Nipoti di Maritain n. 09

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nipoti di

n.09

ISSN 2531-7040

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Celibato e CastitĂ

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SacramentalitĂ

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Simbolico nel Post-Secolare

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intervista Pino Lorizio



Nipoti di Maritain Anno V Numero 9

ISSN 2531-7040

20 luglio 2020

Direttore Responsabile: Piotr Zygulski Redazione: Lorenzo Banducci e Niccolò Bonetti (Vicedirettori E Cofondatori); Andrea Bosio, Rocco Gumina, Lucandrea Massaro, Gianni Oderda, Davide Penna, Giovanni Francesco Piccinno, Filomena Piccolantonio, Emanuele Pili, Christian Alberto Polli, Vincenzo Romano, Rosario Sciarrotta. Progetto Grafico: Mattia Carletti, Gianni Oderda L’impaginazione è realizzata gratuitamente da Effatà Editrice, Laura Repetto. Editore e Proprietà: Nipoti di Maritain è edito dall’associazione non riconosciuta – con lo scopo di diffondere il dibattito ecclesiale – denominata “Nipoti di Maritain” e composta dai membri della redazione sopraindicata, che ne possiede piena proprietà. La sede è presso la Casa delle Associazioni Laicali in Via San Nicolao 81 – 55100 Lucca. Pubblicazione: Nipoti di Maritain è un prodotto editoriale, numerato in sequenza di pubblicazione, non soggetto ad obbligo di registrazione in quanto privo di periodicità regolare (legge n. 62/2001, art. 1). È pubblicato presso World Wide Web in formato PDF scaricabile al link https://issuu.com/nipotidimaritain Diritti: Nipoti di Maritain è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

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Dibattito CELIBATO & CASTITÀ 14 Dal dominio dell’astinenza alla forza dell’impotenza di Mattia Lusetti 17 Tutto del Signore di Giacomo Tarullo 20 Un celibato liberamente scelto ha più valore di Omar Vitali 23 Sentire cum Ecclesia: non è (solo) questione di celibato di Michele Di Gioia

SIMBOLICO NEL POST-SECOLARE 28 La profanazione continua nel mondo post-simbolico di Michele Ambrogio Lanza 31 Sul blasfemo nell’arte contemporanea di Alessio Santiago Policarpo 34 Per un orizzonte simbolico al di fuori del denaro di Samuele Del Carlo

SACRAMENTALITÀ 38 Sacramenti spettacolari o Chiesa come sacramento? di Omar Orrù

INDICE

41 Sacramenti che accolgono con fiducia di Lorenzo Banducci 44 Comunicare la Sacramentalità di Giovanni Francesco Piccinno 47 Sacramentum 2.0: la sacramentalità nell’era digitale di Luigi Previtero


Rubriche INTERVISTA

52 Pino Lorizio e i simboli da riabitare umanamente a cura di Piotr Zygulski 56 Il Dio risorgimentale di Christian Alberto Polli A BEN VEDERE

59 Imago Dei: il valore della persona secondo Luigi Stefanini a cura di Michele Lasala UMANESIMO INTEGRALE

63 Maritain e Camaldoli a cura di Andrea Bosio A MISURA D’UOMO

66 E se tornassimo a testimoniare? Il contributo dei cattolici nella crisi delle istituzioni a cura di Rocco Gumina RECENSIONE

70 Claudel e il teatro del mondo. Le Soulier de satin (Riccardo Bravi, Aracne, Roma 2019) a cura di Piotr Zygulski


6 Nipoti di Maritain

Editoriale di Rosario Sciarrotta

«Se non tengo presente l’universo, perdo il senso delle proporzioni» (Italo Calvino) Francesco di Sales sosteneva che è presente nell’uomo un’inclinazione naturale ad amare Dio; nell’anima esistono due parti: l’una profonda e l’altra di superficie. Henri Brémond, agli inizi del Novecento, in un’opera fondamentale che ricostruisce la formazione del pensiero religioso della Chiesa di Francia attraverso l’utilizzo della storia letteraria, attribuisce alla finezza del Santo e Dottore della Chiesa la capacità di avere introdotto una distinzione di fondamentale importanza nel cogliere le dinamiche dell’interiorità spirituale. I nostri appetiti, le sensazioni, la parte superficiale di ciò che siamo, non si esauriscono in una dimensione orizzontale, quasi impaurita nell’aprirsi alla profondità interiore. La parte profonda costituisce «oasi, fortezza e centro del nostro vero io […], un santuario. Là risiede invisibile colui che cerchiamo invano nella regione dei nostri sentimenti [la parte superficiale]»1.

1 H. Bremond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France dépuis les guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Paris 1916, p. 124.

Gli interventi presenti in quest’ultima pubblicazione di Nipoti di Maritain sono stati maturati nel periodo dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ancorché i temi scelti dai Lettori della pagina facebook della rivista fossero stati individuati diverso tempo prima. Tuttavia Celibato e Castità, Simbolico nel post-secolare e Sacramentalità – questi i temi scelti – ad una riflessione ex post sembrano essere quasi “caduti a fagiolo” poiché, mi pare, abbiano rivelato un’efficace complementarietà tra essi nonché una straordinaria e coerente trama col periodo che tutti abbiamo vissuto alla luce di quanto accaduto. Si potrebbe in un certo senso affermare che il numero 9 è anche “figlio” della pandemia. Il distanziamento sociale continua. I luoghi del vivere collettivo si sono andati desertificando in questo lungo arco dell’inverno, poi della primavera e adesso dell’incipiente estate del 2020. L’uscire fuori quotidiano si è rovesciato d’improvviso in un forzoso entrare e restare dentro casa per un tempo indefinito. À rebours. “Fuori” è rimasto il lavoro, gli incontri, il traffico, il movimento della vita collettiva. Ora, ci mette timore il respiro degli altri, la superficie degli oggetti, l’aria che respiriamo. Il les-


7 sico della pandemia ha imposto il suo nuovo ventaglio di parole e di simboli. La pandemia ci ha sorpreso come la fuga dall’Egitto. Questa Pasqua 2020 è stata una “Pasqua degli azzimi”. Personalmente credo che il tempo vissuto in casa, per chi l’avesse voluto, si sia potuto trasformare nel più importante periodo di Esercizi spirituali mai praticato. «La solitudine ha la straordinaria proprietà di non isolarci, ma di proiettare tutto il nostro esserci nella straordinaria prossimità dell’essenziale di tutte le cose» diceva Martin Heidegger. Questo è senz’altro vero da un punto di vista filosofico, ma assume una verità più profonda se inquadrato nell’ottica della teologia cristiana e soprattutto e in una prospettiva assolutamente nuova verificatasi nella nostra vita. Il nostro Egitto al contrario va interpretato come una possibilità, che è stata e viene offerta alla nostra riflessione, di “meditare” il lungo tempo disponibile come un Tempo di rientro nel tempio della Parola. Non è detto che la costrizione in casa non possa originare una relazione “comunque” liturgica tesa sul filo del dialogo e della preghiera con Dio. La lontananza dai luoghi di culto non spegne il valore della relazione. Quando l’amore è autentico, il desiderio dell’altro cresce nell’orizzonte della speranza. È quanto affermano, seppur con sfumature diverse, Mattia Lusetti, Giacomo Tarullo, Omar Vitali e Michele Di Gioia con i loro contributi al dibattito su celibato e castità nella Chiesa cattolica latina. Lusetti richiama l’attenzione del lettore

sulla verità fondamentale della castità cristiana quale chiamata universale per tutti i fedeli, sulla dinamica potere/libertà insita nella realtà del celibato del clero latino («separare il senso del ministero sacerdotale dall’autorità come esclusivo esercizio del potere è fondamentale») e sulla necessità di una cristificazione della sessualità la quale implica prima di tutto il riconoscimento di due aspetti intrinseci dell’umano: la fragilità e la relazionalità. Gli fanno eco Tarullo e Vitali, il primo chiedendosi come può un “casto” generare vita mentre il secondo, dopo aver debitamente distinto i due concetti, pone l’accento sul valore della dimensione “donativa” – per dirla con Marion – della castità. Il fil rouge che lega i quattro Autori si può ravvisare nella parola-chiave “relazione” e in tutte le sue declinazioni. Ciò è particolarmente evidente nell’intervento di Di Gioia che invita a una riflessione schietta ed onesta a partire dal sensus Ecclesiae. Egli richiama l’attenzione sulla necessità del sentire cum Ecclesia partendo dalle suggestioni generate dall’Esortazione post sinodale Querida Amazonia nello spirito più genuino degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Il tendere all’orazione rappresenta una prassi e un destino della condizione umana, a patto che si riconosca alla Grazia la sua onnipotenza misteriosa e salvifica. L’orazione, pur modulandosi negli atti del pregare svolti nel silenzio o nel veicolo vocale della liturgia (comunitaria come


8 Nipoti di Maritain personale), è alla ricerca di un obiettivo ulteriore: perseguire la permanenza degli stati. In questa ottica i dibattiti sul Simbolo e sulla Sacramentalità sono indissolubilmente legati. Michele Lanza ci introduce nel tema della “profanazione” del Mito il quale, nel momento stesso in cui viene composto, «è già un rendere meno sacro qualcosa». Gli fa eco Alessio Policarpo col suo contributo sulla «potenza profanatrice dell’arte moderna»: l’artista odierno, con scaltro calcolo, impiega a suo favore le strategie del marketing, alimentando il clamore e lo scandalo, come garanzia di promozione commerciale. Samuele Del Carlo ci ricorda invece che «l’uomo è una foresta di simboli», è costitutivamente un essere simbolico e la sua ricerca di senso è una perenne ricerca di ordine. Ma poiché un ordinamento simbolico ingiusto può causare infelicità, ha abolito anche l’ordine insieme all’ingiustizia, condannandosi all’inerzia. L’uomo contemporaneo ha nostalgia di senso, di ordine mentale e spirituale, di una mèta e tuttavia i simboli sembrano essere diventati oggi solo quelli del denaro e del lavoro: di una schiavitù. Gli idoli descritti in tutto l’Antico Testamento confermerebbero il loro ottimo stato di salute – nonché la loro impressionante longevità! – ma tant’è. Sono diventati vuoti, ripetuti senza senso e senza essere vissuti, tutto è fast food. Si potrebbe parlare di un vero e proprio “ossimoro del destino simbolico”.

