Nipoti di Maritain n. 05

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ISSN 2531-7040

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n.05

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teologia queer: opportunitĂ e limiti

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tradizione: tra passato e futuro

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veritĂ e ideologia: quale confine?

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intervista Stefanie Knauss, teologa



Nipoti di Maritain Anno II Numero 5

ISSN 2531-7040

17 novembre 2017

Direttore Responsabile: Piotr Zygulski Redazione: Lorenzo Banducci, Niccolò Bonetti Progetto Grafico e Impaginazione: Mattia Carletti, Gianni Oderda Editore e Proprietà: Nipoti di Maritain è edito dall’associazione di fatto non riconosciuta – con lo scopo di diffondere il dibattito ecclesiale – denominata “Nipoti di Maritain”, che ne possiede piena proprietà. La sede è presso la Casa delle Associazioni Laicali in Via San Nicolao 81 - 55100 Lucca. Pubblicazione: Nipoti di Maritain è un prodotto editoriale, numerato in sequenza di pubblicazione, non soggetto ad obbligo di registrazione in quanto privo di periodicità regolare (legge n. 62/2001, art. 1). È pubblicato presso World Wide Web in formato PDF scaricabile al link https://issuu.com/nipotidimaritain Diritti: Nipoti di Maritain è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

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Dibattito • TEOLOGIA QUEER 12

Decostruire le immagini di dominio patriarcale in teologia di Federico Ferrari

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Teologia queer? di Mattia Lusetti

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La santità nasce nell’amore di Mario Giagnorio

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Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano di Niccolò Bonetti

• VERITÀ E IDEOLOGIA 26

Verità o ideologia? La mistica cristiana per “salvare” la politica di Rocco Gumina

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Il fallimento di Rapture, miope utopia ideologica di Matteo Zerbino

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Accettare la ferita del reale di Davide Penna

Indice

• TRADIZIONE 36

Tradizione è sviluppo della dottrina cristiana di Christian A. Polli

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Breve fenomenologia dei tradizionalismi di Andrea Virga

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Tradizione, vita dello Spirito Santo nella Chiesa di Vincenzo Romano

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L’essenza fluida che garantisce coerenza alle nostre vite di Andrea Bosio


Rubriche

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INTERVISTA 5 0 Stefanie Knauss e la teologia queer che ci sorprende

a cura di Niccolò Bonetti

Laudate Hominem 5 3 Boccaccio teologo

di Christian A. Polli

RODAFÀ 5 6 In tre è meglio

di Stefano Sodaro

A BEN VEDERE 6 1 Filosofi, ma a fatti: ode ai semplici

di Emanuele Pili

UMANESIMO INTEGRALE 6 3 Maritain e la soluzione federale per l’Europa

di Lorenzo Banducci

A MISURA D’UOMO 6 6 L’essere umano: né nemico né risorsa

di Davide Penna

IMPRESSIONES 6 9 Inception e la Bibbia: l’idea che distrugge e la realtà che realizza

di Davide Penna

RECENSIONE 7 2 Contro l’Isis

di Lucandrea Massaro


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Editoriale di Piotr Zygulski

“una chiave per poter fare teologia in modo sfacciatamente queer con funzione antiidolatrica senza sbandare dalla verità cristiana”

Queer, ideologia e tradizione. I temi della quinta pubblicazione di Nipoti di Maritain – scelti dai lettori della nostra pagina facebook – se accostati potrebbero quasi rivelare una trama coerente. Dopotutto, è quella di un (una?) Dio che si compromette con la storia umana ad un punto così spiazzante e sconvolgente – questo, in fondo, significa queer – da incarnarsi, travalicando i confini “tradizionali” tra sacro e profano, tra divino e umano, tra potenza e debolezza. In questa tensione carica di paradossi amati dall’apostolo Paolo, nasce la Tradizione vivente nella Chiesa, che si esprime in diversi luoghi ed epoche nella forma di una pluralità di tradizioni teologiche, disciplinari, liturgiche e devozionali. Le quali tuttavia sono esposte al rischio di una sclerotizzazione ideologica – assolutizzare un punto di vista unilaterale, ovverosia quello che in teologia si definisce “eresia” – ma il discernimento ecclesiale fa capire appunto se conservarle, modificarle o abbandonarle; sto semplicemente parafrasando l’articolo 83 del Catechismo

della Chiesa Cattolica. Andrea Bosio evidenzia che il cambiamento è esso stesso Tradizione; Giovanni XXIII diede una definizione analoga di questo termine: «È il progresso che è stato fatto ieri, come il progresso che noi dobbiamo fare oggi costituirà la tradizione di domani». Insomma, anche etimologicamente, è ciò che si “porta avanti”. Alcune rappresentazioni idolatriche che l’uomo si trascina con sé sono piuttosto zavorre che possono essere decostruite magari applicando alla teologia un approccio queer, sebbene esso viva sulla sommità di due spioventi: da un lato, quello di crearsi immagini altrettanto idolatriche e scontate – soffocanti ripetizioni di sé nell’idea, direbbe il nostro Davide Penna – con il chiodo fisso del desiderio sessuale; dall’altro, quello di una liquidità asessuata, indeterminata, gnosticamente disincarnata (questa è la critica di Mattia Lusetti), dove l’aspetto prescrittivo si nasconde sotto le mentite spoglie della descrizione. Possiamo apprezzare come nell’in-


7 tervento del 5 ottobre 2017 Papa Francesco sia finalmente uscito da una vaga (e vana) polemica “anti-gender” per scagliarsi più puntualmente contro l’«utopia del “neutro”» che rimuove la differenza sessuale; ciò non è il queer in senso stretto, però è indubbiamente uno dei rischi, così come è altrettanto pericolosa l’esaltazione incondizionata della differenza o della minoranza sessuale con i suoi gusti più strani, qualora venisse meno la dimensione della relazionalità incarnata. Quest’ultima può essere forse una chiave per poter fare teologia – in modo sfacciatamente queer con funzione anti-idolatrica e contro le cristallizzazioni gerarchiche del potere – senza tuttavia sbandare dalla verità cristiana. Qui prova a collocarsi la teologa Stefanie Knauss, autrice di un saggio pubblicato nel recente numero 3/2017 della rivista Concilium; abbiamo avuto l’opportunità di intervistarla, chiedendole ragione della possibilità di una spiritualità e di una teologia queer, cioè della sorpresa di Dio e della parzialità delle nostre parole su di Lui (o Lei, che dir si voglia). Senza dimenticarci che ci si accosta pur sempre ad un Mistero che non può essere reificato pretestuosamente per appiopparGli teorie filosofiche post-strutturaliste che si allontanano dalla quotidianità esperienziale e dal sensus fidei del Popolo di Dio; Federico Ferrari, nella versione estesa del suo articolo che abbiamo deciso di pubblicare inte-

gralmente sul nostro blog, dice di aver avuto talvolta proprio questa «spiacevole sensazione». Personalmente, pure io ho molte riserve su certe “esegesi queer” o “cristologie bisessuali” che spesso, più che nella blasfemia, tendono a scadere in riletture soggettivisticamente spirituali – consolatorie di minoranze che reclamano una “riabilitazione” vittimistica – delle Sacre Scritture, ignorando di esse l’intentio auctoris, il dato letterale delle parole, il genere dei testi, lo sfondo storico e la profonda intimità fraterna (fisicità compresa) di cui sono capaci gli uomini, senza dover scorgere sempre e ovunque appetito sessuale. Se Vincenzo Romano afferma che ogni tradizione «è valida solo nella misura in cui fa progredire la cristificazione dei soggetti», lo stesso si potrebbe dire di ogni teologia, che non può prescindere né dalla vita dello Spirito nella Chiesa né dagli eventi pasquali avvenuti in Gesù di Nazareth, ebreo e pur sempre maschio; questo nodo sembra ineludibile. Del resto, quasi per paradosso, quel che si propone come teologia queer difficilmente scalfisce il piano ontologico, né riesce a rendersi indispensabile per una più profonda comprensione del Mistero di Dio e dell’uomo; certamente può rimuovere alcune incrostazioni storico-sociali, ma la riverniciatura poco si addentra sotto la superficie. Per essere realmente incisiva, si potrebbe (o forse si dovrebbe) sviluppare

“l’identità si dice nell’accoglienza dell’alterità”


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“la Buona Notizia è ontologicamente pro-vocante: ci chiama avanti; sulle nostre ferite brucia”

l’intuizione di portata ontologico-trinitaria e antropologica al tempo stesso – presente, ad esempio, negli scritti mistici di Chiara Lubich – di un’accoglienza integrale che non cancella l’identità, perché l’identità si dice nell’accoglienza dell’alterità. Ognuno è realmente sé stesso essendo l’altro, per cui anche il maschile è tale quando si dice nel femminile (e viceversa): per essere unitariamente perfetto, l’uomo dovrebbe ospitare in sé tutte le caratteristiche della donna (e viceversa). Con verve provocatoria, Niccolò Bonetti prova invece a contrastare certi esiti relativistici del decostruzionismo queer riproponendo il senso fecondo, fedele, complementare, donativo e indissolubile del matrimonio, valori che con una certa cautela prova ad estendere anche alle persone omosessuali – anch’esse chiamate alla medesima santificazione nell’amore, avvisa Mario Giagnorio – che fanno una scelta definitiva di coppia. Forse qui un criterio per discernere potrebbe essere la qualità della diversità presente in esse che metterebbe in discussione persino molte relazioni “tradizionali” tra uomo e donna. Ad ogni modo, la proposta finale di Bonetti può suonare strana – queer nel vero senso della parola – alle orecchie di chi fa del queer una bandiera. Forse è un modo per affermare, come fa Christian A. Polli, che «senza tradizione non vi può essere innovazione, e vi-

ceversa». Tem volenihilia pra volupta dolorisitiae nus voluptas inis velias et laboratem fugita et Restaetperò indiscutibile che la quam core pre eum, Buona dolutem Notizia è ontologicamenquis apedi corianit, non ra qui te pro-vocante: ci chiama avancon cullorrori offic tes ipsapis ti; sulle nostre ferite brucia: è eatemporem di cum rerum venis «sale, non miele», recita il titoporrore scius, con re estruntiore lo dell’ultimo libroaudic di don non nimusa volla te Luqui igi M. Epicoco, e noi possiamo dolore ilique nonsente vit excontinuare a proporci plabo rerunde nihicit di velessere idem accabo. Nem et dissiminum facpure il pepe della terra, come cabo rumquisquas delest fugit premettevo nel mio primo editoquunt alignieniet riale. Loreptasperem stesso Spirito si rivela quid que prore, ut res maio. Nam anti-ideologico in molti ambiti, doluptam excest, consequam perché porta una riserva di senvoluptur, odist resti blatemq uaso che ad esempio ricorda come tempo rporum eatet volluptatia l’uomo vada al di là di sistedoluptas explabore amunfugiae ma sum sociopolitico/tecnocratico name unt faccusam, corum che si propone come assoluto; in fuga. Berem qui ommodipient et, nat landus vollendi voluptatal senso, si leggano i contributi, te comnihi tatur, conseque eium seppur con parvenze differenti, ea suntibus ulpario re di Rocco Gumina e dinseria MattiasiZercorro quam, quistia quuntem bino, ma anche di Davide Penna con exceatem ne maximin nem un commento al film Inception la dolor ad ulles atureperatem e una riflessione sul fenomeno ipicipsus cus. migratorio che aesce dalle usuaCium cone nim conet doluptiali contrapposizioni ideologiche tum aute consequis expere cum pro/contro, entrambe di ressum nostibus dest carenti qui imus, is quodit rerio vit voluptiam inuno sguardo umano. cte est, ent. Ovide quos doluptate veles Nella sezione dedicatania a Mariexperum quatessitat tain, Lorenzo Banduccimoluptas riprende reicia volorio. Ita nosam, te pela sua idea di un’Europa fededit volo blatior eptasiti blauta rale; porume mi sia concesso motivare nus nulparia ene sunt il mio disaccordo con l’autore omnihillam, quatium eatis dodell’approfondimento e con alluptatem et mint lit, con rehenitri amici e lettori della Cepernostra maios excerisit fugiatem. ferat essinto essit, untenihillab rivista. Il federalismo europeo incimpos asi commolo – forse cinquant’anni fa ribusda con pondamus nat. tenzialità feconde – ha mostrato Hariassimin pa prem vera la sua debolezza nelquam momento si cum haruptaquo magnam, in cui la cessione di sovranità quos enditem fugiat facepero (di alcune nazioni) è divenuta exerro que imus. copertura un paQue qui ideologica voluptiam,di nobitat radigma tecnocratico su cui si


9 basano i trattati europei e il funzionamento della moneta unica. Poiché sono stati volutamente resi impossibili molti interventi di politica economica e monetaria che avrebbero potuto perlomeno attenuare le situazioni di crisi – «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune» (Evangelii Gaudium 56) – a me tutto ciò sembra poco umano. Al contempo è vero che permangono egoismi nazionali ma in un gioco squilibrato che avvantaggia, scivolando su un piano inclinato, strutturalmente alcune parti a scapito di altre, senza prevedere riequilibri. Sulla base degli attuali trattati e del peso mastodontico di alcune nazioni rispetto ad altre, mentre le diseguaglianze continuano ad accentuarsi, continuare a ripetere oggi – sottovalutando la diversità tra i tempi di Maritain e quelli contemporanei – che il federalismo garantirebbe pace all’Europa mi pare perlomeno ingenuo. Chiusa tale parentesi, tra le altre rubriche – oltre al gradito ritorno di Stefano Sodaro con uno sguardo trinitario che scardina le pericolose ideologie binarie che separano il bianco dal nero – troviamo l’abbozzo di Polli per una lettura “teologica” di Giovanni Boccaccio, mentre Emanuele Pili riprende una meditazione di Henri De Lubac che ricorda come la Chiesa sia composta tradizionalmente da persone che il mondo scarta per la loro

miseria materiale, intellettuale o spirituale, ma che mai devono essere da noi disprezzate, perché in esse si compie il Mistero di Dio che si svuota completamente, facendosi ultimo tra gli ultimi. Non vorrei dimenticarmi per giunta di segnalare, nel dibattito sulla tradizione, l’articolo di Andrea Virga che ripercorre la recente genesi di alcuni tradizionalismi – da quello “sedevacantista” a quello “esoterico” e “perennialista” – astrattamente incompatibili con il Magistero cattolico, scorgendone però un terreno fondamentale di sintesi che potrebbe agevolare, anziché ostacolare, l’ecumenismo. Il numero si conclude con la consueta recensione a cura di Lucandrea Massaro; questa volta ci viene presentato un libro che raccoglie le condanne dei più importanti sapienti musulmani che si sono espressi fermamente contro l’Isis. È una prospettiva che merita assai più risonanza di quanto ne abbia avuta; per questo motivo, se può giovare a qualcosa, gli ho concesso volentieri qualche pagina della rivista. Si tratta pur sempre di uno sforzo anti-ideologico, rinnovando l’auspicio che cristiani e musulmani possano camminare più speditamente insieme nell’unica Verità. La quale è eccedente, dirompente, e comunque sempre più grande di ogni lettura queer: Allahu Akbar!


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“pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici”

Dibattito TEOLOGIA QUEER « È possibile una santità, una spiritualità e una teologia queer? »


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Decostruire le immagini di dominio patriarcale in teologia di Federico Ferrari

“la teologia, attraverso il controllo dei corpi, si è rivelata uno strumento di potere”

L’aggettivo queer applicato a Dio mi pareva inusuale e non del tutto perspicuo. In che senso Dio poteva essere queer, ossia non un ente senza sesso come insegna la metafisica tomista, bensì di genere fluido? Decisi di colmare le mie lacune su questo tema leggendo quello che, dopo alcune recensioni trovate su internet, appariva come il maggior contributo di questa corrente teologica disponibile in italiano, ossia Il Dio queer di Marcella Althaus-Reid, pubblicato dalla benemerita editrice Claudiana. Il libro mi dato modo di pensare a quanto la teologia, attraverso

il controllo dei corpi, si sia rivelata uno strumento di potere e dominio coloniale, ossia come la propagazione di alcuni modelli normativi in materia di genere e famiglia abbia avuto delle ricadute politiche e trasmetta una gerarchia sociale. A cosa si deve infatti il fastidio o addirittura il terrore dinnanzi ad un maschio che cerchi di uscire dai comportamenti, dalle pratiche, o dai vestiti che una determinata cultura prescrive al suo genere? Come mai ci sentiamo minacciati da un maschio che si presenti in chiesa o in una scuola vestito con una gonna? Ora, se c’è una cosa che l’antropologia e la filosofia san-


13 no almeno dai tempi di Montaigne è che non esistono vestiti connaturati al maschile e al femminile, e che dunque ciò che una cultura attribuisce alle donne, un’altra può riferirlo agli uomini: basti pensare a quegli uomini in gonnella che sono gli scozzesi quando indossano il kilt. Perché allora un uomo che si mostri in gonna può irritare alcune persone e scatenare addirittura reazioni difensive di aggressione? Di solito reagiamo quando viene aggredito qualcosa che noi consideriamo importante per noi, ed è questo il caso. La nostra società ha modellato e costruito il nostro io all’interno di una logica binaria, dove noi siamo maschi in quanto siamo differenti dalle femmine: facciamo cose diverse e ci vestiamo diversamente. Motivo per cui vedere un uomo vestito da donna è un attacco alle fondamenta del nostro stesso Io, perché ci mostra che l’edificio su cui abbiamo costruito la nostra identità di maschi è friabile, ed è possibile per un maschio essere anche altro, ossia confondersi con l’altro genere. Ma questa operazione di continua disgregazione della nostra identità, che ogni volta dovrebbe essere seguita da una ricostruzione, è estremamente dispendiosa e faticosa per la nostra psiche. Tuttavia il pericolo per la nostra psiche individuale da solo non giustifica l’aggressione dei conservatori verso il deviante che si vesta da donna. Il punto è che, nelle società a derivazione pa-

triarcale come la nostra, la differenza tra maschi e femmine è anche veicolo di una gerarchia, quella gerarchia che per secoli ha voluti gli individui maschi superiori in quanto maschi e le femmine inferiori in quanto femmine. Ma questa gerarchizzazione presuppone per funzionare che la società delimiti bene i due ambiti, perché se è il fatto che l’identità maschile sia diversa da quella femminile a giustificarne la superiorità, allora l’uomo che trasgredisca il confine e si comporti come una donna è avvertito come un pericolo. Egli infatti denuncia col proprio agire che, se gli uomini possono assumere il comportamento e gli attribuiti solitamente incarnati dalle donne, allora forse non c’è questa gran differenza tra maschi e femmine, e, se questa differenza non c’è, la gerarchia basata su questa diversità viene a cadere. Ecco perché l’uomo vestito da donna non solo mette in crisi il nostro Io che s’è costruito come Io maschile in quanto contrapposto al femminile, ma per di più mette in pericolo tutte le fondamenta della società patriarcale, basata sulla superiorità del pater familias, legittimato nel suo ruolo in quanto diverso dalle donne. Una lunga tradizione che va da Platone a Proudhon identifica nel patriarcato familiare il nucleo originario da cui si sviluppa il potere monarchico, la simbologia del padre come capo e padrone/custode si riverbera infatti in tutti i livelli sociali. Il re è


14 Nipoti di Maritain concepito da tutta la tradizione come “il padre” dei suoi sudditi, e Dio stesso è pensato come Padre e maschio. Il modo di esercitare il proprio potere verso noi suoi figli terreni è modellato su quello dei padri di famiglia umani, ossia amorevole ma al contempo non riluttante ad usare la verga per raddrizzarci, se non ci adeguiamo ai suoi progetti.

