata su relazioni stimolo-risposta e centrata attorno al benessere dell’organismo come è percepito dal sé2; di fronte a questo la consueta distinzione tra libero arbitrio e opzione fondamentale potrebbe non essere più sufficiente per delineare un discorso completo perché non risulterebbe comunque chiarita la risposta alla domanda: la mia decisione di volere qualcosa piuttosto che altro è obbligata alla percezione chimico-biologica del mio benessere o ne è sciolta? Poiché anche su questo si basano le scelte di fede, tale problematica acquista per le teologia un carattere stringente. Lo stesso concetto di anima diventa problematico, se visto dalla prospettiva storico-culturale3. Qui il problema sorge prima di tutto dalla confusione dei livelli nei quali si assorbe il significato dell’espressione: da una parte, come concetto metafisico, lo
si utilizza in quanto principio formale dell’essenza umana e, dall’altra, come concetto esistenziale, lo si appropria come costitutivo spirituale dell’individuo. Di fatto, si tratta di una caratterizzazione culturale che interpreta quanto il dato biblico indica in modo più globale in termini più propriamente legati ad un’esperienza vitale (nefesh, psyché4). Per esempio, se questi possono essere interpretati correttamente nei risultati odierni delle neuroscienze, occorre riconvertire in tale linea anche il significato teologico dell’animazione del corpo umano: se, infatti, l’anima è identificata unicamente in un ente metafisico o spirituale si corre il rischio di non poter comprendere il monismo, per lo meno ontico, per il quale ogni atto umano non è sezionabile in sé e per sé. Senza toccare altre questioni – per esempio, gli studi sul genere evidenziano problematiche che sono forzatamente collegate con questa discussione, laddove toccano il legame tra percezione del sé biologico e costituzione del sé sociale5 – è il concetto di fede a dover essere giustificato teologicamente in modo nuovo, proprio nel suo carattere soprannaturale. Del resto, è stato merito esattamente del Concilio Vaticano II aver riaffermato in modo profetico la soprannaturalità e graziosità della fede. Ovvio che tale insegnamento fosse presente anche nella tradizione teologica precedente, ma il contesto eccle-
“la mia decisione di volere qualcosa piuttosto che altro è obbligata alla percezione chimico-biologica del mio benessere o ne è sciolta?”
18 Nipoti di Maritain
“non contrapporre due mondi che poi non sapremmo collocare nel nostro spazio-tempo”
siale del primo Novecento – e sostanzialmente il magistero antimodernista – avevano condotto ad una teologia fortemente centrata sulla ragione moderna, che era ipostatizzata a partire dalla storia culturale europea: in tale sistema, la scelta della fede era presentata come frutto di una libertà raziocinante, quasi staccata dalla storia concreta, che era relegata al più tra le premesse apologetiche6. A mio parere, più che le riflessioni dei cosiddetti maestri del sospetto, sono state le tragedie vissute dall’Europa nel secolo scorso – attorno ad Auschwitz e ai gulag – a mostrare che tale modo di ragionare non era proprio così ragionevole: tale fede non è riuscita, infatti, ad interrompere – se non in modo marginale – il dramma del male e solo una fede unicamente centrata su Dio, quella fede che corrisponde all’annuncio dell’irruenza nella storia del regno di Dio lo poteva fare. Tutto questo mi sembra portare ad una problematica radicale per la teologia, che vi viene condotta anche e proprio dal confronto con le neuroscienze: nel modo classico di esprimersi, si tratta della relazione tra natura e soprannatura. Ancora la teologia del Novecento e il Vaticano II, specialmente in Gaudium et Spes, ci hanno insegnato a non contrapporre due mondi che poi non sapremmo collocare nel nostro spazio-tempo. Questo però richiede maggiore impegno rispetto a quello sinora messo in
atto nel superare alcuni schematismi, quelli che, per esempio, presuppongono e prevedono che dove opera l’essere umano non possa operare Dio o che dove la scienza riconosce all’opera una connessione causale sia ipso facto esclusa la presenza provvidente di Dio. Le soluzioni sinora trovate sono ancora aperte: sia in senso dialettico (Dio colma una natura già di per sé perfetta ed autonoma) sia in senso processuale (Dio accompagna il processo di crescita della natura). La sfida è comunque lanciata7.
1 Cfr. C. CALTAGIRONE, “Il significato e il compito della public theology”, in Ricerche Teologiche 28 (2017), 7-37. 2 Cfr. L. PARIS, Sulla libertà. Prospettive di teologia trinitaria tra neuroscienze e filosofia, Città Nuova, Roma 2012. 3 Cfr. M. FOUCAULT, La cura di sé (Storia della sessualità 3), Feltrinelli, Milano 1985. Vedasi anche R. BODEI, Destini personali. L’età della colonizzazione della coscienze, Feltrinelli, Milano 2002. 4 Cfr. A. BERLEJUNG – C. FREVEL (edd.), Handbuch theologischer Grundbegriffe zum Alten und Neuen Testament, WBG, Darmstadt 2006, pp. 364-366. 5 Cfr. C. CALTAGIRONE – C. MILITELLO, L’identità di genere. Pensare la differenza tra scienze, filosofia e teologia, EDB, Bologna 2015. 6 Cfr. M. EPIS, Teologia fondamentale. La ratio della fede cristiana, Queriniana, Brescia 2009. 7 Cfr. C. DOTOLO, Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare, Queriniana, Brescia 2017.
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Per una teologia neuroscientificamente informata di Piotr Zygulski Lo sviluppo delle neuroscienze, avvenuto negli ultimi decenni, ha permesso di affrontare con strumenti nuovi – anche dal punto di vista tecnologico – moltissimi campi di ricerca; nel terreno interstiziale con l’esperienza religiosa ha potuto generare persino una nuova scienza, detta “neuroteologia”. Nei suoi Principles of Neurothology 1, Adrian B. Newberg ha tentato di definire il senso di questo spazio interdisciplinare. Gli scopi dichiarati sono: migliorare la nostra comprensione della mente umana; migliorare la nostra comprensione della religione; migliorare la condizione umana, sia sul versante del benessere, sia su quello della spiritualità. Includendo anche gli aspetti mistici, religiosi, spirituali, teologici – spesso difficili da indagare scientificamente – nello studio della mente, questa può essere letta in modo più completo. Al contempo, anche la teologia
ha qualcosa da guadagnare dal confronto con le neuroscienze; nonostante i timori, l’esperienza religiosa non potrà comunque mai essere sostituita dagli esperimenti scientifici: qualsiasi riduzionismo a priori è dannoso per la neuroteologia. Addizionalmente, molte conseguenze anche d’ordine pratico potrebbero derivare da una comprensione di come la spiritualità – e quale tipologia di spiritualità – possa influire sulla salute umana; positivamente, ad esempio rafforzando i sistemi immunitario e cardiovascolare, ma anche negativamente, qualora generasse ansie, psicosi, o fenomeni come quel fanatismo che sfocia nel terrorismo. Si può capire che il nome di neuroteologia, seppur efficace, è impreciso, perché indaga con gli strumenti delle neuroscienze la totalità delle esperienze religiose e spirituali; non si limita a rapportarsi con i “concetti teolo-
“da un lato le neuroscienze offrono informazioni alla prospettiva religiosa e dall’altro la prospettiva teologica aiuta le neuroscienze”
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“emerge la certezza che le persone si costruiscono nella relazione”
gici”. Newberg la descrive come una strada «a doppio senso» in cui da un lato le neuroscienze offrono informazioni alla prospettiva religiosa e dall’altro la prospettiva teologica aiuta le neuroscienze, con un potenziale arricchimento o di entrambe nel dialogo. Può essere vista come un ibrido tra la filosofia naturale – l’analisi sistematica del mondo naturale – e la teologia razionale/fondamentale, quella branca teologica che si basa sulla ragione e l’esperienza quotidiana; infatti, essa valuta la sfera spirituale non solo razionalmente, ma con gli strumenti della scienza moderna, riconoscendo che la stessa scienza richiede una valutazione da parte della religione. Tra i vari principia enunciati da Newberg, ne citerò sinteticamente tre: «Ogni funzione e struttura del cervello può essere considerata utile per comprendere i concetti teologici e filosofici» (XVIII); «La neuroteologia deve essere un sentiero o un approccio per una più profonda comprensione del cervello umano e della sua associata capacità di rispondere alle credenze religiose e avendo esperienze spirituali» (XXVII); «La neuroteologia, come disciplina, deve affrontare ogni e qualsiasi interrogativo teologico». Quindi la neuroteologia può portare ad applicazioni pratiche e teoretiche dei principi teologici; può aiutare alla comprensione di come gli esseri umani af-
frontino le domande teologiche; può migliorare le conoscenze dei processi mentali di fronte ai problemi spirituali; può fornire strumenti per affrontare in modo più integrato i concetti teologici. In tal senso, mi sembra interessante sintetizzare alcuni tentativi di Leonardo Paris2 di ripensare le domande dell’anima e della libertà in una teologia neuroscientificamente informata – a partire dagli studi di Damasio, Baars, Crick, Tononi, Edelman – cosciente della caduta del “muro cartesiano” tra materia e spirito3, che aveva permesso rispettivamente a scienze naturali e scienze dello spirito di ricavarsi ciascuna un proprio spazio geloso. Accettando al contrario la sfida di un’«antropologia materialesistemica», Paris giunge a considerare finanche l’abolizione dell’anima – o perlomeno un suo ripensamento – salvandone però la funzione teologica: garantire la dignità, unitarietà, libertà, complessità, identità, creaturalità della singola persona umana, tutti aspetti già ricavabili materialisticamente, in particolare dagli studi neuroscientifici, che evidenziano la strutturazione sistemico-funzionale umana. Questo permette inoltre di emendare le visioni erronee piuttosto diffuse – anima come «regione intermedia» immateriale tra il mondo umano e quello divino – entrando più profondamente nella verità della kenosis, ovverosia «lo scandalo di un Dio che
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si compromette con la terra», senza accontentarsi di spazi intermedi. Anche qualora volesse «dirsi tutto» nella carne4. Nella tradizionale distinzione tra corpo, anima e spirito, quest’ultimo può essere visto come il centro relazionale della persona, mentre la libertà sarebbe il «prodotto di interazioni sociali interiorizzate in modo mediato». In altre parole, nel confronto con gli altri, che mostrano molti modi di essere e di vivere – ipotesi alternative di esistenza – si apre la possibilità della scelta libera tra beni personali possibili cui identificarsi; entra in gioco una dinamica di desiderio e di imitazione tra una pluralità di strade percorribili; emerge anche (neuro) scientificamente la certezza che «le persone si costruiscono nella relazione». E proprio quando vengono coinvolte due libertà nella costituzione delle identità personali si apre quel «mistero» – differente dall’enigma, un giorno risolvibile – che «si costituisce nell’atto stesso di farsi» e «rimane aperto alla libertà creativa della persona». La teologia deve tenerne conto, soprattutto quando studia la relazione trinitaria di Colui che sceglie di essere «libero dalla necessità di essere tutto». Paris parla esplicitamente di «un Dio trino che, proprio perché plurale, è libero, in quanto ciascuna ipostasi è liberata dall’essere tutto e libera di essere se stessa grazie al fatto che
essere Padre […] non è l’unico modo per essere Dio [il quale è] libero perché trino». Insomma, persino nella naturalizzazione completa dell’uomo, la teologia può pensare l’assenza di Dio come un dono, da parte di Dio, che preferisce non firmarsi. Come una persona che ci invita a cena, non presentandoci una prenotazione con i nostri nomi, né consegnandoci a mano due voucher in bianco, bensì mettendo questi ultimi, di nascosto, nella nostra buca delle lettere, sperando che ricambieremo questa piena libertà relazionale con chi ce l’ha donata. Così, con il teologo, possiamo scoprire che l’amore non sta nel «senza di te morirei», ma nel «potrei vivere anche senza di te e per questo ringrazio ogni mattina che ci sei».
1 A.B. NEWBERG, Principles of Neurotheology, Ashgate, Farnham-Burlington 2010. 2 Citerò L. PARIS, Teologia e neuroscienze, Giornale di Teologia 393, Queriniana, Brescia 2017; si veda anche L. PARIS, Sulla libertà. Prospettive di teologia trinitaria tra neuroscienze e filosofia, Città Nuova, Roma 2012. 3 L.R. BAKER, Persone e corpi. Un’alternativa al dualismo cartesiano e al riduzionismo animalista, Bruno Mondadori, Milano 2010. 4 Per una valida recensione del libro di Paris si rimanda a D. CHIAPETTI, “Si è detto (tutto) nella carne”, in Il Mantello della Giustizia, marzo 2017: http://www.ilmantellodellagiustizia.it/articoli-marzo-2017/ si-e-detto-tutto-nella-carne-teologia-e-neuroscienze-di-l-paris
“nella naturalizzazione completa dell’uomo, la teologia può pensare l’assenza di Dio come un dono, da parte di Dio”
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Dibattito POPULISMO « Papa Francesco dice che “populismo” è una parola maltrattata e ne ha rivendicato l’importanza “mitica” nel processo di appartenenza al popolo verso un progetto comune. Come cogliere la sfida del populismo oggi? »
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Un Papa che ha letto Laclau? di Francesco Garrapa
“il populismo può diventare lo strumento per scardinare il primato della egemonia neoliberista”
«C’è una parola tanto maltrattata: si parla tanto di populismo, di politica populista, di programma populista. Ma questo è un errore. Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica […] Ma no! È una categoria mitica, semmai. Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o di un progetto comune. […] La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile … verso un progetto comune». Le parole di Papa Francesco riecheggiano come un monito ad andare oltre e a non soccombere al terrorismo delle parole. Molti commentatori, invece di analizzare politicamente il “momento populista”, sono caduti in una miope e autoconsolatoria con-
danna morale. Oggi il termine populismo è spesso utilizzato in modo dispregiativo e negativo: populista, secondo l’accezione comune, è il politico che parla alla pancia delle persone “ignoranti” che in un momento di disperazione sono pronte a votare programmi politici irresponsabili. Populisti sono tutti i movimenti o soggetti politici che mettono in discussione lo status quo e che rivendicano che non c’è nulla di naturale nelle sempre più marcate diseguaglianze. La concezione dispregiativa di questo termine cela un pregiudizio classista e aristocratico che in ultima istanza conduce alla messa in discussione del suffragio universale e dell’uguaglianza. Una posizione tradizionale del repertorio antidemocratico di destra – ma oggi fortemente diffusa in un ambiguo elitarismo di sinistra – che nasconde
25 una vecchia idea di una democrazia senza popolo, di una politica “senza volontà collettive” e senza conflitto. La politica si convertirebbe in mero tecnicismo e in mera amministrazione di ciò che è stato deciso in altri ambiti (economico, scientifico e giuridico). Una politica senza la politica che sarebbe subordinata all’economia e al mercato. Questa visione “distopica” ha già infettato la nostra società attraverso l’egemonia culturale del neoliberismo thatcheriano che, al grido di «There is no alternative» ed «È il mercato, bellezza», ha eliminato dall’immaginario collettivo la possibilità di immaginare e di costruire un altro modello di società. La sovranità popolare non solo è stata gettata via come qualcosa di obsoleto ma è stata bollata anche come un obbrobrio di cui aver paura. In questo contesto, in cui non esistono differenze fondamentali tra i programmi dei partiti di destra e di sinistra, i cittadini hanno una forte sfiducia verso il sistema. Poiché pensano che il loro voto non faccia alcuna differenza e che non abbiano alcuno strumento per incidere sul potere. Tutto ciò crea un terreno favorevole per i partiti che si presentano come la “voce del popolo” e contro l’“Establishment”. Lo stesso che sta utilizzando, in modo distorto e paradossalmente assolutistico, i principi liberali e le istituzioni democratiche
come barricata contro l’avanzata della sovranità popolare. Espressioni politicamente vergognose e inconvenienti vengono sdoganate dalla politica della conservazione dello status quo come espressioni da grandi statisti: “governo di unità nazionale contro il populismo” o “larghe intese”. Stiamo vivendo l’epoca della post-politica in una società postdemocratica. Il populismo, dunque, può diventare lo strumento per scardinare (riarticolare contro-egemonicamente) il primato della egemonia neoliberista, per riaffermare il primato della politica sulla finanza e del popolo sulle “élites”. Il modo migliore per comprendere che cosa è il populismo è quello di scrivere di Ernesto Laclau. Teorico argentino postmarxista, che elabora in modo originale e non canonico – quasi eretico – i concetti gramsciani di popolo e di egemonia. La domanda fondamentale alla quale cerca di rispondere è come e in quali condizioni i settori esclusi della società sono capaci di emanciparsi dalla propria subalternità e di costruirsi come un “blocco storico”/un popolo che diriga e organizzi la comunità. Laclau studia la logica sociale attraverso la quale il basso, rivendicando il fallimento della vecchia élite, cerca di diventare la nuova classe dirigente. Occorre fare una premessa: in
“il populismo non è un’ideologia, non è un determinato tipo di movimento o partito politico, non è una certa base sociale, non è demagogia, non è retorica, non è un programma politico”
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“populismo come logica sociale di aggregazione dei settori marginalizzati della società intorno a significati politici nuovi”
politica le identità politiche non sono fisse e non sono predeterminate dalla condizione sociale. Al contrario, si costruiscono discorsivamente attraverso un procedimento di articolazione degli antagonismi1. Non esiste alcun elemento (economico, sociale, di genere, ecc.) esterno al momento politico costitutivo dell’identità politica. In quest’ottica, non esiste alcun motivo per il quale una determinata classe sociale debba votare un predeterminato progetto politico; il cittadino voterà il discorso politico che significherà politicamente un suo dolore. Il discorso populista, pertanto, significando politicamente i dolori reali dei cittadini, è quello che unifica settori sociali molto diversi tra loro in una dicotomizzazione della società in due poli: popolo/élite o, in termini più analitici, democrazia/oligarchia. Fatte queste doverose premesse, iniziamo a chiarire che cosa non è il populismo. Il populismo non è un’ideologia, non è un determinato tipo di movimento o partito politico, non è una certa base sociale, non è demagogia, non è retorica, non è un programma politico. Affinché possa emergere il discorso populista, è necessario che si verifichi quello un momento di crisi organica del sistema. Quando, da un lato, la classe dirigente non è più in grado di dirigere e di integrare i gruppi di opposizione ampliando il “bloc-
co di potere”; dall’altro, esiste un forte malcontento poiché l’apparato istituzionale non riesce più a soddisfare i bisogni dei propri cittadini (un lavoro, un ambiente salubre, l’onestà della propria classe politica, e così via). Queste condizioni sono favorevoli alla costruzione di nuove identità politiche che cristallizzino i dolori e le frustrazioni popolari intorno a una volontà politica nuova, che avrà un proprio orizzonte politico, miti, nomi e simboli nuovi che funzionano da catalizzatori. Le parole del Papa sono un’analisi lucida della parola populismo. Populismo come logica sociale di aggregazione dei settori marginalizzati della società intorno a significati politici nuovi; si tratta della costruzione di un nuovo mito e di un nuovo orizzonte politico verso il quale il popolo possa marciare: l’“avvento di un’era veramente politica”.