Le riflessioni sul Simbolo hanno una confluenza naturale nel dibattito sulla Sacramentalità. A posteriori non posso non rilevare come la scelta dei temi da parte dei nostri Lettori sia stata in qualche modo profetica. Mai, come in questo periodo, abbiamo ricevuto sui social un torrente in piena di celebrazioni in streaming, di libretti liturgici, di giaculatorie e proposte di “salvezza”. Ritengo che noi non possiamo di certo rimuovere l’insidia virale, non possiamo pretendere che Dio ci preservi dai rischi insiti nell’esistenza, noi dobbiamo pregare di salvarci con Dio e dentro l’esistenza che ci è dato vivere. Ciò, tuttavia, può trovare una giusta comprensione epistemologica se inquadrato nella corretta ottica. Quanto ai Sacramenti Omar Orrù ritiene che si continui a giudicare il tempo presente rimpiangendo con nostalgia i “tempi d’oro” delle chiese piene, che si sia di fronte ad una “spettacolarizzazione” della fede e i Sacramenti vengano visti solo come mero veicolo di socialità. Tutto ciò obnubila una realtà profondissima che il Concilio Vaticano II ha ribadito con grande forza: è la Chiesa – in e con tutte le sue componenti – il Sacramento per eccellenza. Ma avere piena coscienza di essere immersi in tale realtà è tutt’altra storia. Ciò potrà avvenire soltanto se i Cristiani abbandoneranno una fede adolescenziale per vivere una relazione autentica con Dio. Quasi in una naturale prosecuzione si colloca la riflessione di Lorenzo Banducci circa


9 la staticità della fede cristiana – appunto – e la perdita di senso nonché sull’assoluta necessità di investire con coraggio nella formazione dei Laici. Resta però indiscutibile che la Buona Notizia è ontologicamente provocante: ci chiama avanti, ci spinge a trovare vie sempre nuove, a cominciare dai “modi” con cui comunicarla. Questo tema si trova al centro del contributo di Giovanni Piccinno che identifica una delle cause dell’attuale gap generazionale nel problema del ‘linguaggio’ e della sua conoscenza, in particolare nell’iniziazione cristiana dei ragazzi. L’autore ci ricorda come «in primis, parlare, cioè dare un nome alle cose, è letteralmente chiamare all’esistenza, abbandonando la posizione (ferma) di partenza» e come, in questo senso, la parola sia “in-formativa”. Con verve provocatoria Luigi Previtero si chiede invece quale sia il ruolo dei Sacramenti nella vita della Chiesa nell’era digitale. Posto che Cristo è il compimento della Rivelazione di Dio che si fa conoscere agli uomini assumendo la stessa loro natura e che i sacramenti siano in qualche modo l’estensione della Rivelazione di Dio, essi sono dunque da comprendere come segni corporei che Dio utilizza per parlare con gli uomini che conoscono attraverso i sensi. In un’epoca dove tutto è social ma sempre meno “sociale” per cogliere i sacramenti c’è bisogno di lasciarli esprimere in tutti i registri comunicativi propri del rito. Un ostacolo a ciò l’autore lo identifica nell’attuale gnosticismo, per

cui ravvisa il bisogno di far parlare i riti e i simboli e lasciando che venga coinvolto tutto l’uomo, anche la sua parte meno razionale. Non poteva esserci conclusione più degna di questa grande ed articolata parentesi che l’intervista rilasciata al nostro Direttore al teologo Giuseppe Lorizio, secondo il quale «l’espressione cultuale del mito è il rito, quella dell’evento è il sacramento» e questo – in quanto simbolo – non si definisce, ma si abita e si racconta. Riflettendo sul passo evangelico di Gv 4,23 il professore afferma che «custodire l’umano è il vero culto; metterlo a repentaglio per partecipare a dei riti sarebbe profanante». Si pone l’accento sulla necessità di “far parlare i simboli” poiché da questo dipende l’esperienza del sacro. Da quest’ultima suggestione e da molte altre è nata così l’idea di lanciare il questionario “Nella Chiesa che cambia? Il cambiamento del sentire, della pratica e delle abitudini religiose dei cattolici in Italia al tempo del COVID-19”; in tanti hanno partecipato e in molti si sono interessati, al punto che la visibilità dei risultati sulle testate italiane ha travalicato le nostre stesse più rosee aspettative! Nella sezione dedicata a Maritain Andrea Bosio presenta la questione dell’influenza che il pensiero del filosofo francese ebbe sul cosiddetto Codice di Camaldoli e soprattutto quanto peso ebbe il suo richiamo ai cattolici a un’azione concreta nella vita sociale, civile e politica. Maritain contribuì a


10 Nipoti di Maritain fornire al cristianesimo democratico quell’ossigeno filosofico – e teologico – di cui era stato privato durante la lotta al “modernismo”. Il Codice di Camaldoli fa suoi questi spunti e guarda alla società e alla cristianità italiane che emergono dalla tragedia del Ventennio fascista attraverso questi occhiali peculiari. L’obiettivo del Codice – per dirla col Maritain dell’Umanesimo integrale – è uno «Stato laico cristianamente costruito», che riconosca così anche i diritti dell’uomo, «nel presupposto che la stessa libertà della Chiesa non potesse fondarsi su una sorta di orgogliosa separatezza, come se la libertà religiosa fosse scindibile dalle libertà civili» (G. Campanini). Tra le altre rubriche segnaliamo l’interessante presentazione di Christian Polli sull’idea di Dio nel Risorgimento attraverso figure quali Mazzini, Pellico, Manzoni e Berchet; la teologia poetica del romanticismo che presenta un Dio come divinità creatrice del giorno del riscatto per l’identità nazionale. Michele Lasala propone invece una riflessione sul valore della “persona” in Stefanini, il quale sottolineava l’urgenza di recuperare la sfera spirituale contro la minaccia derivante da tutte quelle metafisiche che inghiottivano e annullavano la singolarità dell’uomo. Rocco Gumina infine si interroga circa il ruolo e il contributo dei cattolici nella crisi delle Istituzioni. Partendo da alcune illuminanti parole del filosofo francese Marion che spingono all’azione e alla voglia di futuro (parole in net-

ta antitesi – verrebbe da dire – con quelle gattopardiane di Tomasi di Lampedusa che guardò all’Italia con occhi sempre realistici e onesti, siciliano – non posso qui non ricordarlo – come l’Autore e come chi scrive). Gumina apre il suo contributo rilevando come dato oggettivo l’indebolimento del valore simbolico e dell’efficacia reale delle istituzioni e tuttavia «pare profilarsi il tempo per un’azione volta a risignificare il valore simbolico delle comunità e degli enti chiamati a sostenerla». Questo tempo però «abbisogna di una riflessione culturale sui motivi simbolico-essenziali che sostengono lo stare insieme». In questa direzione la testimonianza cristiana può favorire processi finalizzati a sviluppare quella consapevolezza politica e civica che i singoli cittadini radunati insieme come “popolo” devono “ri-trovare”, partendo da una parola chiave: “cura”. In questo termine solo i singoli potranno ritrovare la dimensione prettamente umana, fatta di storie e di volti, gli stessi che formano poi un popolo. Gumina invita tutti a fare un “esodo”: dalla “eteroglossia” dei singoli alla “omoglossia multiforme” della comunità. Chiude il numero la consueta recensione, questa volta curata dal nostro Direttore, che propone la lettura di un testo di Riccardo Bravi su “Claudel e il teatro del mondo”. Il letterato francese, fra tratti ora rinascimentali ora barocchi, rappresenta la sua visione dell’Europa in decadenza tra le due Guerre Mondiali, senza riu-


11 scire a scorgere nelle avanguardie culturali una significativa via d’uscita da questa impasse. Anche qui il tema del Simbolo calca la scena. Di particolare interesse credo risulti l’accenno alla riflessione teologica di Claudel e soprattutto l’accostamento con Von Balthasar – che personalmente invito ad approfondire – specie per ciò che riguarda l’“ambiente drammatico” di entrambi gli Autori. Si riconosce come l’Europa si sia «mummificata in un istante e non riesce più a muoversi, né a reagire». A partire da questa morte della cultura europea, ormai svuotata, il francese fa dialogare terra e cielo, atteggiamenti differenti nei confronti della storia e della politica, interessi di parte in un unico orizzonte globale in cui vengono compressi paesi ed epoche diverse. «Se non tengo presente l’universo, perdo il senso delle proporzioni». Le parole di Italo Calvino che hanno fatto da incipit a questa presentazione dovrebbero costituire – mi si lasci passare l’idea – quasi il “metro”, l’unità di misura con cui questo numero di Nipoti di Maritain dovrebbe essere letto. Con un respiro ampio e con orizzonti larghissimi. Del resto il nostro orizzonte non può non essere l’universo. Perciò ci interroghiamo, perciò siamo ancora capaci di stupirci portandoci sempre e di nuovo una mano sulla bocca: siamo ancora capaci di ad-orare. Dunque l’atto del pregare è in vista del perdurare dello stato di adorazione. Non ci interessa lo scopo determinato e l’eventuale soddisfazione del me-

desimo, quanto piuttosto il passaggio ad una condizione profonda e senza scopo della relazione con Dio. Questo il minimo comune denominatore di tutti i contributi presenti. Un amore e un’adorazione senza contropartite, senza nulla pretendere e desiderare per noi. Forse, è proprio questo il centro del centro, l’essenza della preghiera, la sua gratuità senza se e senza ma.



Dibattito CELIBATO & CASTITÀ « Anche alla luce degli ultimi sinodi, come ripensare la verginità consacrata, il celibato dei presbiteri di rito latino e la chiamata universale alla castità, da distinguersi rispetto alla mera astinenza sessuale? »


14 Nipoti di Maritain

Dal dominio dell’astinenza alla forza dell’impotenza di Mattia Lusetti

“il sacerdote non deve volatilizzare il proprio operare in un etereo spiritualismo, ma semplicemente riconoscere la potente via della debolezza nella propria prassi”

Il clima di libertà di espressione teologica e di opinione inaugurato da Papa Francesco ha riportato alcune discussioni al centro dell’attenzione mediatica e pure di quella di molti teologi, pastori e fedeli. Tra queste la discussione sulla revisione dell’obbligatorietà del celibato per il clero cattolico di rito latino. Che senso ha il celibato “obbligatorio”? Queste domande sono tornate in auge in occasione del Sinodo per l’Amazzonia, in seguito alle richieste di alcuni per ovviare alla scarsità di vocazioni presbiterali, e alla conseguente assenza per molte comunità della celebrazione eucaristica domenicale. Evitando le secche dell’uso dell’Amazzonia come grimaldello o come feticcio di terrore, riflettere

sulla crisi del celibato credo possa aiutare ad aprire vie nuove per comprendere la castità come chiamata universale per tutti i fedeli. Riguardo alla questione re-introdotta al Sinodo, l’apertura all’ordinazione di sacerdoti sposati (per le chiese di rito latino) è canonicamente possibile ed è quindi fuori luogo paventare sovversioni dell’ordine ecclesiale nell’esaminare questa possibilità, come neanche considerare questa via come la soluzione certa dei problemi rilevati. La sussistenza di una crisi generale del celibato e della castità è evidente. Qui vorrei evidenziare un apporto fondamentale, frutto di “Querida Amazzonia”, riguardo alla vita del presbitero: il


15 fatto che il proprium del sacerdozio non è «il potere, il fatto di essere la massima autorità della comunità» (n. 87), e le sue conseguenze. La missione del sacerdote diocesano implica una vicinanza e una comunanza di vita con coloro che gli sono affidati – e a cui lui è affidato. Lo stile di vita che lo caratterizza deve quindi esprimere questa vicinanza. Conclusosi il tempo in cui si è attuata questa esigenza in senso de-sacralizzante nei simboli, nel vestiario, nelle proibizioni e nella formazione, è necessario pensare a questa vicinanza in maniera pro-attiva. Per avere l’odore delle pecore non è sufficiente cambiare vestito così come per sconfiggere il clericalismo non basta scagliarsi contro presunte o reali forme del passato incarnate in piccoli movimenti. Separare il senso del ministero sacerdotale dall’autorità come esclusivo esercizio del potere è fondamentale e in questa direzione vanno molte delle azioni dell’attuale Pontefice, ancorché poco evidenziate. La nomina di laici – uomini e donne – in posizioni che comportano l’esercizio di un effettivo potere gestionale ed economico realizza simbolicamente ed efficacemente il segnale che non sta in quell’esercizio il proprium del ministero sacerdotale del presbitero. Se l’esercizio del potere come esclusivo monopolio clericale comporta un legame da spezzare bisogna stare attenti ad un rischio tremendo. La rinuncia del potere non va declinata in senso “cataro” o pauperista, ovvero come annullamento di ogni

capacità di azione ed incidenza dei singoli e delle comunità nella più vasta comunità della nazione e dell’umanità. La rinuncia al potere non è impotenza, anche se è la via della debolezza (1Cor 1,25). Nel caso specifico il sacerdote quindi non deve “limitare” il proprio agire o volatilizzare il proprio operare in un etereo spiritualismo, ma semplicemente riconoscere la potente via della debolezza nella propria prassi e inventiva – e non in una cristallizzata ed indiscussa unione data a priori tra il potere e il sacramento dell’ordine. Le conseguenze sulla comprensione del celibato saranno incalcolabilmente positive. Nella misura in cui l’ordine sacerdotale è l’esclusiva via per l’esercizio del potere il celibato rischia – ma per implicazione oggettiva della situazione – di diventare una forma sacrificale strumentale all’acquisto del dominio, nel senso deteriore sviscerato da Nietzsche e Girard. La rinuncia per ottenere il dominio può essere una via pericolosa per il singolo nei suoi rapporti con la propria storia ed identità e con gli altri uomini. Liberata invece da questa situazione la via del celibato può invece riacquistare quella percorribilità libera – del celibato pur obbligatorio – in cui soltanto questo stato può essere “salvato”. Allo stesso tempo esso può diventare una via per quella potenza nella debolezza conseguenza della forma di Cristo impressa nella vita della Chiesa e di ogni fedele. Proprio questa rilettura della dinamica tra potere e libertà può