“Dio stesso dà l’esempio supremo dell’attraversamento di ogni confine”

Se dunque la simbologia patriarcale della differenza dei maschi rispetto alle donne fonda la regalità umana e divina, allora mostrare con degli atti di comportamento transgender che non v’è differenza tra maschi e femmine scardina tutte le gerarchie sociali del potere maschile. Se il maschio non è differente dalla femmina, non c’è ragione che giustifichi né il pater familias, né il re, né il Dio che se deve comandare sarà maschio. Per questo un uomo in gonna disturba: quel traditore del proprio sesso non solo mette in dubbio la nostra idea che i maschi, e dunque noi, dobbiamo agire in una determinata maniera, ma mette pure in pericolo tutta la struttura sociale che sulla simbologia di questa separazione dei sessi s’è costruita. La norma che traccia un confine, in quanto norma, è cioè sempre un limite della libertà. Quanto è meravigliosamente scandaloso dunque, sostengono i teologi queer, cercare di mettere in luce come nel nostro Dio e nella stessa storia della sua

Chiesa vi siano segnali di “debordamento” divino dai confini di genere, che emergono come iceberg dall’oceano, e richiedono la nostra attenzione. Che cosa significa ad esempio che il nostro Dio, come insegna l’inno kenotico di Filippesi 2, trasgredisce la separazione tra natura divina e umana svuotandosi della propria divinità? E che cosa può significare che questo Dio che si fa uomo resti celibe, rifiutandosi di iscrivere se stesso nel gioco della sessualità binaria umana, visto che nessun suo amore romantico per una donna c’è stato tramandato? Il cristianesimo sarebbe dunque una religione queer, nel senso che Dio stesso dà l’esempio supremo dell’attraversamento di ogni confine, abitando zone ambigue come quella di un uomo che è Dio, e di un maschio che però non costruisce la propria identità in quanto amante delle donne, un ebreo che va coi samaritani, un re che trova il trono nella croce.


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Teologia queer? di Mattia Lusetti

“dare ragione del giudizio teologico negativo e allo stesso tempo da portare ad assumere le istanze positive eventuali ivi contenute”

È possibile una teologia “queer”? Per rispondere a questa domanda occorre capire cosa sia la teologia queer e discuterne la “legittimità”1 e “fecondità/fruttuosità”2 . Un primo minimo livello di giudizio di legittimità trova il proprio oggetto nella vera e propria rivoluzione morale che questa teologia più che dimostrare presuppone e che ovviamente cozza contro l’autoritativo e tradizionale (nel senso più ampio e più pregno teologicamente possibile) dato teologico-antropologico. Alcuni esempi: la valutazione del rapporto fisico omoerotico, la decostruzione del sesso come

differenza costitutiva fondamentale, la critica spesso distruttiva all’idea di famiglia e di matrimonio. Detta contrarietà non può che stimolare la ricerca in maniera da dare ragione del giudizio teologico negativo e allo stesso tempo da portare ad assumere le istanze positive eventuali ivi contenute. Il giudizio di possibilità/legittimità però richiede anche una valutazione un poco più approfondita, che si faccia carico di un giudizio filosofico-teologico sui fondamenti di tale approccio. L’approccio decostruttivo di questo indirizzo è esposto a limiti gravi: non solo la mancan-


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za esplicita di un presupposto positivo (che può anche essere trovato in questo caso nella dignità individuale), ma anche la dipendenza dalla definizione precisa di ciò a cui ci si vuole opporre. In questo caso il “patriarcato eterosessista” o “l’eterosessualità normativa”. Cosa sono esattamente? Il patriarcato, se ci limitiamo all’ambito giuridicosociale è identificabile. Ma l’eterosessualità, il genere, il sesso? E inoltre: obiettivo della teologia queer è una «singolarità disidentificata e autogenerata» o un catalogo di singole identità sempre più particolareggiate3?

“pure nella teologia queer, tuttavia, non è stato annullato il rapporto tra il sesso e il genere”

Il sesso biologico e il genere costituivano un monolite che studi ormai storici e lotte secolari hanno contribuito a spezzare; in esso una rigida divisione sociale (gerarchicamente ordinata) di ruoli e compiti si sovrapponeva alla differenza dei sessi ricavandone legittimazione sociale (per la differenza dei sessi) e fondazione naturalistico-medicalistica (per i ruoli sociali). Banalmente: “uomini e donne sono diversi, hai mai visto donne scienziato?” e “se le donne non lavorano è perché sono biologicamente fatte per altro, è evidente”4. Identificare la complessa pressione sociale e i meccanismi mimetici che dovevano portare un individuo nella società ad identificarsi in uno dei due ruoli sociali

ammessi nella società in base al proprio sesso è stato ovviamente un compito improbo e lodevolissimo. La forma di quest’opera intellettuale, educativa e politica non poteva che essere oppositiva per coloro il cui modello identificativo era minorato e dimidiato per diritti e possibilità: la donna e le frange devianti del ruolo dominante (gli omosessuali), anche se dubito fortemente che oggi la modalità contestativa sia la più appropriata e la più fruttuosa, in campo sociale come (e ancor di più) nella teologia. Pure nella teologia queer, tuttavia, non è stato annullato il rapporto, in un senso naturalistico, in un altro coercitivo, tra il sesso e il genere, tra identità anatomico-biologica e socialeculturale. Qualunque rivendicazione di genere deve, ancor oggi, assumere linguaggio, semantica e rigidità della identificazione sessuale (ruolo corrisponde a sesso); parimenti qualunque (reale o fittizio) cambiamento di identità sessuale deve ricevere una sanzione sociale (se non giuridica). L’elemento apparentemente nuovo del desiderio («il molteplice del desiderio»5) come termine in grado di eliminare l’aspetto coercitivo del genere e di annullare il naturalismo del puro dato del sesso è in realtà un elemento nato all’interno di quella situazione di rigidità re-


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ciproca tra sesso e genere che si crede di aver distrutto e da cui si crede di essere liberi. In una società bloccata il desiderio diventava l’unico elemento con cui dimostrare di aver perfettamente interiorizzato la divisione dei sessi e il proprio ruolo ed anche l’unico elemento di cui avere ossessivamente paura come segno di dissenso e deviazione; il terrore ossessivo per l’omofilia e l’omoerotismo nelle società borghesi e totalitarie di ‘800 e ‘900 nasce, a mio parere, precisamente in questo contesto6. Questo spiega anche l’ulteriore ambiguità di un’identità che è sessuale in quanto definisce l’oggetto dell’attrazione sessuale e che tuttavia continua a far riferimento al sesso, concetto ritenuto per altro verso anacronistico7. Manca un elemento che dovrebbe fungere da equilibrio: la kierkegaardiana idea della identità come storia – ovvero memoria e biografia – che è scelta della concretezza perciò anche fisicobiologica (e culturale) di ciascuno8. Solo in questo modo il sesso e perciò la differenza tra i sessi non vengono annullati, ma liberamente assunti e, allo stesso tempo, la stessa costruzione sociale della propria identità non diventa né costrittiva né rivendicativa. Concepire in maniera unitaria la propria identità sia

a livello degli “strati” sostanziali (corpo, istinti, emozioni, spiritualità, scelte..) sia a livello degli “strati” storico-temporali e perciò delle relazioni significative della vita richiede un lungo lavoro ed una libertà che non tenti di bypassare ciò che costituisce il concreto della propria identità: neppure il proprio corpo vivente. Questa linea rispecchia maggiormente la linea dell’incarnazione ed è perciò teologicamente più adatta. La forte individualizzazione e spiritualizzazione dell’identità della teologia queer effettuata su fondamenti antropologici ridotti (il desiderio come impulso oggettuale immediato) manifestano più di un interessante rapporto di omologia con la gnosi, almeno considerando l’appassionata presentazione che ne fa Jonas. Non è soltanto la disincarnazione (il gender è senza corpo) a farlo dire, ma la disposizione spirituale costantemente rivolta al ribaltamento della situazione esistenziale, culturale e sociale percepita come assolutamente ingiusta e oppressiva. Questa è, secondo Jonas, la disposizione esistenziale tipica nella quale è sorta la gnosi9. Questo, a mio parere, completa un giudizio teologico sostanzialmente negativo della teologia queer, ma conduce pure a vedervi un segno dei tempi. La percezione di un

“manca un elemento che dovrebbe fungere da equilibrio: la kierkegaardiana idea della identità come storia – ovvero memoria e biografia”


18 Nipoti di Maritain mondo ostile alla costruzione di un’identità libera e accolta può portare a fenomeni “gnostici”10, è vero, ma prima di un pericolo deve costituire un pungolo all’annuncio e alla testimonianza cristiana di un Dio che ama ogni uomo fin nella sua carne e in tutta la sua spesso tormentata storia.

“non contrapporre due mondi che poi non sapremmo collocare nel nostro spazio-tempo”

1 Legittimità come scientia fidei della Parola divina contenuta in quel tutto costituito dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione. 2 Sulla teologia queer cfr. G. GUGLIERMETTO, “Le teologie queer e la ricerca del soggetto”, in Protestantesimo. Rivista della Facoltà Valdese di Teologia 68 (2013), pp.261-272. 3 Cfr. G. GUGLIERMETTO, pp.261-262. 4 Sulla medicalizzazione delle norme morali e di identità riguardanti la “sessualità” cfr. G. MOSSE, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 2011. 5 G. GUGLIERMETTO, p.261. 6 Di nuovo illuminante l’opera di Mosse. 7 Sulla questione genere/gender cfr. la ricostruzione storico-filosofica contenuta in M. PEETERS, Il gender. Una questione politica e culturale, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2014; molto interessanti inoltre le riflessioni del saggio di G. FRAISSE, La differenza tra i sessi, Bollati Boringhieri, Torino 1996. 8 Cfr. in particolare S. KIERKEGAARD, Aut aut, Mondadori, Milano 2014 (specie pp.7475). 9 Cfr. H. JONAS, Lo gnosticismo, SEI, Torino 2002. 10 A livello di espressione pratico-morale è possibile anche una deriva gnostica di segno opposto, ascetica e mortificante della corporeità. La ritengo, tuttavia, più appartenente al nostro passato non più prossimo, almeno nella sua forma ascetico-religiosa, mentre oso ravvisare una forma di mortificazione anti-umanista in certe forme di vegetarianesimo come pure in certe forme di ossessiva cura estetica del corpo. Solo suggestioni, in questo caso.


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La santità nasce nell’amore di Mario Giagnorio

Un tema ineludibile, nel contesto contemporaneo, è l’esistenza del mondo queer, ossia di tutte quelle persone con un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale, o la cui identità di genere non concorda con il sesso biologico. La religione non è esclusa dal dibattito: come rispondere quando una persona queer domanda se – e come – lei sia chiamata alla santità? Una risposta negativa può essere una vera condanna a morte spirituale, cosa inaccettabile per chi ama il Dio dei viventi. Ciascuna persona può essere santa: sta a lei accettare o meno la Grazia che eleva alla vita divina. Secondo Cathopedia, l’enciclopedia cattolica virtuale, il santo «è colui che pienamente risponde alla chiamata di Dio ad essere così come Egli lo ha pensato e creato, frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità». Più che di una condotta specifica, si parla di realiz-

zare quello che veramente siamo in Dio, nella Sua libertà. Grazie agli studi contemporanei sappiamo che l’orientamento sessuale e l’identità di genere non sono scelti, e che costituiscono una parte fondamentale della nostra identità, il cui processo di formazione è sconosciuto e incontrollabile. Ciononostante, in molte confessioni cristiane si parte dal presupposto che l’eterosessualità e la concordanza tra corpo e genere (cisessualità) siano innati, o “più buoni”: la disforia di genere o un orientamento non eterosessuale sarebbero quindi “intrinsecamente disordinati”, contrari all’ordine di Dio. Per le persone queer la santità non si potrebbe realizzare in armonia con la parte più intima di loro stesse, ma con la sua negazione: relazioni esclusivamente amicali, astinenza sessuale obbligatoria o rassegnazione alla propria identità biologica. La questione della santità di una persona queer può essere però trattata in

“un amore maturo e la santità che da esso scaturisce non dipendono dall’orientamento sessuale, o dall’identità di genere”


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un’altra prospettiva, cercando invece il dispiegarsi della Parola, ciò che è eterno, in tutte le forme del nostro amore. Per muoversi in tale prospettiva, si può partire da quanto papa Francesco ha scritto nell’enciclica Lumen Fidei. Qui il pontefice afferma che «la verità che cerchiamo ci tocca quando siamo illuminati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata» (§27). L’amore è lo strumento di conoscenza per chi ricerca la verità di Dio: la santità nasce nell’amore, perché è l’amore a creare comunione e a donare il potere di diventare figli di Dio (cfr. Gv 1,12). Se da un lato è impossibile definire l’amore, dall’altro abbiamo qualcosa da cui muoverci, tracce per capire quando si manifesta nelle nostre vite. San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, dipinge i tratti dell’amore nel dolce “inno alla carità”: un amore rispettoso, umile, che si compiace di quella verità che, infondo, gli è propria. Se guardiamo alla vita delle persone queer, come si può affermare che siano intrinsecamente limitate a vivere un amore com’è lì descritto, un amore che è dono generativo di sé per la persona amata? Un amore maturo e la santità che da esso scaturisce non dipendono dall’orientamento sessuale, o dall’identità di genere: nel mondo queer vi

sono le medesime bellezze e imperfezioni di quello eterosessuale e cisessuale. Alcuni si appellano però a caratteristiche che renderebbero le persone queer più imperfette delle altre, bisognose di divieti per salvaguardare il progetto di Dio sull’umanità, che sembra essere per loro cristallino. S’invocano l’impossibilità di procreare, o il “mancato rispetto” del proprio corpo. Tuttavia, niente prova che la presenza dei figli nobiliti magicamente l’esistenza o l’amore coniugale, il cui cuore è il dono di sé. Inoltre, in cosa consisterebbe la mancanza di rispetto del corpo in un amore premuroso e attento? O nella ricerca di ciò che si rivela la condizione di un’esistenza felice, che permetta di essere dono per gli altri? Oggi non si parla più di prostituzione rituale, o di relazioni extra-coniugali, come al tempo degli apostoli: si chiede solo di riconoscere nella vita e nell’amore delle persone queer la stessa radice divina che risiede nelle persone eterosessuali e nelle loro relazioni. Nulla di ciò che nasce nell’amore è in se stesso “malvagio” o “disordinato”, se l’amore è l’ordine supremo di Dio. L’eterosessualità e la cisessualità non sono la via privilegiata al bene comune, perché questo consiste nella «buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene», come diceva Maritain in


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La persona e il bene comune. La chiamata alla santità passa per l’amore e per il rispetto di chi siamo: non si può che partire da questo per percorrere la via di Dio. Siamo chiamati ad amare scoprendo la verità di noi stessi, quella verità che ci fa traboccare d’amore e ci trasforma in dono. La verità di ogni singola persona non può essere incasellata o controllata, perché si realizza nella relazione tra la persona e Dio, una relazione che per gli altri è sempre trascendenza e mistero. Se ci fosse paura di quanto non si comprende appieno, o di ciò che sfugge dal nostro illusorio controllo, si dovrebbe rammentare ancora una volta l’inno alla carità: «adesso conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente» (1Cor 13,12). Solo alla fine, nella Parusia, tutto quadrerà perfettamente; il cerchio, però, si chiuderà solo nell’amore, perché Dio è amore (cfr. 1Gv 4,8).