1 In Egemonia e strategia socialista – Verso una Politica democratica radicale, con il termine antagonismo, E. LACLAU e C. MOUFFE designano «l’impossibilità della società», ossia l’esistenza di conflitti che costituiscono la società e che non possono essere risolti razionalmente (ad esempio il conflitto ambientale prodotto dal capitalismo/inquinamento/femminismo/lotta per i diritti civili).
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Populismi, nella storia e negli spazi: la vera sfida di Andrea Virga
Il populismo, più che un’ideologia, costituisce un tipo di approccio alla politica, che sottolinea la partecipazione delle masse popolari, in contrapposizione alle élite politiche ed economiche, considerate corrotte e avulse dal contesto sociale delle prime. Dal punto di vista ideologico, esso discende dalla concezione democratica per cui la sovranità appartiene al popolo, ed è stato storicamente legato al contesto della democrazia liberale (con l’importante eccezione dei narodniki russi). Infatti, se è vero che anche i comunismi e i fascismi storici hanno avuto elementi populisti, questi sono stati in realtà minoritari rispetto a una prospettiva ben diversa, in cui era il Partito, gerarchicamente organizzato, ad avere una funzione di avanguardia politica e sociale rispetto alle masse.
Storicamente, già nella seconda metà del XIX secolo, movimenti di stampo populista erano attivi, oltre che in Russia, negli Stati Uniti (People’s Party e Black Populism), Canada, Francia (boulangisme) e Germania (völkisch). Non a caso, lo stesso periodo storico fu segnato da una grave crisi economica globale, che si prolungò per oltre vent’anni, dal 1873 al 1896. L’aumento della produzione agricola e manifatturiera, dovuto alla Seconda Rivoluzione Industriale, causò un calo dei prezzi e dei salari, con il conseguente crollo dei consumi e dell’occupazione. In questo contesto, il populismo esprimeva le richieste dei ceti popolari colpiti dalla crisi: contadini, operai, piccola borghesia, in contrasto alle politiche promosse dalle élite borghesi. Nel corso del XX secolo, il populismo ha riguardato soprattutto
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“il Papa compie l’errore di voler proiettare sulla realtà europea la natura dei popoli latinoamericani”
l’America Latina, in due fasi, divise da un periodo di dittature militari: dagli anni ‘40 agli anni ‘70, e poi dagli anni ‘90 a oggi. L’ispirazione ideologica è sempre stata varia: Perón e Vargas, ad esempio, ebbero simpatie per il fascismo italiano, mentre Chibás e Cárdenas furono antifascisti; in tempi più recenti, il riformismo di Lula e dei Kirchner contrasta con la retorica rivoluzionaria di Chávez e Morales. Tuttavia, socialmente parlando, i populisti latinoamericani hanno sempre mobilitato i ceti popolari in chiave antiborghese e antiliberale, in un contesto di feroci differenze di classe e ineguaglianze economiche, costituendo quindi una forza di sinistra, anche laddove lontani o ostili a una prospettiva comunista. Più recentemente, la crisi economica in Occidente, combinata con i gravi problemi sociali legati all’immigrazione di massa, ha determinato un’ascesa alla ribalta dei partiti populisti europei, sia di sinistra (Podemos, Syriza) sia di destra (Front National, UKIP) o di centro (Movimento 5 Stelle), fortemente critici sia delle élite nazionali, sia del processo di integrazione europeo nel suo insieme. Al tempo stesso, persino a livello di establishment liberale si è assistito alla comparsa di figure dai caratteri populisti eclettiche rispetto ai tradizionali partiti di centrodestra e centrosinistra, ancorché portatori di posizioni europeiste
e neoliberali (es. Berlusconi, Rivera, Renzi, Macron). Papa Francesco, nell’intervista rilasciata a “El País” il 21 gennaio 2017, distingue tra questi due ultimi fenomeni: «il populismo in America Latina ha un altro significato. Lì significa che i popoli sono protagonisti, per esempio, i movimenti popolari. Si organizzano tra di loro…» e «Per me, l’esempio più tipico dei populismi europei è quello tedesco del ‘33. […] Hitler non rubò il potere, fu votato dal suo popolo, e poi distrusse il suo popolo». Quest’interpretazione – come è stato visto per sommi capi, giuste le differenze tra fascismo e populismo – è sbagliata, e ai limiti della malafede, visto che corrisponde a un’autentica demonizzazione (reductio ad Hitlerum) dei populismi europei. Del resto, il Papa non è infallibile in materia politica, ed esattamente come era giusto rifiutare e sconfessare le posizioni di Gregorio XVI e Pio IX in favore dell’Impero d’Austria, allo stesso modo vale per le posizioni di Francesco in favore della UE, erede del primo – attraverso il paneuropeismo austriacante di CoudenhoveKalergi e Ottone d’Asburgo – in qualità di prigione dei popoli. Molto più interessanti sono invece le riflessioni del Santo Padre sul concetto di popolo e la sua immagine «mitica» espresse in vari interventi, e ispirate alla teologia del popolo di P. Juan Carlos Scannone SJ, che defini-
29 sce il popolo come nazione, i cui valori culturali e religiosi fondamentali sono conservati proprio dalla parte più povera. Tuttavia, il Papa compie l’errore di voler proiettare sulla realtà europea la natura dei popoli latinoamericani (e, nello specifico, quello argentino). In sintesi estrema, il popolo argentino è nato negli ultimi due secoli e ha facilmente integrato e assimilato al suo interno sia le minoranze indigene, sia la massa di immigrati europei (soprattutto italiani e spagnoli), nel segno della cultura creola ispanoamericana. Sono stati i governi di sinistra “populisti” a promuovere poi l’unità continentale in opposizione alle politiche scioviniste delle élite liberali e conservatrici. In ambito europeo, è vero che c’è una progressiva latino-americanizzazione della società, in termini di aumento del divario sociale ed economico, che a sua volta ha portato alla nascita e al rafforzamento di movimenti populisti, ma la situazione è ben diversa. Intanto, l’unità continentale è promossa invece da quelle stesse élite antipopolari, che vorrebbero sciogliere i popoli in una sorta di amorfo pastone “europeista”, basato su valori astratti – democrazia, diritti, libertà – e negatore delle singole differenze. Inoltre, la stessa (non)gestione dell’immigrazione di massa non si propone altro che l’assimilazione degli stranieri nel suddetto pastone, senza riguardo alle identità cultura-
li né delle etnie immigrate né di quelle autoctone. Ad una simile prospettiva, oppongono de facto resistenza entrambi i tipi di comunità, rendendo assurda e impraticabile la retorica papista dell’accoglienza incondizionata. La vera sfida insita nel populismo è dunque un’altra, e ci riporta all’inizio del discorso: proprio perché esso è più una modalità comunicativa che un’ideologia, risulta estremamente fragile dal punto di vista dei contenuti, e facile da neutralizzare da parte del neoliberalismo egemone: si pensi al cedimento di Syriza in Grecia o all’impantanamento del PSUV in Venezuela e dei 5 Stelle in Italia. Il populismo, nelle sue prospettive anti-liberali (di destra e di sinistra), rappresenta dunque una risposta semplicistica e incompleta alle domande giuste, poste dalla crisi del capitalismo. Esso va appoggiato contro l’establishment, ma sempre in maniera critica, conservando come bussola il rovesciamento – e non la riforma! – del sistema liberalcapitalista.
“il populismo rappresenta una risposta semplicistica e incompleta alle domande giuste poste dalla crisi del capitalismo”
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Aiuto, i populisti! di Emanuele Pinelli
“non si può utilizzare la parola che indica il metodo generale per condannare un esito potenziale”
“Conoscere il vero nome”, dalla Genesi fino a Rosa Luxemburg, è il primo passo per controllare qualcuno o qualcosa. E buona parte del successo dei partiti cosiddetti “populisti”, a mio parere, è dovuto proprio al fatto che i loro avversari li chiamino “populisti”. Che non è il loro vero nome. Quando si sente dire, anche da personaggi di rilievo, «Il populismo ci travolgerà», «Il populismo è una minaccia», «La democrazia deve arginare il populismo», suona poco convincente. Si sa, i veri nemici che ci fanno gelare il sangue nelle vene sono altri: i fascisti, gli alieni, al limite i bolscevichi, di recente i jihadisti. Questi sono pericoli che ci allarmano. Ma gridare «Aiuto, i populisti!» non preoccupa nessuno. Il motivo è presto detto: il concetto di “populista”,
di per sé, non contiene intrinsecamente nulla di terrificante. Trasmette forse rozzezza, pressapochismo, malafede… ma non terrore. Vediamo come mai. Possiamo intendere il “populismo” in due modi: 1) come un metodo da seguire nella propaganda; 2) come una visione della società. Nel primo caso, fa il “populista” chi sceglie temi, campagne e bersagli polemici unicamente in base alla loro capacità di fare presa sugli elettori, cavalcando l’onda dei loro sentimenti. A questo si aggiunge uno stile di comunicazione diretto e “televisivo”, che riduce le complessità ad inganni, gli ostacoli a com-
31 plotti, e così via. «Ma questo lo fa chiunque» si dirà. Certo, tant’è che si può fare il populista da destra, da sinistra, da ecologista, da cattolico… Solo di recente è comparso anche un populismo “assoluto”, che non bada più a nessuna coerenza, pescando qua e là e di volta in volta le proposte più appetitose, non mostrando più rispetto per nessun tabù, e non temendo di contraddirsi. Ora, visto così, il “populismo” è un atteggiamento furbesco, opportunistico, avvilente – soprattutto per i cultori della complessità come tecnici e specialisti – ma in sé non ha niente di malvagio. La sua illiberalità, se c’è, è larvata, non è palese. È un metodo diseducativo sul lungo periodo, ma non disumano nell’immediato. Il problema è che il metodo “populista” non si limita alla ricerca di “consenso facile”. Spesso finisce per riattivare delle forme di pensiero simbolico collettivo, che sono antiche quanto la società, ma che sono la stridente negazione dello Stato di diritto: purificazione rituale, marchio d’infamia, orgoglio settario, esecuzione intimidatrice, ereditarietà della colpa ne sono solo alcuni esempi. Basti notare come in mezzo Occidente i “populisti” se la prendano con i bersagli che danno più nell’occhio a livello simbolico, che sono più facili da identificare e da trasformare in feticci, la cui distruzione libererebbe il popolo da ogni suo male. L’euro,
i neri, i giornalisti, i magistrati, i carcerati, sono sotto tiro proprio per questo; non per le loro eventuali responsabilità individuali sui mali del popolo – che pure qualche volta ci sono – ma in quanto simboli da rovesciare, capri espiatori da immolare, veleni da espellere. Così, la gratificazione di appartenere a una setta rivelatrice squalifica le altre fonti d’informazione e persino il sapere scientifico; le “macchine del fango” e l’insulto di massa calpestano la presunzione d’innocenza; la corruzione accidentale delle istituzioni viene spacciata per strutturale, delegittimandole in blocco; l’espulsione “purificatrice” dei rifugiati calpesta il diritto d’asilo e i più essenziali sentimenti di fratellanza (oltre a causare un suicidio demografico). In breve, la ricerca del “consenso facile” rischia ogni minuto di erodere un principio dello Stato di Diritto. È a questo punto che i partiti “populisti” diventano un pericolo. Ma capite che non si può utilizzare la parola che indica il metodo generale per condannare un esito potenziale. Oltre a non essere corretto, non è nemmeno efficace sul piano comunicativo. Veniamo ora alla seconda accezione: “populismo” come visione della società. Il presupposto, va da sé, è che ci sia un “popolo”, definito in vari modi, che deve assumere preminenza a scapito di altri soggetti o in deroga a
“dalla definizione che si dà di questo popolo, di chi ne fa parte e di chi invece è suo nemico, dipendono le conseguenze”
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“questo non significa che qualunque populismo oggi risulti dannoso, e che qualsiasi tentativo di definire un popolo debba essere sconfessato”
certe regole. È chiaro che dalla definizione che si dà di questo “popolo”, di chi ne fa parte e di chi invece è suo nemico, dipendono le conseguenze più o meno spiacevoli dell’uno o dell’altro “populismo”.
tegrazione, almeno le prime due concezioni di “popolo” risultano dannose. Ma questo non significa che qualunque populismo oggi risulti dannoso, e che qualsiasi tentativo di definire un “popolo” debba essere sconfessato.
1) “Popolo” può denotare l’insieme degli abitanti di un territorio, qualunque sia il loro ruolo, contrapposti a stranieri ostili: così sorgono i nazionalismi, e secondo alcune teorie le stesse nazioni;
Mazzini e Lamennais, i due padri del pensiero democratico, insistevano molto sul “popolo” e sulla sua centralità. Lo vedevano, però, come una forma associativa intermedia, voluta da Dio per preparare gli uomini a riconoscersi come fratelli nell’unico popolo umano. Dunque, più si ama la propria patria, più le si impedisce di opprimere un’altra patria. Più si lotta per il riscatto del proprio ceto, meno si vuole la rovina di un altro ceto. Questo tipo di populismo sarebbe distruttivo, al giorno d’oggi? Direi l’esatto opposto. Non a caso, nell’appello «A tutti gli uomini liberi e forti» con cui fondava il Partito Popolare, don Luigi Sturzo si esprimeva in questi termini: «È imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società». L’appello uscì il giorno stesso in cui si apriva la Conferenza di Parigi, di cui conosciamo le conseguenze.