“nella misura in cui l’ordine sacerdotale è l’esclusiva via per l’esercizio del potere il celibato rischia di diventare una forma sacrificale strumentale all’acquisto del dominio”


16 Nipoti di Maritain

“la cristificazione della sessualità implica prima di tutto il riconoscimento di due aspetti intrinseci dell’umano: la fragilità e la relazionalità”

favorire un potenziamento nella comprensibilità della chiamata di tutti alla castità. La riduzione della castità alla pura astinenza sessuale infatti sembra perfettamente congruente da una parte con la neutralizzazione del proprium cristiano verso una generica forma di dominio religioso di sé, dall’altra con una forma di esercizio di potere abilitante ad un riconoscimento esteriore da parte della comunità. Entrambe le motivazioni danno anche ragione della crisi della virtù: • la cultura sembra spingere il dominio religioso generico verso forme alimentari di rinuncia o di ascesi fisico-estetica dove non c’è spazio per l’astinenza sessuale; • la comunità sembra non riconoscere più la valida identità di qualcuno in base alla pubblica conformità a norme sulla vita sessuale, alle quali anzi la cultura corrente è decisamente contraria. La prometeica dialettica insuccesso/successo della castità come astinenza (resistere o non resistere), indica che questa forma riduttiva di castità non è propriamente cristiana. La via della tenerezza e della sua espressione corporea su cui Papa Francesco insiste indicano appunto il terreno su cui si gioca la castità cristiana. La cristificazione della sessualità implica prima di tutto il riconoscimento di due aspetti intrinseci dell’umano: la fragilità e la relazionalità. Il

pieno abbracciare questi aspetti è condizione perché il vivere secondo la forma e le norme che il cristianesimo (cattolico) presenta come proprie della castità sia autentico e fruttuoso e non una forma di puro controllo temporaneo o permanente. La coscienza della fragilità dell’essere-corpo come esposizione all’altro, il suo inveramento nella relazione richiedono di considerare la castità come un cammino che va vissuto nella conoscenza ed espressione emotiva e in relazioni autentiche e ricche. Essa si misura nella capacità del singolo di diventare creatore e custode di relazioni di reciproca donazione ad ogni livello e in ogni ambito. La castità perciò si attua inevitabilmente e per ciascuno in un cammino relazionale a partire dalla propria storia, una via di potenziamento autentico e non di immiserimento. La parola e la condivisione dei cammini e delle fatiche – non del controllo, ma dell’esposizione e della pazienza – è l’unica via per ricevere e cogliere il frutto di un dono universale.


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Tutto del Signore di Giacomo Tarullo

“un prete così giovane... non senti la necessità di una donna?”

In punta di piedi entriamo nella fascinosa e sempre attuale domanda che da sempre accompagna con curiosità, alle volte addirittura con disprezzo, la logica dell’essere consacrato per la causa del Regno di Dio. «Il celibato sacerdotale, che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma, conserva tutto il suo valore anche nel nostro tempo» (Sacerdotalis Caelibatus). Proprio attraverso le parole di un grande papa degli ultimi tempi voglio addentrami in quella che è stata la mia scelta di vita. Che cosa impedisce a un prete di sposarsi? Perché la Chiesa ha tanto a cuore la verginità per il Regno dei Cieli? Dio, forse, non ci ha creati sessuati e perciò ci permette di fare del nostro corpo quello che vogliamo e ancor di più esprimerci attraverso di esso? Ho voluto cominciare

questa mia riflessione riprendendo un’enciclica di Paolo VI per la verità troppo accantonata. Essa ci permette di vedere e di capire il motivo per cui la Chiesa da secoli insiste per mantenere saldi questi cardini della sua spiritualità. Essi, seppur non riscontrabili in maniera ed eloquente in Gesù e perciò nei primi discepoli, sono divenuti «gemme» da custodire ma ancor di più da testimoniare al mondo. Molto spesso la domanda che mi è rivolta di più è: «Un prete così giovane... non senti la necessità di una donna?». La domanda, seppur rivolta con ingenuità, mi fa capire come la Chiesa ancora una volta cammina controcorrente alla logica del mondo. Un uomo sposa una donna, e viceversa, per assecondare dei bisogni oppure per costruire


18 Nipoti di Maritain un amore oblativo l’uno all’altro e perciò incontrare e donare amore, così come Cristo per la sua Chiesa? L’amore è oblatività; un dono che non può essere tenuto nascosto ma che deve risplendere e portare sempre più gioia e vita. Il dono se lo tengo chiuso, ovattato, perde la sua bellezza e la sua libertà: dev’essere ridonato. Sì, la verginità per il Regno dei Cieli è un dono e perciò possiamo chiamarla: vita.

“chi sceglie questo stato di vita sa che non si appartiene più ma che è tutto del Signore”

Come può un prete, oppure un consacrato, generare vita? Seppur non sia chiamato a generare in senso reale, ogni sacerdote, e perciò consacrato, è chiamato a donare vita nuova. In ogni chiesa abbiamo un luogo adatto per la celebrazione dei battesimi: molto spesso, soprattutto nel pensiero dei Padri della Chiesa, il battistero è sinonimo dell’utero materno. La Chiesa nel battezzare fa rinascere a nuova vita ogni creatura lavandola dal peccato e perciò rigenerandola alla vita nuova. Ora se possiamo dire che la Chiesa è feconda dobbiamo vedere nella persona e nell’evento di Cristo morto e risorto questa grazia. Tutti noi allora possiamo dire di essere rinati grazie all’opera del Cristo vittorioso che ha una caratteristica peculiare: la verginità. Il Cristo Risorto, perciò caratterizzato dal corpo glorioso, non ha nessun bisogno terreno se non quello di un amore totale per la Chiesa e ancor di più per tutta l’umanità; un amore fecondo che genera esistenza, una vita eterna. Allora noi battezzati cerchiamo

sempre più questa conformazione a Cristo che – seppur piena soltanto nell’escatologia – possiamo cominciare a vivere già su questa terra. Chi è allora il vergine per il regno dei Cieli? Egli è il testimone della novità del Cristo risorto con il compito di portare al mondo tale verità e perciò renderla viva mediante l’amore oblativo di se. La verginità è un dono che il vergine non può tenere per sé ma che deve ridonarlo. Chi sceglie questo stato di vita sa che non si appartiene più ma che è tutto del Signore; dona tutto se stesso sapendo di ricevere il centuplo. L’amore per il Signore allora ci permette di superarci, di modellarci a Lui mediante l’azione dello Spirito e ancor di più di aiutare chi ci sta intorno a migliorarsi e di crescere nel vivere l’amore stesso. Vivere tutto questo ci permette di vivere la freschezza della libertà. Una libertà che non è libertinaggio, una libertà che ha la sua immagine plastica in Gesù sulla Croce. Ma come può Gesù sulla croce essere un emblema di libertà? Il Figlio ama talmente tanto il Padre, e insieme l’umanità, che non può non assecondare la volontà di amore che è nel Padre stesso. L’obbedienza filiale, e perciò l’amore, rendono libero il Figlio da potersi donare completamente. Il vergine, o il celibe per il regno dei Cieli, si dona completamente al Padre nella volontà di portare e testimoniare il Figlio nel mondo. Certamente questa testimonianza di fede non può essere fatta in solitudine. Tutta la Chiesa, vista


19 appunto come una famiglia e comunità, celibi e non, è chiamata in primo luogo ad annunciare il Cristo ma ancor di più le famiglie sono chiamate ad aiutare i consacrati a incoraggiarli in questo loro compito e a pregare per loro. A tal proposito penso sia bello condividere la chiosa che Presbyterorum Ordinis al n. 16, documento dedicato tutto al sacerdozio ministeriale, fa a proposito: «Questo sacro Sinodo prega perciò i sacerdoti – e non solo essi, ma anche tutti i fedeli – di avere a cuore il dono prezioso del celibato sacerdotale, e di supplicare tutti Iddio affinché lo conceda sempre abbondantemente alla sua Chiesa». Ogni giorno vedo come la Chiesa, comunità, si prende cura di ogni suo figlio e perciò di come ogni suo figlio si apre alle necessità dei fratelli. La bellezza dell’essere celibe passa proprio in questo tipo di relazione, che possiamo definire trinitarie, e che attraverso esse si rinsalda sempre di più il vincolo di amore oblativo. Siamo chiamati, ciascuno, a vivere non per noi stessi ma per l’esistenza e per la gioia dell’altro. Allora essere consacrato non mi chiude nel sacrificio di perdere qualcosa ma apre alla gioia di una parola donata, a una carezza data, a una lacrima asciugata ma anche a una risata condivisa. È questa la mia piccola esperienza di prete alle prime armi ma che ogni giorno risceglie questa vita sapendo di essere amato e perciò pronto a ridonarlo all’altro. Una scelta di vita che forse non riesco a comprendere pienamen-

te ora. Una vita che forse non ha bisogno di essere compresa quanti di essere vissuta; vissuta intensamente.


20 Nipoti di Maritain

Un celibato liberamente scelto ha più valore di Omar Vitali

Affrontando questo quesito occorre distinguere tra celibato e castità. La castità è il rispetto del proprio corpo e vale per tutti; anche agli sposi cristiani è chiesta la castità del corpo ma non il celibato. Mi pare interessante e condivisibile il commento spirituale di don Luigi Maria Epicoco sul tema della castità associata alla figura di Giuseppe: «Giuseppe rinuncia al possesso: al possesso della donna che ama e al possesso del figlio. Rinunciare al possesso non significa disinteressarsi, significa prendersi la responsabilità di ciò che si possiede, di ciò su cui non possiamo reclamare nessun diritto, perché non è roba nostra. La castità a cui siamo chiamati vale poco

se è castità con la continenza: la castità è un modo di amare, non un modo di non amare o di non frenarci nell’amore. La castità è lasciare spazio a un sogno che non è nostro, ma che siamo chiamati ad amare come se fosse nostro. [...] Tu rinunci a un tuo possesso e fai spazio a un possesso che non è tuo e, in tutto questo, non ti senti frustrato, ma vivi un’intima gioia»1. Il celibato innanzitutto è un dono e una scelta per alcune persone. Nel caso del presbitero diocesano di rito latino il celibato – come la povertà e l’obbedienza – non è un voto al pari di quello dei frati o delle monache, bensì la 1 L.M. Epicoco, Qualcuno a cui guardare, Città Nuova, Roma 2019.