“riconoscere nella vita e nell’amore delle persone queer la stessa radice divina che risiede nelle persone eterosessuali e nelle loro relazioni”


22 Nipoti di Maritain

Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano di Niccolò Bonetti

“un Dio osceno un Dio indicibile e ambiguo un Dio che ama all’eccesso”

La teologia queer non è solo una riflessione cristiana sul mondo LGBTQI ma piuttosto è l’annuncio di un Dio «fluido e instabile proprio come noi, ma anche pronto a ridere e a godere mentre persegue il fine divino della giustizia trasgressiva che scompiglia la legge», un Dio che «è presente nella complessità delle sessualità ribelli e delle relazioni delle persone», come premette Marcella Althaus-Reid. Un Dio osceno che vuole liberare tutti quei desideri “proibiti” e modi di essere “sconvenienti” che sono stati marginalizzati in nome di argomentazioni che sarebbero fondate sulla Scrittura o sulla Tradizione. Un Dio indicibile e ambiguo che mette al centro il corpo e la sessualità in tutta

la sua impurità e che rompe ogni etichetta e conformismo. Un Dio che ama all’eccesso poiché divorato da desideri perversi a causa del suo folle amore salvifico per gli uomini. La teologia queer non è tanto interessata a smontare le interpretazioni omofobiche della Scrittura – questo è già stato fatto da altri in precedenza – ed è contraria a “normalizzare l’omosessualità” poiché essa vuole esaltare la pluralità destabilizzante delle identità sessuali in tutta la loro fluidità e ambiguità senza creare ghetti o categorie. Tale approccio teologico ritrova elementi di fluidità e ambiguità dei generi sia nella Scrittura che nella Tradizione (il cosiddetto


23 “queering”) mostrando che molte presentazioni della sessualità umana non possono ritrovarsi in maniera univoca nelle fonti della fede cristiana, che offrono al contrario un quadro molto più vivace. Si pensi solo a quanto fosse genderqueer e crossdressing la santità di Giovanna d’Arco che non riusciva a togliersi gli abiti maschili di dosso, nonostante le richieste dei suoi giudici. Oppure alla stessa natura sessualmente ambigua del mondo ecclesiale: «La Chiesa è uno spazio piuttosto queer, popolato da uomini e donne celibi che si astengono dalla logica complementare che li spingerebbe verso matrimoni eterosessuali, uomini (preti) che si vestono con abiti femminili, donne (suore) che scelgono nomi di uomini come Giuseppe e Luca, preti maschi che sono simbolicamente “intersessuali” perché sono maschili nella misura in cui rappresentano Cristo per la Chiesa e femminili nel rappresentare la Chiesa per Cristo» (Stefanie Knauss). L’approccio queer ha sicuramente grandi meriti poiché ci aiuta a comprendere quanto sia variegata e plurale la creazione “sessuale” di Dio, quanto sia pericoloso definire in maniera rigida e oppressiva identità e orientamenti presumendoli “normali” e quanto sia nefasto pretendere di imporre modelli omologanti di sessualità e genere a persone a cui Dio ha dato carismi diversi per vivere la loro affettività

e sessualità. Tenendo presente che «la realtà è superiore all’idea» (Evangelii Gaudium 231), la nostra visione non può ingessarsi in modelli intellettualistici che si chiudono all’esperienza concreta delle persone, nelle loro gioie, sofferenze e orgasmi. Le teologie queer, con il loro carattere provocatorio, ci liberano dalle nostre violente certezze sulla sessualità che tanto hanno devastato le vite delle persone e ci aprono ad un’esperienza plurale, variegata e fluida della sessualità umana e a tanti modi di amare che possiamo non capire ma che non possiamo non riconoscere come autentici: in questo la sua funzione critica è sicuramente indispensabile e irrinunciabile. Ma non ci si può fermare qui né questo basta; il rischio sarebbe di cadere in un nichilismo postmoderno in cui non esiste più oggettività né norma morale né peccato né natura né legge naturale. Nonostante la fondamentale funzione di pars destruens per liberarci dallo stereotipo di un Dio “maschio cisgender eterosessuale”, non possono però essere condotte fino ad esiti relativistici e decostruzionisti in cui si finisce per legittimare qualunque cosa e a distruggere ogni norma morale. Matrimonio, natura umana e legge naturale vanno riviste e reinterpretate in modo più dinamico e inclusivo, non demolite: dobbiamo liberarci dalle false e oppressive visioni di questi concetti, non abbando-


24 Nipoti di Maritain narli. La nostra conoscenza della natura umana è sempre storicamente mediata e non può mai essere espressa in modo “matematico” – come ci ricorda Aristotele all’inizio dell’Etica Nicomachea – ma non per questo essa è impossibile. Per quanto sia inumano ridurla al solo modello eterosessuale-procreativo, la sessualità ha un significato oggettivo che non può essere decostruito, pena la distruzione del significato stesso di morale cristiana. Quest’ultima è volta a promuovere la fioritura integrale della persona umana nel dono completo e incondizionato di sé all’altro/a; essa trova il suo senso nell’amore vero e oblativo che è pronto al totale sacrificio per l’altro/a.

“la sessualità ha un significato oggettivo che non può essere decostruito”

E questo amore è veramente queer: non si fa ingabbiare nel modello eterosessuale ma lo trascende; infatti può essere vissuto, con non minore forza, anche dalle coppie omosessuali. Non è interessato all’identità di genere o all’orientamento sessuale, né divide rigidamente il mondo in uomini e donne ma non per questo non è un amore esigente e divinizzante: esso scorre dall’amore intra-trinitario del Padre e del Figlio e cambia la vita – ma prima di tutto gli orgasmi – di chi lo accoglie con fede. Tutte le forme di sessualità che precludono a questo amore esclusivo, che rendono l’altro/a mezzo e non fine,

che non promuovono una feconda integrazione di eros e agape non sono né cristiane né umane: possiamo quindi escludere il poliamore, l’adulterio, l’infedeltà e la violenza. Le persone omosessuali – come quelle eterosessuali – sono chiamate ad essere segno dell’amore eterno di Cristo per la Sua Chiesa e icona dell’amore di Dio per noi; devono manifestare nella loro vita di coppia l’amore con cui Cristo ama la Chiesa, continuando a donarle la vita, nella fedeltà. Queste coppie possono vivere ed esprimere gli stessi meravigliosi valori del matrimonio cristiano quali la fedeltà, la fecondità (che non è limitata alla procreazione biologica ma la trascende), la complementarietà (che non può esaurirsi in quella fondata sulla differenza di genere, per quanto essa rappresenti la sua modalità archetipale) e il dono reciproco ed indissolubile (che non può conciliarsi con relazioni “a tempo” poiché il cuore umano desidera essere una cosa sola con la persona amata). Sebbene una coppia eterosessuale si trovi oggettivamente avvantaggiata nel viverli, perché non sarebbe corretto chiamare “matrimonio” – proprio quello che il queer tende a distruggere! – anche una coppia omosessuale che esprime questi valori per grazia?


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“pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici”

Dibattito VERITÀ E IDEOLOGIA « Quando la ricerca della verità si trasforma in chiusura ideologica? »


26 Nipoti di Maritain

Verità o ideologia? La mistica cristiana per “salvare” la politica di Rocco Gumina

«Politica e religione, in verità, lungo i secoli si sono abituate a “scambiarsi la veste”». (G. ZAGREBELSKY) Quando ci si accosta alla politica attraverso alcune questioni come la ricerca della verità o l’utilizzo dell’ideologia, si rischia, quasi sempre, di sbagliare. Infatti, quale verità spetta alla realtà politica? Qualora individuata, la verità in politica non rischia di trasformarsi in ideologia? Nel concreto delle pratiche politiche, la pretesa del possesso della verità non coincide con la peggiore delle possibili ideologie? A mio parere, il recupero della dimensione propria del cristianesimo – cioè la mistica – può permetterci una rinnovata riflessione sul valore della verità e dell’ideologia all’interno delle dinamiche politiche. L’intreccio fra religione e po-

litica è datato quanto la storia dell’uomo. Per via della fine dell’egemonia del cristianesimo e della Chiesa in Occidente, nella modernità possiamo rilevare una tendenza alla sacralizzazione della politica che consiste nell’attribuire un’indole sacra ad alcune entità come lo Stato, il leader politico, il partito, l’etnia, la nazione1. Sia prima sia dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo esperienze di sacralizzazione della politica – in contesti democratici o totalitari – dovunque nel mondo. All’indomani degli atti terroristici dell’11 settembre 2001 negli USA, tale orientamento ha ripreso forza anche in quelle nazioni nelle quali sin dalla fondazione è stata netta la distinzione d’influenza nella società fra politica e religione. Oltre a ciò, la questione della sacralizzazione della politica, anche per le democrazie, si traduce nel desiderio da parte del sistema partitico o statale di


27 definire il fondamento dell’esistenza umana, cioè di riprodurre socialmente la verità attraverso un sistema ideologico. Si pensi, ad esempio, ad alcune forme di espressione politica nella rivoluzione americana o francese oppure alla degenerazione di tendenze passate come quelle social-comunista e nazionalista, e attuali come l’elaborazione populista tipica delle nostre democrazie. Così, la politica intesa e praticata in modo totalitario, tanto nelle dittature quanto nelle democrazie, è un sistema che ha la pretesa di rappresentare il “tutto” per il cittadino2. La logica cristiana ha la possibilità di avanzare una visione critica nei confronti di un sistema socio-politico e culturale che presume di configurarsi come il fine assoluto degli uomini. Simile critica vale, ad esempio, per la conformazione total-capitalista delle attuali società individualiste – basate sull’esclusiva dialettica della produzione/guadagno – presenti nel cosiddetto primo mondo dove la crescita del PIL prevale su ogni altra dimensione di promozione umana3. È chiaro che la sfera religiosa vada al di là di ogni tecnica politica, economica, giuridica, sociale e culturale. Tuttavia, quella che può essere definita in ambito cristiano come l’ispirazione evangelica per l’agire politico, contiene una riserva di senso costituita dal fine assoluto del credente che si fonda tanto sul riconoscimento

del primato di Dio nella propria esistenza quanto sulla connessa relazione con il Signore della vita4. Di conseguenza, il rapporto intenso fra l’umano e il divino – che per la teologia cristiana è la mistica – si configura come un potenziale limite al travalicamento verso mete non previste dalla natura intrinseca del fattore politica. Così, la scelta libera per il Signore si mostra nella nostra epoca non come una spiegazione razionale ad ogni moto fisico, bensì come un dono che – nel riconoscimento del limite della socialità umana e dell’ambiente – relativizza ogni realtà concedendole il giusto senso. Inoltre, per l’uomo di fede, Dio rimane Dio e, pertanto, il Signore della vita non può essere confinato o limitato ad un movimento di liberazione umana il quale è destinato prima o poi ad esaurirsi. Indubbiamente, l’etica si presenta come il legame fra la dimensione mistica del cristianesimo e la sua rilevanza politica5. La peculiarità specifica dell’etica nel cristianesimo risiede nella potenzialità di essere sempre aperta alla novità delle generazioni umane di ogni tempo. Quindi la mistica cristiana, seppur indirettamente e mediante l’etica, può ispirare e animare il senso della verità e il valore dell’ideologia in politica con una nuova profondità. Ne deduciamo che la liberazione sociale è un orizzonte fondamentale della fede cristia-

“una visione critica nei confronti di un sistema sociopolitico e culturale che presume di configurarsi come il fine assoluto”


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“la logica cristiana mette in rilievo il limite della realtà terrena”

na, perciò l’opera di critica versi tutti i totalitarismi – impliciti ed espliciti, di carattere economico o politico – che hanno la pretesa di essere il “tutto”, è il primo compito in sede teorica e pratica di un impegno politico evangelicamente ispirato. La liberazione umana è un processo a cui devono contribuire i credenti con una specifica caratteristica che dà il senso del limite ad ogni regno politico di questa terra6. Comprendiamo, allora, che per avviare una riflessione sulla verità e sull’ideologia nella politica, la società e la cultura attuali hanno bisogno di una nuova mediazione fra vangelo e sfera politica. Lungi dalla promozione di un messianismo sociale, la logica cristiana mette in rilievo il limite della realtà terrena inscritta nello spazio delle cose penultime. Il sogno di una città perfetta e di un’organizzazione sociale definitiva, animate da ideologiche verità, è un ideale ingannevole che pone la politica nella frontiera delle cose ultime che non le competono per via della sua natura. In realtà per i credenti, come riporta l’Apocalisse, la Gerusalemme celeste è esclusivo dono gratuito da parte di Dio: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo […] Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli di-

morerà tra di loro […] E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (Ap 21,1-4). Così, la consapevolezza del limite della natura individuale e sociale dell’uomo è il presupposto essenziale per ogni tentativo di riflessione sul valore della verità e dell’ideologia nella politica.

1 Cfr. E. GENTILE, Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi, Laterza, Bari 2013. 2 Cfr. M. RECALCATI (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 3 Cfr. F. GIACOMANTONIO, Sociologia dell’agire politico. Bauman, Habermas, Žižek, Studium, Roma 2014. 4 Il mistico Divo Barsotti ha proposto, nel panorama religioso e culturale italiano del XX secolo, la questione del primato di Dio nell’esistenza del credente. Cfr. D. BARSOTTI, La libertà, Edizioni Parva, Roma 2009; ID., La mia giornata con Cristo, San Paolo, Milano 2007. 5 Sul tema, si veda J. METZ, Mistica cristiana degli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e responsabile, Queriniana, Brescia 2013. 6 Cfr. E. SCHILLEBEECKX, Perché la politica non è tutto. Parlare di Dio in un mondo minacciato, Queriniana, Brescia 1987.


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Il fallimento di Rapture, miope utopia ideologica di Matteo Zerbino

«Sono Andrew Ryan, e sono qui per farvi una domanda. Un uomo ha diritto al sudore della propria fronte? “No!” – dice l’uomo a Washington – “appartiene ai poveri”. “No!” – dice l’uomo nel Vaticano – “appartiene a Dio”. “No!” – dice l’uomo a Mosca – “appartiene a tutti”. Io rifiuto queste risposte; piuttosto scelgo qualcosa di diverso, scelgo l’impossibile, scelgo... Rapture. Una città dove l’artista non tema la censura, dove lo scienziato non sia limitato da ridicoli moralismi, dove il grande non sia limitato dal piccolo. E con il sudore della tua fronte, Rapture può diventare anche la tua città». Andrew Ryan è un uomo che, stanco e disgustato dallo stato

del mondo, popolato da opportunisti, nullafacenti e, come lui stesso li definisce, “parassiti”, decide di fondare una città sottomarina chiamata Rapture, nella quale i più meritevoli possano prosperare e vedere riconosciuti i frutti del proprio lavoro. Inizialmente tale utopia sottomarina sembra raggiungere l’obiettivo da Ryan proposto, tuttavia la situazione peggiora rapidamente, sia vista la cultura elitaria formatasi nella città sia per la diffusione di disordini dovuti al proliferare dell’ADAM, una sostanza capace di ricombinare il codice genetico, e delle proteste di piccoli gruppi anarchici che deplorano l’operato di Ryan. La caduta di Rapture segna

“ideologia, un complesso di idee che semplifica la realtà o non la definisce in modo completo”


30 Nipoti di Maritain il definitivo fallimento della prospettiva oggettivista adottata dal magnate, che pure animato dalle migliori intenzioni e da un sincero desiderio di dare una svolta alla vita degli Atlanti del mondo – il videogioco in questione, Bioshock, si propone come interpretazione del romanzo La rivolta di Atlante della filosofa Ayn Rand, madre dell’oggettivisimo – perverte involontariamente i propri ideali e pur conscio della cosa non è capace di risollevare le sorti proprie e della città.

“l’ideale, per quanto nobile, deve essere sempre sorretto dall’intelletto per adattarsi alla realtà, imprevedibile e non sempre riconducibile ad un modello”

Osservando l’operato di Ryan e riflettendo su ciò che fa risulta interessante notare come il grande ideale alla base delle sue azioni degeneri trasformandosi in un’ideologia e il modo in cui ciò si riflette sull’impostazione politica di Rapture. Animato da sinceri propositi, il magnate, al fine di formare e sostenere la propria utopia, liberalizza il mercato in ogni suo ambito, azzera completamente il controllo statale e permette alla “grande catena dell’industria” di procedere senza ostacoli; i primi segni di decadimento delle idee iniziali si riscontrano quando Ryan permette agli uomini di Fontaine, un criminale, di ottenere sempre maggiori ricchezze tramite il raggiro e la soverchieria, elogiandone la capacità di migliorare la propria condizione in modo autonomo (contraddicendo uno dei principi base dell’oggettivismo, per cui il selfinterest deve sempre tenere con-

to dell’altrui libertà e diritti). Temendo che la crescita economica di altri individui come Fontaine potesse portare ad ulteriori disordini, Ryan adotta un approccio governativo autoritario, sottoponendo a rigide norme il comportamento dei cittadini e uccidendo chiunque minacciasse lui o la città. Pur volendo semplicemente preservare il suo operato, egli si spinge ben oltre i limiti e i concetti su cui aveva fondato Rapture, gettandola in una spirale di morte e distruzione dalla quale non sarebbe più uscita. Alla luce della vicenda narrata in Bioshock risulta ovvia l’accezione negativa che si attribuisce al termine ideologia, un complesso di idee che semplifica la realtà o non la definisce in modo completo, portando a rivestire i più svariati fatti e concetti di connotazioni che invero non hanno. Marx la definiva un atteggiamento che porta a considerare naturali ed eterne forme economiche, sociali e culturali che sono invece legate a particolari momenti della storia dell’uomo, e a considerare assoluto ciò che è in realtà relativo, casuale e contingente; insomma, “una visione rovesciata del mondo”. Per questi suoi connotati il termine ideologia è associato al termine fanatismo, un atteggiamento di ammirazione ed entusiasmo non critici nei confronti di una cosa, idea o persona; un “raddoppiamento dello sforzo che avviene


31 quando si dimentica l’obiettivo”, come afferma il filosofo George Santayana. Qualunque sia l’ambito in cui si manifesta l’ideologia/fanatismo – che sia religioso, politico, sociale ecc. – esso scatena ed è scatenato da una perversione della verità, portata avanti con mezzi quali la propaganda, forse principale mezzo di indottrinamento delle masse; tramite questa spesso si punta a diffondere quelle che Harry Frankfurt, filosofo, chiama “assurdità”, notizie non necessariamente vere o false ma semplicemente mutate e coadiuvate da fonti prive di basi al fine di meglio manovrare i bersagli di tale opera, portando chiunque sia coinvolto dall’azione propagandistica a perdere la capacità di discernimento fra verità e falsità. «La città... sta collassando davanti ai miei occhi... sono diventato tanto convinto dalle mie idee da avere smesso di vedere la verità? Possibile». L’ideale, per quanto nobile, deve essere sempre sorretto dall’intelletto per adattarsi alla realtà, imprevedibile e non sempre riconducibile ad un modello matematico o comunque ad una logicità più o meno marcata; esso deve forse essere trattato come idea ad uso regolativo kantiana, che indirizza l’agire dell’uomo ma non diventa sua unica e ineluttabile ragione di vita. L’utopia di Rapture è fallita per il suo non tenere conto dell’irrazionalità e dell’emozione umana, caratteri-

stiche che, pur avendo difetti di fronte a certe situazioni – come del resto li ha anche la ragione – forniscono un ulteriore punto di vista attraverso cui osservare la realtà, creando una prospettiva che consente all’uomo di comprendere maggiormente quest’ultima, di agire su di essa e possibilmente migliorarla, evitando al contempo di cadere nell’errore ideologico.

“l’utopia di Rapture è fallita per il suo non tenere conto dell’irrazionalità e dell’emozione umana”


32 Nipoti di Maritain

Accettare la ferita del reale di Davide Penna

“quando l’aspirazione alla verità, insita in ogni essere umano, si trasforma in una soffocante ripetizione di sé nell’idea”

Tra le più penetranti e note interpretazioni di cosa sia l’ideologia vi è sicuramente quella di Karl Marx; la sua descrizione dell’ideologia come visione rovesciata del mondo, come assolutizzazione di aspetti contingenti, aiuta ancora oggi a leggere molte deformazioni del pensiero, le quali sempre si riconoscono dai loro frutti. Una visione della realtà che spinge a selezionare fatti a partire dalle idee, in cui tutto è spiegato, le cui risposte non aprono a ulteriori domande, porta sempre a rapportarsi in termini conflittuali col non medesimo, con chi non la pensa uguale o non fornisce le stesse risposte, e questo è l’indizio più chiaro del fatto che si preferisce l’ideologia alla ricerca della verità.