2) “Popolo” può denotare l’insieme dei governati contrapposti a istituzioni incapaci o corrotte: è l’idea su cui “uomini forti” come Giulio Cesare, Cromwell o Napoleone costruirono il loro successo; 3) “Popolo” può anche denotare la parte più povera e meno istruita di una società, contrapposta ai ceti più agiati: ed ecco i “nemici del popolo” di sovietica memoria. Se ci pensate, sono i tre ingredienti della retorica dell’estrema destra alla Trump, che cerca di intestarsi, in modo più o meno artificioso, la contrapposizione “nativo-straniero”, quella “cittadini-istituzioni” e quella “poveri-ricchi”. È chiaro che in una civiltà come quella europea attuale, che si regge sullo Stato di diritto e sulla progressiva in-
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La scommessa populista di Tommaso Nencioni
Cos’è il populismo? Perché la comparsa di questo fenomeno politico agita così tanto i sonni dei potenti della terra? E, se fa tanta paura a chi ha portato l’uomo e l’ambiente sull’orlo del baratro, non varrebbe la pena scommetterci, sul populismo? Accettare la “scommessa populista” significa prendere atto della crisi definitiva della governance neoliberale e dell’ideologia sulla quale si è strutturata: “l’estremo centro” (o “centrismo radicale”). Secondo questa ideologia non esisterebbero conflitti nella società, e le istituzioni non risulterebbero da essi plasmate, ma “problemi” da risolvere per via tecnocratica. Le soluzioni possono anche essere individuate nel calderone del radicalismo di sinistra – ad esempio, per quanto riguarda l’estensione infinita dei “diritti civili” – purché ri-
mangano all’interno del recinto dell’interesse dei “mercati”, unico agente costituente legittimato. Prendiamo la grande restaurazione oligarchica messa in campo dai “riformisti” a partire dal momento in cui essere “riformisti” è diventato un obbligo del personale politico. Questa ha preso le mosse dall’individuazione – del tutto arbitraria, ma fatta passare come oggettiva – di due problemi: un’inflazione troppo alta ed un debito pubblico troppo elevato. Sono state pertanto individuate due soluzioni: politiche monetarie restrittive; privatizzazioni e tagli allo stato sociale. Ed effettivamente, almeno nel corso degli anni Novanta, le “soluzioni” si sono rivelate all’altezza dei “problemi”. Con effetti collaterali dirompenti nella società, tuttavia: crisi finanziarie, esplosione della disoccupazione, impoverimento
“Il populismo non è un’ideologia, ma il terreno della ricomposizione politica del conflitto sociale”
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“movimenti populisti si affermano in periodi di crisi organica, di crisi cioè economica, sociale, morale, istituzionale”
dei lavoratori, fine del sostegno sociale ai poveri. Con un corollario, non secondario: se il compito dei politici è quello di trovare “soluzioni”, queste vanno a loro volta delegate agli “esperti”, perché il popolo ignorante ed egoista non sarebbe strutturalmente in grado di legiferare per il bene comune. E quindi l’oligarchia non solo ha beneficiato delle soluzioni, ma tra le sue fila è stato anche selezionato accuratamente il personale capace di individuarle (il fenomeno delle sliding door tra governo e grandi corporation, per descrivere il quale gli argentini hanno coniato l’efficace neologismo di CEOcrazia). Non è certo un caso che la fase più acuta di impoverimento delle classi basse e di maggiore accumulazione di ricchezza e potere da parte di quelle alte si sia verificato in un’epoca in cui a legiferare sono stati chiamati pressoché soltanto gli esponenti di queste ultime. O da queste ultime i politici “riformisti” sono stati largamente remunerati a missione compiuta – i leader riformisti degli anni ‘90, da Clinton a Blair a Schroeder, esaurito il loro mandato, si sono tramutati in percettori di cachet astronomici per opere di consulenza alle grandi corporation. La crisi scoppiata nel 2008, e che dura senza prospettive di uscita, ha fatto pulizia di questa grande illusione oligarchica. Il populismo non è un’ideologia,
ma il terreno della ricomposizione politica del conflitto sociale. Non esistono “partiti populisti” e “partiti istituzionali”, ma momenti populisti che si aprono in fasi di crisi acuta delle istituzioni caratteristiche di una determinata epoca. Sono le fasi che Giovanni Arrighi ha chiamato “di transizione egemonica”, nelle quali Karl Polanyi ha rilevato che prendono corpo dei “contromovimenti” di difesa dal pieno instaurarsi di una innaturale “società di mercato”; fasi insomma di “crisi organica”. Fasi in cui, come ha scritto Laclau, “si debilitano le articolazioni egemoniche di base e nei quali un numero via via crescente di elementi sociali acquisisce il carattere di significanti vuoti”. Il populismo costituisce il ground zero della politica. Movimenti populisti si affermano in periodi di crisi organica, di crisi cioè economica, sociale, morale, istituzionale. È in questi frangenti che il momento populista è destinato a prendere campo; che al suo interno, e non nell’assedio reciproco tra istituzioni e populismo, si risolvono i termini della battaglia politica. Con la crisi organica, le istituzioni caratteristiche del precedente assetto egemonico o sono già crollate o non hanno comunque più cogenza. Parallelamente, nella società si sgretola il ceto medio, inteso non come categoria econometrica, ma come blocco di
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massa che, con il suo consenso nei confronti dell’equilibrio sociale raggiunto, garantisce che il potere dei gruppi dirigenti si dispieghi come egemonia e non come puro dominio. Recentemente, il fondo di investimento Bridgewater ha stilato un paper dal titolo Populism: The Phenomenon nel quale si mappano le fortune dei movimenti populisti a partire dai primi del Novecento, e si rileva come le loro attuali fortune siano comparabili soltanto con il periodo interbellico degli anni ‘30 del XX Secolo. Nel corso cioè della precedente fase di crisi organica; o, per meglio dire, di crisi di transizione egemonica dall’imperialismo liberoscambista britannico a quello statunitense basato sulla grande fabbrica integrata. Quello che qui ci interessa evidenziare, oltre al parallelo istituito con gli anni ‘30, non è tanto il solito esercizio mediatico degli autori del paper, teso ad accomunare sotto la stessa etichetta fenomeni alternativi come il “trumpismo” ed il socialismo bolivariano di Hugo Chavez; quanto l’aver ricondotto al populismo le tre ipotesi alternative in campo tra le due guerre mondiali, e cioè il leninismo, il fascismo ed il riformismo roosveltiano. Qui pensiamo, sulla scorta del ragionamento fin qui svolto, che gli autori abbiano colto nel segno (magari involontariamente!). Bolscevismo,
fascismo e New Deal hanno infatti costituito, nel corso del precedente momento populista, le tre ipotesi di ri-articolazione del conflitto sul terreno della crisi. Le istituzioni sorte dallo sconquasso della crisi e della II Guerra Mondiale sono figlie dirette di questo “triello populista”; rimanendo nella metafora della celebre scena finale de Il Buono, il Brutto e il cattivo, dal conflitto emerge l’identificazione tra il fascismo sconfitto e Lee Van Cleef, il bolscevismo vincitore ma limitato nella sua capacità di azione ed Ely Wallash, l’americanismo trionfante e Clint Eastwood. Scendere sul terreno populista non significa quindi abbandonarsi ad una prospettiva di sola protesta, ma prendere atto della crisi delle istituzioni vigenti e contendere il campo ad ipotesi di ristrutturazione gerarchica della dialettica tra conflitto ed istituzioni, per disegnare in senso democratico le istituzioni di domani.
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Il popolo, il mito, la storia: Papa Francesco e Maritain di Federico Stella
“un ideale storico concreto è indispensabile per rendere possibile l’azione politica”
Nell’intervista concessa ad Antonio Spadaro SJ e posta a prefazione della raccolta di omelie pronunciate a Buenos Aires dal 1999 al 2013, Papa Francesco definisce il termine populismo come una «parola molto maltrattata». Il Papa continua le sue riflessioni sostenendo che «popolo non è una categoria logica, né una categoria mistica» bensì «è una categoria mitica», «storica e mitica». «Il popolo», continua il Papa, «si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo». «Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. È questa non è una cosa automatica, anzi è un processo lento, difficile … verso un progetto comune»1.
In queste parole si può senza ombra di dubbio intravedere l’esperienza personale del Papa, i concetti di popolo e patria così cari alla tradizione Sudamericana, ma, oltre a ciò, mi sembra di scorgere anche una precisa impostazione filosofica. Ogni testo che leggiamo lo decodifichiamo in base al nostro bagaglio intellettuale, alle nostre letture e alla nostra personale sensibilità. Da appassionato lettore del pensatore marxista Georges Sorel, quale fui anni fa, a lettore di Jacques Maritain come più recentemente sono diventato, certe parole non mi sono passate inosservate. L’idea che mi sono fatto è che nelle parole del Papa ci sia l’eco più o meno esplicito del grande filosofo cattolico Maritain, il quale, a sua volta, si appropriò del concetto di mito soreliano, rielaborandolo in chiave cristiana. Maritain chiama il mito anche
37 con l’espressione di ideale storico concreto e lo definisce come quell’«immagine prospettica significante il tipo particolare, il tipo specifico di civiltà al quale tende una data età storica»2 e come un’«immagine lirica che orienta e suscita una civiltà»3. Il mito o ideale storico concreto di cui parla Maritain e il popolo inteso come categoria mitica di cui parla in Papa traggono entrambi la loro ragione d’essere dalla prospettiva e dall’obiettivo in vista dei quali sono costruiti. Per Maritain l’elaborazione di un ideale storico concreto è indispensabile per rendere possibile l’azione politica e sociale all’interno dei mutamenti storici; l’elaborazione del mito e l’azione che ne deriva devono avere consapevolezza dell’irreversibilità di alcuni processi storici tra cui l’ideale medievale di Sacrum Imperium, ormai tramontato e non più in grado di dare alcun sostegno positivo alla storia, anzi potenzialmente nocivo per il Cristianesimo stesso, poiché utilizzabile da regimi temporali estranei allo spirito cristiano4. Le affinità tra le parole del Papa e il pensiero di Maritain non si esauriscono: come il Papa ha visto nel mito del popolo un’entità in movimento, soggetta ad una costruzione lenta e paziente, allo stesso modo Maritain definisce l’ideale storico concreto come «movimento, come cosa che si fa ed è sempre da fare»5. Ma se il popolo è una categoria mitica in divenire, in vista di un
progetto comune, è chiaro che l’azione svolta dai cristiani al suo interno non può essere limitata ad un elenco di obblighi e divieti. Al contrario, il Papa mette in guardia da questa tentazione di separare nettamente «da una parte Dio e dall’altra il vuoto di Dio, il nulla»6. Come l’azione di Dio si mescola alle miserie umane, analogamente il prete non deve aver paura di entrare in queste miserie sporcandosene le mani. Anche qui intravedo il pensiero di Maritain e i suoi ragionamenti riguardanti la moralità del contesto, quando ci ricordava che il cristiano vive nella storia «impura e notturna», dove il male è spesso mescolato al bene. Aver paura di sporcarsi con queste impurità e con queste miserie è una «paura farisaica»7 da cui il cristiano deve tenersi lontano.
1 A. SPADARO SJ, Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco, in Jorge Mario Beroglio, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires, 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016, pp. V-XX, pp. XV-XVI. 2 J. MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Roma 1977, p. 167. 3 Ibid., p. 180. 4 Ibid., p. 234. 5 Ibid., p. 277. 6 A. SPADARO SJ, Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco, p. XVII. 7 J. MARITAIN, Umanesimo integrale, op. cit., pp. 266-267.
“il popolo è una categoria mitica in divenire, in vista di un progetto comune”
38 Nipoti di Maritain
Come si costruisce un popolo di Alessandro Visalli
“le élite rinviano ogni scelta reale a fatto tecnico e la sottraggono alla pubblica discussione”
Ormai è chiaro: il populismo fa parte dello “spirito del tempo”. In altro modo: lo schema d’ordine della società sta cambiando sotto i nostri piedi ad una velocità crescente, e si riorienta dalla coppia progresso/reazione – che ha indirizzato le nostre menti nel corso del Novecento – a quella establishment/popolo verso la quale si orientano le retoriche pubbliche. Tutte le retoriche pubbliche, anche di chi non potrebbe che essere incluso nel primo gruppo sotto qualsiasi possibile definizione (come Macron, o Renzi, o Trump, per fare esempi diversi). Di fronte a questo spettacolo tutti noi ci volgiamo confusi, non sappiamo più che cosa pensare e desiderare: alcuni reagiscono
riapplicando in modo rafforzato il vecchio schema e identificano quindi come “reazione” ogni moto di difesa di chi si sente umiliato ed offeso, ferito nelle sue possibilità di sopravvivenza dignitosa e indignato per i privilegi che identifica intorno a sé (con maggiore o minore precisione). Allora questi chiamano “progresso” ogni rafforzamento della dinamica di disgregazione delle forme di integrazione novecentesche e produzione di schemi di potenziale integrazione cosmopolita. Altri percepiscono l’insostenibile tradimento delle promesse di liberazione e progressivo miglioramento materiale e spirituale che l’alleanza tra neoliberismo e progressismo aveva formulato
39 negli Anni Novanta, connettendolo con la “società aperta”, e disvelano l’ineguale distribuzione dei benefici e dei privilegi lungo l’asse verticale. Mentre l’angelo della storia1 procede, accumulando le macerie al suo passaggio, la “reazione” degli umiliati e dei traditi per alcuni è “reazionaria”, per altri giustificata e democratica, il sale e lo spirito della democrazia. C’è, in qualche modo, un pensiero disancorato e andato alla deriva in questa identificazione della risposta al tradimento delle élite nei confronti del faticoso compromesso del Novecento, con la rivolta “reazionaria” che i sostenitori dell’antico ordine feudale europeo opponevano alla rivoluzione industriale ed alle sue forme politiche e sociali nel XIX Secolo. L’ordine welfarista, infatti, era di tutt’altro segno di quello dell’ancién regime, integrava i forti con i deboli gli uni verso gli altri attraverso la condivisione di valori e sentimenti, e quindi di risorse e strutture, mentre quello sottometteva e creava percorsi di vita senza possibilità di autonomia. C’è dunque un inganno nel vedere “vento reazionario” dove c’è principalmente una rabbia correttamente indirizzata. Una rabbia che scaturisce dalla pretesa di integrare l’umanità solo attraverso la regola e la legge, fondando ogni vita individuale e collettiva su meri diritti individuali formalmente eguali, anche quando le condizioni
materiali, sociali e spirituali lo impediscono. Una finzione che fa velo, ormai sempre più esile, alla nuda realtà del potere. Allo “spirito del capitalismo” che si riassume nella religione dell’efficienza e del correlativo calcolo, nella riduzione dell’uomo ai più ristretti dei suoi desideri, attivamente coltivati dal mercato. Ma, ormai, sta perdendo slancio quella spinta che, sotto lo schema ineguale e disgregante della globalizzazione, teneva sotto scacco le nostre (ormai sempre più post) democrazie, gli Stati redistributivi, e le forze sociali connesse con le forme di integrazione comunitaria e sociale. Siamo entrati in una “fase interregno”2, nella quale la “forma populista” confonde la nostra percezione mentre gli ordini cui siamo abituati si dissolvono. Ma questa è solo un’apparenza, determinata dall’assuefazione all’ordine dell’anti-politica prodotto dalle élite, che rinviano ogni scelta reale a fatto tecnico e la sottraggono alla pubblica discussione. Dunque è per loro “populista” ogni proposta che rifiuta di stare a questo gioco; ad esempio che rifiuta di affidare alle amorevoli cure del mercato tutti i perdenti dei processi di “libero” commercio internazionale, dimenticando che il loro “risarcimento” è previsto – con ipocrita falsa coscienza – in ogni manuale tecnico delle loro stesse scuole3. È “populista” ogni proposta che identifica una responsabilità verso i propri cittadini,
“papa Francesco identifica una distinzione tra populismo come movimento popolare dal basso, e i populismi carichi di odio, fondati su una chiusura identitaria”
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come verso gli stessi migranti, e quindi la relativa assunzione di politiche attive secondo ragionevolezza e disponibilità delle relative risorse. È populista ogni proposta che si confronta con l’inesauribile crescita della disoccupazione e sottoccupazione non guardando solo ai profitti del capitale (nel falso presupposto che questi, reinvestendosi, alla fine li riducano), ma ai diritti sociali delle persone, condizione inevitabile per godere e financo accorgersi di quelli “civili”.
“ripensare l’umano nella società, prima che nell’economia e nella stessa politica formale”
Anche in questa direzione può essere interessante guardare, incluso per chi parla da posizione laica come me, alla parola di papa Francesco, quando identifica una distinzione tra “populismo” come ricerca della presa di parola dei “popoli”, ovvero come “movimento popolare” dal basso, e i populismi carichi di odio, fondati su una chiusura identitaria in buona misura “inventata”, che abbiamo visto in Europa nell’altra crisi di riflusso della globalizzazione, negli Anni Trenta (su questo tema bisognerebbe assolutamente rileggere Karl Polanyi4). La distinzione che propone è dunque tra un movimento difensivo – una sorta di collasso della capacità di confrontarsi con il mondo e con i problemi che ci pone – e un movimento di liberazione in cui si attiva un processo di autoorganizzazione.
Il vero tema, dato che nessun fondo “naturale” o dinamica tecnica viene in soccorso, è quindi come si “costruisce” il popolo. La prospettiva anti-liberista (dunque contro la riduzione dell’umano ad un grumo di desideri commerciabili, protetto da un set di diritti neutrali) di Bergoglio mi sembra scaturisca chiaramente da ciò che ha detto in un interessante discorso del 20155: l’umano in qualche modo diventa tale nella «relazione […] delle persone con il mondo e con gli altri intorno a sé», ma in una relazione che è «concreta»6. Ovvero nella quale «il singolo si sente intessuto in un popolo, cioè in una “unione originaria degli uomini che per specie, paese, ed evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico”». L’uomo, cioè, si fa tale solo in «relazioni vitali naturali» dalle quali non può essere strappato presumendo che la sua vera essenza sia colta dalla “ragione”, intesa sotto la forma dello scientismo e riassumibile nella manifestazione quantitativa. Ovvero che riposi nel progresso come crescita materiale (peraltro tradita). La “costruzione” del popolo è quindi un progetto politico e culturale che deve procedere dal concreto della vita per come si dà, e spingere a rischiare entro il progetto incompiuto della democrazia, una nuova articola-
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zione del vocabolario della “fraternità”, e quindi, entro questa, della “libertà” nella “eguaglianza”. Anche in senso laico, l’essere l’uno-per-l’altro7 deve essere la forma privilegiata nell’ordine sociale, facendo, se necessario, recedere la differenziazione funzionale e mettendo in comunicazione sottosistemi (come quello morale, quello legale-formale e quello della società di mercato, ma anche quello dei rapporti personali e della famiglia) intorno al principio democratico (anziché quello liberale8). La posta autentica dei movimenti “populisti” è quindi ripensare l’umano nella società, prima che nell’economia e nella stessa politica formale. I valori intorno ai quali ripensarlo possono ancora segnare una differenza.
1 Immagine di W. BENJAMIN, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962. 2 Il termine è proposto da Antonio Gramsci. 3 Ad esempio, P. KRUGMAN, M. OBSTFELD, M. J. MELITZ, Economia internazionale, Pearson, Milano 2012, §4.3. 4 K. POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010, ed or. 1944. Si può vedere anche http://tempofertile.blogspot. it/2016/08/karl-polanyi-la-grande-trasformazione.html. 5 FRANCESCO, Discorso del santo padre Francesco ai partecipanti alla conferenza promossa dal “Romano Guardini stinfung”, 13 novembre 2015. 6 Qui Francesco cita R. GUARDINI, Il senso della chiesa, Morcellana, Brescia 2007, pp. 21-22. 7 Formula hegeliana ripresa sistematicamente in A. HONNETH, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, Codice, Torino 2011; si veda anche http:// tempofertile.blogspot.com/2016/10/axelhonneth-il-diritto-della-liberta.html. 8 Uso questa distinzione nel senso di C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, RomaBari 2003.