21 promessa di non sposarsi, messa tra le mani del vescovo durante l’ordinazione. Altro discorso infatti vale per la verginità consacrata; con essa le persone consacrate mettono nelle mani dei superiori e direttamente a quelle di Dio il proprio voto di verginità completa – innanzitutto spirituale – per accogliere con apertura totale il Regno. Il celibato e la verginità, ma anche la castità, sono doni di Dio e non vanno certamente disprezzati. Hanno un fondamento biblico solido che non può essere scalfito da situazioni contingenti; mancano a volte però battezzati che ne offrano gioiosa testimonianza, attraverso le loro parole e la loro vita. Un esempio analogo vale per il sacramento del matrimonio, il cui significato profondo e spirituale prescinde dal numero delle persone che si sposano. Il celibato e la verginità, pur non essendo di per sé sacramenti, nondimeno sono valori da custodire, a prescindere dalle persone che si decidono per essi. Un discorso a parte riguarda invece la possibilità di rendere meno gravoso lo stato di vita dei presbiteri di rito latino, ai quali attualmente è richiesto obbligatoriamente di fare promessa di celibato. A proposito di questo punto, molto scottante secondo alcuni commentatori, vedremo come si orienteranno i vescovi e il papa. Negli ultimi sinodi – compresi quello sull’Amazzonia e quello della chiesa tedesca, in corso – non è emersa una presa di posizione univoca su questo principio.

Ho chiesto a un mio carissimo amico di aiutarmi a riflettere. Don Gianluca è parroco di un paesino della bergamasca. A suo avviso, esistono alcuni vantaggi nel non essere sposato: la libertà di vivere relazioni profonde con tutti nella comunità, senza la gelosia di un partner; il servizio a tempo pieno per il Regno; la possibilità di essere prete per tutti, anziché limitare il proprio cammino a una cerchia di persone; l’ottimizzazione delle risorse a disposizione. Resta però un forte punto debole: la solitudine del prete, non solamente fisica ma soprattutto del pensiero; nondimeno, le gelosie si fanno sentire anche in parrocchia. Se un prete quando torna a casa non ha nessuno con cui confrontarsi, i problemi si ingigantiscono; non di rado, soprattutto quando manca una sincera fraternità presbiterale diocesana, c’è chi si ammala di burn-out e va in depressione. Forse, come propone don Gianluca, le cose potrebbero migliorare se ci fosse una “specializzazione” del prete; in pratica i presbiteri di una parte del territorio – una vicaria, o comunque su più parrocchie – farebbero vita comune, condividendo la residenza, i pasti e i pesi della giornata, e ciascuno di essi si specializzerebbe in un ambito specifico, o nella pastorale verso una determinata fascia d’età, dai bambini agli anziani, passando per la pastorale giovanile. In questo modo non si rimarrebbe relegati ad un’unica parrocchia, ma si allargherebbe l’orizzonte incontrando contesti variegati; la vita “familiare” con i confratelli – già


22 Nipoti di Maritain felicemente sperimentata oggi da alcune realtà, non solo di religiosi – sarebbe un grande sostegno affettivo, emozionale e relazionale. Tuttavia non ci dovremmo scandalizzare se fosse abolito l’obbligo del celibato per i preti. Su questo tema, anche per via della mia esperienza, il mio pensiero – così come quello di don Gianluca – è cambiato. Non credo che per la Chiesa sia un problema riformare le norme canoniche riguardanti il celibato sacerdotale, considerando che già vi sono numerosi presbiteri sposati di rito orientale e nell’ordinariato cattolico per chi proviene dal mondo anglicano, oltre al fatto che la Santa Sede può concedere una dispensa affinché sia ordinata una persona sposata (can. 1047). Come dice giustamente anche don Gianluca, il celibato non è l’unico problema né il principale presente nella Chiesa; anche abolendolo, non si risolverebbero del tutto le piaghe della pedofilia o degli scandali economici o sessuali. E non si tratta solamente di mancanza di preti, in Amazzonia e nel mondo intero; la crisi vocazionale è solamente un sintomo di una crisi spirituale profonda. Si prega con meno intensità e raramente ci si ritrova a meditare la Parola di Dio attraverso lo stile della lectio: lo Spirito Santo chiama come prima, ma gli concediamo meno spazio per agire; manca una pastorale vocazionale sul territorio, forse anche perché la figura del “prete”

è messa in discussione, sempre meno credibile e definita rispetto al passato e sempre più in ripensamento. I vescovi hanno dedicato il Sinodo dei Giovani anche al “discernimento vocazionale”: auguro alla Chiesa una nuova evangelizzazione credibile che parta da questo. Vocazioni non significa che tutti debbano diventare preti o suore, bensì che ciascuno riesca a trovare il proprio posto nel mondo, come battezzato e come chiamato alla santità attraverso una “vocazione” personale, cioè quella chiamata che rende davvero felici già amando e lavorando in questo mondo.


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Sentire cum Ecclesia: non è (solo) questione di celibato di Michele Di Gioia

“dobbiamo chiederci se la disciplina celibataria sia di vero sostegno all’universalità della Chiesa”

Quello che si è scatenato “esasperando” i risultati del recente Sinodo non ha a che fare solo con la questione del celibato dei presbiteri: mostra, piuttosto, quanto sia necessario un profondo rinnovamento che sia effettivamente ecclesiale, che ci ricordi la vocazione di essere convocati per il Regno di Dio, non per il regno di qualcuno. È evidente, quindi, che riflettere sulla questione celibataria apre orizzonti molto più ampi del previsto e dischiude dinanzi ai nostri occhi la necessità di ridare senso alle dinamiche profonde del vissuto ecclesiale che mai può prescindere da una riflessione teologica. È quello che proviamo a fare in queste righe: offriamo tre interrogativi che pongono la questione della possibilità del clero uxorato e che, al contempo, sorgono dalla

questione stessa che è davanti ai nostri occhi. La questione “celibato sì, celibato no” apre anzitutto una questione teologica in senso stretto: ci pone dinanzi all’identità stessa del Dio Uno e Trino, autorivelatosi. Di questa identità, il celibato ci rimanda a due interessanti spunti di meditazione (perché la teologia si fa in ginocchio!). Anzitutto, la bellezza della generazione in Dio, del Padre che genera il Figlio, ci ricorda che la stessa generatività è scritta nell’essere umano in quanto tale. Tanto più la sponsalità: sono molteplici le pagine del Primo e del Secondo Testamento in cui Dio stesso apostrofa Se stesso come sposo. L’imperativo di Genesi, che imposta la procreazione, non è un dettaglio antropologico, bensì


24 Nipoti di Maritain

“uomini che, mentre sperimentano la sponsalità e la paternità, diventano ‘capaci’ di far sperimentare la sponsalità di Cristo e la paternità di Dio”

esprime un tratto essenziale della stessa umanità: procreare altre umane persone è scritto nella bellezza stessa dell’identità dell’uomo e della donna. Ci chiediamo, quindi, se teoantropologicamente il celibato non sia una prassi, una disciplina ecclesiale (perché tale è; non parliamo qui del voto di castità) che tradisca “in generale” questo imperativo identitario delle origini. A ciò, aggiungiamo una seconda questione: Dio è Il Chiamante; ogni vocazione viene dalle sue mani, dalla sua creativa sapienza, dalla sua “necessità” di rendere il popolo di Dio colmo dei carismi necessari per la vita del Regno. Ora bisogna domandarsi in tutta onestà: com’è possibile che Il Chiamante doni la chiamata al presbiterato solo ai celibi nella Chiesa latina, mentre così non è nella restante Comunità credente? Che forse Dio “rispetti” un umano confine nel distribuire i suoi doni, nell’elezione alla chiamata al presbiterato? Questa disciplina non rischia forse di “menomare” l’agire-chiamante dell’Onnipotente? Da tutto ciò, scaturisce poi la riflessione ecclesiologica. Senza la pretesa di esaurire il quid del discorso, leggiamo il celibato nello sguardo dei quattro attributi che il Simbolo niceno-costantinopolitano definisce e sancisce. La disciplina che chiede ai presbiteri di non sposarsi ci deve far porre la domanda sulla Chiesa “una” e “cattolica”: è vero che unità non equivale a uniformità; ma qui non stiamo parlando di dettagli, di prassi che possono differire in re-

lazione alla località della Chiesa; stiamo parlando dei sacramenti. Dobbiamo chiederci se questa disciplina in qualche modo ferisca l’unità intorno a questo sacramento dell’ordine; se, in sostanza, crei una teologia e una prassi del presbiterato che finisca per distinguere quasi in una classe superiore e in una inferiore il clero uxorato e quello che non lo è. Dobbiamo chiederci, di conseguenza, se la disciplina celibataria sia di vero sostegno all’universalità della Chiesa, o se invece sia frutto di una cultura e di decisioni di una porzione della cristianità. Se, insomma, forse siamo noi i primi a creare distanze tra Occidente e Oriente, non meno importanti fra quelle esistenti fra Nord e Sud del mondo. Ancora, bisogna chiedersi se la disciplina celibataria incrementi o meno la santità e l’apostolicità della Comunione ecclesiale: e cioè, se impendendo la possibilità del clero uxorato non si finisca per privare la Chiesa di sposi santi e di uomini che vivano fino in fondo la propria chiamata alla santità, che passi per il matrimonio a livello esistenziale e quindi per il presbiterato a livello ministeriale. E l’apostolicità di tutto ciò è data dal fatto “naturale” che tra i Dodici abbiamo uomini sposati, Pietro in primis: nella Scrittura del Secondo Testamento è palesemente chiara la prassi dei ministri ordinati uxorati. La Tradizione bimillenaria della Chiesa ci trova fedeli all’origine e a tanti secoli dove era “naturale” l’ordinazione di uomini sposati?


25 In ultima istanza, diamo brevemente uno sguardo alla prassi ecclesiale, con una prospettiva pastorale. Chiediamoci se l’ordinazione di uomini sposati possa dare un maggiore sentire antropologico ai ministri, a chi prende decisioni, nel piccolo come nel grande; se cioè la vita “normale” delle famiglie non possa divenire una via “interessante” per tutte le questioni ecclesiali (magisteriali, teologiche...). Se quella via misericordiae, di cui tanto oggi parliamo, possa divenire effettivamente l’architrave della vita della Chiesa passando anche nel bel mezzo del vissuto ordinario di uomini che, mentre sperimentano la sponsalità e la paternità, diventano “capaci” di far sperimentare la sponsalità di Cristo e la paternità di Dio efficacemente senza dimenticare o bypassare le fragilità e le fatiche della gradualità: i libri, le teorie, le idee non conoscono fragilità e fatiche. La vita reale, sì. I “capitoli” restano aperti; e in conclusione ne apriamo un altro: e se la questione del celibato potesse essere un bel banco di prova per il sensus fidei fidelium? Di cui, ogni tanto, ci si riempie la bocca. Ma facciamo fatica a trasformare questo dato in conseguente prassi. Cosa “sente” la Comunità ecclesiale sul celibato? Cosa dice la fede del popolo? È veramente questo un fatto centrale per la fede? Ci dobbiamo forse chiedere se siamo ancora nell’impasse di una Chiesa “fissata” sulle questioni di morale sessuale e restia ad assumersi le gravità di una Comunità

“credente” che pratica ingiustizie a più non posso (vedi: guerra, sfruttamenti, divari economici e culturali…)? La questione del clero uxorato, pertanto, può divenire l’occasione preziosa per sentire cum Ecclesia ma anche per sentire Ecclesiam, in tutta la sua vastità, in tutta la sua capacità di essere riflesso evidente e fedele di un Dio che non smette di desiderare ciò che noi, continuamente, chiediamo nella Preghiera eucaristica II quando diciamo: «Rendila perfetta nell’amore».

“cosa ‘sente’ la Comunità ecclesiale sul celibato? Cosa dice la fede del popolo? È veramente questo un fatto centrale per la fede?”