Ma quando l’aspirazione alla verità, insita in ogni essere umano, si trasforma in una soffocante ripetizione di sé nell’idea (definizione di ideologia che propongo al lettore)? Rispondere a questo interrogativo significa affrontare il nodo politico per eccellenza del contesto contemporaneo, in cui l’orizzonte sembra sempre più chiuso ai grandi ideali e ai grandi progetti di pace, giustizia sociale, dialogo interculturale e interreligioso, in cui i rapporti internazionali sembrano sempre più incancreniti in interessi di nicchia e le risposte alle grandi domande dei popoli sempre più assenti. Anche ad una lettura attenta di se stessi – esercizio quanto mai importante, che gli antichi greci chiamavano proso-


33 ché) – ritrovare quando l’amore per la verità si trasforma in chiusura ideologica è cominciare una piccola grande rivoluzione che richiede fedeltà, costanza e soprattutto testimonianza. Noi abbiamo continuamente bisogno delle idee per vivere; esse forniscono il materiale grazie a cui poter “imbrigliare” la molteplicità che abbiamo di fronte e farne un concetto che, secondo la magnifica definizione di Hegel, è l’autocoscienza (consapevolezza di sé) libera del soggetto. Buona parte della nostra realizzazione personale muove dal pensare la realtà, il di-fronte, e, da qui, definire i nostri sogni e progetti. Quando l’idea è il motore che produce il possibile, che ci spinge a fare della realtà un pro-blema (ovvero qualcosa che abbiamo davanti, da risolvere e non accettare passivamente), è sana. Il guaio sorge quando dimentichiamo la spaccatura tra realtà e idea, ovvero recidiamo quel legame, quella relazione fra noi stessi e l’A/altro inteso come il prossimo ma anche il reale. Quando si verifica questo? Quando scegliamo di fare del reale una nostra idea e, dunque, quando non accettiamo la radicale alterità di quello che viviamo, che non sempre è traducibile in uno schema immediatamente comprensibile. Spesso la vita ci conduce in luoghi inesplorati dalla nostra libera autocoscienza; può essere un lutto, una situazione difficile, che ci preoccupa, una delusione. Quando

si verifica questa ferita, spesso, preferiamo, per paura, non accettarla, non guardarla negli occhi, ma imbottirci di finti disinfettanti che ci trasformano in grandi vittime e, peggio, fanno degli altri dei grandi nemici. Che vuol dire concretamente? Che spesso preferiamo non sostare nella domanda, nella ricerca di senso, in una visione spezzata della vita, della realtà politica, economica e sociale, per approdare a risposte facili, ideologiche, in cui è ben chiaro chi sono i buoni (chi la pensa come me) e i cattivi (chi non la pensa come me). In altri termini, la ricerca della verità si trasforma in ideologia quando non accettiamo la ferita del reale e alle grandi domande (ché comunque ricercano ma non anticipano risposte) preferiamo piccole, a volte piccolissime, risposte. Come vigilare per non cadere in quell’anestetico del cuore e della mente che la riduzione della realtà all’idea? Probabilmente possono esserci diverse strategie. Ne propongo una, alla luce di un concetto storico-filosofico, quello di socratismo cristiano, coniato da Gilson1 per descrivere quell’ideale filone filosofico che declina il detto delfico conosci te stesso alla luce dell’idea cristiana di Dio creatore e dell’uomo fatto a Sua immagine e somiglianza2. Occorre, in sostanza, accettare la ferita dell’altro e, quindi, conoscere se stessi. Un cammino che non può dirsi mai compiuto, che obbliga spesso a

“quando non accettiamo la radicale alterità di quello che viviamo”


34 Nipoti di Maritain

“far sì che l’altro, l’amato, divenga egli stesso amore, in grado di realizzarsi come essere umano che ricerca la verità”

rivedersi, a esaminare il proprio comportamento, la propria idea, ma soprattutto ad assumere quell’atteggiamento di apertura che si concreta nell’ascolto e che potremmo tradurre nei termini di un essere-con-l’altro. In questo essere-con-l’altro, se si resiste alla tentazione della riduzione al sé che sempre insidia la nostra mente e il nostro cuore – la società dell’apparire in questo senso non aiuta per niente – scoprirai, a poco a poco, che dietro a quell’Altro che è la vita e il reale, si cela un volto, una chiamata, un Chi. Piano piano, quel mistero insondabile che sei comincia ad essere una inesauribile rivelazione che, pur tra le molteplici e mai definitivamente sondabili situazioni, assume il nome di “amato”. Ad un certo punto scopri che la tua natura profonda è essere, vivere, e, quindi, essere-amato. Comprenderai il mistero che sei quando conoscerai la tua natura profonda. E che qual è la tua natura profonda? L’essere amato. Cosa significa? Che non vali per quello che fai ma per quello che sei. La tua immensa dignità, unica e sacra, sta nel tuo essere perché il tuo essere è pensiero di Dio. Dove si manifesta l’apice del tuo essere amato? Nell’essere abbandonato alla tua libertà, nel tuo non sentire questo amore. Perché quando non “senti” l’amore, ma sai che la tua natura è essere amato, puoi anche diventare amore, ovvero incarnarlo. Il cammino per realizzarti

come essere umano è tutto qui: da essere amato ad amore che è amato. L’apice dell’amore – la realizzazione dell’atto di amare – è far sì che l’altro, l’amato, divenga egli stesso amore, in grado di realizzarsi, quindi, come essere umano che ricerca la verità e, per questo, non accetta che l’idea diventi un idolo (immagine di Dio).

1 Cfr. É. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, trad. it. P. Sartori Treves, Morcelliana, Brescia 1988. 2 Per una ricostruzione storico filosofica del termine mi permetto di rinviare a D. PENNA, Dio, l’uomo e la felicità. La riflessione morale di Pietro Abelardo come etica della relazione, Europa Edizioni, Roma 2015.


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“pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici”

Dibattito TRADIZIONE « Qual è il significato del termine “tradizione” e in che modo lo si può oggi proporre in una prospettiva ecumenica? »


36 Nipoti di Maritain

Tradizione è sviluppo della dottrina cristiana di Christian A. Polli Definire che cosa sia una tradizione, in senso ecclesiale, è una prova più ardua di quanto si possa immaginare. Ogni chiesa del Cristo, che sia cattolica, evangelica o ortodossa per ricordare le tre diramazioni principali, nel corso dei secoli ha sviluppato delle pratiche e delle convinzioni teologiche che le rendono peculiari se poste a sinossi fra di loro. Per dipanare quest’intricato panorama, sono a mio avviso necessarie due azioni preliminari di fondamentale importanza. Il primo di essi ècercare di definire che cosa sia la tradizione a partire dall’eredità dei Padri della Chiesa, radice delle chiese “storiche” contemporanee. Fin dai primi secoli del cristianesimo, le chiese paoline avevano

cercato di trovare, tramite varie forme di comunicazione come le litterae pacis, dei punti di incontro nella loro concezione di Chiesa e nel modo di vivere la fede. La nascita di diatribe come quella riguardante la datazione della celebrazione della Pasqua fra le comunità occidentali e quelle asiatiche, sviluppatasi nel corso del II secolo, trovava il motivo del proprio scontro all’interno della tradizione delle due rispettive realtà ecclesiali. Roma si rifaceva ad una pratica cultuale ormai consolidatasi, mentre le comunità asiatiche, con a capo Melitone di Sardi, si rifacevano all’insegnamento di san Giovanni Apostolo. Con il complicarsi della realtà multipolare cristiana, la nascita delle prime eresie


37 e gli scontri che ne seguirono spinsero i cosiddetti Padri della Chiesa a rintracciare le più salde fondamenta della tradizione ecclesiale per combattere le novitates dei vari eresiarchi. Ireneo di Lione, nel suo Contro le eresie, rintracciava nell’insegnamento apostolico, portato avanti dai vescovi, il messaggio originario da seguire e a sua volta da trasmettere. Il concetto della traditio apostolorum sarà un tema costantemente ripreso dai successivi padri della Chiesa e dai Concili Ecumenici, finché non verrà espressa con maggior convinzione nel Commonitorium di Vincenzo di Lérins, del V secolo, ove il richiamo all’antichità di una pratica, o di una convinzione è il fattore chiave per stabilire l’ortodossia di ciò che si crede. Nell’ottica della patristica, pertanto, tradizione è rifacimento diretto all’insegnamento dei padri e quindi all’antichità di una dottrina di fede, ponendo il fondamento su di una precisa concezione teologica della storia. Nel corso dei secoli, però, tale patrimonio teologico non è rimasto fisso, immobile, quasi fosse un cristallo da proteggere dagli sconquassamenti della storia. Tale patrimonio – o depositum fidei, per essere più precisi – subisce, in risposta alle esigenze del popolo di Dio che vive nella storia, un mutamento di forma, un adattamento ad esse. Si ha, prendendo a tal proposito il titolo di un saggio del cardinale inglese John Henry New-

man (1801-1890), uno sviluppo della dottrina cristiana. Quelli che l’ancora anglicano Newman considerava degli errori dei cattolici romani – la confessione, il primato papale, la transustanziazione, e via dicendo – non sono nient’altro che lo sviluppo più o meno articolato delle antiche verità di fede che, accolte e accettate dalla maggioranza dei credenti nonostante il mutamento di forma, erano alla base delle antiche comunità cristiane. Per esempio, la presenza reale del corpo di Cristo, per esempio, non era stata rinnegata da Lutero in radice, quanto nella forma proposta dalla chiesa cattolica in seguito all’insegnamento di Tommaso d’Aquino e alla scolastica in senso lato: davanti alle minacce dei nominalisti, il realista Tommaso, prendendo spunto dalla tradizione filosofica aristotelica, raffinò il dogma della presenza reale di Cristo senza snaturarne il cuore, il dogma originario, cuore pulsante della credenza della presenza reale. Insomma, la tradizione è – perlomeno nella chiesa cattolica del postconcilio – una realtà viva, che si trasforma senza mai tradire sé stessa, in virtù della militanza della chiesa terrena che si mescola, secondo la tradizione agostiniana, con la città terrena. Ora, le varie chiese del Cristo sono giunte a determinate posizioni nella ricerca della Verità ultima, ed è con questa realtà specifica che i cattolici e i protestanti, o gli ortodossi e i calvinisti

“tale patrimonio teologico non è rimasto fisso, immobile, quasi fosse un cristallo da proteggere dagli sconquassamenti della storia”


38 Nipoti di Maritain

“senza tradizione non vi può essere innovazione – e viceversa”

devono riflettere e riconoscersi fratelli. La chiesa cattolica romana cui appartengo sta cercando di ingranare il principio secondo cui senza tradizione non vi può essere innovazione – e viceversa –, come delineato nella costituzione conciliare della Gaudium et Spes e sa inquadrare il rapporto esistente tra Chiesa e mondo contemporaneo. È su questo gradino che il cattolicesimo del 2017 deve offrire alle altre confessioni cristiane il suo specifico patrimonio storico-teologico: né più né meno. Lo stesso devono comportarsi i rappresentanti dell’anglicanesimo, del luteranesimo, del calvinismo o di qualunque altra comunità che si dichiara cristiana, perché senza la presa di coscienza della propria identità non vi può essere un corretto schema di dialogo ecumenico. E soprattutto, non deve prendere vigore lo spunto di affibbiare connotati critici al nostro interlocutore se ha delle posizioni “progressiste” o “tradizionaliste”, quasi come se quest’ultimo aggettivo debba rivestirsi di un’accezione esclusivamente negativa. Bisogna saper rispettare il cammino che una chiesa, da quando si è riconosciuta come tale, ha compiuto nella storia della Salvezza, e cercare di capire, con gli strumenti ora storici, ora teologici, il perché sia giunta a determinate conclusioni. La presenza di sacerdoti donne all’interno dell’anglicanesimo, per esempio, al cattolico maturo dovrebbe suscitare non una

mera curiosità, ma una volontà indagatrice nelle dichiarazioni di quella chiesa sul perché si è deciso di accogliere, in seno all’ordine sacerdotale, anche persone di sesso femminile. Nel rapporto con i fratelli ortodossi, per esempio, lo stesso atteggiamento deve essere tenuto quando si prende in considerazione la possibilità per i pope di sposarsi e di avere quindi dei figli; ancora è indice di maturità spirituale osservare e confrontare il modo cultuale delle chiese luterane nel servizio della cena rispetto a quello cattolico del sacrificio. In sostanza, la tradizione di una chiesa è la complessa e ricca vetrina di ciò che è, e alla quale noi siamo chiamati non solo ad osservare i suoi prodotti, ma anche ad accoglierli in seno a noi stessi.


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Breve fenomenologia dei tradizionalismi di Andrea Virga

“il tradizionalismo, da parte sua, non coincide con la Tradizione”

Tradizione significa letteralmente “consegna”, e indica infatti la trasmissione nel tempo – attraverso le generazioni – di usanze, memorie, costumi, storie, ecc. In ambito cristiano, la tradizione indica i contenuti della fede trasmessi dalla Chiesa fin dai tempi di Gesù e degli Apostoli, ma non derivati o desumibili dalle Scritture bibliche. Le stesse Scritture, anzi, sono da interpretarsi alla luce della Tradizione. Questa può mutare nella sua espressione, ma resta immutabile nella sua essenza. Quando il protestantesimo ha rifiutato il concetto di tradizione per appoggiarsi sulla sola scriptura, il cattolicesimo lo ha riaffermato con il Concilio di Trento, ponendo Scritture e Tradizione sullo stesso piano (CCC §74-83). Il tradizionalismo, da parte sua,

non coincide con la Tradizione, ma rappresenta un fenomeno ben più tardo, apparso nel XIX secolo, ossia come reazione contro l’Illuminismo, il razionalismo e altre tendenze considerate anti-tradizionali. Precedentemente, infatti, questo problema politico non si poneva affatto. In ambito cattolico, è possibile individuare tre stagioni principali del tradizionalismo, di cui le prime due risalgono all’Ottocento. L’una nasce in Francia nei primi decenni del secolo, ad opera di autori come Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840), ribadendo la superiorità della tradizione sulla ragione umana, una tesi poi parzialmente sconfessata dal Concilio Vaticano I. L’altra sorge in Spagna a metà del secolo, nel quadro della lotta tra carlisti e isabellisti, come


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“il primo rifiuta ideologicamente l’ecumenismo, il secondo è, de facto, indifferentista. Due tendenze sbagliate”

dottrina politica che propone, in chiave antiliberale, l’instaurazione del Regno sociale di Cristo. Come ideologia ufficiale del movimento politico carlista, sopravvive fino alla metà del secolo XX, diventando una delle famiglie politiche all’interno del regime franchista. Tra i suoi teorici spiccano Juan Donoso Cortés (1809-1853), Juan Vázquez de Mella (1861-1928) e Francisco Elías de Tejada (1917-1978). La terza stagione del tradizionalismo cattolico corrisponde alla reazione contro il Concilio Vaticano II, e la formazione di un ampio numero di movimenti e strategie: dal conclavismo edal sedevacantismo fino alla FSSPX e ai tradizionalisti rimasti in comunione con la Chiesa. Il minimo comun denominatore sta nel rifiutare valore dottrinale al Concilio, al più accettato come pastorale.

primordiale e universale dietro a tutte le religioni, una sophia perennis, raggiungibile mediante l’intuizione metafisica, che si manifesta nel corso della Storia in una varietà di tradizioni spirituali e religiose, ciascuna delle quali può dunque condurre alla verità.

Il termine “tradizionalismo” però designa un ulteriore fenomeno filosofico-politico sorto in reazione alla Modernità. La cosiddetta scuola tradizionalista o perennialismo raccoglie una serie di autori del XX secolo – in particolare filosofi ed esoteristi – come René Guénon (18861951), Ananda Coomaraswamy (1877-1947), Frithjof Schuon (1907-1998), Titus Burckhardt (1908-1984) e Julius Evola (18981974). Secondo questa scuola vi è un’unica Verità trascendente

Infatti, il perennialismo favorisce e promuove lo studio delle tradizioni spirituali e religiose, sia essoteriche che esoteriche – il che costituisce un’ottima base per un dialogo maturo e profondo tra le religioni e le civiltà. Inoltre, questo studio avviene sempre tenendo presente le differenze esterne, ma al tempo stesso avendo a riferimento una Tradizione unitaria e trascendente, presente in tutte queste forme religiose. Si pensi, ad esempio, alle somiglianze nelle

L’ecumenismo cattolico, a livello teorico, non sarebbe compatibile con alcuno dei due tradizionalismi, visto che il primo rifiuta ideologicamente l’ecumenismo (senza comprenderne il significato effettivo) e il secondo è, de facto, indifferentista. Queste due tendenze sono entrambe sbagliate, alla luce del Magistero cattolico (cfr. es. la presentazione del card. Ratzinger alla Dominus Iesus), e tuttavia, all’atto pratico, il tradizionalismo, specialmente quello perennialista, può contribuire al dialogo ecumenico.


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tradizioni escatologiche, relative alla Seconda Venuta di Cristo (cristianesimo e islam), al Messia (giudaismo), a Kalki (induismo), a Maitreya (buddismo), ecc. La differenza con lo studio comparativo delle religioni sta nel fatto che in questo caso si ammette un’unità di fondo. Quest’operazione è della massima importanza non solo sul piano religioso, ma anche su quello giuridico. Infatti, individuando e riconoscendo gli stessi contenuti nelle più disparate culture e civiltà, è possibile porre le basi per un diritto internazionale veramente naturale, e non imposto dall’alto arbitrariamente, come vorrebbero il giuspositivismo o lo pseudo-giusnaturalismo dei diritti umani. Un esempio lampante è il riconoscimento della famiglia come cellula fondamentale della società, tema di particolare importanza in questi tempi di individualismo imperante e di dissoluzione dei legami sociali. Su questo fondamento, si possono stabilire alleanze e cooperazioni interculturali e internazionali in difesa del bene comune. Dall’altra parte, non dobbiamo scordare il vizio sostanziale di questa visione. Infatti, il CVII afferma che «questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il

compito di diffonderla tra tutti gli uomini» (Dignitatis Humanae), al di là degli aspetti positivi (“semi di verità”) che possono essere riconosciuti nelle altre religioni (cfr. Dominus Iesus). Qui dunque rientra in gioco il tradizionalismo cattolico, inteso come attaccamento alla Tradizione della Chiesa, il quale ci ammonisce e ci ricorda chi siamo e da dove veniamo. Del resto, solo chi ha un’identità forte può confrontarsi con gli altri in maniera proficua. Per i motivi sopraesposti, perciò, mi pare che il tradizionalismo – o meglio i tradizionalismi – non sia affatto un ostacolo al dialogo ecumenico tra le chiese cristiane (almeno con quelle che riconoscono un valore alla tradizione) e al dialogo inter-religioso. Ad essi si deve anzi la conoscenza della propria tradizione e delle proprie radici, e al tempo stesso la consapevolezza che le altre religioni sono comunque degne di stima, in quanto condividono parte della stessa Verità. E proprio sulla base di questa religione naturale comune a tutte le tradizioni è possibile per un cristiano cattolico incontrare chi non è stato illuminato dalla Rivelazione evangelica.