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Il popolo al potere di Rocco Gumina
«Voglio tornare a casa. Quale casa? Siamo orfani». (P. SORRENTINO, Il peso di Dio. Il Vangelo di Lenny Belardo)
“urge la formulazione di nuove utopie, o visioni del mondo, non dogmatiche, capaci di rendere i popoli protagonisti del loro futuro”
Quando nel 1919 è stato fondato il Partito Popolare Italiano – all’indomani della pubblicazione dell’appello A tutti gli uomini liberi e forti – Luigi Sturzo non aveva intenzione di sviluppare una via politica clerico-moderata, e quindi di nicchia, ma una proposta sociale, culturale e partitica che fosse in grado di rappresentare il popolo italiano e, di conseguenza, capace di vivere in mezzo alla gente e di interpretarne i bisogni e le attese. Per i fondatori del partito di ispirazione cristiana, gli assi portanti
del nuovo modello di partecipazione politica dovevano essere da un lato la tutela e lo sviluppo della democraticità tipica dei dinamismi popolari, dall’altro il perseguimento della libertà e della giustizia in vista della costituzione di una società orientata alla ricerca costante del bene comune. Inoltre, per Sturzo, l’idea di popolo si distanziava da una visione organicistica e collettivistica per approdare – attraverso la partecipazione civica e lo smantellamento di qualsiasi tipologia di monopolio – ad un progetto di inclusione delle pluralità sociali, politiche, culturali ed economiche. Il pensiero sturziano, seppur appartenente ad un differente contesto politicoculturale, può esserci d’aiuto per una lettura profonda della complessità presente1.
43 Il fenomeno dell’estremizzazione di alcune dimensioni della politica che colpisce anche nazioni assai importanti del panorama globale – si veda il fattore Trump negli Stati Uniti d’America o quello della Le Pen in Francia, senza dimenticare l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e la crescita di movimenti politici nazionalisti in tutte le democrazie occidentali – deve, anzitutto, indurci a riflettere sulle cause scatenanti di quello che, più o meno giustamente, viene definito come “populismo”. Per studiosi come Bauman, nelle società avanzate è radicato un clima di diffusa incertezza che provoca stati di ansia generale controllabile solo con politiche, e relative metodologie, a sostegno della sicurezza nazionale ovvero di quanto si possiede in termini economicomateriali. Tale concezione del mondo genera una percezione della vita pubblica gravida di pericoli e di veri e propri nemici, che di volta in volta vengono identificati nei diversi e negli estranei rispetto alla propria appartenenza etnica, culturale e religiosa. Quella che per Todorov è la “paura dei barbari” – cioè dei lontani riguardo alla propria visione – può essere superata solo tramite un percorso che permetta di ritrovare i fondamentali dell’esistenza dei popoli per condurli, a sua volta, alla reale gestione del potere. Il principio basilare per la vita di un popolo, che contempli al suo
interno le diversità, è il ritorno al senso di comunità il quale – specialmente in un mondo sempre più interconnesso – può garantire il diritto d’esistenza dell’altro, e della sua diversità, in quanto membro della medesima umanità. Senza alcun dubbio, una comunità per coesistere ha bisogno sia di costituzioni nazionali e internazionali che permettano l’inclusione reale dell’altro, sia di una profondità simbolica – perciò anche culturale – che oggi l’Occidente pare aver smarrito. Secondo gli psicoanalisti Recalcati e Zoja, la rarefazione del potere simbolico del padre nell’ambiente familiare e sociale ha generato delle ripercussioni in ambito politico che si concretizzano nell’assenza di popoli che siano anche comunità, poiché non ci sono più padri condivisi, cioè visioni e valori generanti il senso della realtà2. Per questo motivo urge la formulazione di nuove utopie, o visioni del mondo, non dogmatiche, capaci di rendere i popoli protagonisti del loro futuro. Fra i fattori principali dello sviluppo del populismo dobbiamo rilevare la povertà di idee politiche che sappiano cogliere e discernere le difficoltà che la tarda modernità ci pone. Da un lato il crollo del muro di Berlino, e dall’altro la proposta della “fine della storia” attraverso lo sviluppo di democrazie modellate sulle esigenze dell’Occidente, hanno generato la fine di ogni visione esplicitamente ideolo-
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“avanzare una prospettiva popolare e di democraticità sostanziale e inclusiva”
gica del reale e del futuro. Da più parti si avverte l’esigenza di costruire dal basso, in altre parole dai dinamismi popolari, una visione del mondo che possa contenere utopie, ideologie e narrazioni di senso non più dogmatiche, ma generanti profondità valoriali, nel dialogo e nel rispetto della diversità congenita alla natura e alla cultura umana. Come ci ricordano in un recente studio Massimo Cacciari e Paolo Prodi3, anche il mondo occidentale ha bisogno del recupero della logica utopica – alla quale legare la profezia – per superare l’imbottigliamento dell’asfittico “eterno presente” partorito dal total-capitalismo economicofinanziario che necessita solo di consumatori, e non di cittadini appartenenti ai popoli. Allora, almeno nel mondo occidentale, sembra chiaro che bisogna rinnovare le nostre democrazie a partire da percorsi che superino una logica giuridico-formale per avanzare una prospettiva popolare e di democraticità sostanziale e inclusiva. In questa visione, per Francesco, un ruolo determinante devono svolgerlo proprio i popoli: «Il futuro dell’umanità non è solo nei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento»4. Probabilmente solo attraverso questo sforzo potremmo oltrepassare le negatività dei populismi per approdare a
sistemi politici che deliberino il potere al popolo.
1 Per approfondire le tematiche emerse nel paragrafo si segnalano, fra i tanti, i seguenti studi F. FELICE, “In mezzo alla gente”. Come passare dal populismo al popolarismo, in La Società 4 (2016), 38-47; R. PEZZIMENTI, Il movimento cattolico post-unitario, Città Nuova, Roma 2014, pp. 63-111; P. POMBENI, La politica dei cattolici dal Risorgimento a oggi, Città Nuova, Roma 2015, pp. 71-101. 2 Rimando a Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2011; M. RECALCATI, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, Minimum fax, Roma 2013; T. TODOROV, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2016; L. ZOJA, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 3 Cfr. M. CACCIARI – P. PRODI, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016. 4 FRANCESCO, Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, 9 luglio 2015.
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Dibattito CATTOLICITÀ « Che senso ha definirsi, sentirsi, essere “cattolici”? »
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Cattolicesimo e “Cattolicesimi”: ermeneutica di un titolo di Christian Alberto Polli Che significato ha sentirsi “cattolici”? Come tutte le domande che sembrano scontate, non è facile dare una risposta chiara e concisa a questo interrogativo. Per definire la “cattolicità” si può partire da alcune linee di discernimento basate su coordinate storico-teologiche: dipende dal sentire comune di un determinato orientamento di fede, unito ad un’ermeneutica della storia della Salvezza ben precisa; dipende ancora da una corretta mistagogia catecumenale in cui vengono spiegati i sensi dei sacramenti; dipende infine dalla modalità relazionale che il fedele ha con Dio nella preghiera. L’ortoprassi della nostra vita da credenti cattolici – fondata su un itinerario esistenziale “salmodiante”, ovvero basato sulla preghiera e su determinati dogmi e consuetudini – emerge nella sua peculiarità se la si pone in confronto con i nostri fratelli separati: la questione della Gra-
zia, della fede unita alle opere, della transustanziazione nel sacramento dell’Eucarestia, della Tradizione e della successione apostolica culminante nell’unità col vescovo di Roma, vicario di Cristo, possono essere considerate le basi essenziali su cui poi sviluppare, in modo organico, un primo identikit di che cosa sia la Chiesa Cattolica. Emergono, oltre a queste linee, anche alcuni aspetti della pietà popolare o dell’espressione del sentire ecclesiale, in quella che è una vera e propria “teologia pastorale” dal basso. Partendo dall’epoca moderna, in seguito al Concilio di Trento (1545-1563), il sentire “cattolico” ha assunto connotati ben precisi: i pellegrinaggi verso Santuari; la recita comunitaria di determinate preghiere quali il Santo Rosario; la netta divisione tra clero e popolo nella cosiddetta societas inegualis; il culto dei Santi e delle reliquie. Tutti elementi che, nati nel fervore del-
47 le lotte interconfessionali, sono continuate fino al Vaticano II, se vogliamo dare una datazione “di comodo”. Alcuni di questi tratti distintivi sono venuti meno, poiché si è maggiormente imposta all’attenzione ecclesiale l’importanza del laicato e della lettura della Sacra Scrittura da parte del singolo credente per la sua crescita spirituale. Altri aspetti, invece, sono sembrati venire meno col passare dei decenni: il Rosario, per esempio, un tempo preghiera “focolare” per eccellenza, non è più una pratica così diffusa presso le nuove generazioni, mentre riveste una significativa importanza presso i cattolici più anziani. Il cambiamento dei tempi, con la secolarizzazione della società, impone ai cristiani anche un cambiamento nel vivere la preghiera giornaliera: la liturgia delle ore viene meno in una società non più dichiaratamente cristiana. Siamo lontani dai momenti immortalati dal pittore Giovanni Segantini nella sua Ave Maria a trasbordo, o da quello di Jean François Millet intitolato Angelus, in cui semplici contadini e pescatori interrompono le loro attività lavorative per immergersi nel silenzio della preghiera allo scampanio della chiesa del paese. Oggigiorno, la dimensione “comunitaria” cattolica, oltre alla celebrazione eucaristica, trova come altro luogo di espressione in eventi comunitari di grandi dimensioni, quali le Giornate Mondiali della Gioventù, che possono essere viste come una “globalizzazione della
fede”: non più riunioni di comunità locali, ma di culture, lingue e modi di vivere diversi fra di loro, uniti nella gioia dell’annuncio del Vangelo intorno alla figura del Vicario di Cristo. Il cattolicesimo del XXI secolo è, per così dire, magmatico: la nascita di nuove modalità con cui esprimere la fede che si vengono a realizzare da parte delle nuove generazioni rispetto a quelle più anziane, ancora ancorate a forme più “tradizionali” di preghiera; la nascita di movimenti e di opinioni che, sulla scia della riscoperta delle origini cristiane riproposta dal Vaticano II, dalla rinascita dell’ermeneutica biblica e dagli sviluppi delle scienze umane in generale, intendono “rivedere” determinate posizioni di teologia, specialmente pastorale. Basti pensare all’enorme sfida che la bioetica pone davanti alle coscienze dei singoli credenti, sfida cui il Magistero ecclesiale si sforza di dare dei primi orientamenti a quesiti morali inediti nella storia dell’umanità. Fin qui si sono delineate le caratteristiche della Chiesa Cattolica facente capo al vescovo di Roma. Ma l’aggettivo cattolico – che deriva etimologicamente dal greco katholikós e che significa “universale” – non è esclusivo della Chiesa di Roma: anche le Chiese che vengono definite “ortodosse” si fregiano di questo titolo, mostrando quindi come la prima non abbia “l’e-
“l’aggettivo cattolico non è esclusivo della Chiesa di Roma”
48 Nipoti di Maritain sclusiva” di questo titolo. Anche gli Ortodossi, come noi cattolici romani, credono nei principali enunciati dogmatici e teologici precedentemente professati, se si eccettua il riconoscimento del vescovo di Roma come vertice e garante dell’unità delle Chiese locali nella fede professata dalla Chiesa universale. La Chiesa “universale”, fatto sta, esiste e al contempo non esiste affatto. Esiste nell’intenzione, avviata a partire dal rinnovato colloquio ecumenico tra le Chiese ortodosse autocefale con la sede petrina, ma non esiste di fatto perché “scissa” da oltre un millennio di “divorzio” che ha sviluppato sentimenti ecclesiali, oggi come oggi, ancora fin troppo profondi nelle coscienze dei singoli credenti. Lo stesso discorso vale anche per le Chiese nate dalla Riforma le quali, pur non aderendo alla successione apostolica “storica”, professano di credere “la chiesa, una, santa, cattolica e apostolica”, nella formulazione di Nicea-Costantinopoli. Il panorama della cristianità, insomma, risulta frammentato dalle incomprensioni storiche e dottrinali, rendendo la comunità ecclesiale divisa come lo era quella dei Corinzi tratteggiata nella prima lettera che san Paolo inviò a loro. Che cosa resta, dunque, dell’idea di “cattolicità”, davanti a tale frazionamento delle Chiese professanti la fede in Gesù Cristo? Restano le pretese “universali”, nate nel corso di secoli di sto-
ria, della Chiesa Cattolica facente capo al vescovo di Roma e di quelle delle Chiese ortodosse. Ma soprattutto resta la fede in Cristo, segno universale della fede che professiamo, la quale vivifica tutte le Chiese che aspirano alla piena comunione con Lui: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
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Credo la Chiesa “cattolica”: unità o uniformità? di Rosario Sciarrotta
“il Concilio non afferma che la Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa cattolica, puramente e semplicemente, ma che sussiste in essa”
Secondo quanto apprendiamo dal Catechismo della Chiesa Cattolica, essa è cattolica in un duplice senso. È cattolica perché in essa è presente Cristo. «Là dove è Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica» (§830). Essa è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano. Riprendendo sempre il Catechismo la «Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli, le quali, aderendo ai loro Pastori, sono anche esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento» (§832). Sono delineate dunque le caratteristiche della Chiesa particolare, che è in primo luogo la diocesi (o l’eparchia): si intende una comunità di fedeli cristiani
in comunione nella fede e nei sacramenti con il loro Vescovo ordinato nella successione apostolica. Le Chiese particolari sono pienamente cattoliche per la comunione con una di loro: la Chiesa di Roma, «che presiede alla carità. È sempre stato necessario che ogni Chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volgesse alla Chiesa romana in forza del suo sacro primato» (§834). I Padri della Chiesa di tradizioni diverse le hanno riconosciuto tale primato spirituale. Fino a qui lo status quaestionis è chiaramente delineato scorrendo sui due binari che hanno sempre fatto camminare la Chiesa, dalla sua nascita ad oggi: la Scrittura e la Tradizione (LG 14). Il problema nasce allorquando
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cominciò ad imporsi sul panorama storico anche la questione del primato petrino. Sono molteplici gli aspetti che hanno portato, per via di certe comprensioni “La chiesa è cat- del primato, ad identificare col tolica perché è la termine “cattolico tutte quelle casa di tutti Chiese”, di rito latino ed orientale, che sono non solo in coLa chiesa è catto- munione spirituale col vescovo lica perché univer- di Roma, ma anche sotto la sua sale giurisdizione. È tuttavia doveroso ricordare questi dati poiLa chiesa è catto- ché il primato petrino, nel bene lica perché è casa o nel male, è stato storicamente dell’armonia” la causa maggiore degli Scismi avvenuti portando la Chiesa di Roma ad auto-appellarsi “cattolica”, titolo che è proprio della Chiesa indivisa. Dal punto di vista teologico uno scisma tradisce sempre una mancanza di comunione. Fortunatamente la Chiesa non è degli uomini ma di Dio ed Egli non la lascia di certo affondare. E grazie a Lui il cammino teologico ed ecumenico è progredito sempre più fino alla celebrazione del Concilio Vaticano II. Nella Costituzione sulla Chiesa – la Lumen Gentium – sono significative due scelte che riguardano la struttura generale del documento. L’esposizione inizia presentando il popolo di Dio nel suo in¬sieme, prima di trattare della costituzione gerarchica della Chiesa. Al §8 si trova una precisazione fondamentale: il Concilio non afferma che la Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa cattolica,
puramente e semplicemente, ma che sussiste in essa. Questa posizione, mentre riconosce nella Chiesa cattolica la pienezza o integralità dei mezzi di cui Gesù Cristo ha voluto dotare la sua Chiesa, congiuntamente apre la possibilità di riconoscere veri elementi di ecclesialità nelle altre chiese. All’indomani della chiusura della sacra Assise, non mancarono crisi d’identità all’interno della stessa Chiesa di Roma, da parte di chierici come di laici. Col pontificato di Papa Francesco l’applicazione del Concilio ha ricevuto una forte e poderosa spinta in avanti e ciò ha comportato che questa storia si sia in parte ripetuta, seppur in maniera ridotta. Queste crisi d’identità sorgono quando si perdono di vista la Scrittura e la Tradizione viva della Chiesa – le uniche due fonti che ne alimentano la Dottrina – e si rimane, anche in buona fede, ostaggio di tradizioni, magari buone per altri tempi passati o futuri, che se cristallizzate producono effetti deleteri. Ciò è avvenuto nei secoli passati ad extra della Chiesa cattolica e dalla seconda metà del secolo scorso anche ad intra. Riprendendo un pensiero di Papa Francesco1, la “cattolicità” della Chiesa può esplicarsi in tre significati fondamentali:
51 1) La chiesa è cattolica perché è la casa di tutti. È lo spazio, la casa in cui viene annunciata tutta intera la fede, in cui la salvezza portata da Cristo viene offerta a tutti. Essa ci fa incontrare la misericordia di Dio che ci trasforma perché in essa è presente Gesù Cristo. È la grande famiglia di Dio dove ognuno ha diritto di cittadinanza e parola. Il problema sorge quando i figli cominciano a dividersi in “maggiori” e “minori”. 2) La chiesa è cattolica perché universale. È sparsa per orbe terrarum e annuncia il Vangelo a tutti. Essa, come diceva don Tonino Bello, «non ha né pareti né tetto» ed è presente anche nelle più piccole comunità e abbraccia una vastità di popoli che professano la stessa fede e si nutrono della stessa Eucaristia. 3) La chiesa è cattolica perché è casa dell’armonia. Essa è luogo dove unità e diversità sanno coniugarsi per essere ricchezza. Possiamo utilizzare la metafora della sinfonia di un’orchestra, che rivela accordo e armonia. E garante di tutto è il direttore, lo Spirito Santo. Il Suo frutto dunque è una varietà di carismi che concorrono tutti all’edificazione del Regno di Dio (cfr. 1Cor 12,4 ss.). L’unità nella diversità è essenziale per pensare l’essenza della Trinità stessa di Dio: l’uniformità è la sua negazione. Tendere ad uniformare tutto non viene
da Dio: l’uniformità uccide la vita. La vita della Chiesa è varietà. Quando si vuole imporre l’uniformità a tutti, si uccidono i doni dello Spirito Santo, si blocca la comunione, si spezza l’unità mortificando la diversità. Causa di questo è la mancanza di dialogo e di ascolto; di quella dimensione relazionale della quale l’uomo non può fare a meno in quanto egli stesso relazione perché creato ad immagine di Dio, relazione pura di amore. Ciò è testimoniato dalle fioriture di movimenti ecclesiali e di esperienze di fede variegate, un fenomeno che sgorga dal pozzo profondo di una domanda di significato e dalla bellezza dell’incontro personale con Cristo vissuto all’interno della sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica secondo tre motivazioni fondamentali: il bisogno di spiritualità, che può essere saziato nell’incontro con la fede; il desiderio di comunità, rivissuto nelle relazioni personali; l’esigenza di impegno per gli altri, che si esprime nella carità.