Dibattito SIMBOLICO NEL POST-SECOLARE « Cosa resta del simbolico nell’età post-secolare? »


28 Nipoti di Maritain

La profanazione continua nel mondo post-simbolico di Michele Ambrogio Lanza

“il Mito, nel momento stesso in cui viene composto, è già un rendere meno sacro qualcosa”

La nostra epoca viene da molti autori definita “post-secolare”, in quanto prenderebbe le mosse dalle profanazioni dei Miti del secolo scorso, senza costruirne di nuovi, ma utilizzando, per così dire, le macerie prodotte dalla secolarizzazione. Il Mito, e i simboli che ad esso alludono, non è più rivolto ad una comunità specifica, ma ad una massa informe di individui: i consumatori del mondo globalizzato. Si può osservare, tuttavia, una crescita costante della forza attiva dei miti, o per meglio dire, degli Immaginari, che, pur avendo breve durata rispetto al passato e trovandosi in contesti più che differenti rispetto all’originale, riescono a conservare un velo di nulla, come direbbe Sartre. Per

fare un esempio dall’attualità politica potremmo riferirci all’uso mass-mediatico della canzone partigiana Bella Ciao, che, anche fuori dai temi dell’antifascismo, riesce comunque a com-muovere l’uditorio. La ritroviamo infatti con un testo diverso nelle piazze dei Fridays, nelle Serie tv e, ultimamente, anche cantata dalla Commissione Europea. Non spetta a noi giudicare l’uso strumentale o meno di certi Miti o Immaginari, perché ciò che ci interessa è proprio il loro uso, ben sapendo che i simboli sono da sempre “per” qualcosa e da sempre sono lontani dal mondo che vorrebbero richiamare. Secondo Fulvio Carmagnola (Il Mito profanato p. 10) al Mito tocca una sorte strana, perché esso è sempre già profanazione, cioè, come dice anche


29 Giorgio Agamben, re-immissione del Sacro nell’uso comune delle cose. Potremmo dire che già il Mito, nel momento stesso in cui viene composto, è già un rendere meno sacro qualcosa. Però che un simbolo possa venir richiamato quando il suo pubblico – la sua realtà – è ormai scomparso non è un evento nuovo che caratterizza solo la società contemporanea. Si potrebbe fare l’esempio della parola d’ordine, oggi diremmo Slogan, della Prima Guerra Persiana, cioè “liberare i Greci d’Asia”. Chi si è confrontato un po’ con la storia greca ricorderà che questo stesso Slogan è stato usato dagli Spartani nelle guerre contro la Persia di due secoli dopo; in seguito ancora sia da Filippo di Macedonia che da Alessandro Magno, e, infine, addirittura, durante le guerre romane contro i Parti! Questo perché, anche se la Comunità a cui era originalmente rivolto non esisteva più, il mito della libertà dei Greci d’Asia manteneva una carica simbolica enorme, utilissima per la propaganda politica. Prendiamo però in esame altri miti molto usati recentemente in ambito politico, cioè la “Civiltà cristiana” (o anche le “radici cristiane dell’Europa o dell’Occidente”). Secondo Riccardi, fondatore della “Comunità di Sant’Egidio”, (video-intervista a Presa Diretta del 13-02-2020) ci sarebbe oggi un tentativo di utilizzo “nazionale” del Cristianesimo Cattolico, che per sua natura, invece, sarebbe universale. Si direbbe una profanazione, come le precedenti, ed è evidente il fatto che essa è una profanazione di profanazio-

ne, perché non è certo la prima volta che questi Miti religiosi vengono usati a scopo politico. Ovviamente per Riccardi essa è innegabilmente negativa, ma è possibile, invece, utilizzare la profanazione in termini positivi? Agamben pensa di sì, anzi, la profanazione sarebbe l’unico modo per intendere correttamente il mito, a patto che essa non si fermi, o meglio, che resti sempre profanazione, senza “solidificarsi” nel Sacro. Abbiamo visto che è proprio del mito fin dalle origini “profanare” e vivere proprio di questa opera, ma, se è vero che con la profanazione si avvicina il Sacro al profano, cioè al mondo del senso comune, perché è possibile profanare e ri-profanare uno stesso mito, senza esaurire mai la serie delle profanazioni? Agamben utilizza la metafora fisica dell’alto-basso, nella quale il Mito occupa l’alto e il basso invece è l’uso ordinario delle cose. L’ottimo sarebbe una profanazione senza sbocco, un uso senza uso, in modo tale da non produrre altri miti da sé, ma questo non avviene, né può avvenire. Anche negli esempi “perfetti” di profanazione senza sbocco, cioè l’arte astratta, il design, l’alta moda, che usano senza scopo, sono valore senza esserlo, c’è sempre uno sbocco “Sacro”, in quanto proprio queste esperienze vengono elevate, sottratte all’ordinario e divengono quindi un nuovo Sacro. Oppure semplicemente ci si annoia. Tutte le forme di “gioco”, come il Dada, alla fine si stancano del proprio stesso movimento profanatorio senza sbocco. È il caso di alcuni

“l’ottimo sarebbe una profanazione senza sbocco, un uso senza uso, in modo tale da non produrre altri miti da sé, ma questo non avviene, né può avvenire”


30 Nipoti di Maritain designer olandesi, i Droog, che hanno provato a “giocare” con la dinamica commerciale dell’arte contemporanea, che assegna come criterio di qualità un prezzo ad ogni opera. (Carmagnola, Il mito Profanato, pp. 24-35). Hanno provato infatti a far assegnare ai visitatori delle loro mostre il prezzo delle opere, de-costruendo il meccanismo valore-qualità dell’opera. Però poi semplicemente si sono stancati di continuare! Quindi, tralasciando la possibilità di rimanere nel gioco-profanazione senza sbocco, torniamo al Mito. La dinamica alto-basso della profanazione non rende conto del fatto che le profanazioni sono continue e non avvicinano mai davvero il Sacro all’ordinario. Per fare un esempio dobbiamo immaginare “il profanatore” e i suoi simili come un centro di una circonferenza e i punti della circonferenza come il piano del simbolico-Sacro. Ogni profanazione non farà scendere il punto della circonferenza verso il suo pubblico, ma lo sposterà sulla circonferenza, producendo sì un movimento, una velocità e anche un’accelerazione, ma angolari! La distanza tra simbolico e ordinario non si riduce mai, perché come sappiamo ogni punto della circonferenza è equidistante dal suo centro. In questo modo è possibile immaginare quello che vediamo nel nostro mondo post-simbolico, cioè continue profanazioni che non restituiscono il mito, il Sacro all’ordinario, ma solo lo spostano più in là sulla circonferenza. Non possiamo quindi “profanare sen-

za uso”, ma nemmeno possiamo arrenderci di fronte alla ridda di continue profanazioni. Cosa serve, allora, per interpretare questi movimenti angolari, sempre più veloci e contraddittori che avvengono nel Mondo post-simbolico? Dovremmo accettare fino in fondo la mitopoiesi e discuterla criticamente, senza però aspettarci una fine del Mito, né una fine della Critica-Profanazione: rassegnarci al movimento insomma. La risposta, quindi, è forse antica, cioè utilizzare la lentezza, la calma concettuale del pensiero che osserva i movimenti, non li nega, né li esalta, e aspetta il far della sera.


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Sul blasfemo nell’arte contemporanea di Alessio Santiago Policarpo

“l’artista odierno, con scaltro calcolo, impiega a suo favore le strategie del marketing, alimentando il clamore e lo scandalo, come garanzia di promozione commerciale”

«La dissacrazione è uno dei meccanismi di provocazione più utilizzati dall’arte contemporanea proprio perché va a intaccare il senso del sacro che ha radici profonde nell’umano e nella comunità» (A. Crespi, Ars Attack. Il bluff del contemporaneo, Johan & Levi, Milano 2013, p. 38) Nel cogliere un tratto distintivo dei filoni visivi attuali, Crespi diagnostica una deriva delle arti che consiste nel rigetto di princìpi che per secoli avevano colmato di senso e di valore l’orizzonte spirituale dell’uomo. Un simile j’accuse è alla base altresì del pensiero del francese Jean Clair, lucidamente esposto in “Critica della modernità” e, con maggior durezza, in “De Immun-

do”, ove si parla di «potenza profanatrice» dell’arte odierna (p. 30). Le idee di questi autori sono censorie o inficiate da pregiudizi? Se l’idea di Hans Sedlmayr, adombrata nel suo “Perdita del centro”, di una fine dell’arte, provocata dall’allontanamento dell’uomo da Dio, trascende una valutazione storico-artistica stricto sensu, è lecito tuttavia interrogarsi su alcune espressioni che disvelano un’arte disumanizzata, svuotata di significati e di etica. Ciò viene denunciato inoltre da Simona Maggiorelli nel suo recente libro “Attacco all’arte. La bellezza negata”, in cui si rileva segnatamente l’asservimento dell’arte al mercato e il suo naufragio nichilista. Data la vastità del tema del blasfemo nell’arte di oggi, ci focalizzere-


32 Nipoti di Maritain mo solo su alcune opere, mostrandone le aporie e proponendo alcune riflessioni.

“si osserva oggigiorno il rovinoso crollo della frontiera tra i concetti di critica e di insulto”

Le avanguardie dei primi due decenni del Novecento non generarono – come Sedlmayr paventava – l’eclissi del rapporto con il divino: anche se furono scardinati elementi formali e iconografici cristallizzati dalla tradizione, provocando esiti inauditi in spregio a ogni canone, non si spense mai negli artisti di quel tempo la fede o l’afflato spirituale, spesso di impronta cattolica o legata a differenti correnti di pensiero, come la teosofia. L’opera di Max Ernst “La Vergine sculaccia il bambino Gesù davanti a tre testimoni” del 1926, che gli costò la scomunica, risulta eversiva nei confronti delle convenzioni religiose e sociali della borghesia, giacché tale era lo scopo del dada e del surrealismo, ma senza intenzioni propriamente sacrileghe da parte dell’autore. Emil Nolde, nel dare alle figure di Cristo e degli apostoli tratti mostruosi e deformati, era mosso da una peculiare ideologia che non intendeva oltraggiare la religione: questa veniva riletta risalendo a una visione ancestrale e arcaica del mondo, pienamente connessa con la ricerca del divino. Siamo di fronte a opere blasfeme o sull’orlo del blasfemo? Un’asserzione risulterebbe sbrigativa. È invece a partire dagli ultimi decenni del Novecento a oggi che si osservano un’estremizza-

zione e una gratuità di certi metodi di spiazzamento e di sovvertimento dei valori, che segnano un mutamento rispetto alle prime avanguardie. “Piss Christ” di Andres Serrano del 1987 è una foto che ritrae un crocifisso completamente immerso nell’urina: il simbolo del sacrificio compiuto per amore viene affogato nell’immondo; l’opera provocò l’ira di molti cattolici, alcuni dei quali nel 2011 tentarono di distruggerla in occasione di una mostra tenutasi ad Avignone. La rana crocifissa di Martin Kippenberger del 1990, invisa a Ratzinger, voleva essere una denuncia dell’uomo abbruttito dall’alcool e da altre bassezze, ma sconvolse financo uno storico dell’arte come Philippe Daverio. Benché gli autori si siano discolpati da intenzioni blasfeme, è legittimo sospettarne l’ipocrisia: essi, infatti, hanno sfruttato il meccanismo della dissacrazione e dello sconfinamento in modo da attrarre e da solleticare l’interesse morboso del pubblico, con notevole riscontro in termini di pubblicità e di notorietà. È pertanto l’appiattimento sullo shock e sul sensazionale – ormai consueti nella nostra epoca – che si ricusa: gli esponenti delle avanguardie storiche impiegarono tali mezzi per una convinta critica della società, al costo di rimanere isolati o perseguitati, mentre l’artista odierno, con scaltro calcolo, impiega a suo favore le strategie del marketing, alimentando il clamore e lo scandalo, come garanzia di promozione


33 commerciale, incurante del sentimento religioso o del rispetto che andrebbe riservato alla potenza dei simboli.

operazione che ha riattualizzato l’immagine di Gesù, in quanto questi si identifica con chiunque venga respinto e disprezzato.