“la conoscenza della propria tradizione e la consapevolezza che le altre religioni sono comunque degne di stima”


42 Nipoti di Maritain

Tradizione, vita dello Spirito Santo nella Chiesa di Vincenzo Romano

“tradizione è un concetto strettamente legato all’evento della Resurrezione e della Pentecoste”

A dieci anni dalla promulgazione del motu proprio “Summorum Pontificum cura” – e nel V centenario della Riforma luterana – il concetto di Tradizione è tornato prepotentemente in auge, venendo spesso ridotto a tradizionalismo. Come invece ci ricorda S. Bulgakov: «l’esistenza della Tradizione deriva dall’identità della Chiesa e dall’unità dello Spirito che vive in essa». Riflettendo seriamente su questa frase siamo già portati al cuore della tesi che vorrei qui proporre: la Tradizione, per come è intesa nella Chiesa cattolica – ma oserei dire anche nel cristianesimo tutto – è un concetto strettamente legato all’evento della Resurrezione e della Pentecoste. Senza Pasqua e Pentecoste, non si da Tradizione. Se intesa

in questo senso essa, non è un ostacolo al cammino ecumenico, anzi lo aiuta. San Giovanni XXIII ci ricorda che «il cristianesimo o è tradizionale o non è». Spero comprendiate, allora, il dispiacere che personalmente nutro quando vedo questo concetto così radicale, semplificato e ridotto a tradizionalismo, quasi fosse una questione di pizzi e merletti. (Mi si voglia qui giustificare anche questa frase: lo stesso mons. Lefebvre, che viene addotto a difensore della Tradizione era contro i tradizionalismi: quando vide due seminaristi di Econe che si vantavano delle frange della loro talare, prese una forbice e gliele tagliò)… Nel periodo pre e post conciliare


43 si è assistiti ad un recupero del principio di tradizione che esigeva un ritorno alle radici, alle fonti (Padri e Bibbia): un recupero della memoria che ha fatto percepire l’evento del Concilio Vaticano II non come un istante a sé, ma inserito in quel perenne flusso che è la storia della Chiesa. Oggi, invece di vivere la novella Pentecoste auspicata dal b. Paolo VI, assistiamo, in specie nel campo della pastorale, ad un prevalere della spontaneità soggettiva che, concentrandosi sull’istante e, ragionando soprattutto in termini di reazione, corre il rischio di seguire più le logiche del marketing, che non quelle della testimonianza evangelica. Che cos’è allora la Tradizione? Filologicamente il vocabolo deriva dal latino tradere che significa “consegnare” nel senso di “affidare in cura”, ma anche “mettere a disposizione”, “insegnare”, “esporre”. La Chiesa, fin dalle sue origini, ha sempre cercato di mantenere uniti questi diversi significati intendendo la Tradizione non come «pura conservazione e riproduzione meccanica del passato»1 quanto come una comunicazione visibile e attuale di grazia e santificazione che anima la vita dei credenti. Pensate ai riti della Traditio e della Redditio, che accompagnavano i catecumeni nell’ultimo periodo della loro preparazione al Battesimo e li rendevano atti a ricevere il sacramento dell’illuminazione. La

consegna del Simbolo di fede non era solo un rito formale: il Vescovo, depositario della Fede apostolica, consegnando ai battezzandi il simbolo della Fede li faceva entrare in quella dinamica di vita che essi dovevano assorbire impegnandosi a con-vertire la loro vita iniziando già con la fatica di imparare a memoria il Simbolo che era loro donato. Il Battesimo era inteso allora come sacramento originario e fondante non solo le diverse vocazioni – insegnamento forse ancora alquanto dimenticato pur se richiamato dal Vaticano II – ma anche come quel sacramento che, consegnando – affidando il simbolo – inseriva nella vita di Cristo e della Chiesa. Aggregazione che ha permesso il fiorire di figure quali Agostino, Ambrogio, Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein). Per sua natura allora la Tradizione ci rimanda all’evento della Resurrezione e della Pentecoste: «Potremmo dunque definire la nozione pura di Tradizione dicendo che è la vita dello Spirito Santo nella Chiesa, la quale comunica ad ogni membro del corpo di Cristo la facoltà di intendere, di ricevere, di conoscere la verità nella luce che le è propria e non secondo la luce naturale della ragione umana»2. Questa definizione, se da una parte ci fa ampliare gli orizzonti kath’olon (secondo il tutto), ci responsabilizza anche rispetto


44 Nipoti di Maritain

“ogni tradizione è valida solo nella misura in cui fa progredire la cristificazione dei soggetti”

quella perenne tensione tra un ideale di purezza (autenticità per cui non bisogna perdere il depositum fidei) e un ideale di pienezza (cioè di rilevanza e di sviluppo per l’oggi)3, tra fedeltà e creatività. Questa tensione non è esente da errori: pensiamo ancora alla visione che spesso serpeggia in occidente della Chiesa orientale letta come chiusa in un mero ritualismo formale causato dalla forte sottolineatura dell’ideale di purezza, o al lato opposto, dell’attuale periodo che alcuni definiscono come postconfessionale in cui si sente e si fugge il legame della istituzione.

zione dello Spirito Santo vivente nella Chiesa che si rischia maggiormente di trovarsi alla fine al di fuori del corpo di Cristo. Non bisogna credere che solo l’atteggiamento conservatore sia salutare, né che gli eretici fossero sempre dei novatori»5.

In questo vaglio continuo che siamo chiamati a operare, il discernimento pastorale ci chiede di giudicare continuamente la storia nella luce dello Spirito Santo. Il criterio cristologico e pneumatologico non possono mai essere divisi: «Il Verbo è la forma, per così dire, il canone della santificazione, condiziona formale per la ricezione dello Spirito Santo»4. La Tradizione – ogni tradizione – è allora valida solo nella misura in cui fa progredire la cristificazione dei soggetti. «Non si rimane nella Tradizione per una certa inerzia storica, custodendo come una Tradizione ricevuta da Padri tutto quel che, per abitudine, lusinga una certa sensibilità devota. Al contrario, è proprio sostituendo un tal genere di “tradizioni” alla Tradi-

1 Y. CONGAR, La Tradizione e la vita della Chiesa, Milano 2003, p.116. 2 V. LOSSKY, La Tradizione e le tradizioni, in A immagine e somiglianza, EDB 1999, p.190. 3 Y. CONGAR, cit., p.160. 4 V. LOSSKY, idem, p.191. 5 Ibidem, p.193.


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L’essenza fluida che garantisce coerenza alle nostre vite di Andrea Bosio

“la Chiesa cambia i linguaggi nel tempo e nella storia: questi cambiamenti sono essi stessi Tradizione”

Identificare la Tradizione richiede l’uso della teologia e della scienza storica. Non sono un teologo e non intendo pormi in questa veste; essendo però uno storico, ritengo che la riflessione identitaria del concetto stesso di tradizione meriti un approfondimento in questa luce. Non è importante ora tanto valutare come l’idea di Tradizione si sia sviluppata nella Chiesa in passato o delineare come si stia sviluppando guardando al futuro, quanto mettere il codice comunicativo stesso della tradizionalità alla prova della storia e de-

gli sviluppi pratici della Chiesa e dei cristiani in questi ventuno secoli. Dobbiamo chiederci cosa intendiamo per Tradizione, perché sia il senso comune – che ha un suo valore ermeneutico ed epistemologico – sia la scienza storica, ci pongono innanzi a profonde mutazioni dei fenomeni religiosi, delle credenze, degli usi e pure delle opzioni dogmatiche lungo tutto il cammino della Chiesa. La Chiesa cambia i linguaggi e approfondisce i suoi contenuti


46 Nipoti di Maritain

“certe differenze non siano distanze teologiche reali, ma risposte umane differenti a problemi diversi eppure importantissimi”

nel tempo e nella storia: questi cambiamenti e questi approfondimenti sono essi stessi Tradizione, perché se scegliamo di espellerli da questa categoria, con loro escono dal portone anche il papato – con la sua infallibilità – l’immacolata concezione, la liturgia tridentina, i sacramenti, il canone biblico e molto di ciò che oggi siamo abituati a pensare come cattolicesimo presente e storico. La Tradizione, insomma, si costruisce lungo il cammino e, più che un monolite intoccabile, è un’essenza fluida che garantisce coerenza alla fede e alla cristianità: pur modificando alcuni parametri, questi sono, di volta in volta, esteriori, secondari, comunicativi o altro, e non toccano l’essenza della cristianità. Sarebbe sicuramente più importante discutere di una Tradizione cristiana e delle tradizioni cattoliche che fissare l’intero discorso e il dialogo con le altre Chiese a partire da una Tradizione cattolica che, per come è intesa solitamente, anche da teologi e ministri ordinati, non esiste neppure e mai è esistita. I recenti dogmi mariani sono un esempio lampante: parimenti combattuti e sostenuti da ordini religiosi (cattolici) e santi (cattolici) per secoli, si sono imposti solo di recente. Una visione di Tradizione come “ciò che sempre e ovunque si è creduto in quel modo” non ha la possibilità di darne ragione. Sul piano

delle forme, invece, le differenze liturgiche nello spazio e nel tempo impediscono di vedere nella sola liturgia tridentina l’unica idonea alla missione della Chiesa. La forma esteriore e sociale del matrimonio è un elemento solitamente dato per scontato: convivenza dopo le nozze, nessun rapporto sessuale fino a quel giorno, fidanzamento pubblico, celebrazione nelle mani di un ministro ordinato. Per molti secoli questo non è stato universalmente vero: in alcune aree d’Italia ancora nel XII secolo il matrimonio era celebrato religiosamente dopo la nascita del primo figlio, spesso insieme al suo battesimo; un ricordo forse di usanze germaniche o gote. Certi fenomeni sono venuti meno solo dopo il Concilio di Trento. Bisogna anche chiarire che pensare come unica vera forma liturgica cattolica quella tridentina significa ritenere non valida non tanto la riforma novecentesca, ma tutte le celebrazioni dei primi sedici secoli, quindi comunicare a tutti un “fino al 1560 ci siamo sbagliati, la Messa si dice solo così”, che non sarebbe poi diverso dal ritrattare altri temi oggi dibattuti, sui quali molti tradizionalisti pongono un veto all’insegna di “se la Chiesa ammette anche un solo errore, nulla vieta che sbagli anche su altro, quindi non può dire di avere nessuna verità”. Il Concilio Vaticano II, invece, ci ricorda che è necessario “conservare la sana tradizione e aprire nondimeno


47 la via ad un legittimo progresso” (Sacrosanctum Concilium 23). Questa differente recezione ermeneutica del tema Tradizione può sembrare fuorviante rispetto alla cattolicità, ma lo è solo nella misura in cui è stato fuorviante sottoporre la Scrittura al vaglio degli studi storico-critici. L’analisi storica e sociale delle forme e dei contenuti religiosi non mette in secondo piano l’aspetto della fede e della Rivelazione: aiuta invece a capire cosa è fede cristiana e cosa è stratificazione sociale, concorrendo al fenomeno della crescente conoscenza della Rivelazione che la Tradizione stessa ritiene importante. L’attuale dibattito sulle diacone, per esempio, non può che giovare da una attenta analisi storica: sia perché le fonti meritano un trattamento specialistico prima di un vaglio teologico, sia perché la stessa sopravvivenza o meno delle fonti parla almeno tanto quanto le fonti stesse di questo argomento. Questo approccio avrebbe anche un effetto secondario in campo ecumenico: aiuterebbe a riorientare il dialogo con le altre Chiese, comprendendo come certe differenze non siano distanze teologiche reali, ma risposte umane differenti a problemi – geografici, storici, sociali, politici – diversi eppure importantissimi. Lavorare a un’unica Tradizione cristiana metterebbe in contrasto i crismi della professione di fede, perché manderebbe a coz-

zare l’unicità della Chiesa con la sua cattolicità: l’universalità intesa dai Padri non era un’uniformità piatta, ma il riconoscersi in Cristo ciascuno con le proprie vite e ciascuno con i propri modi di manifestarlo.

“l’aggettivo cattolico non è esclusivo della Chiesa di Roma”


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Rubriche


50 Nipoti di Maritain

intervista

Stefanie Knauss e la teologia queer che ci sorprende a cura di Niccolò Bonetti

Professoressa Knauss, può aiutarci a capire che cosa si intende per “teologia queer” e in che modo essa può cambiare il nostro modo di essere cristiani e la nostra stessa vita di fede? Esiste una spiritualità queer? Come cambia la nostra vita affettiva se assumiamo una prospettiva cristiana queer? La parola “queer” ha significati diversi che ci possono aiutare a capire cosa s’intende con l’espressione “teologia queer”. Da un lato, è una sorta di nome collettivo che descrive persone gay, lesbiche, bisessuali e trans; in questo senso la teologia queer è una teologia che emerge dalle

esperienze delle persone LGBTQ e riflette su Dio da questa prospettiva. In un’altro senso, “queer” significa trasgressione e critica sociale, e allora la teologia queer è una teologia critica che scopre i modi nei quali la teologia cristiana e la chiesa hanno legittimato (e lo fanno ancora) sistemi e ideologie di oppressione, discriminazione e marginalizzazione. E, per terzo, “queer” ingloba una trasversalità teoretica o concettuale: la critica di un modo di pensare binario e il tentativo di superare le categorie dualistiche – come eterosessuale/omosessuale, maschio/femmina, sacro/profano – e le gerarchie che costruiamo


51 attraverso esse. Ovviamente, questi tre significati di “queer” e di teologia queer sono legati tra loro, ma soprattutto nel secondo e nel terzo significato la teologia queer rappresenta un approccio teologico che va oltre la communità LGBTQ perchè ha un impatto fondamentale sul modo di fare teologia, con la sua insistenza su un’auto-critica delle conseguenze politiche e sociali delle nostre riflessioni su Dio e la sfida epistemologica di riflettere su come il nostro modo di pensare in categorie binarie condiziona le nostre possibilità di conoscere Dio. In questo senso, la teologia queer ci chiama ad essere cauti/e e autocritici/e nel nostro fare teologia, e a riconoscere, sempre di nuovo, che quel che diciamo di Dio è sempre solo una parziale e contingente approssimazione alla verità di Dio. Patrick Cheng, teologo queer americano, descrive Dio come l’amore radicale (così s’intitola anche la sua introduzione alla teologia queer, uscita nel 2011) e quindi vede anche noi come chiamati/e a vivere questo amore nei nostri incontri con altre persone e nel nostro fare teologia. La trasversalità della teologia queer, sia in senso sociale che in senso teoretico, può anche, credo, essere alla base di una spiritualità queer, se vogliamo chiamarla così: una spiritualità di apertura, dell’essere sorpresi/e dalla sempre nuova presenza di Dio, e della libertà di trovare Dio in posti dove non

l’aspettiamo. Soprattutto, la spiritualità queer è una spiritualità che include tutte le dimensioni del nostro essere e della nostra vita, anche quelle, come la sessualità, che sono sempre state viste proprio come l’opposto del sacro e dello spirituale. Marcella Althaus-Reid, una delle pioniere della teologia queer, per esempio, scrive di trovare Dio in una sala da ballo, tra le donne povere sulle strade di Buenos Aires, o nell’attrazione sessuale che sfida le norme sociali. Come cambia la nostra visione di Gesù se adottiamo una prospettiva queer? In che modo la cristologia tradizionale è arricchita o modificata da questa corrente teologica? La teologia queer ci aiuta a vedere soprattutto due aspetti di Gesù che non sono estranei alla cristologia tradizionale, ma che sono stati un po’ sottovalutati nella storia, visto il coinvolgimento del cristianesimo con poteri sociali e politici e sotto l’impatto razionalista dell’illuminismo. Il primo è il ritorno a una comprensione di Gesù come una persona che nel suo messaggio di amore inclusivo trasgredisce norme sociali e che invita a fare altrettanto. Anche Gesù ha dovuto imparare il senso pieno di questo messaggio di inclusione e di superamento di pregiudizi, discriminazioni e marginalizzazioni – si veda il suo incontro con la donna siro-fenicia (Mt 15,21-28) – e così anche noi dob-

“quel che diciamo di Dio è sempre solo una parziale e contingente approssimazione alla verità”


52 Nipoti di Maritain

“nella sua persona viene meno la divisione tra il divino e l’umano”

“un Dio che sorprende e va sempre oltre”

biamo provare a capire nuovamente il significato e la sfida sociale della cristologia. L’altro aspetto importante è il fatto che la teologia queer ci aiuta a vedere che Gesù Cristo, lui stesso, è queer e che perciò, tutta l’impresa teologica e cristiana è in un certo senso queer. E non intendo l’orientamento sessuale di Gesù, sul quale possiamo speculare – e forse il fatto che la Bibbia non lo dica può dirci molto –, ma il punto è che nella sua persona viene meno la divisione tra il divino e l’umano e quindi anche altri binarismi vengono superati: tra l’immateriale e il materiale, tra sacro e profano, tra corpo e spirito, tra uomo e donna. La cristologia queer ci aiuta allora a riscoprire correnti un po’ nascoste e marginali della tradizione cristiana – soprattutto quella mistica – e i saggi raccolti nel volume “Queer Theology”, curato da Gerard Loughlin, ne offrono alcuni esempi molto belli. Quale immagine di Dio emerge nella teologia queer? In questa prospettiva Dio è ordine e stabilità o sorpresa e trasgressione? Visto che la teologia queer è proprio l’opposto dell’ordine stabile, l’immagine di Dio che ne emerge non può che essere quella di un Dio che sorprende e va sempre oltre di quello che ci immaginiamo. Nella tradizione cristiana e anche nella teologia abbiamo forse contribuito troppo a farci un’immagine molto

limitata di Dio che sostiene i nostri ideali sociali (il Dio maschio, bianco, regale...) e quindi è arrivato il tempo di abbandonare questi tentativi idolatrici per chiederci cosa significhino queste immagini e a che fine servano. La teologia queer ci invita ad essere più immaginativi/e nel nostro pensare Dio, perché è, comunque, sempre più e oltre ogni immagine. Un modo più tradizionale – ma ovviamente centrale per il cristianesimo – di pensare a Dio che possiamo riscoprire attraverso la teologia queer è in particolare la Trinità, che oltrepassa le divisioni binarie, che può pensare relazione, dinamicità e movimento nell’essere di Dio, che riesce a unire differenza e unità, e che immagina un amore divino interno che si diffonde illimitatamente nel mondo. La Trinità non è facile da pensare e forse anche per questo è un po’ fuori moda (Karl Rahner diceva che per la maggioranza delle persone cristiane probabilmente niente cambierebbe nella loro fede o spiritualità senza la Trinità) ma proprio per tale motivo ci sfida ad avvicinarci a Dio sapendo che non possiamo mai esaurire il mistero di ciò che è.