1 FRANCESCO, Udienza Generale del 9 ottobre 2013.
“Quando si vuole imporre l’uniformità a tutti, si uccidono i doni dello Spirito Santo, si blocca la comunione, si spezza l’unità mortificando la diversità “
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Il cattolicesimo costituisce la pienezza della verità di Daniele Laganà
“essere cattolici non è riducibile ad un sentimento o ad un riconoscimento formale”
Il sentirsi, il definirsi e l’essere cattolici potrebbero essere graficamente rappresentati con tre insiemi concentrici decrescenti per inclusività, in quanto attiene alla soggettività personale la percezione di una consonanza con il cattolicesimo e al libero arbitrio l’adesione verbale alla fede cattolica, mentre essere cattolici non è riducibile ad un sentimento o ad un riconoscimento formale, bensì comporta l’intessitura dell’integralità dell’esistenza con il legame personale con Cristo e con la filiale fedeltà alla Chiesa, effettuando una progressione dalla libertas minor che potrebbe essere sufficiente nei primi due stadi alla libertas maior. Il cattolicesimo, rispetto a tutte le altre fedi e tutte le altre confessioni cristiani, si distingue
per una differenza semplice, ma fondamentale: esso costituisce la pienezza della verità, mentre tutte le altre espressioni religiose possono vivere solo una forma carenziale della verità, e questo è il motivo principe per cui è necessario essere cattolici, se si ama la verità. In questi tempi in cui l’indifferentismo è galoppante, l’apologetica è avversata e l’ecumenismo travisato, è doveroso sottolineare come non sia meno importante dell’incontro personale con Cristo il vivere il Suo corpo mistico, che è la Chiesa, di cui Egli è Capo e come l’evangelizzazione non possa limitarsi all’annunzio della Parola, ma debba sospingere alla vera conversione che esige il divenire membra vive della Chiesa. Etimologicamente la fede cattolica implica universalità e tale
53 dimensione è manifestamente ravvisabile nella costante tensione tra l’unità e il pluralismo, sottolineata dal Santo Padre nella sua recente visita alle terre ambrosiane: l’unità coinvolge precipuamente il contenuto della fede, il quale è indispensabile che resti inalterato sia nello spazio sia nel tempo per esigenze innanzitutto di ragione, dando origine alla “pretesa” della Chiesa di non essersi mai contraddetta dalla sua fondazione ad oggi e sino all’eternità e trovando incarnazione nella figura del Vicario di Cristo, la cui potestà garantisce che vengano corretti traviamenti che possano snaturare l’essenza della Chiesa, rischio reputato alquanto attuale dall’arguta riflessione di Romano Amerio sulla contemporanea crisi della Chiesa; parimenti, il pluralismo riguarda la forma in cui la fede viene vissuta nel tempo e nello spazio, secondo l’ispirazione dello Spirito, pur nell’ambito di una piena continuità della Chiesa, ragione per cui il criterio preferenziale con cui sorgono nuove espressioni di fede autentica è una sana riscoperta delle origini e non una rottura netta e dialettica con il presente. Gilbert Keith Chesterton, nel libello il cui titolo “La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento” sintetizza magistralmente l’essenza del cattolicesimo, afferma saggiamente che «la Chiesa cattolica è l’unica cosa in grado di salvare
l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo», indicando come evidenza dell’autenticità del cattolicesimo rispetto al resto delle fedi e delle confessioni la perpetuità della posizione nei confronti della realtà che esso esprime, riuscendo ad attraversare indenne i secoli mentre sistemi di pensiero e ideologie si alternano in fatto di successo; completando l’espressione dell’apologeta britannico, potremmo affermare a pieno diritto che essere cattolici equivalga ad essere veri figli dell’eternità, distinti da chi appoggia la propria esistenza su fondamenti perituri. Luigi Giussani osserva come «la Chiesa si pone di fronte al mondo come realtà sociale carica di divino, vale a dire si pone come realtà umana e divina. Qui è tutto il problema: un fenomeno umano che pretende di portare in sé il divino. Così, tramite la presenza della Chiesa nella storia umana, si ripropone in tutto il suo scandalo il problema che Cristo ha sollevato»; pertanto vi è un’assoluta continuità tra Cristo e la Chiesa e ciò non giustifica solamente la santità di ambedue, ma non meno l’unicità: come uno è il vero Cristo, nonostante la possibilità che sorgano “falsi cristi”, così una è la vera Chiesa e le altre non possono essere considerate autentiche. Custode della retta ermeneutica della Sacre Scritture e dimora della Tradizione apostolica, la
“è necessario essere cattolici, se si ama la verità”
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“potremmo affermare a pieno diritto che essere cattolici equivalga ad essere veri figli dell’eternità”
Chiesa cattolica trova in Pietro e nei suoi successori il baluardo della propria unità, così come anche sentenzia Sant’Ambrogio: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia», per cui la fedeltà al Magistero papale, letto di necessità in continuità e non in contraddizione tra un Pontefice e l’altro, permette ai cattolici di compiere un cammino armonico verso la medesima direzione. Questione alquanto delicata è la coscienza, la quale riveste un ruolo alquanto importante nell’espressione dell’intima libertà del fedele, ma esige di essere formata dal sempiterno insegnamento della Chiesa, affinché non sia traviata e venga additata come sterile pretesto da componenti intestine all’assetto ecclesiale, le quali vorrebbero far passare come voce dello Spirito quella che è sventuratamente divenuta voce del Maligno.
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Cattolico ieri, oggi e domani: la fede diventa prassi nella storia di Andrea Bosio
Cattolico1, cioè universale. Per tutti, per tutto. È un termine sul quale si potrebbero smuovere numerose riflessioni, ma che porta con sé un’essenza che non possiamo mai dimenticare: è apertura. Cattolico non è mai chiuso, ristretto o per pochi: la natura stessa della cattolicità parla di aprirsi e includere. Cattolico sfida le frontiere, le sorpassa e le innova, rendendole superflue: non per cancellare le distinzioni, ma per ricordare che, nonostante le differenze, non ci sono separazioni. Dentro Cattolico ogni persona è chiamata a sentirsi entro le mura di casa. C’è un prolifico linguaggio della cristianità su questi temi, ispirato anche indirettamente, tanto da essere davvero testimone della natura più intima di Cattolico: «ponti e non muri» è l’esempio
più recente, decisamente convincente nella comunità occidentale del nostro tempo. Questo spingersi oltre i confini per abbracciare l’ecumene ha conseguenze poderose, spirituali e storiche. Cattolico è universale: allora è opposto a particolare? Dentro Cattolico, in realtà, trova spazio tanto l’universalità quanto la particolarità. La Chiesa ne è un esempio: tutta cattolica, abbraccia le particolarità – le Chiesa locali, chiamate, appunto, chiese particolari – e le integra, innalzandole nella Chiesa universale, popolo di Dio che cammina nella storia. Un Dio che cammina nella storia è un Dio che non rifiuta la storia. Anzi: insegna già nel Primo Testamento che voce e volontà del Signore sono voci e volontà
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che trovano spazio e si avverano nel percorso delle persone. Dio si incontra sulla strada, dice la spiritualità scout, e ne ha buon motivo: la storia della Salvezza è la storia di un cammino, che da materiale e spaziale si fa temporale e spaziale con l’accresciuta consapevolezza di chi cammina in essa. La storia umana assume in questo modo non solo importanza, ma anche centralità per Cattolico, perché è in questa storia che trova lo spazio – cronologico – in cui dispiegarsi dai cuori alle opere.
“la natura stessa della cattolicità parla di aprirsi e includere. Cattolico sfida le frontiere, le sorpassa e le innova, rendendole superflue”
Cattolico, allora, non significa affatto ab-soluto: non è assoluto, ma universale. Non è sciolto dalla storia, dai suoi vincoli, dalla sua strada, ma ben calato in essa, capace di agire e operare, conscio di essere sé stesso solo al suo interno. Se Dio ha parlato al suo popolo solo attraverso la storia, chi potrebbe arrogarsi la capacità di allontanarsi da essa, estraniarsi dal flusso del tempo per meglio vivere l’incontro con lui? Per Cattolico lo spazio in cui vivere la sua natura più profonda è proprio quella del mondo, della storia che scorre, rispettando la trascendenza di chi lo ispira, ma anche la scelta di questa trascendenza di farsi storia per incontrare i suoi figli. Ci troviamo d’altronde di fronte a una trascendenza che, pur di amare, sceglie di creare la cronologia, una dimensione nel quale la
creatura che ama possa esistere e imparare a riconoscere il suo amore in totale libertà. Cattolico è anche imparare questo amore e imparare a testimoniarlo. Imparare l’amore, però, conduce a provarlo verso l’altro: non è una nozione teorica, una lezione scritta su carta, ma incisa nel cuore e nella carne. C’è poco di Cattolico quando amiamo part time o sub iudice: l’amore del Padre, lo stesso che ha creato spazio e tempo per darci una casa, non conosce condizioni o durate contrattuali. Incontra l’altro dove è, nel suo spazio e nel suo tempo, senza chiedergli ancora conto di quelle dimensioni, ma chiamandolo all’impegno di renderle adeguate a questo amore. L’adeguatezza, ancora, non diventa mai requisito per l’amore, che rimane senza condizioni. Cattolico è, insomma, andare incontro all’altro coscienti di sé. Essere cattolici, allora, pur avendo un unico fondamento ontologico, significa calarsi nel proprio tempo per portare in esso il messaggio della Chiesa: Cristo. Ciò può anche significare che le manifestazioni cambino, mantenendosi fedeli al messaggio: il mutare della forma liturgica, fin quando non intacca la reale presenza di Cristo nell’eucarestia, la celebrazione comune dei fedeli e le altre caratteristiche che istituiscono l’eucarestia stessa,
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“Essere cattolici significa calarsi nel proprio tempo per portare in esso il messaggio della Chiesa: Cristo”
non deve essere vissuto come un problema o un attacco alla Tradizione, ma come un suo avverarsi agli occhi delle persone e nella loro vita. Ciò è testimoniato da sempre dal Magistero stesso, che riconosce il processo di approfondimento della conoscenza della Rivelazione. Pur conclusa, essa vive; pur inafferrabile nella sua totalità, essa attende la nostra continua esplorazione. Essere nel mondo e non del mondo oggi ha questo significato: vivere nel proprio contesto, comprendendolo e non rifiutandolo, eppure non cedendo alle regole che esso scrive nella sabbia, imprimendo invece nei cuori una Parola che c’è dal principio. Cattolico è nella vita nel tempo: è nella politica, nella famiglia, nella società, nella teologia, nel servizio, in ogni dimensione in cui prende forma la vita umana.
1 Si distinguerà cattolico e Cattolico: il secondo, protagonista di questa riflessione, sarà trattato alla stregua di nome proprio.
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Perché è ragionevole essere cattolici di Nicola Gioacchino Tatulli Riflettere su cosa significhi essere cattolici è solo un aspetto di un interrogativo attuale molto più ampio, che è: oggi è ragionevole essere cristiano? In ambito pastorale o della nuova evangelizzazione, la “questione delle questioni” è mostrare la ragionevolezza della fede oggi. Ciò implica che il cattolico non deve cadere nel fideismo, quell’atteg“il cristiano è colui giamento che «non riconosce che ha fatto e fa l’importanza della conoscenza esperienza dell’inrazionale e del discorso filosoficontro con Cristo co per l’intelligenza della fede» e ne è rimasto (Fides et Ratio, 55).
affascinato e liberato”
Papa Benedetto XVI citava la formula credo quia absurdum (credo perché è assurdo), attribuita a Tertulliano, che difendeva la fede “scandalosa” nella reale incarnazione e crocifissione di
Cristo contro i docetisti. Il Papa emerito sosteneva che tale frase da sola non interpreta adeguatamente la fede cattolica: «Dio non è assurdo, casomai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma eccesso di senso, di significato, di verità»1. I Padri della chiesa, come Sant’Agostino, hanno testimoniato che la «fede si esercita con la ragione». Nel medesimo solco, il Proslogion di Sant’Anselmo ha anche il titolo alternativo di Fides quaerens intellectum, cioè la fede che ricerca (e richiede) la comprensione intellettuale. Sempre nel Medioevo, il Doctor Angelicus si confrontò costantemente con la filosofia, facendo emergere il dialogo della fede con la ragione. «La fede cattolica
59 è dunque ragionevole e nutre fiducia anche nella ragione umana», concludeva Benedetto nella medesima Udienza. Quindi, perché vale la pena oggi essere cristiani? Una decisione eticamente corretta non basta; una grande idea, anche se buona non basta. L’unica ragione fondata è l’incontro con un avvenimento, con una persona, Gesù: questa è l’esperienza del cristianesimo. Ne consegue che il cristiano è colui che ha fatto e fa esperienza dell’incontro con Cristo e ne è rimasto affascinato e liberato. Coloro che credono che Gesù è il Signore lo pregano, lo confessano, lo glorificano: è la comunità orante. Si passa dall’io credo al noi crediamo. Quest’insieme di credenti è la Chiesa, e in particolare ci riferiamo alla Chiesa Cattolica. Ogni cristiano, ad ogni latitudine e longitudine di questo mondo deve avere la stessa fede: credere che Gesù Cristo è il Signore ed morto e risorto per me, per noi. Cristo «ha costituito sulla terra» una sola Chiesa, e l’ha istituita come «assemblea visibile e comunità spirituale» (Lumen Gentium, 8.1). «Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (LG, 8.2).
Il termine “cattolico”2 ha la sua intuizione nell’episodio di Pentecoste ed è ricorrente sin dai primi secoli in molti documenti patristici, essendo stato utilizzato per la prima volta per designare la religione cristiana da Sant’Ignazio di Antiochia all’inizio del II secolo in una delle sue lettere (Smirnesi 8,2). Se vogliamo, non c’è alcuna differenza tra essere cattolico ed essere cristiano; sono termini che si illuminano a vicenda. È come se qualcuno dicesse: “Sono una persona e sono essere umano”. In senso lato, alcuni discepoli di Cristo che non appartengono alla Chiesa cattolica romana possono essere considerati “cattolici” nella misura universale in cui professano il Credo che ci accomuna. Restano però ancora molti passi da fare perché la Chiesa si possa manifestare universalmente – cattolicamente – come unita in Cristo – che è universale, cioè cattolico – pur nella distinzione delle varie chiese locali. Colpita non dal tempo, ma dalla sfida-opportunità dei segni dei tempi, la Chiesa cattolica sta vivendo una stagione in cui si avverte una sorta di disaffezione nei suoi confronti, per molteplici cause. Sembra essere venuta meno la fierezza di essere cattolici, quella fierezza identitaria che è impegno di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e non di nostalgiche battaglie contro un mondo lontano dalla societas
“non c’è alcuna differenza tra essere cattolico ed essere cristiano; sono termini che si illuminano a vicenda”
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christiana. Illuminante è il libro di Pietro Prini, Lo scisma sommerso (Garzanti, 1999) nel quale il filosofo cattolico denunciava nella Chiesa un divario profondo – forse irrecuperabile – tra la dottrina ufficiale e le coscienze dei fedeli. La ricerca curata dal sociologo Franco Garelli intitolata Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino, 2016) guarda alla religiosità degli italiani con età compresa tra i 18 e i 29 anni. Oltre il 70% si definisce in qualche modo «cattolico», il 28% si dichiara «non credente», mentre i «credenti convinti e attivi» sono ormai ridotti a una piccola minoranza, il 10,5%; minoranza sì, ma una minoranza che resiste e che vuole essere sale e luce del mondo. Come ha spiegato lo scrittore argentino Andrés D’Angelo, sentirsi ed essere cattolici significa non appartenere ad un “club”, ad una associazione o ad un movimento culturale-filosofico. «Essere cattolici invece significa, in un mondo così “sano”, “essere un po’ pazzi”. Pazzi, cioè, d’amore per Cristo; pazzi d’amore per Maria e, di conseguenza, pazzi d’amore per gli altri»3 senza escludere i nemici. Il cattolicesimo è un cammino serio di vita. Il cattolico crede che Dio l’abbia creato per uno scopo, con un fine; scoprendolo, possiamo aspirare alla santità: vivere la vocazione primaria all’amore, seguire il Maestro nelle parole e
nei suoi esempi. I cattolici sono sempre “fuori moda”, nella vita personale come nella politica: si oppongono all’aborto, al divorzio, all’eutanasia… E credono che «tutto abbia senso in questa vita, persino la sofferenza»! Alcuni cattolici dedicano tutta la vita per gli altri consacrandosi, senza condizioni, per amore verso Dio e il prossimo. Essere sale e luce del mondo significa essere scomodi e non vivere comodi, anzi vivere perseguitati come è successo anche a Gesù. Sanno di non essere i migliori, ma sono fiduciosi nella «follia della Misericordia di Dio»! Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton nel suo libro Perché sono cattolico scrisse: «La difficoltà nello spiegare “perché sono cattolico” consiste nel fatto che vi sono diecimila ragioni, tutte riconducibili ad un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero». La Verità, che è Cristo, è custodita dalla Chiesa cattolica; i cattolici devono far splendere questa Verità in tutto il mondo.