Il Cristo e il Buddha tramutati nel clown Ronald McDonald di Jani Leinonen o il Gesù bambino con le sembianze di Hitler in braccio alla madonna di Giuseppe Veneziano sono mere provocazioni? Non si nega la genialità di questi artisti, ma utilizzare figure che hanno un peso sul piano religioso, ideologico o istituzionale è una classica mossa del contemporaneo, divenuta ormai quasi scontata. La libertà dell’artista non va messa in dubbio, ma occorre riflettere se siano accettabili o meno l’appropriazione e la dissacrazione fine a se stessa di figure legate alla dimensione sacra, in particolare quando vengono trasformati in modo ridicolo o quando viene travisata la loro “identità”. Si osserva oggigiorno il rovinoso crollo della frontiera tra i concetti di critica e di insulto, tant’è che spesso vengono impropriamente ritenuti sinonimi. La legittimità della critica alle istituzioni religiose, se attuata senza sfociare nella diffamazione, va quindi difesa: esempi inquietanti ma pertinenti sono la serie di fotografie “Gli intoccabili” del cubano Erik Ravelo del 2013, raffiguranti bambini crocifissi sui loro stessi aguzzini, e “Lucky Ehi” di Fabio Viale del 2017, una copia della “Pietà” di Michelangelo in cui la figura di Cristo è sostituita da quella di un immigrato africano,

Sebbene l’analisi di un’opera non possa essere affrontata da una visuale moralistica o peggio ancora bigotta, è possibile tuttavia basarsi sull’assunto che l’arte è linguaggio e che il suo fine è comunicare e al contempo muovere una critica. Di fronte ad alcune realizzazioni disturbanti è perciò possibile dubitare che esse abbiano la valenza di opere di denuncia, giacché si avvicinano piuttosto a una gratuita provocazione, a volte denigratoria, anche quando le intenzioni originarie non lo erano. Se la bellezza è stata esiliata dal campo dell’arte, è discutibile che le venga però negata la sua missione di veicolare un messaggio profondo, di elevazione e di trasfigurazione del mondo. La scelta dei mezzi espressivi dovrebbe riflettere la responsabilità etica e l’onestà intellettuale dell’artista, al quale spetta il compito di mantener salda l’unione tra forma e contenuto, che la contemporaneità ideologica ha dissociato in modo estraniante. Dunque, più che di un deliberato atto di blasfemia visiva, si può parlare piuttosto di una cinica strumentalizzazione votata al facile sensazionalismo.

“più che di un deliberato atto di blasfemia visiva, si può parlare piuttosto di una cinica strumentalizzazione votata al facile sensazionalismo”


34 Nipoti di Maritain

Per un orizzonte simbolico al di fuori del denaro di Samuele Del Carlo

“i simboli sono diventati solo quelli del denaro e del lavoro, di una schiavitù. Sono diventati vuoti, ripetuti senza senso e senza essere vissuti”

L’uomo è una foresta di simboli. La cultura dell’uomo contemporaneo, cosiddetto “occidentale”, è una palude di simboli sepolti nella melma di una decostruzione continua, condannati a un disordine. Siamo necessariamente, costitutivamente esseri simbolici e la nostra ricerca di senso è una perenne ricerca di ordine. Ma poiché un ordinamento simbolico ingiusto può causare infelicità, abbiamo abolito anche l’ordine insieme all’ingiustizia, condannandoci all’inerzia. Abbiamo oggi nostalgia di senso, di ordine mentale e spirituale, di una mèta; abbiamo nostalgia di vivere apertamente la nostra realtà simbolica, di avere una guida per i nostri sensi sviati, che ci conduca alla felicità piena di senso. Una via, una

via simbolica, da percorrere. Senza una Parola profonda non c’è senso e non c’è felicità. Vaghiamo come bestie senza fissa dimora, senza pascolo. Abbiamo fame e sete di senso, di giustizia, di sapere e di condivisione. L’uomo è diviso oggi anche da se stesso, e da ogni altro uomo, dalla società, e dalla natura. È orfano di tutto. Orfano di simbolico, orfano di cultura, orfano di spirito; tagliato a metà, senza la sua altra metà: solo, isolato, condannato a non poter capire. Pensare è pericoloso: si potrebbe aprire la voragine di vuoto nella quale veramente si trova. Non resta che agire secondo uno schema meccanico, come è stato perfettamente rappresentato nel padiglione della Russia di 3 anni


35 fa alla biennale di Venezia (con la mirabile installazione “Cambio di scena” di Grisha Bruskin) e avveniva di nuovo ancora nel padiglione della Russia dello scorso anno, con l’omaggio a Rembrandt (e al Vangelo di Luca 15, 11-32) . C’è desiderio di un ritorno impossibile, ad una casa abbandonata, da dove si è fuggiti per sperperare tutto. I simboli sono diventati solo quelli del denaro e del lavoro, di una schiavitù. Sono diventati vuoti, ripetuti senza senso e senza essere vissuti. La comunicazione dal basso all’alto è abolita, e l’imposizione è talmente forte e talmente occulta, che l’abolizione apparente del simbolico si rivela come una prepotente schiavitù piena di simboli occulti. L’uomo ha bisogno, per essere libero, di poter dialogare, conoscere, esprimersi, condividere. Tutto questo ha bisogno di simboli condivisi e costruiti insieme, e non può esistere alcuna forma di democrazia senza un sistema simbolico condiviso. La comunicazione stessa del popolo è impossibile senza questo sistema simbolico condiviso. I valori generici e l’aiuto materiale di uno Stato non bastano a generare questa condivisone di senso e capacità di vivere veramente insieme; non basta la moneta unica e la possibilità di viaggiare in aereo senza dogana. Viviamo la nostra appartenenza

da turisti, sorvoliamo sulla nostra stessa cultura, tutto è fast food. Non esiste più il tempo, e lo spazio, per i simboli condivisi. Non esiste uno spazio comune di spiritualità e di interazione profonda, svincolato dai soldi, che non sia puramente privato. L’assenza di visione comune e di condivisione simbolica porta ad un irrimediabile isolamento, a una cecità sociale. I social bombardano l’uomo di notizie che scivolano via qualunque sia il loro peso; la nostra vita è ancorata fortemente al nostro reddito. Ci resta solo una bandiera dietro la quale schierarci, sia essa politica o di altro genere, che ci serve più come nascondiglio dietro cui trincerarci come una sorta di surrogato dell’appartenenza, per non ammettere di non avere alcuna appartenenza. Non apparteniamo nemmeno più a noi stessi. Non apparteniamo a niente, siamo come svuotati. È questa la condizione dell’uomo post-secolare. Siamo andati ben oltre il nichilismo, siamo letteralmente sbandati. Il nichilismo è già una visione filosofica; di filosofico nel mondo attuale è rimasto ben poco – fatti salvi specialisti ed appassionati – per poterci permettere di scomodare la parola. Il dio unico del denaro, che altro non è se non un numero stampato virtualmente, è l’unico valore simbolico rimasto nella nostra società. La forma di questa divinità è quella di una bestia, che tiranneggia con faci-

“l’abolizione apparente del simbolico si rivela come una prepotente schiavitù piena di simboli occulti”


36 Nipoti di Maritain lità società disgregate. Tutto si compra, tutto si vende, poco si coltiva. Si coltiva solo a patto di poter vendere. Il sistema simbolico del coltivatore, dell’artista e del monaco viaggia, o viaggiava, indipendentemente dalla misura della spendibilità del risultato: si tratta di una scoperta lenta della realtà, di dialogo e di eredità che si ricevono e si lasciano.

“l’assenza di visione comune e di condivisione simbolica porta ad un irrimediabile isolamento, a una cecità sociale”

La sola cosa che il sistema simbolico del dio denaro rischia di lasciare in eredità alle generazioni future è un vuoto enorme, più grande e più subdolo di un debito: la misura di ciò che viene stimato ricchezza rischia di diventare l’esatta misura di una povertà e di un vuoto esistenziali impossibili da colmare. È necessario ribellarsi a questo totale disordine, vigente sotto l’apparenza d’un meccanismo perfettamente oleato, e l’uomo può farlo in un solo modo: alzando la testa verso un cielo che gli è precluso, ma anche verso i suoi simili che sono muti; e verso l’interno di se stesso. È gratis. Ma tutto quello che è gratis, oggi, non ha più alcun valore.


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“pensare in modo critico i termini chiave, le principali strutture teologiche e i linguaggi simbolici e metaforici”

Dibattito SACRAMENTALITÀ

« Vivere la sacramentalità oggi nella Chiesa: cosa significa? Come ridarle vitalità e senso? »


38 Nipoti di Maritain

Sacramenti spettacolari o Chiesa come sacramento? di Omar Orrù

“si continua a giudicare il tempo presente rimpiangendo con nostalgia i tempi d’oro delle chiese piene”

Molto spesso è possibile, soprattutto in occasione delle cresime, assistere ai discorsi di parroci e catechiste che profeticamente si annunciano l’esodo dei ragazzi dopo la ricezione del sacramento della «maturità cristiana». Se ci riflettiamo bene, la crisi non riguarda solo il post-cresima, ma anche gli altri sacramenti dell’iniziazione (e non solo). L’attenzione dei bambini/ragazzi e delle famiglie in occasione di prime comunioni e cresime si incentra sugli aspetti collaterali: il pranzo/cena, i fiori, i vestiti, i regali… Bisogna sapere la data per tempo per prenotare il ristorante, contattare gli invitati, ordinare le bomboniere ed i ricordini, comprare il vestito adatto al tempo atmosferico. Risuona la triste constatazione che

il momento di grazia è percepito come un rito svuotato di senso. Ma le lamentele non bastano, anche perché assistiamo ad esse da decenni: si continua a giudicare il tempo presente rimpiangendo con nostalgia i tempi d’oro delle chiese piene, delle famiglie che partecipavano alla messa domenicale e pregavano in casa, degli incontri di catechismo che (quelli sì!) erano formativi! Più che lamentarci e rimpiangere un tempo idilliaco e mitico, dovremmo farci delle serie domande come Chiesa. Partiamo da una nota teologica che ci ha consegnato il Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la liturgia (e quindi anche i sacramenti) è culmine e sorgente della vita cristiana.


39 In quanto culmine richiede un cammino per raggiungerlo. Conosciamo i numerosi percorsi catechistici che non solo la CEI, ma anche diverse diocesi offrono per prepararsi alla ricezione dei sacramenti; per non parlare degli sforzi dei singoli parroci che o singolarmente o con altri confratelli offrono corsi di formazione in preparazione al battesimo dei bambini e ai matrimoni. Eppure neanche questo investimento ingente di persone, tempi, forze e mezzi sembra riuscire a centrare l’obiettivo di far fiorire una coscienza cristiana adulta e matura. In quanto fonte dovrebbero essere – in particolare l’Eucaristia – il momento in cui una persona nasce e cresce nella sua identità di figlio nel Figlio. Invece troppo spesso i sacramenti sono percepiti come tappe sociali da prendere per consuetudine, non come incontri di grazia con Dio. Anche la celebrazione dei sacramenti – soprattutto prime comunioni, cresime e matrimoni – non aiuta a entrare nel mistero pasquale di Cristo come comunità cristiana: manca la dimensione della partecipazione piena della comunità, spesso rilegata a spettatrice muta di un cerimoniale che vede come centro dell’attenzione coloro che devono ricevere il sacramento. Non è inusuale assistere alla presenza di cori specializzati, per non parlare della ministerialità che viene assorbita quasi interamente dai bambini/ragazzi ai quali si affida la proclamazione della Parola, la presentazione dei

doni e anche l’animazione musicale. Alla fine mi sorge spontanea una domanda: sebbene ci siano le più nobili intenzioni dietro queste scelte pastorali, non siamo forse davanti a una spettacolarizzazione della fede? Non si rischia di ridurre la celebrazione a un dolce ricordo, vuoto di memoria, da ritrovare dopo anni negli album impolverati delle fotografie o di cui parlare con gli amici ricordando il parroco e la catechista di turno? Grandi preparativi, grande impegno, grandi festeggiamenti e poi… ci si rivede alla prossima “cerimonia” e Gesù Cristo viene rilegato a un’immaginetta nel portafoglio oppure al bancomat cui attingere quando la vita mostra il suo lato più triste. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma questi atteggiamenti devono suscitare in noi degli interrogativi seri. Portiamo avanti (e faccio il mea culpa di parroco) una pastorale sacramentale che aveva senso anni fa, in una società in cui la parrocchia era davvero il centro sociale ed educativo del paese, ma che oggi ha bisogno di essere verificata in modo serio e profetico, altrimenti rischiamo di svendere i tesori di cui la Chiesa è depositaria (i sacramenti, appunto). È vero che la grazia agisce in modo misterioso e secondo i suoi tempi e le sue modalità, che esulano dal nostro controllo e dai nostri progetti, ma richiede la disponibilità ad essere sale e lievito, necessita della consapevolezza che ormai siamo

“non siamo forse davanti a una spettacolarizzazione della fede?”