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laudate hominem

Boccaccio teologo di Christian A. Polli Quando si parla di Giovanni Boccaccio (1313-1375) generalmente viene subito in mente il termine “boccaccesco”: un attributo noto negli ambienti letterari quale simbolo di indecenza e immoralità; poi, con la nascita del cinema, divenne indissolubilmente legato ad un genere basso e volgare. Nel corso del ‘900, in ambito accademico, il nome del Certaldese fu però rivalutato – almeno negli ambienti colti – da due studiosi d’eccezione: Vittore Branca per il Boccaccio del Decameron, e Giuseppe Billanovich per il Boccaccio umanista. Mai, però, il Nostro è stato collegato alla disciplina teologica; e mai è stato particolarmente amato dalle gerarchie ecclesiastiche, tanto che il Decameron e altri suoi scritti furono posti nell’Indice dei libri proibiti all’indomani dell’assise tridentino. Solo l’intervento filologico di Vincen-

zo Borghini, per quanto avesse emendato il capolavoro boccacciano dei suoi tratti “immorali”, lo salvò dalla distruzione totale. Quando, sui banchi universitari e nella solitudine privata, mi misi a rileggere attentamente la produzione boccacciana, mi sono accorto che essa parla sempre di Dio, seppur secondo schemi e vie peculiari al Nostro e non sempre facilmente indecifrabili. Boccaccio, infatti, non esalterà Dio come fece il suo amato Dante in quella grande architettura aristotelico-tomista quale fu la Divina Commedia, né tanto meno con la raffinatezza lessicale e l’aristocraticismo agostiniano proprio del suo “maestro” Petrarca. Con l’arma dell’ironia ora, e con una grave humilitas poi, il Certaldese porta Dio nei “tabù” delle esperienze umane, mostrandone l’azione provvidenziale nelle pe-


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“porta Dio nei tabù delle esperienze umane, mostrandone l’azione provvidenziale nelle periferie dell’esistenza”

riferie dell’esistenza. Fu la terribile epidemia di peste bubbonica del 1348 – la famosa “peste nera” – che gli portò via il padre, la matrigna e alcuni dei suoi amici più cari, che spinse Boccaccio, per esempio, ad innalzare quel supremo inno alla carità cristiana nell’incipit del proemio del suo Decameron, inno reso ancor più sublime, nella sua nuda semplicità e umiltà, se situato in quel terribile frangente esistenziale: «Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli». L’azione teologico-narrativa boccacciana non si limita al proemio introduttivo. Emerge, difatti, già pienamente nell’economia della novella d’apertura del Decameron, avente per oggetto l’irriverente e sacrilega confessione attuata dal protagonista, ser Cepparello/Ciappelletto da Prato. Questi, mentre si trova in Francia per aiutare due mercanti/usurai, si ammala gravemente. I due uomini, già malvisti dalla popolazione locale per la loro condotta di vita, temono di subire delle ripercussioni, qualora Ciappelletto fosse venuto a mancare senza ricevere i sacramenti. È in questa situazione che l’astu-

to mercante – che Boccaccio si premura di dipingere come un vero e proprio “anticristo”, per i sette peccati capitali che, deliberatamente, compì in vita – trova l’espediente della falsa confessione: «Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà», dice Ciappelletto ai due compari. Il patetico dialogo che il nostro protagonista intesse col santo frate fatto chiamare è intriso di una profonda ironia antitetica: «Ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: “Padre Mio, la mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta”»; o ancora, in riferimento al peccato di gola, un “candido” Ciappelletto dichiara che: «ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua» quando invece, all’inizio della novella, Boccaccio riporta che era «gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia». Gli esempi potrebbero continuare, ma bastano questi due per delineare quella falsità ricercata dal protagonista che giunge a suscitare ironia e divertimento tanto nel lettore, quanto nei due usurai che, «udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere…che quasi scoppiavano». Ma l’ignaro frate non poteva essere certo a conoscenza di tutto ciò e, davanti a così tanta ostentata (e sacrilega) san-


55 tità, non poté che rimanere stupefatto e ammirato. Non appena poi seppe della morte di Ciappelletto, convinse i suoi confratelli della santità del trapassato: dopo aver organizzato una solenne processione dove «tutti vestiti coì camisci e coì pieviali, con li libri in mano e con le croci innanzi», trasportarono la salma nella loro chiesa, elevando quel che fu un gran peccatore ad un santo. Il Boccaccio, a questo punto, rincara la dose sacrilega con i miracoli che i fedeli ottenevano impetrando la Grazia attraverso Ciappelletto, al che «il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo», rendendo di fatto ser Ciappelletto santo. La falsa confessione, l’impudenza con cui questo bizzarro personaggio trascorse i suoi giorni e la divertita accondiscendenza del Boccaccio suscitarono l’ira del clero riformista e conservatore post-tridentino, che vi vide una grave offesa alla morale cristiana. I padri ecclesiali, però, non colsero la sottilissima ed estremamente moderna conclusione che incorona questa “blasfema” novella: l’interiorità e la sincerità del fedele che si accosta, nel profondo dell’animo, ad intessere il dialogo con il santo, anche se questi è indegno. In un’epoca in cui era pratica quotidiana il mercimonio del sacro – si pensi al commercio delle reliquie – e la deformazione popolare del concetto di santità – non più derivante da Dio, ma elargita

direttamente dal santo invocato – Boccaccio esalta al contrario sia la genuinità devozionale del credente (preludio anticipatore della devotio moderna incarnata dall’umanesimo); sia l’azione gratuita della Grazia che si irradia direttamente da Dio, visto in questo passo quale l’autentico scrutatore del cuore umano: «E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo». Si può concludere, a mio modesto avviso, che la ripetuta negatività di Cepparello emersa nella novella è servita a dare maggior risalto all’effettivo “teocentrismo” soteriologico e all’importanza di una fede sincera che Boccaccio intese lasciare ai lettori di ogni epoca: compresa in alcune epoche, e rifiutata superficialmente in altre.

“Boccaccio esalta sia la genuinità devozionale del credente sia l’azione gratuita della Grazia”


56 Nipoti di Maritain

rodafà

In tre è meglio di Stefano Sodaro

“il potere detesta la diversità. Aborrisce i colori e raccomanda l’uso continuato del bianco e nero”

Il 21 maggio 1937, presso il monastero di Debre Libanos, per ordine del Viceré di Etiopia, il Maresciallo Rodolfo Graziani, venivano massacrati – secondo le stime più realistiche, benché purtroppo ancora approssimative – 2000 tra monaci e fedeli della Chiesa Ortodossa Etiopica. TV2000 vi ha dedicato, la sera del 22 maggio 2016, un bellissimo documentario di Lucio Brunelli, segno di un impegno di approfondimento civile ed etico prima che storiografico. Ma di un simile evento pressoché nulla si sa in Italia. Non si tratta neppure di una rimozione, si tratta di una zona di buio

assoluto, di una voluta oscurità intorno a precise responsabilità culturali che portarono a quell’eccidio. Il ragionamento, infatti, non può circoscriversi in spazi di analisi politica, per quanto storicamente datata, ma deve farsi carico di un esame diverso. La “liquidazione” – parola contenuta nel telegramma di Graziani mostrato dal documentario - del luogo sacro di una fede cristiana diversa era segno potente, ed assai eloquente, di una necessaria eliminazione dell’Altro interno al proprio stesso sé, al proprio stesso mondo, al proprio stesso riferimento fondativo di marca


57 religiosa. L’eliminazione veniva ordinata ed eseguita nei confronti di cristiani da parte del rappresentante di un regime che come cristianissimo si accreditava e come tale necessitava di essere riconosciuto. L’unico vero regime cristiano anzi. Ma quel cristianesimo diverso era intollerabile, assurdo persino, fuori da ogni coerenza razionale. Bisognava distruggere quei canti, quei paramenti, quelle prostrazioni, quelle croci di mille forme e fatture diverse, quelle danze, quei tamburi, quella femminilità matriarcale allo stato diffuso. Furono risparmiati 30 seminaristi, quasi giovanetti da rieducare. Vediamo di capire bene. L’ordine impartito dal Viceré al Generale Pietro Maletti non era affatto un ordine illegittimo. Era un ordine conforme ai poteri di Graziani. E nessuna obiezione di coscienza era, al tempo, minimamente contemplata e meno che mai ammessa o semplicemente tollerata. Gli ordini non si discutono, si eseguono per appunto. Il potere si regge su ordini da vedere tradotti in fatti. Ed il potere detesta la diversità.

Aborrisce i colori e raccomanda l’uso continuato del bianco e nero. Il documentario di Brunelli bene evidenzia la policromia delle chiese ortodosse etiopiche. I tappeti, le tende. Il ritmo di canti avvolgenti che portano quasi ad uno stato di ipnosi, di sensazione estatica. Che esista, dentro il proprio mondo religioso, un altro modo di starci, di testimoniarlo, di vivere è constatazione di semplice realismo che proprio per questo dev’essere silenziata sino al tentativo di estirpare del tutto quella stessa diversità. C’è il bravo cristiano – equivalente ancor oggi, secondo molti, a cattolico - e c’è il cattivo cristiano – corrispondente ancor oggi, secondo i medesimi molti, a persona di scarsa devozione e pratica. Ma che ci sia un altro modo di essere cristiani – molto devoti, molto praticanti, eppure completamente differenti – non risulta ammissibile. Il politico, l’uomo di governo, è ad esempio orami diventato sinonimo di uomo che fa, che produce, che sforna continue riforme, non certo che cura uno spazio di distanza dal proprio eccedente presenzialismo. In questo senso il Presidente Mattarella è certo un’eccezione che suscita ammirazione.


58 Nipoti di Maritain Perché il potente non può prendere tempo e ascoltare, non può soprattutto immaginare che vi siano contropoteri o altri poteri che meritino di essere indagati ed interpellati. Velocità occorre – trenta giorni, sessanta giorni, sei mesi, un mese -, efficienza, produzione, performance, basta discussione, basta complessità, basta interrogativi e dubbi. Bisogna essere sempre certi di tutto. E anche qui una dimensione terza svanisce. Il linguaggio è univoco, non sono possibili terzi linguaggi.

“un Dio che è tre scompagina tanta brama di tranquillizzante disciplinamento sociale e culturale”

I valori non negoziabili, fatti accomodare fuori dal portone, rischiano di tornar dentro dalla finestra. Afferma Ernesto Balducci per la festa della Trinità: «Chi potrà mai descrivere il cerchio dentro cui tutto è iscritto? L’universalità non è un punto raggiungibile dalla nostra intelligenza, ci circonda come l’oceano insondabile delle antiche cartografie, ma non così insondabile da non potervi riconoscere una sapienza amorosa. Quando io dico: «Credo nel Padre, e dico «In nome del Padre», se non compio un capovolgimento del giusto rapporto, se non annullo le dimensioni della sapienza originaria dentro il fenomeno Gesù Cristo secondo la

carne, ma faccio l’opposto, cioè se leggo Gesù Cristo secondo questa dimensione originaria, allora io so – posso dirlo in questo senso – che tutti gli uomini sono cristiani e tutte le cose hanno una origine sapienziale. Noi non siamo una setta che aspira a diventare il tutto, ma siamo dentro il tutto. Devo liberarmi dalla concentrazione in Cristo di tutti i valori: questo che sembra atto di fede in realtà è predisposizione all’aggressività verso l’uomo. Tutti gli uomini respirano in questa sapienza perché la delizia di questa sapienza è stare con i figli degli uomini ovunque, anche presso quegli uomini il cui spettacolo mi ispira subito ripugnanza, tanto sono diversi da me. Nessun uomo è «diverso» per questa sapienza». (E. BALDUCCI, Gli ultimi tempi. Commento alla liturgia della Parola, Vol. 3/Anno C, 1991, p. 206) La cultura che rifiuta la diversità interna – e non soltanto, e semplicemente, quella esterna – è la cultura che ammette la coppia, ma che non può ammettere il terzo, una terza presenza. Una coppia a tre è un assurdo logico che quella cultura non può consentire che nemmeno nasca, che nemmeno si affacci sulla scena del mondo. Un maestoso apparato culturale, che ci segna sin nel più profondo, attinge costantemente alla biunivocità del principio di non contraddizione.


59 Se è vero, non può essere falso. Se è giusto, non può essere illecito. Se è maschio, non può essere femmina. Se è un figlio, non può essere un padre. Se è una madre, non può essere un’innamorata. Se è un prete, non può essere una donna. Se sta bene, non può essere ammalato. Se c’è una legge, non vi può essere un’obiezione ad essa. Sé credente, non può essere dubbioso. Se è uno studente, non può essere un docente.

disciplinamento sociale e culturale. Il massacro di Debre Libanos è quanto di più antitrinitario si possa immaginare e forse proprio per questo non se ne è mai parlato. È stato il suicidio omicida di un’ideologia religiosa. Il sacrificio di vite umane per soddisfare una golosità di potere che rincorreva il sacro come necessario cemento della propria autorevolezza. Si tratta di vedere se noi oggi ci posizioniamo molto lontani o piuttosto prossimi a quei medesimi presupposti culturali. Il numero tre dice di un’attitudine a stare nel sistema senza essere del sistema che non è proprio una passeggiata in pianura tra viali alberati.

Abbiamo valori che saltano fuori come funghi da tutte le parti.

Vi è una fatica lacerante del tre, del terzo, che le nostre logiche comuni non riescono ad assumere.

Verità continuamente necessitanti di essere affermate e consolidate tramite norme, tramite leggi, tramite provvedimenti.

La Trinità è impegnativa. Perché è diversa. È altra.

Abbiamo bisogno di disciplina, dove c’è uno che comanda e uno che obbedisce. Tertium non datur. Altri spazi non ci sono. Invece la dimensione cristiana di un Dio che è tre scompagina tanta brama di tranquillizzante

Eppure dentro tanta fatica, dentro la stessa contraddizione paurosa di una storia tragica, compaiono tratti di liberazione. Di novità. Tratti inediti di una speranza che rinasce, che risorge, che non svanisce, che si attacca alle pareti scoscese del nostro essere.


60 Nipoti di Maritain Il massacro di Debre Libanos e la Trinità. La legge e la Trinità. Noi stessi e la Trinità. Assaporare quella diversità alquanto anarchica che ci abita e non cessare di mettere in discussione chi, forte del potere, crede per questo di possedere pure la verità. Che è invece debole, nuda, inerme, silenziosa, profumata, sempre terza. Ma bellissima. Buona.

Pubblicato nel numero 368, del 22 maggio 2016 de “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”


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a ben vedere

Filosofi, ma a fatti: ode ai semplici di Emanuele Pili

(CIPRIANO, De bono patientiae, c. 3).

la Chiesa. La sezione è dedicata, appunto, alle tentazioni che, più o meno nascoste, si possono annidare dietro i nostri atteggiamenti nei riguardi della Chiesa e della sua storia.

Parlare della Chiesa e del significato di Tradizione mi ha permesso di rimettere mano ad un classico del Novecento: la Meditazione sulla Chiesa di Henri de Lubac (Jaca Book, Milano 1979). Il testo, dalla sbalorditiva attualità, raccoglie una serie di interventi di accessibile lettura, tenuti dal celebre teologo agli inizi degli anni ‘50. Essendo ricchissima dal punto di vista del contenuto, mi sono concentrato soprattutto su una parte di un capitolo di quest’opera: Le nostre tentazioni nei confronti del-

Tra le altre, mi soffermo su quella che de Lubac considera la tentazione «più grave di tutte» (p.210). Egli parte dal constatare – come dargli torto? – che la Chiesa, nel suo complesso, non è certo un covo di eccelsi scienziati o raffinati intellettuali, e nemmeno un cenacolo di grandi spirituali. Ad essere onesti, prosegue de Lubac, essa è piena di storpi, di deformi… di quelli che oggi potremmo definire gli “sfigati” e i disadattati di ogni genere, fino a coinvolgere le persone più grezze e dozzinali. Insomma,

«Noi non siamo filosofi a parole, ma a fatti; non diciamo delle grandi cose, ma le viviamo».

“studio e cultura devono potersi inserire nella quotidianità dell’ultimo delle membra della Chiesa”


62 Nipoti di Maritain la Chiesa sembra raccogliere in sé tutto quello che il mondo definirebbe “perdente”, in opposizione al brillante – così si dice – know-how del “vincente”. Ebbene, dice de Lubac, la tentazione più grave che nasce dal vedere questo immenso mare di povertà che costituisce gran parte della Chiesa e della sua Tradizione, consiste nel disprezzare, anche sottilmente, attraverso ragionamenti edificanti, questa realtà, senza riconoscere in essa il compimento dello svuotamento (kenosi) di Dio per gli ultimi. Si cade, insomma, nel giudizio dell’antico filosofo Celso, il quale era disgustato da «questa accozzaglia di gente semplice, priva di mordente spirituale e di cultura» (in Origene, Contra Celsum, III, 44). Chi condivide tale ribrezzo è tentato di non sapere che farsene di una fede che lo accomuna a tutti i miserabili, di fronte ai quali si sente – più o meno consapevolmente – superiore. Egli è nella condizione di chi è convinto delle verità contenute nella plurimillenaria tradizione della Chiesa, ma tende a chiudersi nella ridicola (quanto illusoria) presunzione che possa esistere un individualismo cristiano o un cristianesimo privato: «I pensieri dell’uomo superiore [del “vincente”] non sono altro che uno specchio nel quale egli ammira se stesso e si lascia risucchiare nella vanità; innalzano nel suo cuore un idolo, ed egli, abbracciando quest’idolo, abbraccia il nulla» (p.216).