1 BENEDETTO XVI, Udienza Generale del 21 novembre 2012. 2 Dal greco antico katholikós, cioè “universale”. 3 A. D’ANGELO, 10 razones (comprobadas) por las que deberías dudar de ser católico, Catholic Link. Disponibile all’indirizzo http://catholic-link.com/2016/05/21/razones-dudar-ser-catolico/
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Sulle tracce dell’identità ecclesiale di Alessandro Clemenzia
“avere gli altri dentro di sé è il significato della stessa cattolicità: tensione sconfinata verso l’altro”
“Che senso ha definirsi, sentirsi, essere cattolici?”. Si tratta di una domanda lecita, che il più delle volte nasce dal desiderio di riscoprire le motivazioni più vere e profonde di un’appartenenza religiosa che, sicuramente, ha intessuto le fibre della cultura e della società occidentale e internazionale. Ha ancora senso vivere un’appartenenza, quando ogni forma di particolarismo deve quotidianamente fare i conti con l’inarrestabile processo di globalizzazione? Credo che la risposta possa essere affermativa: sì, ha ancora senso, ma è importante prima accordarsi sul significato delle parole che vengono utilizzate. «L’appartenenza – cantava Giorgio Gaber – non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di
un normale voler bene […], non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un’apparente aggregazione; l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé». E se una tale accezione può essere ritenuta valida per una qualsiasi forma di appartenenza, ancora più appropriata sembra essere per la Chiesa; anzi, essa è ancora più vera nella sua applicazione ecclesiale in quanto “l’avere gli altri dentro di sé” non è soltanto un’ipotetica comprensione di “appartenenza”, ma è il significato della stessa “cattolicità”, e cioè universalità, tensione sconfinata verso l’altro. Conclude la canzone di Gaber: «Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire
62 Nipoti di Maritain “noi”». E proprio attraverso quest’ultima parola personologica si può riuscire a esprimere fino in fondo il significato di ecclesia e, dunque, a rimotivare un senso di appartenenza ad essa.
“il noi è tale solo se accoglie in sé l’altro, che conser- Il “noi” ecclesiale, infatti, indiva però la sua pe- ca un livello di appartenenza ad culiarità di altro” una realtà che è tale nel momen-
“consapevoli di avere un’identità aperta, di essere se stessi nel vivere totalmente proiettati verso l’esterno”
to stesso in cui vive, ed è consapevole di vivere, tutta proiettata verso ciò che è “fuori” di essa, non per “convertire il mondo”, ma per seguire e incontrare quel Gesù che è stato crocefisso fuori le mura di Gerusalemme, e cioè fuori da un luogo consacrato. Qui si può meglio comprendere il motivo sia per cui Benedetto XVI ha più volte parlato della Chiesa come di un “noi”, sia per cui Papa Francesco inviti costantemente la comunità cristiana a “uscire” dal suo recinto. Il “noi” ecclesiale è già la Chiesa in uscita, non per agglomerare gli altri all’interno di sé e così allargare i propri confini, ma perché il “noi” è tale solo se accoglie in sé l’altro, che conserva però la sua peculiarità di “altro”. Una tale considerazione va a sradicare dal di sotto e dal di dentro l’ipotesi che l’identità cattolica sia la statica conservazione, nel tempo e nello spazio, di una rigida struttura o di forme esteriori che, prima o poi, devono essere impiantate universalmente. Per l’identità della Chiesa l’altro-da-sé – chiunque esso sia – non è qualcuno di esterno verso
il quale l’“io” ecclesiale è orientato per soddisfare le proprie esigenze pastorali, ma fa già costitutivamente parte della sua stessa natura. “Che senso ha definirsi, sentirsi, essere cattolici?”. Ha senso nel momento in cui si è consapevoli di avere un’identità aperta, di essere se stessi nel vivere totalmente proiettati verso l’esterno, nella gioia di poter ancora dire “noi”.
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Rubriche
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laudate hominem
Le immagini nella Controriforma: il caso del S. Domenico in Soriano di Marco Sergio Narducci
Il viaggiatore che, percorrendo le strade della Calabria, giunge a visitare il paesino di Soriano, in provincia di Vibo Valentia, senza dubbio resterà impressionato dalle imponenti rovine di un antico convento domenicano, costituito da un cenobio a cinque chiostri e da una chiesa (un tempo) dotata di cupola. Il complesso barocco, che rappresentava uno dei principali edifici religiosi del Regno di Napoli e Sicilia, fu raso al suolo dal sisma che colpì quelle terre nel 1783. Le ragioni di un tempio tanto grandioso in un villaggio così piccolo e sperduto sono da cercare nella leggenda secondo cui, nella notte tra il 14 e il 15 settembre 1530, la Vergine Maria, accompagnata da Maria Maddalena e da santa Caterina d’Ales-
sandria (co-patrone dell’Ordine dei Predicatori), consegnò all’umile frate sacrestano del piccolo convento di Soriano Calabro un ritratto di san Domenico, non dipinto da mano umana, bensì divina: ciò che gli studiosi chiamano immagine acheropita, cioè “non fatto da mano (umana)”. Il presunto avvenimento miracoloso fu però registrato con regolare processo canonico solamente nel 1609, allorquando il maestro generale dell’Ordine, Agostino Galamini, visitò i conventi dell’Italia meridionale. Egli probabilmente si limitò a constatare la presenza di un culto già da tempo radicato, la cui liceità sarebbe stata comprovata dal gran numero di presunti miracoli che l’effigie aveva prodotto.
65 Presto la conoscenza del Ritratto miracoloso si diffuse in tutto il mondo cattolico, grazie all’azione di propaganda dei Domenicani, secondo i quali il celeste dono sarebbe stata la dimostrazione dello speciale favor della Madre di Dio nei confronti della loro congregazione. Dalla metà del XVII secolo praticamente ogni fondazione domenicana poteva vantare la presenza di una copia del Ritratto, o fedele all’originale (talvolta realizzata direttamente a Soriano a contatto con l’archetipo), o impostata con la tipologia iconografica del “quadro di visione”, recante la rappresentazione della “Calata” della sacra immagine. Il canale di diffusione privilegiato per la conoscenza della devozione alla sacra effige era la produzione a stampa, sia di incisioni, sia di racconti dell’evento miracoloso. Oltre all’ordine dei Predicatori, grande sponsor del culto fu la monarchia spagnola, da sempre in stretti rapporti con i figli di san Domenico, confessori di corte. La presenza spagnola nelle colonie del Sud America e delle Filippine contribuì a portare sino agli antipodi il culto del Ritratto miracoloso, diffuso anche in tutti gli altri territori sottoposti all’influenza iberica. Filippo IV prese sotto la sua personale protezione il convento calabrese, finanziando la costruzione di quel grandioso complesso a cinque chiostri e proclamò san Domenico patrono del Regno di Napoli e Sicilia.
La presunta capacità di operare miracoli si sarebbe altresì trasmessa “per contatto” alle copie realizzate nel cenobio calabrese, dove erano attive botteghe deputate a tale attività, riconoscibili da uno specifico “marchio di fabbrica”: «Vero Ritratto del San Domenico in Soriano». Tali “copie miracolose” contribuirono a creare altrettanti santuari nei luoghi dove erano trasportate. Iniziarono rapidamente a circolare alcune raccolte dei miracoli operati, con la finalità di provare l’origine celeste del Ritratto. P. Michele M. Fortuna OP, bibliotecario dell’attuale convento calabrese, ha coniato, in relazione al santuario di Soriano, l’espressione di «Lourdes dei secoli XVII e XVIII», tanti erano i pellegrini che vi affluivano, in particolare in occasione della fiera di san Domenico, in agosto (la memoria del Santo ricade il 4 di quel mese), e della solennità della Calata, celebrata nella notte tra il 14 e il 15 settembre. In ragione del gran numero di fedeli, il Papa concesse ai penitenzieri di Soriano le stesse “facoltà” nell’assoluzione dei peccati che spettavano agli omologhi della Santa Casa di Loreto; fu inoltre concessa un’indulgenza a quanti si recavano in qualsiasi chiesa avente un altare dedicato a tale culto. La sacra Immagine fu un efficace strumento della propaganda della Controriforma: così come le prime acheropite cristiane fu-
66 Nipoti di Maritain rono usate al tempo della controversia iconoclasta bizantina per provare la liceità del culto delle immagini, allo stesso modo il Ritratto di san Domenico rappresentava la risposta “divina” alle critiche dei riformati nei confronti del culto che i cattolici tributavano alle effigi sacre. Non sorprende dunque constatare la grandissima diffusione dell’iconografia del san Domenico in Soriano nell’area degli antichi Paesi Bassi spagnoli (meridionali), corrispondente all’attuale Belgio, sia in ragione del dominio esercitato dalla monarchia spagnola su quei territori, sia della vicinanza all’Olanda (all’epoca Repubblica delle Province Unite o Paesi Bassi settentrionali), ormai convertitasi al calvinismo. Il Ritratto miracoloso era quindi uno strumento utile a rafforzare l’identità cattolica dei Fiamminghi, a confortare nella propria fede i cattolici olandesi – di fatto, seppure in forma nascosta, o clandestina, il cattolicesimo era tollerato in Olanda – e a convertire gli “eretici” alla “vera fede” romana. In tale contesto merita senza dubbio ricordare l’immagine venerata nella chiesa di San Paolo ad Antwerpen, nelle Fiandre, divenuta un “secondo santuario” in seguito a presunte guarigioni miracolose; il convento fiammingo assunse così il ruolo di importante centro di irradiazione del culto. Gli eventi sismici del 1783, con la distruzione del santuario di
Soriano, del cenobio e della vastissima biblioteca, avviarono il declino del culto. Nel XIX secolo, tra alterne vicende legate alle soppressioni degli ordini religiosi durante l’occupazione francese e in seguito all’unificazione italiana, furono costruiti una nuova chiesa e un nuovo convento, i quali occupano a malapena uno dei cinque chiostri della precedente fondazione. Quello che era stato un culto venerato in tutto il mondo cattolico, progressivamente fu relegato ad una semplice devozione locale, che ha reso molto spesso difficile il riconoscimento dell’iconografia stessa. In conclusione occorre sottolineare come, in anni recenti, il caso Soriano abbia attirato l’attenzione degli studiosi, sia nell’ambito dell’iconografia, che in quello dell’antropologia religiosa e dell’immagine, in relazione al rinnovato interesse della critica nei confronti del potere esercitato sugli uomini da feticci e immagini “taumaturgiche”, a lungo trascurate da un’impostazione accademica legata ai canoni estetici dell’idealismo crociano. Gli studiosi si stanno concentrando in modo particolare sulla diffusione di tale iconografia nei vari contesti geografici, contribuendo così alla creazione di un ricco e variegato repertorio.
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umanesimo integrale
Essere cattolici nell’epoca dell’ipercapitalismo e del disincanto di Stefano Gherardi
Cosa significa essere cattolici oggi? Jacques Maritain, nel libro Il contadino della Garonne (1966), riporta l’episodio della vita di San Tommaso d’Aquino secondo il quale un suo confratello gli disse di correre alla finestra per vedere un bue che volava – «lo consideravano un ingenuo» – egli vi andò subito e poi disse a quel frate: «È meno sorprendente vedere un bue volare che udire un religioso che dice bugie». Ho scelto di iniziare l’articolo con questo episodio perché credo che a fronte del mondo ipercapitalista, disincantato e razionalizzato di oggi (Max Weber) sia invece necessario, per accedere alla fede e alla vita buona (eû zoé), «reincantare il mondo» (Bernard Stiegler), tornare a stupirsi come i bambini perché, come scriveva Euge-
nio Montale, «un imprevisto è la sola speranza» (Prima del viaggio). Già Dostoevskij si trovò ad affrontare la razionalizzazione del mondo, questa volta proveniente dalla teologia protestante, quando, nei taccuini preparatori per I demoni, pose questa domanda: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». Oggi, in un altro contesto, possiamo riformulare la domanda in questi termini: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può amare come il Figlio di Dio, Gesù Cristo ci ha amati?». Mi sembra che questa domanda vada più in profondità della precedente, la presupponga, e che si tratti di un altro modo per chiedersi cosa
68 Nipoti di Maritain significhi essere cristiani e cattolici nel mondo secolarizzato di oggi. Per provare a rispondervi intendo servirmi di un excursus storico che ci permetta di andare se non alle origini della scristianizzazione attuale – c’è chi risale indietro nel tempo fino a Cartesio e anche prima! – almeno a un punto di svolta importante, al Sessantotto e alle sue conseguenze, descritto acutamente dal teologo Mario Cuminetti in Essere teologi oggi (1986). Dopo il Sessantotto infatti, secondo il teologo bergamasco, in molti giovani «la fede fu abbandonata o messa fra parentesi». Egli registrò come una delle cause di questo abbandono era legata a un dualismo tra terra e cielo, tra ragione e fede, che non si era riusciti a superare se non attraverso un fideismo di impostazione barthiana o un appiattimento sul mondo derivato da un’errata interpretazione di Bonhoeffer. Cuminetti continuò il suo ragionamento rilevando come «durante periodi “forti” in cui utopia, ideali, esistenza fanno (o appaiono!) tutt’uno, un certo tipo di fede si svuotava, appariva senza senso e inutile». Ne scaturiva la necessità di una riflessione sulla gratuità della fede e «la critica del carattere totalizzante che l’impiego ideologico può assumere». Oggi, a distanza di più di trent’anni dalla scrittura di queste pagine, il rischio mag-
giore per la fede e per la vita buona non è più certo quello di un «impegno ideologico totalizzante» ma piuttosto l’ideologia ipercapitalista-edonista – «Devi godere!» come ha osservato il filosofo Slavoj Žižek – ammantata di disincanto, che ne ha preso il posto a partire dagli anni ‘80. Giova qui ricordare che gli ultimi tre Papi hanno criticato questo stato di cose con l’espressione «capitalismo selvaggio», la quale fu usata per la prima volta da San Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus (1999). Papa Wojtyła richiamò inoltre l’attenzione su quelle che definì «strutture di peccato», le quali «si radicano nel peccato personale […], si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini» (Sollicitudo rei socialis 36). Dopo questo excursus e l’accenno alla Dottrina Sociale della Chiesa, possiamo ora tornare alla nostra domanda per provare finalmente a rispondervi. Per amare come Cristo ci ha amati – il comandamento nuovo (cfr. Gv 15,12) – è necessario prendere le distanze dal peccato personale ma anche dall’ideologia ipercapitalista-edonista (o Dio o Mammona e il godimento sfrenato). Altrimenti sarà anche possibile credere alla divinità di Cristo ma, alla pari di quei demoni che «credono e temono» (Gc 2,19), avremo una fede morta e senza opere.
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a misura d’uomo Bene-dire la differenza: la speranza per un futuro sostenibile “è proprio questa incapacità di ascoltare le ragioni di chi viene presentato come populista a favorire il successo di questi”
di Davide Penna
I nostri occhi, il nostro cuore e la nostra mente sono letteralmente invase da immagini di ogni tipo che si impongono con forza, ogni giorno di più. A volte sono talmente veloci e invadenti da toglierci il respiro e da costringerci, quasi, a dimenticare. Tra gli effetti più drammatici di questo odio invadente vi sono la perdita di fiducia verso un mondo migliore, l’indifferenza, l’incapacità di ascoltarsi, soprattutto con chi la pensa diversamente, e la
mentalità, sempre più diffusa, della comodità soporifera. Una mentalità che porta a vedere in chiunque turba il mio quieto vivere, in chi mi costringe a rivedere le mie convinzioni, un nemico, bene che vada da ignorare e non ascoltare, altrimenti da eliminare, magari facendoci sopra anche delle campagne elettorali … Il problema è che questa mentalità da ipertrofia del medesimo,
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“Ogni forma di razzismo e di indifferentismo nasce dall’incapacità di accettarsi come limite”
ovvero quella ideologia che porta a esaltare in modo esagerato tutto ciò che, in qualche modo, può essere assimilabile a quello che penso, vivo, sento dentro, è molto più diffusa di quanto si possa credere; non è solo nei movimenti o partiti considerati xenofobi, ma anche in chi, considerato mainstream, non ascolta nemmeno le idee altrui solo perché vengono da una determinata posizione politica e, quindi, per forza razziste, inaccettabili. In questo senso è proprio questa incapacità di ascoltare le ragioni di chi viene presentato come populista o demagogico, a favorire il successo di questi. I casi sono tanti e lo sappiamo: pensiamo a Trump e alla propaganda democratica nei mesi precedenti alle elezioni, molta parte più incentrata sulla sottolineatura dell’impresentabilità dell’avversario che non attenta a far proprie le esigenze di chi sta peggio; oppure a quello che sta succedendo in Francia e al grande consenso ricevuto da Marine Le Pen, un vero e proprio spauracchio per i moderati europei; senza scordarci la Brexit, che nei giorni precedenti al referendum veniva presentata da molti media come una catastrofe per le borse e i mercati, gli stessi che nei giorni successivi si sono impegnati a sottolineare l’inadeguatezza, per età e posizione sociale, di chi ha votato leave.
la della famiglia e dell’impresa, ridistribuzione della ricchezza – spesso sono usate da chi ha una lettura estremista delle differenze sociali, culturali, economiche. Il nodo enorme davanti a cui ci troviamo è molto simile a quello degli anni ‘30: da un lato movimenti e partiti che fanno propri i problemi di chi sta peggio pensando, tuttavia, la diversità come conflitto; dall’altro movimenti e partiti mainstream che sembrano avere come riferimento un modello unico che, di fatto, soffoca le specificità, pensando l’unità come assenza di differenza e invocando un internazionalismo privo di ciò che da senso all’“inter” – al “tra” – ovverosia la nazione, il locale, la diversità culturale, sociale, economica. Gli estremismi nascono quando la comunità si disgrega, le persone hanno paura, manca il lavoro e ci sono grandi disuguaglianze; questi stessi elementi sono alimentati da una politica e da una cultura che mettono al centro il mercato, la competitività, l’individualismo, la concentrazione di ricchezza e quindi l’esclusione. Penso che la sfida politica che abbiamo davanti passi in buona parte dal capire che la diversità, in sé, non dice conflitto e che l’unità non elimina le differenze ma, anzi, le benedice; e, successivamente, dal dare forma concreta a questa realtà.