40 Nipoti di Maritain una minoranza che deve essere significativa. Questi miei interrogativi provocatori non riguardano solamente la pastorale, ma anche la teologia. Abbiamo beasato la nostra pastorale parrocchiale principalmente sulla celebrazione dei sacramenti o su pie pratiche di devozione. Mi sembra che ancora siamo lontani dal rinnovamento teologico indicato dal Concilio Vaticano II. Più che focalizzarci sul settenario sacramentale, dovremmo reimparare, a mio avviso, la sacramentalità in senso ampio.

“riconoscere che la Chiesa, unita al suo Sposo, è come sacramento, vuol dire che noi – clero e laici – siamo simbolo dell’unione con Dio e con tutti gli uomini”

Negli anni di studio teologico abbiamo studiato l’affermazione dogmatica di Lumen Gentium 1: «La chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In teoria riconosciamo l’autenticità di questa dichiarazione, ma brancoliamo ancora nel buio per quanto riguarda la sua attuazione pratica. Riconoscere che la Chiesa, unita al suo Sposo, è come sacramento, vuol dire che noi – clero e laici – siamo simbolo dell’unione con Dio e con tutti gli uomini. E come può nascere questo incontro se non siamo capaci di entrare in una relazione di dialogo con Dio che nasca dall’ascolto della sua Parola, dal lasciare che sia essa a scuotere le nostre coscienze e le nostre comunità, ad edificare e purificare i nostri sentimenti? Come giungere all’actuosa participatio anche dei sacramenti se regna un’ignoranza paurosa riguardo alle conoscenze minime anche solo dei Vangeli? Da quasi

sessant’anni risuona il pressante invito del Magistero e di cristiani di buona volontà a riprendere in mano le Scritture, ad appropriarcene con l’ausilio di vari strumenti, tra cui la lectio divina. Più volte si è ribadito che è necessaria una nuova evangelizzazione, possibilmente a impianto catecumenale con il recupero anche della mistagogia, ma ben poco sembra si riesca a fare per vari motivi. Al momento abbiamo dinnanzi una situazione di battezzati che, dal punto di vista della fede, sono in perenne stato adolescenziale. Abbiamo necessità di riscoprire la nostra vocazione battesimale con il suo dinamismo esistenziale e circolare di ascolto-fede-celebrazione-vita. Se manca uno di questi passaggi i sacramenti saranno non i luoghi in cui la famiglia si ritrova e si riconosce, ma solamente un soprammobile che adorna un angolo della nostra esistenza.


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Sacramenti che accolgono con fiducia di Lorenzo Banducci

“il tradizionalismo, da parte sua, non coincide con la Tradizione”

«Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Nel suo discorso alla Curia Romana dello scorso 21 dicembre 2019 Papa Francesco non si è risparmiato nell’invocare un cambio di passo per le strutture curiali e per la Chiesa intera. Trovo queste sue affermazioni molto calzanti proprio in riferimento

al tema dei Sacramenti dove affermazioni come “si è sempre fatto così” e “non cambierà mai niente” si ripetono di continuo e si traducono in prassi pastorali costanti, troppo spesso prive della fantasia e creatività che ci imporrebbe il Vangelo. Oltre al mutamento d’epoca – sempre citando Papa Francesco – i nostri atteggiamenti statici hanno prodotto un’irreversibile perdita di significato dei momenti fondamentali della vita cristiana. Nelle nostre comunità sempre meno famiglie richiedono per i loro figli i Sacramenti dell’iniziazione cristiana; gli adulti pensano sempre di meno al matrimonio o all’ordine. Cosa fare dunque? In realtà non vedo all’orizzonte soluzioni “semplici”. Provo, attraverso la mia esperienza da educatore e laico impegnato, a dar forma a qualche mio pensiero sul tema.


42 Nipoti di Maritain 1. “Smondanizzare” i Sacramenti Troppo spesso i Sacramenti – specie alcuni di essi – sono vissuti come un evento mondano. Questo avviene perché essi sono vissuti come dei semplici “riti”. Sicuramente i Sacramenti non possono essere ridotti a essere soltanto dei riti. La parte del “rito” è l’essenza formale, il vestito che compone il Sacramento. I Sacramenti sono presenza viva di Cristo, sono la forza di Gesù. Nel lato rituale dunque la Chiesa fa i Sacramenti, ma nella sostanza sono i Sacramenti che fanno la Chiesa: noi siamo membri della Chiesa perché abbiamo ricevuto il Sacramento del Battesimo, che non significa che abbiamo partecipato a un rito ma nell’istante in cui siamo stati battezzati ci siamo uniti al corpo di Cristo. I Sacramenti “fanno” la Chiesa, la edificano, generando nuovi figli, aggregandoli al popolo santo di Dio, consolidando la loro appartenenza. Per questo vivere i Sacramenti, partecipare all’Eucaristia, chiedere perdono nella Confessione, vivere nella comunità e con la comunità è vitale per il cristiano: facendolo dona vita alla Chiesa e riceve vita dalla stessa. 2. I Sacramenti come occasione di incontro e accoglienza I Sacramenti sono spesso la prima – per non dire unica – occasione di incontro fra le persone e la comunità cristiana. Il tempo della prima accoglienza è essenziale perché può mostrare che la Chiesa

non è un’amministrazione, ma un corpo vivo, fatto di persone attente ad altre persone. È indispensabile un atteggiamento di fiducia gratuita, non perché quelli che “chiedono i sacramenti” non siano animati da buoni sentimenti, ma perché noi, preti o laici, siamo lì per manifestare la fiducia ugualmente gratuita di Dio. A volte questa pastorale della fiducia può aprire porte chiuse; in ogni caso, mostrare che la Chiesa di Cristo non è mai una setta che recluta adepti, ma una famiglia nella quale si accolgono persone che non si scelgono. Bisogna che il momento dell’accoglienza apra un cammino, lasci intravvedere prospettive, inviti a percorrere altre tappe, permetta reali passi avanti. La pastorale dell’accoglienza, per essere veramente cristiana, deve essere esigente. Al di là delle parole, è chiamata a cambiare lo stesso livello del dialogo. Gli uomini e le donne che si rivolgono alla Chiesa per il battesimo del figlio, per il loro matrimonio o per ricevere altri sacramenti, anche se mancano delle parole adatte per esprimere la loro richiesta, possono diventare per noi dei “segni” di Dio. Sta a noi imparare con loro ciò che è una logica sacramentale, cioè una logica che non fa appello a calcoli, ma a segni. Bisogna poi bandire dalla Chiesa ogni logica mercantile. Non si può pensare che da una parte vi sia la Chiesa che offre i propri beni spirituali, e dall’altra dei richiedenti, la cui domanda spesso non corrisponde veramente all’offerta della Chiesa. Questa logica calcolatrice è perversa. Sta


43 a noi uscirne, se occorre, non accogliendo mai quelli che si rivolgono alla Chiesa solo per “chiedere i sacramenti” come clienti che bisognerebbe attirare o sedurre. 3. Fiducia nel dono sacramentale Naturalmente non possiamo mai rassegnarci al fatto che la celebrazione dei sacramenti diventi una tappa finale, seguita da una presa di distanza più o meno grande dalla Chiesa. Si può facilmente comprendere la sofferenza di sacerdoti e laici educatori che hanno l’impressione più o meno giustificata che quei primi passi nell’iniziazione al mistero della fede rischino di essere gli ultimi. Ma la logica sacramentale non può limitarsi a quest’impressione di fallimento o di sterilità. Il dono di Dio che è stato seminato è seminato per sempre. E poi, noi non siamo i padroni dell’avvenire: piantiamo dei picchetti, apriamo delle strade e facciamo tutto il possibile, nella Chiesa, nella liturgia, nell’evangelizzazione, perché queste strade restino aperte, non a causa dei nostri progetti, ma a causa dell’impegno di Dio che vale per sempre e per ognuno, a rischio della nostra libertà. 4. Formare educatori Affinché il significato dei Sacramenti si tramandi nel tempo e nelle generazioni occorre che gli educatori, ovvero coloro che sono il vero esempio, sappiano in prima persona vivere a pieno la vita cri-

stiana diventando testimoni concreti della fede in Cristo. Per questo la Chiesa deve saper investire con coraggio e senza sosta nella formazione di laici. Laici che abbiano una vita spirituale feconda, che siano in continua tensione di ricerca, che si aggiornino continuamente sulle tematiche che riguardano la comunità, la città e il mondo intero, che vivano a pieno la dimensione della Chiesa diocesana e di quella Universale, che conoscano varie dimensioni del vivere cristiano dall’associazionismo impegnato nel sociale fino ai movimenti carismatici. Laici che siano esempi di quella fede che, attraverso i Sacramenti che ricevono, sia sempre nutrita e rigenerata in Cristo. Con questi semplici spunti credo già, senza troppe rivoluzioni, che si possa far tanto per ridare senso e valore ai Sacramenti nelle nostre comunità ecclesiali. È questa la Chiesa che mi immagino: capace di stare nel Mondo, senza esservi risucchiata e perdere così una propria autonomia e peculiarità; sempre pronta – anche attraverso i Sacramenti – a incontrare e accogliere l’altro; fiduciosa nel seme piantato dal Signore nel cuore di ciascuno e preparata a formare le persone a ogni livello di impegno ecclesiale.


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Comunicare la Sacramentalità di Giovanni Francesco Piccinno

“un problema legato al linguaggio e alla sua conoscenza”

A partire dalla mia semplice e, allo stesso tempo, fortunata esperienzialità nella fede, vorrei focalizzarmi su un problema che necessita di una visione nuova, più ampia e più ariosa: l’approccio all’iniziazione cristiana dei fanciulli. Negli anni trascorsi tra la “mia” iniziazione, vissuta dapprima da educando e discente e ora da catechista e docente, noto che essa è troppo spesso semplificata allo spasimo, finanche rasentando la banalizzazione in molti, forse troppi, contesti ecclesiali. Eppure l’iniziazione sarebbe il primo importante passo verso una gradualmente consapevole visione sacramentale della propria vita alla luce dell’insegnamento vivo della Tradizione della Chiesa.