Certo, questo non significa negare l’importanza dello studio e della cultura, che sono decisivi per la sopravvivenza del cristianesimo, ma capire che essi devono – devono! – potersi inserire nella quotidianità dell’ultimo delle membra della Chiesa. Quella Chiesa nella quale, in fondo, «i cristiani migliori, più vivaci, non si trovano necessariamente e neppure generalmente, tra i sapienti o tra gli abili, tra gli intellettuali o tra i politici; tra le “autorità sociali”. Per conseguenza, la loro voce non risuona nella stampa, ed i loro atti non interessano il pubblico. La loro vita è nascosta agli occhi del mondo, sicché solo tardi ed eccezionalmente alcuni giungono a qualche notorietà, e sempre con il rischio di strane deformazioni… Eppure sono proprio loro che contribuiscono, più di tutti gli altri, ad impedire che la nostra terra sia un inferno» (p.209). Anche per questo, amare la Chiesa e la sua Tradizione significa amare il paradosso per il quale «la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo» (Mt 21,42). Sappiamo ancora farci stupire da questo mistero?


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umanesimo integrale

Maritain e la soluzione federale Editoriale per l’Europa di Piotr Zygulski di Lorenzo Banducci

Cipissedis pora sed et repersped qui ne et moloreped quam rem rehente es ma doluptatium fugiam eaturepe voluptate omnimus alit laccat ut expe volores dit, simen-

Andare oltre i particolarismi terParlare nel 2017 di una FederazioCipissedis et repersped Cipissedis pora sed et repersped ritoriali apparepora unased sfida comne Europea di Stati può sembraqui ne et moloreped quam qui ne et moloreped quam rem plessa, resa ancor più ardua rem re una vera utopia, una speranza es ma doluptatium rehente es ma doluptatium spadroneggiare del pen- fuirrealizzabile e perfino anacroni- fu- dallorehente eaturepe voluptate omnigiam eaturepe voluptate omni- sierogiam unico dell’individualismo stica. L’Europa appare agli occhi alita laccat expe volores mus alitusando laccat ut expe volores che mus tende farci ut considerare del Mondo, le parole di acitaspitam simendebis acitaspitam stessisimendebis come il centro unico et papadit, Francesco, «come un po’ et noi dit, volorum fugiam faces erivolorum efugiam cum faces al quale ruotacum il mondo invecchiata compressa, che eri- intorno bus. bus. e a dimenticare l’altro, chi ci sta tende a sentirsi meno protagoniaccanto, il prossimo. Il nazionasta in un contesto che la guarda Ugitis as et volorempore Ugitis as et volorempore nis eselismo, fenomeno crescente nis nel esespesso con distacco, diffidenza e qui continente, dolorum rectatem assinis qui con dolorum rectatem assinis nostro non è altro talvolta sospetto». Gli occhi quam et in quam et in sembrano nus excesse- che esed il trasferimento su nus scalaexcessecodei esed cittadini europei ces sim voluptatusam sum ces sim voluptatusam sum dusa munitaria di ciò che l’individua-dusa sempre più rivolgersi in modo cum adipersonale. quia verum re, con cum autaiadi quia particolari verum re, con lismo è suaut base inesorabile confini periam, te qui toribusam, autas periam,Stati. te qui toribusam, autas dei propri Si pensi a come sed ent–mo etum quam, ipsandae sedilent momigratoetum quam, Eccoipsandae perché penso e ne sono viene affrontato tema net aut mos abore mi, quibus net aut mos abore mi, quibus convinto – che la eario nelle campagne elettorali dei ea- fermamente rumrivista que velit dus riuscire acietur sit rumPaesi. que velit dus aacietur sit es nostra debba a es singoli Si pensi come le etur ilrepel inction endesequo etur repel inction endesequo spostare centro del dibattito politiche nazionali continuino to dolum facerro rrovitem to dolum facerro rrovitem che può avereeum ad avere il sopravvento rispettoeum sull’importanza aut venim Mil estotata venimcomunitari idellabo. Mil estotata il processo di idellabo. integrazione euagli aut interessi di un’aid ullati aut enit, coruptat id ullati aut enit, coruptat pos ropea in direzione degli Stati pos rea globale più ampia quale è desentiat. arum desentiat. Unitiarum d’Europa per il futuro del quella europea.


64 Nipoti di Maritain nostro Continente. Il pensiero sociale cristiano, infatti, ha in particolare tre obiettivi che lo collegano in modo molto forte al federalismo e nello specifico al federalismo europeo. Essi sono: la ricerca della pace e, quindi, la limitazione della sovranità; la difesa e la valorizzazione della persona; il rafforzamento delle autonomie.

“la ricerca della pace e, quindi, la limitazione della sovranità; la difesa e la valorizzazione della persona; il rafforzamento delle autonomie”

Arrivando poi all’Autore che dà il nome alla nostra rivista, ovvero Jacques Maritain, non si può fare a meno di sottolinearne alcuni passaggi chiave nell’ottica di un federalismo europeo. Basti ricordare le pagine di Maritain in L’uomo e lo Stato (1951) e l’intervento da lui svolto durante l’Incontro delle culture all’UNESCO, nell’aprile 1966. Riferendosi alla necessità di preparare una società “politica” mondiale, Maritain sottolineava due condizioni fondamentali: «La prima è la rinuncia decisiva all’idea o all’idolo della sovranità dello Stato, all’idea di questo dio mortale, come diceva Hobbes, che è nata nel cervello di Jean Bodin nel XVI secolo e che si chiama lo Stato sovrano». La seconda condizione consiste nel destare, presso tutti gli uomini che pensano, governanti e governati, una reale preoccupazione, sempre presente ed attiva nel profondo del cuore, del bene comune dell’umanità. Ne L’uomo e lo Stato egli scriveva: «Una soluzione federale apparirà come l’unica via d’uscita per l’Europa e per la stessa

Germania». Ma, aggiungeva: «Per arrivare ad una soluzione federale accettata, dopo la sanguinosa liquidazione dei sogni hitleriani, dall’Europa e dai popoli della Germania liberati dal nazismo e dallo spirito prussiano, per arrivare cioè ad una Federazione europea, di cui faccia parte una pluralità di Stati tedeschi, in conformità con la diversità delle eredità culturali, e nella quale tutti gli Stati membri accettino le equivalenti limitazioni di sovranità richieste da una cooperazione organica ed istituzionale, occorreranno ancora senza dubbio profonde ed incisive trasformazioni». Solo in questa prospettiva c’è, secondo Maritain, una speranza per l’Europa e per la civiltà occidentale. E sintetizzava nella premessa: «La tesi che noi sosteniamo è che l’Europa federale è inconcepibile senza una grande Germania federale e una Germania federale è impossibile senza un’Europa federale. Questi due aspetti dell’idea federale appaiono inseparabili». Anche a voler considerare la questione dell’Europa a sé stante — aggiungeva Maritain — bisogna affermare che «l’idea federale, conformemente al suo senso vero (è) valida anche per l’Europa intera», e comporta «per tutti gli Stati che la compongono comuni limitazioni della sovranità ed una comune buona volontà». Nel suo A travers le désastre


65 (La maison française, New York 1941) Jacques Maritain parlava dell’«ideale storico d’una federazione di popoli liberi»; un tale ideale, reso fino ad oggi irrealizzabile dalle vecchie strutture d’un «regime politico-sociale del mondo fondato sull’egoismo e sulla cupidigia», avrebbe (una volta sconfitto il nazismo) «la probabilità di divenire realtà». Lo stesso concetto viene ripreso nei Messages (1941-44) che Maritain lancia alla radio americana. È dunque sulle tematiche più attinenti al tema della pace e della limitazione della sovranità nazionale che si collega principalmente il pensiero di Maritain con gli obiettivi del federalismo di stampo europeo. Da questi due principi occorre ripartire tutt’oggi per costruire un’Europa che, tenendo il valore della pace come fondamentale in quanto fondativo della stessa Unione, impari a considerare sé stessa come una comunità più ampia della semplice somma algebrica dei singoli stati che la compongono.


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a misura d’uomo

L’essere umano: né nemico né risorsa di Davide Penna

Il fenomeno migratorio è sempre più al centro del dibattito pubblico, delle relazioni internazionali e della propaganda politica di partiti e movimenti. Gli interrogativi sono sempre più urgenti: come poter dare accoglienza? Come aiutare chi viene in Europa in cerca di speranza, uno stile di vita migliore e lavoro?

“le persone in cerca di speranza vanno aiutate e accolte”

Prima di proporre una pista riflessione, partiamo dai numeri. Secondo i dati UNHCR, tra il 1° gennaio e il 21 luglio 2017 sono sbarcate in Italia 93.314 persone (il 18% in più rispetto allo stesso periodo nel 2016). La percentuale assume ancora più rilevanza se si paragonano i numeri con gli altri porti: in Grecia, sempre al 21 luglio, sono sbarcate 10.250 persone, in Spagna 6.524. Quindi in questi mesi l’Italia ha ac-

colto l’84,5% delle persone che si imbarcano. Inoltre, nel 2016 gli sbarchi in Italia sono stati 181.436, nel 2015 153.842, nel 2014 170.100. In poco più che tre anni e mezzo vi sono stati quasi 600.000 nuovi ingressi, una cifra di circa 150 mila unità più grande rispetto a quanto accaduto tra il 1997 e il 2013 in cui, in totale, sono sbarcate 444.345 persone. Cosa ricaviamo da questi dati? Innanzitutto che bisogna fare i conti con un’emergenza poiché si tratta di un movimento fuori dal comune con cui occorre rapportarsi. Allo stesso tempo è fuorviante parlare di “invasione”; basta pensare ai numeri della grande emigrazione italiana di inizio secolo che raggiunse l’apice nel 1913 in cui partirono, in un solo anno, circa 870.000


67 persone. Si tratta di un fenomeno migratorio consistente, con diverse cause legate alla situazione internazionale, dovute alle guerre, alla caduta di Gheddafi in Libia, alla grave desertificazione del corno d’Africa, al crescente clima di intolleranza nelle diverse parti del mondo, ad una assoluta non volontà europea di fare fronte alla situazione. Davanti ad una crisi di questo tipo se l’Europa vuole restare fedele ai valori che l’hanno costruita, le parole d’ordine devono essere accoglienza e solidarietà. Si può discutere sul ruolo delle ONG e sul loro rapporto con i governi nazionali, sul fatto che occorre portare stabilità nei paesi del Nord Africa e regolamentare il flusso, ma una principio dev’essere intoccabile se vogliamo ancora parlare di civiltà occidentale: la vita va salvaguardata e difesa, le persone in cerca di speranza vanno aiutate e accolte. Alla luce di questo principio possiamo riflettere sue due atteggiamenti che lo negano. Il primo è di coloro che, aizzati da capipopolo alla ricerca di consensi, sostengono che i migranti andrebbero rispediti al mittente (senza specificare bene come) o, addirittura, lasciati in mare. Ecco la loro narrazione: i migranti sono in realtà uomini che cercano nuovo lavoro, che non scappano da guerre e che sono in ricerca di fortuna approfittando del buonismo radical-chic il quale, quando è in buona fede, propugna l’accoglienza per ignoranza,

quando è in mala fede spinge per l’arrivo di nuova forza-lavoro a basso prezzo. Una narrazione che forza la realtà, prendendone alcuni pezzi ma costringendoli in una visione angusta e complottista e uno schema già visto molte volte nella storia delle visioni ideologiche. Le salvezze, di volta in volta prospettate, sono state assunte come missioni soteriche dai vari «messianismi secolarizzati», come li definì Giovanni Paolo II. Qui dovremmo, una volta per tutte, imparare dalla storia: chi propone la realtà come un disegno diabolico in cammino verso una distruzione imminente, si presenta, allo stesso tempo, come l’unica speranza dell’umanità che può portare salvezza a patto di non aver pietà verso coloro che, di volta in volta, sono i traditori della razza o del sangue o della dottrina o della patria o del vero marxismo. Il punto di partenza è sempre uno sguardo maligno verso una parte di umanità che, a sua volta, nasce dall’assolutizzazione di alcuni elementi, indubbiamente negativi come avidità, egoismo, violenza, che sono parte dell’umanità ma non la esauriscono. Tuttavia non è solo questo l’atteggiamento ideologico dal quale guardarsi; a ben vedere anche coloro che presentano i migranti come una risorsa, coloro che continuamente si affannano a presentare chi arriva da paesi diversi come unica possibilità per il nostro sistema di reg-

“i migranti non ci servono come piccoli schiavetti per reggere il nostro welfare; chi lo racconta mente, e alimenta la paura”


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“o partiamo da una fiducia incondizionata nella bontà dell’umanità, oppure alimentiamo crisi, conflitti ed emergenze”

gersi, fanno riferimento ad una visione distorta della società e dell’umanità. Il migrante, come ogni uomo, non è una risorsa, termine che richiama il rapporto dell’uomo con ciò che potenzia il suo essere. No, il migrante è un essere umano, da aiutare e accogliere perché tale. I migranti non ci servono come strumenti indispensabili, come piccoli schiavetti per reggere il nostro welfare; chi lo racconta mente, consapevolmente o meno, e alimenta la paura di chi appoggia l’ideologia apocalittica. Anche in questo caso c’è una visione di fondo, questa volta tipica di quella che Heidegger chiama la visione della tecnica ovvero quell’atteggiamento che vede la realtà come fondo da esaurire e l’altro come qualcosa su cui imporre il proprio dominio. L’approccio di fondo di chi assume la mentalità della tecnica è quello di una sfiducia verso la capacità dell’umanità di unirsi per costruire il bene comune. Se questo non è possibile, devo affrettarmi a prendere quanto più posso dall’altro e dal reale. La cura a queste ideologie può essere solo un rinnovato sguardo sull’umanità che ne benedice l’essenza profonda. O partiamo da una fiducia incondizionata, per qualcuno ingenua, nella bontà dell’umanità, oppure alimentiamo crisi, conflitti ed emergenze e al posto di prospettare soluzioni diventiamo parti del problema. Ciò che serve è una diffusa solidarietà e fraternità, un clima di ascolto e aiuto con-

creto; ancora più a fondo serve un nuovo patto sociale che sappia fare i conti con una situazione di emergenza. I nemici dell’emergenza, delle situazioni in cui occorre riflettere, agire e trovare soluzioni condivise per problemi complessi, sono la paura e la volontà di imporsi sull’altro. Se facciamo fronte comune contro queste ideologie, potremo costruire un futuro migliore.


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Inception e la Bibbia: l’idea che distrugge e la realtà che realizza di Davide Penna

“perdere la genesi dell’idea porta alla manipolazione, alla pazzia, alla distruzione”

Uscito nel 2010 dal genio di Christopher Nolan, il film Inception è un fanta-thriller che aiuta a proporre riflessioni stimolanti. In questi pochi e liberi pensieri, vorrei sottoporre all’attenzione dei temi che, in qualche modo, collegano alcune idee del film all’esperienza di fede biblica. Il tema di fondo di Inception, rivestito da una avvincente narrazione a metà tra il thriller, il fantasy, il film action e drammatico, è quello del condizionamento, da parte di un agente esterno, dell’idea. Ecco la domanda che agita il protagonista Dominc Cobb (Leonardo Di Caprio): è possibile innestare un’idea nel-

la mente di qualcuno al punto che quest’ultimo non si accorga della natura estranea o non autonoma del pensiero? È possibile condizionare una persona a tal punto da privarla della sua libertà? Il film sembra suggerire due proposte: una, incarnata dal protagonista, che sostiene che si può condizionare totalmente una persona: “basta” andare in profondità nel suo inconscio attraverso il sogno. L’altra, incarnata dall’amico e collega Arthur (Joseph Gordon-Levitt), che afferma l’esistenza di uno spazio per la nostra libertà che può contrastare la totale dipendenza dai con-


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“il nostro liberare l’altro non passa mai da un convincerlo attraverso una nostra idea”

dizionamenti esterni, dato che, come afferma il personaggio, è sempre possibile per il soggetto rintracciare la genesi dell’idea e questo, a sua volta, è dovuto al fatto che non si può falsificare totalmente l’ispirazione. In altri termini, c’è un “fare memoria” che permette di restituire la verità e la realtà dell’esperienza. Questo fare memoria permette di rendere intoccabile la propria esperienza del vero, di renderla inalterabile. È lo stesso punto di vista della Bibbia. Essa è nata dalla vita di uomini e profeti che ricordano a Israele l’esperienza di Dio che i padri hanno fatto: «Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do … ricordati invece del Signore tuo dio perché egli ti da la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri. Ma se dimenticherai … io attesto oggi contro di voi che certo perirete» (Dt 8,11.18-19). La Bibbia nasce per fare memoria della storia della salvezza. Dimenticare è perdere contatto con l’esperienza del vero, con la genesi dell’idea, e, come ci suggerirà il film, perdere la genesi dell’idea porta alla manipolazione, alla pazzia, alla distruzione. Ma il film è anche e soprattutto una profonda analisi sul ruolo distruttivo delle idee quando ci alienano dalla realtà. Quando, come e perché le idee possono distruggerci? La narrazione lo

suggerisce quando la moglie di Cobb, Mal (Marion Cotillard), nasconde il totem nella “cassaforte” della sua psiche e, al tempo stesso, quando lo stesso protagonista racconta come ha cercato di liberarla. Il totem era ciò che portava a distinguere la realtà dal sogno, il vero dall’ombra, la luce dall’oscurità. Mal decide di nasconderlo. Sceglie di dimenticare ciò che la tiene legata alla realtà, spezza questa corda. Da qui si apre la sua pazzia, la sua tristezza, la sua schiavitù da cui Dominic vuole liberarla. L’idea ci distrugge quando nasce dal nostro voler rompere con la realtà, dal nascondere ciò che ci lega ad essa. E perché vogliamo rompere con la realtà? Possono esserci mille motivi: perché la riteniamo sbagliata, perché non ci piace, perché ci ferisce. Tuttavia, per quanto la realtà faccia male, negarla porta alla morte. In certi casi per vivere occorre assumersi tutta la ferita della realtà e viverla nell’attesa, credere che tutta la sofferenza, tutto il dolore, non siano inutili ed estranei ad un bene che non riusciamo immediatamente a scorgere. Penso che sia questo un senso profondo del grido di Gesù in Croce nel Vangelo di Marco: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Questo grido dice tutto il dolore, tutta l’assurdità, tutta la non comprensione di quello che sta succedendo. Tuttavia Egli si rivolge comunque a Dio, all’esperienza che lo aveva accompagnato nella vita per quanto tutto quello che gli stava accadendo