Il dramma è che le parole della buona politica – come unità nazionale, difesa del lavoro, tute-
Solo tornando a bene-dire, a dire bene e a tutelare e curare le differenze, sociali, culturali, eco-
71 nomiche, possiamo affrontare le sfide che abbiamo davanti. E solo accentando la mia posizione come limitata posso ben-dire la differenza e, concretamente, costruire comunità in cui la differenza non è più una strega da cacciare, ma una ferita da approfondire. Il non-limite uccide il desiderio perché il poter-tutto, l’assenza di legge, uccide la mia costitutiva tensione verso l’altro. L’assenza di legge mi sradica dalla mia profonda natura di “essere-verso-l’A/altro”. Il limite, naturale, biologico, culturale, dato che dice, di per sé, spinta verso l’altro, vivifica il desiderio. Ogni forma di razzismo (io sono superiore a te) e di indifferentismo (non c’è differenza di genere o di natura, l’unica legge è “io voglio”) nasce dall’incapacità di accettarsi come limite. Un grande esempio ci viene da papa Francesco; il viaggio fatto in Egitto è come un faro che illumina i problemi sottolineati. Soprattutto il suo incontro con la comunità musulmana è stato davvero profetico. Ecco le parole che più mi hanno colpito: “Occorrono tre orientamenti fondamentali per il dialogo: il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me culturalmente o religiosamente non sia trattato come nemico; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo non
è una strategia per realizzare secondi fini”. Identità, alterità, sincerità, ecco come tornare a bene-dire la differenza e come accettare il limite. Facciamolo in fretta e proviamo a convincere chi condivide il nostro piccolo mondo a farlo. Buona parte del futuro nostro e delle prossime generazioni si gioca in questa sfida.
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a ben vedere
Perdere Dio per Dio. Libera riflessione su Silence di Emanuele Pili L’uscita di Silence, il nuovo film diretto da Martin Scorsese, ha fatto molto discutere il pubblico, credente e non, delle sale cinematografiche, non lasciandolo indifferente ai numerosi stimoli cui viene sottoposto durante una proiezione che, pur parlando di una vicenda lontana nel tempo, riesce ad alimentare le domande che abitano l’intimità di ogni essere umano. Quella che qui propongo non è una recensione di questo – a mio modo di vedere – bellissimo lavoro cinematografico, ma una libera riflessione da esso suscitata, la quale, forse, dischiude un’ulteriore chiave di lettura del film, probabilmente anche oltre l’intenzione dello stesso Scorsese (stando a quanto da lui dichiarato nella lunga intervista rilasciata a La Civiltà
Cattolica). Il film racconta la feroce persecuzione dei cristiani nel Giappone del XVII secolo, concentrandosi su alcune figure di sacerdoti e di laici costrette ad abiurare o a subire le peggiori violenze fisiche, psicologiche e spirituali. La narrazione – nonostante la lunghezza della pellicola, che dura circa due ore e mezza – è estremamente avvincente e ci mostra, nella crescente profondità e tensione dei dialoghi e delle scene a cui assistiamo, un tragico e drammatico spaccato di umanità: da chi è fedele al proprio ideale fino alla fine, passando per chi sembra tradire in continuazione (salvo poi tornare a chiedere incessantemente e sinceramente perdono), fino a chi sembra
73 tradire una volta e per sempre. Insomma, ognuno di noi – guardando questa storia, ispirata dal romanzo dello scrittore Shusaku Endo – viene messo di fronte alla propria vita e viene costretto a riflettere: «Chi sono io? Che cosa dona senso alla mia vita? Come avrei agito al loro posto?». Il dilemma – ed è questo il momento che più ci interessa – viene spinto all’estremo allorché Padre Rodrigues, missionario gesuita e vero protagonista della storia, si trova letteralmente scaraventato nella situazione più paradossale, gettato nel più lacerante dei paradossi. Di solito, infatti, gli inquisitori chiedono ai kirishitan (così chiamano i cristiani) di bestemmiare e calpestare o sputare su un oggetto sacro. Non così per Padre Rodrigues, al quale si chiede non una “semplice” bestemmia, ma di calpestare il volto di Cristo sotto la minaccia di morte di altri suoi fratelli, se egli non avesse compiuto quel gesto. Dettaglio, quest’ultimo, non secondario: se Rodrigues non abiura – tale è la perfidia degli inquisitori giapponesi – altri cristiani moriranno al suo posto. Considerando anche il contesto storico, ben si comprende la terribile sconsolazione del sacerdote. Non si tratta “solo” del calpestio di un’immagine sacra, ma di un’abiura che costa cara: il suo prezzo, infatti, è la maledizione. Maledizione dei persecutori, che lo considerano un debole; ma-
ledizione della sua comunità, la Chiesa, che guarda al suo prete come ad un uomo non all’altezza del compito assegnatogli. Il prezzo dell’abiura è, in altre parole, l’abisso della rinnegazione: l’abbandono, l’inferno. Sì, poiché l’intera vicenda avviene, altresì, nel più totale silenzio di Dio, che non risponde in alcun modo ai suoi figli. Non risponde… ma, per la verità, proprio nel travagliato momento della scelta, Cristo stesso sussurra al cuore di Rodrigues: «Calpestami. Sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini». Ecco il paradosso in tutta la sua potenza: seguire Cristo, qui e ora, significa seguirlo fino al punto di perderlo. Così, ciò che aveva donato senso all’esistenza, ciò che aveva di più caro, Rodrigues lo lascia andare, lo perde. E lo perde per sempre, poiché sarà costretto a ripetere l’abiura per tutta la vita, lasciando non solo la propria identità di sacerdote, ma quella di cristiano. Sembra avverarsi quanto ardeva profondamente in San Paolo: «Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo in favore dei miei fratelli» (Rm 9,3). La radicalità è massima: vorrei essere maledetto/separato (anáthema) da Cristo, affinché l’altro possa essere toccato dal Suo amore. Madre Teresa gli fa eco: «Se la pena e la sofferenza, la mia oscurità e separazione da te ti dà una goccia di consolazione, mio Gesù, fa’ di me ciò che vuoi… Non ti preoccupare di tornare presto: sono
“seguire Cristo, qui e ora, significa seguirlo fino al punto di perderlo”
74 Nipoti di Maritain pronta ad aspettarti per tutta l’eternità».
“non ha tenuto per sé, «come tesoro geloso» (Fil 2,6), il suo essere cristiano, ma perdendolo – paradossalmente – l’ha affermato: non essendolo, lo era”
Avviene che la propria unione con Dio è sacrificata per Dio che grida nella carne del fratello. Si perde Dio, per Dio. È Lui stesso che sollecita il gesto, per essere a Lui fedeli. È la Sua verità che è tanto più vera quanto più è donata, persa. E così accade per Rodrigues, che, paradossalmente, è tanto più sacerdote quanto più non lo è. Si è dimostrato cristiano proprio perché non ha tenuto per sé, «come tesoro geloso» (Fil 2,6), il suo essere cristiano, ma perdendolo – paradossalmente – l’ha affermato: non essendolo, lo era. È il paradosso del Dio di Gesù, è il paradosso dell’amore. Amore che è, appunto, non essendo: è, diceva Chiara Lubich, perché non è. È un amore folle, totale, ma è il logos della Croce, «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23). Scandalo e stoltezza ancora oggi, e che ancora oggi è fondamentale pensare e, soprattutto, incarnare fino in fondo – non rivelando un logos irrazionale, ma un altro logos, quello dell’amore – perché la verità viva e pratica del Vangelo parli, in tutta la sua perenne novità, ai nostri giorni. Abbiamo un estremo bisogno di persone che, nella semplicità del quotidiano, sappiano amare così, poiché la nostra vita, in fondo, comincia non appena veniamo toccati da un tale amore: nulla di meno. I nostri desideri,
le nostre aspettative, le nostre aspirazioni sono irresistibilmente innamorate di, poiché amabilmente ferite da, chi ci ha amato così. Per via di questo amore – spesso incontrato e contemplato nello sguardo di un genitore, di un/a amico/a, di una moglie, di un marito, di uno straniero, di un povero, di un sacerdote, di una suora – quello cristiano è un Dio che, per essenza, stupisce, sorprende e conquista, non accettando immagini preconfezionate di sé, non accettando vite comode, ma albergando ogni giorno lì, nel nostro cuore e in quello del fratello, per spiazzarci e domandarci, ogni giorno nuovamente: «E voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
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impressiones
Silence: l’aridità che feconda di Davide Penna
Recentemente nei cinema ha avuto un grande successo l’ultimo capolavoro di Martin Scorsese Silence, tratto dal romanzo storico Silenzio di Shusaku Endo. Il film, come il romanzo, narra le vicende di un capitolo che non trova molto spazio nei libri di storia né nel dibattito storiografico, ovvero le persecuzioni subite dai cristiani in Giappone durante il periodo Tokugawa che si affermò nella metà del XVII secolo (e si concluse con la restaurazione Meiji nella seconda metà dell’Ottocento). La crudeltà di queste persecuzioni non risiedeva soltanto nelle condanne a morte, nelle terribili torture, nella costante ricerca e sterminio di chiunque si professasse cristiano, ma anche nella brutale violenza psicologica
e culturale che si inferiva alla religione dei padri (nome con cui venivano indicati i gesuiti che dal Cinquecento, con l’opera dello spagnolo Francesco Saverio, avevano evangelizzato la regione); costantemente l’Inquisitore giapponese tentava di strappare dall’anima dei gesuiti l’amore per Cristo e la Chiesa, intimando loro che il cristianesimo non era adatto al Giappone, che essi avevano fallito nella loro opera evangelizzatrice e che se non avessero abiurato e calpestato l’immagine di Cristo, non solo sarebbero andati incontro a terribili violenze, ma avrebbero fatto torturare e morire i fedeli giapponesi. Dopo gravi e laceranti dubbi, dopo atroci sofferenze, alcuni padri decidono di abiurare per amore. Decidono di
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“questo vuoto non è semplice assenza bensì mancanza di una presenza già sperimentata che assume il volto del primo abbandonato, Gesù Cristo”
“egli non parla più con noi, alla nostra anima assetata, al nostro desiderio, ma si comunica attraverso di noi”
perdere Dio per salvare i fratelli. Allora ecco il tema e la provocazione che molto abilmente Scorsese presenta: fino a che punto la professione di fede (o la libertà di pensiero) è giusta? Se il mio credo, per colpa di un regime crudele, porta alla morte di terzi, quanto ho il diritto di professarlo? Ecco la costante domanda di padre Rodrigues (protagonista del film e del romanzo) che fa da sfondo alla narrazione: come si sarebbe comportato Gesù Cristo se fossero stati condannati a morte i suoi discepoli e non Lui? Ora, altra esperienza peculiare che il film trasmette, da cui deriva anche il titolo, è quello del silenzio di Dio. Di fronte alla morte, alla persecuzione e alla tortura fisica e psicologica, i padri e i fedeli sperimentano l’abbandono di Dio, il vuoto di una presenza consolatrice e rassicurante. Ma questo vuoto non è semplice assenza bensì mancanza di una presenza già sperimentata che assume il volto del primo abbandonato, Gesù Cristo. Il vertice dell’esperienza spirituale, come testimoniano grandi personalità del cristianesimo (da Santa Teresa D’Avila a Chiara Lubich, da San Francesco d’Assisi a padre Massimiliano Kolbe, da Charles de Foucauld a Madre Teresa di Calcutta), è quel silenzio di Dio in cui Egli non parla più con noi, alla nostra anima assetata, al nostro desiderio, ma si comunica attraverso di noi. Il Cristo che precedentemente era stato vissuto come una presen-
za costante e rassicurante, ad un certo punto, se seguito fino in fondo, si fa silenzio e vuoto per incarnarsi in colui che ama come Lui. Qui il Getsemani non è più solamente un momento, per quanto intenso, della vita di Cristo, ma il luogo stesso in cui poterlo cercare e non trovare di fronte ma in noi. Il Calvario diventa il nostro dove, in cui non solo si sperimenta il dolore fisico, ma la vertigine e il buio macabro del dubbio, della morte spirituale, dell’aridità, dell’assoluta e più radicale solitudine. Non c’è più consolazione nella preghiera, ma solo pianto interiore e violenza intorno a noi. L’abbandono di Dio, il suo silenzio, non è, tuttavia, un vuoto privo di senso ma diventa offerta della sua stessa vita al fedele, al martire (nel senso etimologico di testimone). La kenosi (abbassamento, umiliazione, farsi vuoto) di Dio diventa la nostra vita. Quello che potrebbe essere visto come un messaggio solo per chi crede, in realtà apre un profondo squarcio, una luminosa feritoia da cui comprendere meglio la nostra umanità. Anche chi non crede sperimenta la presenza e il fascino di grandi ideali a cui si ispira e grazie a cui può compiere opere buone e più grandi di sé. Gli uomini di cultura, i poeti e scrittori, i grandi personaggi che hanno segnato la storia nel bene, sono stati guidati da un’ispirazione più grande a cui hanno consacrato la loro vita. Ad un certo punto occorre che questo
77 grande ideale si faccia silenzio; occorre, in altri termini, sperimentare l’aridità che permette di vivere quell’ideale, di essere ispirazione e non più di averla. C’è un silenzio, quello che arriva in fondo alle nostre fatiche, che ci chiede la vita perché ci trasforma da persone che seguono in persone che incarnano, da consolati a consolatori. Se si attraversa questo silenzio, questa inquietudine, questo vuoto che annichilisce, se ci si mantiene comunque fedeli, ecco che noi diventiamo la vita di quel sogno, pur nella sofferenza. Mantenersi fedeli significa, in questo caso, avere il coraggio di abitare la propria insufficienza non rinnegando l’antica promessa, ma attendendo vita nuova. Proprio perché più grande di noi quell’ideale non finisce, non si esaurisce con noi. Ma può abitarci per risplendere fra gli uomini. Così quella nostra aridità diventerà fonte per assetare chi vive al nostro fianco. Così la nostra aridità diventa terra feconda per l’oltre noi. E questa è la forma di amore più grande che l’essere umano possa vivere.
“ci trasforma da persone che seguono in persone che incarnano, da consolati a consolatori”
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recensione
Noi come cittadini, noi come popolo (di Jorge Mario Bergoglio, Jaca Book, Milano 2013) a cura di Lucandrea Massaro
“in Bergoglio c’è il primato del popolo come soggetto storico, dalle venature mitiche”
Papa Francesco è un populista. Bergoglio non si scandalizzerebbe di questa etichetta. C’è una visione “buona” di questo aggettivo nell’America Latina. Il prete cresciuto durante la dittatura e alla guida di una diocesi dove ricchezza e povertà erano separati da pochi isolati sa cosa vuol dire stare nel popolo, in mezzo ai loro bisogni, alle loro ansie, alle loro speranze. Come chiunque abbia ascoltato il pontefice senza pregiudizio, sa che il Papa fa il Papa e lo fa a tempo pieno: parla di riconciliazione, di pace, di fratellanza, di umiltà, di peccato e peccatori. Questo vale anche per la politica, una attività considerata da Paolo VI (forse il vero modello di questo pontificato) «la più alta forma di carità». Questa vocazione al Bene
Comune, centrale nella dottrina sociale della Chiesa ma spesso declinata genericamente, in Bergoglio è una vocazione alla polis, alla politica e alla cittadinanza anche se – non senza molte ragioni – con diffidenza rispetto alla vulgata liberale (e poi liberista). Il pamphlet di Jorge Mario Bergoglio “Noi come cittadini, noi come popolo” è forse l’ultimo – o uno degli ultimissimi – interventi organici del futuro Papa prima di arrivare a Roma, ed è profetico, oltre a delineare una serie di problematiche oggettivamente simili tra la sua Argentina e la nostra Italia. In Bergoglio c’è il primato del popolo come soggetto storico, dalle venature mitiche che deve trovare spazio nella società senza doversi restringere alla mera
79 accezione di cittadino nell’accezione liberal-borghese imperante. Per Bergoglio, anzi, la cittadinanza è un valore forte solo se declinata come personalismo, recuperando con intelligenza l’origine etimologica del termine: citatorium, cioè “il chiamato (al bene comune)”, pronto a prendere il suo posto nella società, ad assumere un munus, un obbligo, un incarico. Cioè nella dimensione relazionale esiste un popolo dentro una società, fatta di diritti ma soprattutto di obblighi di reciprocità, di solidarietà. In questa relazione è l’élite che deve non solo guidare, ma farsi prossima al popolo, non solleticandone gli istinti, ma comprendendone l’ethos profondo, la specificità e avendo cura degli interessi della patria. «La diagnosi del divorzio tra governanti e popolo, tra élite e popolo, figura nella maggior parte dei lavori di analisi sulla nostra evoluzione storica. Ma continuiamo a dimenticarla nonostante le ripetizioni. I governanti molte volte si formano in ambienti con visioni lontane dalle esigenze del popolo e a questa divaricazione culturale si è aggiunto il fattore economico, diventato il principale obiettivo delle classi dirigenti. […] Tanti potranno spiegarci quanto sia difficile governare un paesi in tempi di grandi cambiamenti e in un contesto globale nel quale molte decisioni sono fuori dalla portata dei nostri governanti. Ma, per quanto dipende da noi, dobbia-
mo smettere di puntare il dito su chi ci sta di fianco o dietro; perché ciò che abbiamo finito di lasciare – di fianco, dietro e in definitiva al di fuori di tutto – è un numero importante di nostri fratelli» (p. 31). Una élite che si sentisse estranea al popolo e alla nazione finirebbe per separarsi dal popolo o, come dice l’economista francese Jean Paul Fitoussi, «sono le élite che odiano i popoli. A tal punto da cambiare, o ignorare, le decisioni espresse dal popolo» (Linkiesta, 20/05/17). È partendo forse da questa inversione dei ruoli che il contributo del Papa risulta interessante. Se i mass media occidentali parlano esclusivamente di rabbia nei termini di «invidia sociale» – componente che sicuramente esiste – quando raccontano il populismo e non mettono mai a fuoco le responsabilità delle leadership economiche, politiche e culturali, è evidente che non uscirà mai dalla crisi della democrazia che stiamo vivendo in questi anni. Crisi che per Bergoglio è un problema, segno che la democrazia è definitivamente entrata nel DNA della Chiesa, e che – forse – si tratta di trovare gli strumenti per incorporarla dentro di essa. Non a caso il Pontefice parla costantemente di discussione, di parlare con franchezza, parresia, dentro le chiese e le assise dei prelati, la discussione e la disputa sono essenziali per qualunque processo democratico. Le elezioni dei vescovi (o de-
“l’élite deve farsi prossima al popolo comprendendone l’ethos profondo, la specificità e avendo cura degli interessi della patria”
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“la volontà popolare è il popolo che deve farsi soggetto storico, senza divisioni di classe, o di parte”
gli abati) in età antica, e quella del Pontefice dal medioevo in avanti, assumono una connotati innovativi rispetto al periodo romano o a quello altomedievale incentrati sull’autocrazia. Ma è un discorso lungo, che tuttavia tiene insieme la necessità per la Chiesa di trovare un linguaggio – ben prima che uno statuto – utile all’evangelizzazione del XXI secolo. La cura d’anime e il benessere sociale non sono mai slegate nel pensiero cattolico, si è infelici tanto sotto il tiranno che nella dittatura del consumismo, in entrambi i casi la Chiesa stessa soffre assieme al proprio gregge sia della fame di cibo, che della sete di senso. «La realizzazione di un progetto di sviluppo integrale per tutti, che privilegi la lotta contro la disuguaglianza e la povertà, è un tema che è opportuno affrontare in tempi di celebrazioni centenarie [ricordiamo che i testi raccolti nel volumetto sono stati scritti in occasione dei 200 anni della fondazione dell’Argentina, NdA] […] La riuscita di una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone, è un cammino che dobbiamo percorrere. Per questo dobbiamo privilegiare il tempo rispetto allo spazio, il tutto, rispetto alla parte, la realtà rispetto all’idea astratta e l’unità rispetto al conflitto» (pp. 73-74).
Per Bergoglio questa determinazione è incardinata nella volontà popolare, ed è il popolo che deve farsi soggetto storico, senza divisioni di classe, o di parte. In questo senso viene certamente in mente il cattolicesimo democratico e la sua eredità migliore. Il popolarismo inteso mai come partito o parte, ma come interprete del sentimento nazionale. Nei vecchi partiti democristiani europei (specialmente quello italiano e quello tedesco) questa sensibilità era centrale, i capi dei partiti non erano affatto divisi dal popolo, pur non avendo con essi la stessa dimensione materiale, ma avendo una cultura umanistica incentrata su di esso e da esso dipendente. Ecco un compito – la formazione del laicato pronto per la politica – che la Chiesa deve prendersi in carico di fare in questo abbozzo di “Terza Repubblica” che si aprirà da qui a nove mesi. Quanto (e in cosa) simile alla Prima dipenderà dalle scelte di tutti i soggetti, Chiesa compresa. Iniziare a far circolare questo testo potrebbe essere un primo passo.
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Autori Lorenzo Banducci Nato a Lucca nel 1988, si è laureato in Odontoiatria a Pisa nel 2012 e dal 2013 esercita la professione in vari studi della Toscana. È stato fra i rifondatori del gruppo FUCI di Lucca nel 2009 per poi esserne responsabile regionale per la Toscana dal 2010 al 2012. Dal 2011 ad oggi ha incarichi diocesani in Azione Cattolica di Lucca dove attualmente è Vice-Presidente del Settore Giovani. Con Niccolò Bonetti è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. iaffo@hotmail.it Niccolò Bonetti Nato a Lucca nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la laurea triennale e poi quella magistrale in Filosofia presso l’Università di Pisa, con particolare interesse per la storia del pensiero patristico e medievale. È impegnato nell’Azione Cattolica, nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale e nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, per la quale è stato consigliere centrale. Con Lorenzo Banducci è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. Andrea Bosio Nato a Genova nel 1980, si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova con una tesi sulla narrazione della fisica nella società contemporanea; insegnante, studia Scienze religiose presso l’ISSR di Albenga-Imperia e si occupa di storia contemporanea della Chiesa. Alessandro Clemenzia Nato a Roma nel 1981, presbitero, ha conseguito il Baccalaureato e la Licenza in Teologia sistematica presso la Pontificia Università Gregoriana e il Dottorato alla Lateranense con una tesi su Heribert Mühlen. Nel 2015 ha completato il post-dottorato presso l’Istituto Universitario Sophia sull’unità ecclesiale in Agostino d’Ippona. È docente di Ecclesiologia, Mariologia, Escatologia e Pneumatologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e l’Istituto Universitario Sophia. È segretario di redazione della rivista “Sophia. Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi”. Ha collaborato con il Lonergan Archive di Roma, dal 2009 è Assistente ecclesiastico diocesano della FUCI e Segretario del Consiglio presbiterale. Dal 2016 è Assistente ecclesiastico del Centro internazionale “La Pira” e prefetto degli studi del Seminario Maggiore Arcivescovile di Firenze. Montserrat Escribano-Cárcel Nata a Valencia nel 1971, ha ottenuto la Licenza in Sacra Teologia presso l’Università Teologica “San Vincenzo Ferrer” di Valencia nel 2012 e il Dottorato in Filosofia presso l’Università di Valencia nel 2015, con una tesi sull’identità e la natura umana da una prospettiva neuroteologica fondamentale. È professoressa associata all’Università Teologica “S. Vincenzo Ferrer” di Valencia e dal 2000 insegna religione cattolica nelle scuole secondarie. È membro del direttivo della Asociación de Teólogas Española e tesoriera della European Society of Women Theological Research (ESWTR). Si occupa di neuroteologia, ermeneutica femminista critica ed etica applicata. monescri@yahoo.es Francesco Garrapa Nato a Maglie (LE) nel 1989, dopo la maturità classica si è laureato in Giurisprudenza a Lecce nel 2015 con una tesi in Diritto costituzionale comparato dal titolo “L’applicazione del diritto europeo e la teoria dei controlimiti in una prospettiva
comparata”. Durante il periodo di studi ha fatto l’Erasmus presso la facoltà di Direito dell’Università di Coimbra e ha collaborato con l’ONG spagnola INTERED. Attualmente svolge la professione di patrocinante legale. Stefano Gherardi Nato a Genova nel 1986, ha ottenuto la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università degli Studi di Genova. Attualmente frequenta l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova. stefanogherardi86@gmail.com Rocco Gumina Nato a Caltanissetta nel 1985, insegna Religione nella Diocesi di Palermo. Dopo la licenza in Ecclesiologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi su Dossetti, ha conseguito un master all’Istituto di Studi Bioetici di Palermo – con cui ora collabora come docente – con uno studio sulla bio-politica di Habermas. È dottorando in Teologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Dal 2009 al 2011 ha presieduto il gruppo FUCI Caltanissetta; dal 2014 è presidente dell’associazione culturale “A. De Gasperi”. Collabora con l’Ufficio IRC della Diocesi di Palermo e pubblica su Ricerche teologiche, Ho Theológos e Bio-ethos, della quale è redattore. Daniele Laganà Nato a Vizzolo Predabissi (MI) nel 1996, ha conseguito la maturità classica presso l’Istituto Salesiano Sant’Ambrogio e attualmente è studente di Odontoiatria e protesi dentaria presso la sede romana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Già responsabile locale dell’associazione missionaria salesiana “In Missione - Amici Del Sidamo” e attivo nel gruppo FUCI G. Moscati, ora fa parte di Comunione e Liberazione ed è Vice-Local Exchange Officer presso l’Associazione Italiana Studenti di Odontoiatria, tesoriere dell’associazione Ateneo Studenti UCSC Roma e studente coordinatore dell’area di Scienze Biomediche della Pastorale Universitaria diocesana di Roma. Ha fondato e diretto riviste studentesche. Con Youcanprint ha pubblicato i romanzi “Idillio romantico” (2013) e “A bocca aperta” (2015). Lucandrea Massaro @Jarluc Nato a Roma nel 1980, dopo la laurea in Storia e la laurea magistrale in Scienze delle Religioni presso l’Università di Roma Tre ha collaborato con la divisione radiofonia della RAI e con alcune testate del mondo del lavoro. Giornalista professionista, attualmente è co-editor e social media manager di Aleteia, network sulla fede cristiana. lucandrea.massaro@gmail.com Gianluca Montaldi Nato a Varese Ligure (SP) nel 1955, ha conseguito il Dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana, con una tesi sul concetto di fede nei documenti del Concilio Vaticano II. Presbitero e religioso, ha collaborato con l’editrice Queriniana di Brescia e attualmente è docente a contratto per il corso di “Introduzione alla teologia e questioni di teologia fondamentale” presso l’Università Cattolica del S. Cuore, sede di Brescia. Ha partecipato al progetto per la riscrittura del simbolo con la Società Italiana per la Ricerca Teologica e ha pubblicato vari articoli e saggi. Marco Sergio Narducci Nato a Venaria Reale (TO) nel 1991, ha frequentato il seminario minore arcivescovile di Torino. Dopo la maturità classica si è iscritto al corso di Laurea triennale in Beni Culturali (curriculum storico-artistico) laureandosi nel 2014 con una tesi su Giovanni Spadolini e la fondazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ha poi conseguito la Laurea magistrale in Storia dell’Arte presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve, in Belgio. È attivo come volontario nel Gruppo Abele di Don Ciotti, partecipa a gruppi
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di spiritualità ignaziana ed è organista nella Parrocchia del Santissimo Nome di Maria a Torino. Tommaso Nencioni Nato a Livorno nel 1979, è dottore di ricerca in Storia Contemporanea per l’Università di Bologna, occupandosi di storia dei movimenti e dei partiti politici, in particolare della figura di Riccardo Lombardi nel socialismo italiano. È promotore dell’associazione Senso Comune e primo firmatario del Manifesto per un populismo democratico. Davide Penna Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea in Filosofia con una tesi su San Severino Boezio ha conseguito la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova, approfondendo le tematiche morali nell’opera di Pietro Abelardo. Nel 2013 ha conseguito il Diploma in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, con indirizzo Ontologia Trinitaria, presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. Nel 2015 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia; dallo stesso anno ha iniziato a insegnare nei licei e il percorso di dottorato presso il consorzio FINO (Filosofia del Nord-Ovest) che riunisce le facoltà di filosofia di Genova, Torino, Pavia e Piemonte Orientale. È presidente dell’Associazione culturale “Arena Petri” e di Amici di Sophia. Emanuele Pili Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea in Filosofia ha conseguito la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova e Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità con indirizzo Ontologia Trinitaria presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. È autore di alcuni saggi sulla prassi dialogica in Platone, sull’intersoggettività nel pensiero di Antonio Rosmini e sul concetto di taedium in San Tommaso d’Aquino. Emanuele Pinelli Nato a Bergamo nel 1989, dopo la laurea in Filosofia politica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con una tesi da cui è nato il libro La scoperta dei Vangeli socialisti (Mimesis, Milano 2016), sta terminando il Dottorato di ricerca in Scienze Politiche all’Università di Pisa sul tema del socialismo utopico. Per Castelvecchi ha curato l’edizione italiana de Il Vangelo del povero peccatore di W. Weitling, recensito sul primo numero di Nipoti di Maritain. Collabora con l’équipe Philépol della Sorbona. È legato alla spiritualità della Compagnia di Gesù e alle sue attività con i giovani. Christian Alberto Polli Nato a Monza nel 1989, originario di Brugherio, dopo la maturità classica ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ottenendo nel 2013 la laurea triennale con una tesi sulla vicenda letteraria del poeta Luigi Fallacara e nel 2015 la laurea magistrale in Filologia Moderna con una tesi storico-religiosa incentrata sulla visione che l’ancora anglicano John Henry Newman aveva dell’ufficio pontificio. Impegnato nella ricerca storica e archivistica locale, ha partecipato quale assistente al corso di Storia Locale patrocinato dall’Accademia della Cultura Universale cittadina. Collabora inoltre attivamente alla redazione di voci prevalentemente d’ambito umanistico sui progetti wikipedia e wikimediaitalia. Rosario Sciarrotta Nato ad Agrigento nel 1983, dopo la maturità classica ha intrapreso gli studi giuridici per poi dedicarsi a quelli teologici, conseguendo il Baccellierato presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi di antropologia teologica su Romani 5,20. Frequenta la Licenza in Teologia biblica presso la stessa Facoltà. È studioso anche di Storia della Chiesa e di Arte cristiana. Ha collaborato alla pubblicazione del Dizionario dei pensatori e teologi di Sicilia e collabora con la Rivista della Fa-
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coltà Ho Theológos. Federico Stella Nato a Roma nel 1983, dopo la maturità classica si è laureato in filosofia presso l’Università di Roma Sapienza. Interessatosi alla filosofia araba medievale, ha successivamente conseguito un dottorato di ricerca in Studi Orientali presso la medesima Università, con una tesi sulla filosofia politica di al-Farabi. Autore di alcuni articoli su Leo Strauss e su al-Farabi, ha di recente anche pubblicato una monografia su quest’ultimo. Attualmente sta svolgendo un progetto presso la Pontificia Università Gregoriana su un caso di conversione dall’Islam al Cristianesimo avvenuto nel XVII secolo. Nicola Gioacchino Tatulli Nato a Terlizzi (BA) nel 1989, originario di Bitonto, si è baccalaureato in Sacra Teologia presso la Facoltà Teologia Pugliese di Molfetta nel 2015. Sta completando la licenza ed ha iniziato il dottorato in teologia ecumenica presso l’Istituto di Teologia ecumenico-patristica “San Nicola” di Bari. È presbitero dell’Arcidiocesi di BariBitonto, ordinato nel settembre 2016. Attualmente è viceparroco della Chiesa Madre di Modugno (BA). Giuseppe Viola Nato a Policoro (MT) nel 1982, dopo la maturità scientifica e la laurea in Medicina e Chirurgia nel 2008, ha conseguito il diploma in Medicina Generale a Bari nel 2011 e la specializzazione in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapia presso gli Spedali Civili di Brescia nel 2016. Andrea Virga Nato a Casale Monferrato (AL) nel 1987, dopo la maturità classica ha frequentato la Scuola Normale Superiore di Pisa, ottenendo un diploma di primo livello in Discipline Filosofiche e poi la Laurea Specialistica in Storia e Civiltà, approfondendo le tematiche della Rivoluzione Conservatrice anche con soggiorni in Francia e in Germania. Attualmente è Dottorando di Ricerca in Political History presso l’IMT Istituto di Alti Studi di Lucca, con un progetto di ricerca su fascismo e nazionalismo a Cuba, svolto tra L’Avana, Berlino e Madrid. Alessandro Visalli @alessandvisalli Nato a Milano nel 1961, si è laureato in Architettura alla Federico II di Napoli e ha conseguito il Dottorato in Pianificazione Territoriale ed Urbana alla Sapienza – Università di Roma. Si occupa di temi ambientali connessi in particolare con l’economia circolare e l’energia, partecipando ad associazioni di livello nazionale di cui è consigliere. Coltiva l’attenzione ai processi di trasformazione della società e della sostenibilità attraverso un’attività pubblicistica e politica. Piotr Zygulski @piozyg Nato a Genova nel 1993, dopo la maturità scientifica e la laurea in Economia e Commercio conseguita all’Università di Genova, si è iscritto all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per la laurea magistrale in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, indirizzo Ontologia Trinitaria. È organista dell’Oratorio di San Lorenzo e della Chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore in Cogoleto (Diocesi Savona-Noli). È autore di pubblicazioni in ambito filosofico. Giornalista pubblicista, dal 2014 è redattore della testata giornalistica online Termometro Politico. È cosegretario di redazione della rivista accademica “Sophia. Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi” e dirige Nipoti di Maritain. pz.senet@hotmail.it
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nel prossimo numero: Ambito etico/morale: È possibile una santità, una spiritualità e una teologia queer? Ambito politico/sociale: Quando la ricerca della verità si trasforma in chiusura ideologica? Ambito pastorale/ecclesiale: Qual è il significato del termine “tradizione” e in che modo lo si può oggi proporre in una prospettiva ecumenica? Accettiamo interventi di risposta di massimo 1000 parole da farci pervenire all’indirizzo inipotidimaritain6@gmail.com entro il 30 settembre 2017.
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