71 lo portava a non capire, a essere spaesato. Gesù l’ultima cosa che fa è rivolgersi comunque a Dio, domandargli “perché?”, e non chiudersi in un “tu non ci sei”. Ed è dalla Croce, ovvero da questo lasciarsi ferire dalla realtà e affidarsi a Dio, che Gesù risorgerà e donerà la salvezza al mondo. Non solo, ma c’è un altro spunto interessante: Cobb, per liberare Mal dalla sua ossessione, vuole trovare quella verità nascosta, quell’idea che teneva sua moglie attaccata più al sogno che alla vita. Una volta trovata tuttavia, non la libera. Semplicemente la tiene nascosta, cambiandola impianta un’altra idea. Ecco un’altra dinamica interessante che sembra suggerire il film: impiantare un’idea ad un altro non lo aiuta, anzi lo porta ancora di più a distruggersi. Il nostro liberare l’altro non passa mai da un convincerlo attraverso una nostra idea. Noi possiamo solo indicare il punto dove è schiavo, mai completamente liberarlo: credersi capaci di creare idee in grado di liberare gli altri porta a creare nuovi idoli e nuovi totem che, se liberano da certe dinamiche, schiavizzano per altre. Quando ci innalziamo a messia del mondo, creiamo inferni. Per concludere, il film mi sembra un ottimo spunto di riflessione per quanto riguarda il rapporto idea/realtà, verità/libertà, condizionamento/autonomia. Per affrontare la vita, noi costruiamo delle idee. Esse sono essen-

ziali per la solidità della nostra personalità. Ora, c’è chi ritiene che saremo sempre condizionati dall’esterno, mai pienamente liberi in questa costruzione. Oppure possiamo credere, insieme alla rivelazione biblica, che vi sia sempre una realtà di fronte a noi che può risvegliare la nostra libertà. Nella Bibbia questa realtà fondamentale è l’esperienza di Dio: il reale che rivelandosi risveglia la nostra libertà resa schiava dall’idolo, ovvero l’idea, l’immagine di Dio che ci costruiamo. Non a caso per i medievali Dio è l’ens realissimum. Questa è la vocazione: la chiamata alla libertà che risveglia in te la verità, che ti permette di denunciare le iniquità, di stabilire le priorità giuste. Tutti noi per vivere ci costruiamo un dio, riponiamo il nostro cuore in un tesoro attorno a cui costruiamo la nostra vita. Ma solo un tesoro ci libera davvero: la realtà. E con quale atteggiamento devo corrispondere all’esperienza del reale? Con la fedeltà, che nasce dal fare-memoria, e con la fede, ovvero il mantenere tesa la corda (in latino fides è corda, legame) che ci tiene uniti al reale, sapendo restare in attesa e nella domanda quando non si comprende ma, allo stesso tempo aprendoci realmente alla possibilità di risposta.

“il reale risveglia la nostra libertà resa schiava dall’idolo, ovvero l’immagine di Dio che ci costruiamo”


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recensione

Contro l’Isis. Le fatwa delle autorità religiose musulmane contro il califfato di Al-Baghdadi (a cura di Marisa Iannucci, Giorgio Pozzi Editore, Ravenna 2016) di Lucandrea Massaro

Il refrain che più spesso circola dopo un attentato terroristico di matrice islamica – magari rivendicato dalla più rappresentativa (al momento) centrale del terrore, il cosiddetto Isis (o più correttamente Daesh) – è che le comunità islamiche in occidente, segnatamente quelle europee ma non solo, anche quelle considerate dai media nostrani

come moderate, non si dissociano, non stigmatizzano la vicenda. Innanzitutto questo è spesso – giornalisticamente parlando – falso, come l’agile libricino di Marisa Iannucci (islamologa e attivista dei diritti umani) “Contro l’Isis. Le fatwa delle autorità religiose musulmane contro il califfato di Al-Baghdadi” tenta di dimostrare; in secondo luogo


73 questa richiesta è un cedimento culturale alle strategie dell’hate speech contro i musulmani da parte delle destre: quando mai qualcuno ha chiesto alla Chiesa cattolica di dissociarsi dal terrorismo dell’IRA? Quando alle chiese americane del Sud è stato chiesto – anzi preteso – di dissociarsi dal KKK? Queste pretese partono dal presupposto che ogni musulmano che non dichiari una sua adesione incondizionata ai valori occidentali è di per sé un potenziale fiancheggiatore, anche se – non da oggi – qualunque cristiano è potenzialmente un critico radicale nei confronti del liberalismo delle società occidentali. Questo scontro, non a caso, è più visibile dove il ricorso alla neutralità dello spazio pubblico tende a togliere la parola proprio ai cristiani (Francia, Gran Bretagna). Tuttavia nessuno teme la radicalizzazione cristiana. Certamente nel rapporto tra Islam e violenza c’è un aspetto non risolto totalmente, al di là dei numerosi versetti del Corano che la stigmatizzano, tuttavia sostenere che questa ambiguità sia avvalorata dall’assenza di condanna da parte delle autorità religiose moderate è un falso ideologico, frutto del pregiudizio e del cattivo giornalismo. «Le maggiori autorità religiose islamiche in tutto il mondo hanno affermato che l’Isis sta violando i principi fondamentali dell’Islam, e lo hanno fatto con una lunga serie di dichiarazioni

(fatwa) contro di esso, contro le organizzazioni da cui ha avuto origine e contro qualsiasi forma di terrorismo che associ alle proprie azioni la religione islamica» (introduzione, p.16). Il tema del libro è dunque l’approfondimento dell’illegittimità dell’Isis da un punto di vista giuridico, un fatto centrale per l’Islam che si divide non solo nelle grandi famiglie teologiche dei Sunniti, degli Sciiti, dei Khargiti, ma soprattutto all’interno del primo gruppo in molte scuole giuridiche, ciascuna con la propria comprensione e applicazione della Sharia. Quello che è legale per una può non esserlo per l’altra e tuttavia entrambe sono concepite come “ortodosse”; questo agli occhi dei cattolici o dei non esperti di religioni può apparire come contraddittorio o assurdo, ma all’interno di una comunità religiosa (la Umma) che conta un miliardo di persone, con storie e retroterra culturali preesistenti all’Islam, non fa che rendere ricca e poliedrica una fede che spesso viene raccontata come monolitica. «Da molti paesi a maggioranza musulmana, e anche dall’Occidente, giovani radicalizzati si sono recati in Siria per arruolarsi nelle sue file, affascinati dalla predicazione jihadista di cellule attive negli ambienti più vari, anche via web. Per questo motivo ci è sembrato significativo riportare – tra le molti disponibili – anche le dichiarazioni dei

“le maggiori autorità religiose islamiche in tutto il mondo hanno affermato che l’Isis sta violando i principi fondamentali dell’Islam”


74 Nipoti di Maritain Consigli degli ‘ulam’a britannici e canadesi i quali, insistendo sulla non legittimità del sedicente califfato e sulla violazione dei principi islamici, hanno emanato un chiaro divieto ai musulmani ad arruolarsi e appoggiare in qualsiasi modo il cosiddetto “Stato Islamico”» (p.17).

“voci importanti, di grande vigore, condannano apertamente le azioni di Al-Baghdadi e negano il carattere islamico al gruppo”

È bene ricordare che il “Califfato” per l’Islam è molto più di un concetto politologico: non è solo Stato, non è solo un principato, ma è anche la costituzione di una autorità religiosa unitaria. Alla buona (e decisamente per approssimazione) è come se l’antico Stato della Chiesa si estendesse e coincidesse con il Sacro Romano Impero nel IX secolo: l’autorità politica emanata da quella religiosa e le due coincidenti. Una questione incomprensibile per l’Occidente cristiano che ha sempre teorizzato la laicità (in senso tecnico) del potere politico, ma molto presente nella mitopoiesi islamica. La fine del Califfato nel 1924 – coincisa con la fine dell’Impero Ottomano e l’ascesa in Turchia del governo laico-nazionalista di Atatürk – ha comportato una trasformazione dell’Islam contemporaneo, al medesimo tempo diviso in nazioni e senza guide unitarie, qualcosa di non dissimile forse dall’esperienza ebraica della distruzione del Tempio nel 70 dopo Cristo ad opera dei Romani. Nel libro vengono riportate otto di queste dichiarazioni da parte

tanto di giuristi islamici operanti in Iraq e Siria quanto in Occidente (come il Canada) e una dall’Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani, un’associazione di giuristi di diverse tradizioni shariatiche. Voci importanti, di grande vigore, che condannano apertamente le azioni di Al-Baghdadi e che negano il carattere islamico al gruppo di banditi che ha invaso e saccheggiato l’area vicino orientale compresa tra la Siria e l’Egitto e che ha martirizzato, prima e più ancora dei cristiani e gli yazidi – cosa che non vogliamo minimamente sottostimare! – i musulmani di quelle regioni. Se esiste – ed esiste! – un ecumenismo del sangue, come dice Papa Francesco, esiste anche un dialogo interreligioso del martirio. Questi nostri fratelli in Abramo sono morti a causa dell’illegittima e blasfema azione di questi apostati del Dio Unico, una prospettiva che come credenti non dobbiamo dimenticare.


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Autori Lorenzo Banducci Nato a Lucca nel 1988, si è laureato in Odontoiatria a Pisa nel 2012 e dal 2013 esercita la professione in vari studi della Toscana. È stato fra i rifondatori del gruppo FUCI di Lucca nel 2009 per poi esserne responsabile regionale per la Toscana dal 2010 al 2012. Dal 2011 ad oggi ha incarichi diocesani in Azione Cattolica di Lucca dove attualmente è Vice-Presidente del Settore Giovani. Con Niccolò Bonetti è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. iaffo@hotmail.it Niccolò Bonetti Nato a Lucca nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la laurea triennale e poi quella magistrale in Filosofia presso l’Università di Pisa, con particolare interesse per la storia del pensiero patristico e medievale. È impegnato nell’Azione Cattolica, nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale e nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, per la quale è stato consigliere centrale. Con Lorenzo Banducci è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. Andrea Bosio Nato a Genova nel 1980, si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova con una tesi sulla narrazione della fisica nella società contemporanea; insegnante, studia Scienze religiose presso l’ISSR di Albenga-Imperia e si occupa di storia contemporanea della Chiesa. Federico Ferrari Nato a Brescia nel 1986, dopo la maturità classica ha studiato filosofia all’Università di Venezia dove è stato anche borsista per tre anni presso la scuola dottorale del medesimo ateneo, scrivendo una tesi sulla tradizione platonica. Attualmente insegna nelle scuole superiori. I suoi interessi principali sono la filosofia della religione e l’esegesi neotestamentaria. Mario Giagnorio Nato a Rovigo nel 1995, dopo la maturità classica si è laureato in “Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani” presso l’Università di Padova. Il suo percorso di studi e le sue attività di volontariato sono incentrate sull’inclusione e il rispetto dei diritti umani, attraverso il sostegno ad associazioni o alla partecipazione di attività proposte dall’università. Rocco Gumina Nato a Caltanissetta nel 1985, insegna Religione nella Diocesi di Palermo. Dopo la licenza in Ecclesiologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi su Dossetti, ha conseguito un master all’Istituto di Studi Bioetici di Palermo – con cui ora collabora come docente – con uno studio sulla biopolitica di Habermas. È dottorando in Teologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Dal 2009 al 2011 ha presieduto il gruppo FUCI Caltanissetta; dal 2014 è presidente dell’associazione culturale “A. De Gasperi”. Collabora con l’Ufficio IRC della Diocesi di Palermo e pubblica su Ricerche teologiche, Ho Theológos e Bio-ethos, della quale è redattore.


Stefanie Knauss Nata a Bruchsal (Germania) nel 1976, ha studiato teologia, letteratura e lingua inglese all’Università di Friburgo e di Manchester. Dopo il dottorato presso l’Università di Graz ha lavorato come post-doc presso la Fondazione Bruno Kessler, Trento. È Associate Professor di teologia alla Villanova University (Pennsylvania, USA). Nella sua ricerca si focalizza sugli studi di genere e sulla teoria queer nella teologia, sul tema del corpo nella religione, e sulla relazione tra teologia e cultura. È membro del Coordinamento Teologhe Italiane ed è nel comitato internazionale editoriale della rivista teologica Concilium. Tra le pubblicazioni in italiano, “La saggia inquietudine. Il corpo nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam” (Effatà, 2011) e “L’enigma corporeità: sessualità e religione”, curato insieme a Antonio Autiero (EDB 2010). Mattia Lusetti Nato a Mondovì (CN) nel 1985, inizia gli studi teologici presso lo S.T.I. di Fossano conseguendo poi il baccellierato in Teologia a Roma (Pontificia Università Gregoriana) con un lavoro sull’Incarnazione in Tommaso d’Aquino; prosegue gli studi filosofici conseguendo la laurea triennale (Università Tor Vergata, Roma) con un lavoro sulla Husserl e la licenza in Filosofia (Pontificia Università Gregoriana, Roma) con un lavoro sull’etica di Aristotele. Insegna da cinque anni Religione Cattolica in Licei e Istituti Tecnici a Roma. Lucandrea Massaro @Jarluc Nato a Roma nel 1980, dopo la laurea in Storia e la laurea magistrale in Scienze delle Religioni presso l’Università di Roma Tre ha collaborato con la divisione radiofonia della RAI e con alcune testate del mondo del lavoro. Giornalista professionista, attualmente è co-editor e social media manager di Aleteia, network sulla fede cristiana. lucandrea.massaro@gmail.com Davide Penna Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova, ha conseguito il Diploma in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, con indirizzo Ontologia Trinitaria, presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. Nel 2015 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia; dallo stesso anno ha iniziato a insegnare nei licei e il percorso di dottorato presso il consorzio FINO - Università di Genova. Dal 2017 è professore di ruolo presso il liceo Carlo Amoretti e artistico di Imperia. È presidente dell’Associazione culturale “Arena Petri” e di Amici di Sophia. Emanuele Pili Nato a Genova nel 1988, dopo la laurea in Filosofia ha conseguito la laurea magistrale in Metodologie Filosofiche presso l’Università di Genova e Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità con indirizzo Ontologia Trinitaria presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano. È autore di alcuni saggi sulla prassi dialogica in Platone, sull’intersoggettività nel pensiero di Antonio Rosmini e sul concetto di taedium in San Tommaso d’Aquino. Christian Alberto Polli Nato a Monza nel 1989, originario di Brugherio, dopo la maturità classica ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ottenendo nel 2013 la laurea triennale con una tesi sulla vicenda letteraria del poeta Luigi Fallacara e nel 2015 la laurea magistrale in Filologia Moderna con una tesi storico-religiosa incentrata sulla visione che l’ancora anglicano John H. Newman aveva dell’ufficio pontificio. Impegnato nella ricerca storica e archivistica locale, ha partecipato quale assistente al corso di Storia Locale patrocinato dall’Accademia della Cultura Universale cittadina. Collabora inoltre attivamente alla redazione di voci prevalentemente d’ambito umanistico sui progetti wikipedia e wikimediaitalia.


78 Nipoti di Maritain Vincenzo Romano Nato a Vico Equense (NA) nel 1987, dopo la maturità classica ha studiato Lettere Moderne presso l’Università Statale a Milano, laureandosi in Lingua Latina; ora frequenta la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Fortemente legato al carisma carmelitano, presta servizio presso la Parrocchia S. Teresa di Gesù Bambino in Legnano (MI). romano.vincentius1987@gmail.com Stefano Sodaro Nato a Trieste nel 1968, dopo la maturità classica si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Siena. È stato presidente provinciale delle ACLI di Trieste e nella medesima città ha frequentato dal suo inizio la Scuola di Filosofia coordinata da Pier Aldo Rovatti. Già cultore della materia in Diritto Canonico ed Ecclesiastico presso l’Università degli studi di Trieste, è giornalista pubblicista e dirige “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”. È socio dell’Associazione Teologica Italiana (ATI), della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo, della Società per il Diritto delle Chiese Orientali, dell’Associazione Italiana Giuristi d’Impresa (AIGI), socio aggregato del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e membro del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (GIDDC). Andrea Virga Nato a Casale Monferrato (AL) nel 1987, dopo la maturità classica ha frequentato la Scuola Normale Superiore di Pisa, ottenendo un diploma di primo livello in Discipline Filosofiche e poi la laurea specialistica in Storia e Civiltà, approfondendo le tematiche della Rivoluzione Conservatrice anche con soggiorni in Francia e in Germania. Attualmente è Dottorando di Ricerca in Political History presso l’IMT - Istituto di Alti Studi di Lucca, con un progetto di ricerca su fascismo e nazionalismo a Cuba, svolto tra L’Avana, Berlino e Madrid. Matteo Zerbino Nato a Genova nel 1998, dopo la maturità scientifica presso l’Istituto Maria Ausiliatrice di Genova si è iscritto a Ingegneria elettronica nell’ateneo genovese. I suoi interessi spaziano dallo studio delle tradizioni mitologiche alla filosofia medioevale e moderna. Piotr Zygulski @piozyg Nato a Genova nel 1993, dopo la maturità scientifica e la laurea in Economia e Commercio conseguita all’Università di Genova, si è iscritto all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per la laurea magistrale in Fondamenti e prospettive di una Cultura dell’Unità, indirizzo Ontologia Trinitaria. È organista dell’Oratorio di San Lorenzo e della Chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore in Cogoleto (Diocesi Savona-Noli). È autore di pubblicazioni in ambito filosofico. Giornalista pubblicista, dal 2014 è redattore della testata giornalistica online Termometro Politico. È co-segretario di redazione della rivista accademica “Sophia. Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi” e dirige Nipoti di Maritain. pz.senet@hotmail.it


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nel prossimo numero: Ambito etico/morale: La crisi ecologica e la sfida della sostenibilitĂ in che modo trasformeranno la morale cattolica nei prossimi decenni? Ambito politico/sociale: Democrazia e finanza: quale rapporto è possibile, anche alla luce del Fiscal Compact? Ambito pastorale/ecclesiale: Quali sono le vostre attese e le prospettive reali per il prossimo Sinodo dei Vescovi sui giovani, la fede e il discernimento? Accettiamo interventi di risposta di massimo 1000 parole da farci pervenire all’indirizzo inipotidimaritain6@gmail.com entro il 20 febbraio 2018.


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