Non mancano lodevoli eccezioni (a cui molti dovrebbero saggiamente aggrapparsi) ma il percorso rimane significativamente impegnativo e non privo di punti di domanda da leggere e saper interpretare. Personalmente non amo la parola “semplificazione”; nella formazione catechistica dei bambini mi pare ce ne sia fin troppa, rappresentando spesso la più comoda foglia di fico! Troppe volte l’ora di catechismo settimanale (talvolta un’ora o mezzo, nei casi migliori due) si riduce a una rapida lettura del vangelo della domenica successiva, o a qualche spiegazione di qualche elemento della fede cristiana; il tutto è presentato in modo semplicistico, anziché


45 “semplice”, ovverosia una chiara introduzione per il fanciullo a una più piena comprensione della questione trattata. Non si vuole minimamente addossare la responsabilità ai catechisti che coraggiosamente si trovano a testimoniare, con i mezzi che hanno, una fede eccessivamente edulcorata a gruppi eterogenei e difficili da gestire. I genitori sono i primi che non comprendono l’importanza del percorso catechistico e non riescono a trasmettere ai propri figli il senso di quella partecipazione, che diventa così un fastidio, una noia, o un ritrovo di euforia infantile sotto occhi ai quali si demanda ogni responsabilità. Credo molto nell’importanza dell’iniziazione cristiana, soprattutto nella sua impronta mistagogica, ovvero di introduzione esperienziale e sapienziale al mistero di Cristo e della vita nella Chiesa: toccando la carne viva del vissuto dei fedeli più piccoli e aiutandoli attraverso i segni a oltrepassare la soglia del mistero per vivere l’incontro con il Signore, nella Chiesa e con la Chiesa. Ma abbiamo un problema legato al linguaggio e alla sua conoscenza; è una questione fondamentale per qualunque processo di introduzione, immissione ad una nuova realtà. Fin dall’inizio della storia della salvezza Dio ha parlato e ha rivelato sé stesso attraverso la parola umana. Nel Figlio, Parola di Dio incarnata, ha manifestato il suo amore infinito per noi, parlando

a tutti in modo comprensibile. Perché è importante la cura di questo aspetto nella comunicazione della fede? Perché, in primis, parlare, cioè dare un nome alle cose, è letteralmente chiamare all’esistenza, abbandonando la posizione (ferma) di partenza. Il bambino è stimolato così, nella sua propensione alla conoscenza, a mettere ordine nelle informazioni e ad approfondire gli aspetti che trova maggiormente stimolanti. In secondo luogo, discutendo di tutto ciò egli si appropria di sé: si avventura nel suo universo interiore confuso ma curioso e giunge a una maggiore comprensione di sé stesso e delle sue potenzialità “esplorative”. Ciò lo inserisce, in ultimo luogo, a una maggiore comunicazione con l’altro. Quando questo succede l’entusiasmo – l’aspetto emotivo e sentimentale del bambino – diventa contagioso; a sua volta esso si fa testimonianza nella sequela, caratteristica eloquente del discepolato libero e vero. Vorrei indicare tre dinamiche particolarmente importanti per l’iniziazione cristiana dei fanciulli che la cura attenta del linguaggio, con un approccio graduale ma significativo alla Bibbia e alla sua ricchezza, potrebbero risultare ancora più evidenti. Innanzitutto la parola è informativa: essa in-forma, dà forma e plasma cose, realtà, avvenimenti e persone. Nella predicazione – e ancor più nella tra-

“la parola è informativa: dà forma e plasma cose, realtà, avvenimenti e persone”


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“la parola è poi espressiva, in quanto ogni essere umano quando parla esprime qualcosa partendo da sé”

dizione biblica della rivelazione di Dio – questa sua caratteristica, legata alla interpersonalità che ogni consegna del sapere pone in atto, è lampante. La parola è poi espressiva, in quanto ogni essere umano quando parla esprime, ovvero dice qualcosa partendo da sé, anche quando non lo fa in prima persona. Se non ci si crede o si è indifferenti a qualcosa, ne può uscire solamente noia e apatia; per comunicare occorre ex-primersi, mettere in moto, in uscita sé stessi. Ciò conduce infine a dire che la parola è appellativa: cercando l’altro, nella propensione alla relazione connaturale all’uomo, evidenzia il suo desiderio di incontrare, comunicare e donarsi liberamente. Questo è più che mai centrale nella comprensione della fede cristiana, laddove termini come “vocazione”, “sequela”, “discepolo” ecc. parlano di relazione e apertura all’alterità, all’Altro che chiama il cristiano ad essere dono di sé stesso, segno della presenza di Cristo per l’altro. Tutto invita ad essere segno di sacramentalità, in altre parole dell’amore di Cristo per la vita della Chiesa. Infine, una provocazione: considerando che i sussidi per il catechismo dei fanciulli sono ben poco usati, risalenti a quasi trent’anni fa e non più rispondenti alla multimedialità oggi richiesta anche all’evangelizzazione cristiana, non si potrebbe pensare a dei nuovi “Catechismi per la vita cristiana”?


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Sacramentum 2.0: la sacramentalità nell’era digitale di Luigi Previtero

“i sacramenti sono segni corporei per parlare con gli uomini che conoscono attraverso i sensi”

Nell’era digitale dove tutto è informazione istantanea che corre nella ragnatela mondiale del web che ruolo hanno ancora i sacramenti nella vita della Chiesa? Voglio partire da qualcosa di banale, cioè ricordare che cosa sono i sacramenti. Nel medioevo Pietro Lombardo definiva i sacramenti come segni della grazia di Dio e forma visibile della grazia invisibile. Leggendo questa definizione credo sia stato immediato il richiamo all’inno cristologico della lettera ai Colossesi in cui san Paolo afferma che Cristo è «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). È il compimento della Rivelazione di Dio che si fa conoscere agli uomini assumendo la stessa nostra natura. Con parole azzardate potremmo dire che i sacramenti sono l’estensione di questa Rivelazione. È

assodato che la Rivelazione si sia compiuta totalmente in Cristo, ma è anche vero che è vivificata dal dono dello Spirito Santo da parte di Cristo Risorto alla Chiesa. Per conoscere Dio non ci bastano le attestazioni delle Sacre Scritture, abbiamo necessariamente bisogno dello Spirito Santo di cui Gesù dice che è colui che insegna ogni cosa e fa ricordare ai discepoli ciò che lui ha detto (cfr. Gv 14,26). Possiamo affermare che come l’Incarnazione è stata la mediazione per la Rivelazione, così ancora oggi Dio si fa conoscere a noi attraverso la corporeità, per un semplice motivo: questo è il modo umano di conoscere e fare esperienza. Al contrario di quanto si possa pensare infatti, il cristianesimo è una religione “corporea”. Abbiamo già parlato di Incarnazione, cioè


48 Nipoti di Maritain

“la sacramentalità è la nostra connessione con Dio ma la sacramentalità non si realizza da soli: ha come presupposto la comunità ecclesiale, garante della vivificazione dello Spirito dei sacri segni”

di Dio che assume un corpo, ma anche la Chiesa stessa è definita come corpo di Cristo, celebra il sacrificio eucaristico in cui si nutre del corpo e sangue di Cristo, senza dimenticare che professa la fede nella resurrezione non nell’anima, ma della carne. I sacramenti allora sono da comprendere come segni corporei per parlare con gli uomini che conoscono attraverso i sensi. I cinque sensi sono l’apertura della nostra mente verso l’esterno. Una volta in un istituto di assistenza mi è capitato di conoscere una persona sordomuta che era diventata cieca. Con dolore avvertivo l’isolamento di questa persona che senza quei tre sensi non riusciva più a comunicare con il mondo esterno, non conoscendo peraltro la lingua tattile Braille per i non vedenti. In fondo il corpo è il nostro muro di confine con il mondo esterno e i sensi sono le finestre e la porta. I sacramenti, come dice san Tommaso, risultano essere allora il mezzo più opportuno per Dio per farsi conoscere all’uomo che è anche corporeo. Tuttavia, questi segni non sono solo corporei. La forza dei sacramenti infatti risiede nella loro natura divina che li rende efficaci, cioè operativi, capaci di comunicare la grazia di Dio. Questa natura è data dallo Spirito Santo. Ho voluto mettere in parallelo la realtà sacramentale con l’Incarnazione e la Rivelazione per far emergere la novità di questi sacri segni. Mi verrebbe da dire che il sacramento si muove nella direzione opposta al sacrificio. I culti delle diverse religioni sono accomunati dal sacrificio,

cioè dal rendere qualcosa sacro e donarlo alla divinità. Come si rende sacro? Separando dal profano, cioè togliendo dall’uso comune. La cella più santa del tempio di Gerusalemme era chiamata Sancta Sanctorum, perché era appunto separata più volte dal mondo “profano”. Nel sacrificio e nel concetto di “sacro” emerge allora uno sforzo umano di privazione per avere un qualche contatto con la divinità, per cui l’esigenza di separare e togliere luoghi e oggetti dalla sfera dell’uso comune. Tenendo presente la forza costitutiva del sacramento, cioè l’Incarnazione di Cristo, emerge un movimento inverso, cioè la volontà di Dio di incontrare l’uomo. È questa la novità dei sacramenti: Dio si fa vicino all’uomo e si fa compagno di cammino dalla nascita fino alla nascita al cielo. Se un sacrificio ancora c’è, questo non parte dall’uomo, perché è Cristo che si è sacrificato volontariamente quale “agnello di Dio”. Proprio nel sacrificio della croce si distrugge la sacralità della separazione, per cui «il velo del tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23,45; cfr. Mt 27,51 e Mc 15,38). Il velo separava lo spazio sacro. Offrendo il sacrificio dell’eucarestia ripresentiamo l’unico sacrificio di Cristo, in cui la vittima è offerta da Dio per noi. Tuttavia, noi partecipiamo all’eucarestia sia per ringraziare Dio, ma anche per unire tutta la nostra vita a quel sacrificio a cui vogliamo conformarci, affinché sia un’offerta gradita a Dio secondo l’esortazione dell’Apostolo ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio,


49 a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Il culto esteriore invade e trasforma tutta la vita del credente in un’offerta gradita a Dio. Ma come rispondere allora alla domanda iniziale sul significato odierno dei sacramenti? Dicevamo prima che questa è l’era digitale, il tempo in cui tutto è mediato dal computer, anche le nostre relazioni umane. Il sacramento, al contrario, è la mediazione attraverso i sensi della nostra relazione con Dio. Dobbiamo riconoscere che ci troviamo in un’era in cui abbiamo a disposizione un grande potenziale, che può essere usato bene come per fare il male, ma è comunque un’estensione e un potenziamento della persona umana. Eppure, nel grande supporto che la tecnologia apporta all’uomo manca qualcosa di insostituibile, cioè l’umanità. È proprio di contatto umano che oggi più che mai l’uomo contemporaneo sente il bisogno. Sappiamo bene che non basta essere connessi con centinaia di persone per non sentirsi soli. Potremmo dire che la sacramentalità è la nostra connessione con Dio. Anche con Dio, il rischio non è quello di essere connessi e sentirsi soli? Ma la sacramentalità non si realizza da soli: ha come presupposto la comunità ecclesiale, garante della vivificazione dello Spirito dei sacri segni. D’altra parte, la comunità ecclesiale è formata proprio dalla celebrazione dei sacramenti. Celebrare i sacramenti ha ancora il valore della sorpresa di Dio che ir-

rompe nell’abisso della solitudine dell’uomo. Perché allora i sacramenti spesso sembrano insignificanti? Paradossalmente, perché li abbiamo digitalizzati, o meglio, informatizzati! Cioè, puntiamo più sull’informazione, sul significato, che alla loro celebrazione. Il rito ha un suo linguaggio comunicativo che è complesso e che più dalle parole è mediato dai sensi e dai simboli. Odori, sapori, simboli e tutto il vissuto celebrativo parlano alla nostra parte meno razionale. Riconoscere che il modo con cui si comunica è più importante dello stesso contenuto è il primo passo. Un esempio potrebbe essere la musica delle canzoni che sovrasta il contenuto del testo. Cosa ci viene in mente se vi richiamassi le famose canzoni “Tropicana” e “Vamos a la Playa” degli anni ’80? Il messaggio percepito è di gioia, eppure la prima canzone parla di esplosione, abbronzatura atomica ed acqua che ribolle ad est, mentre la seconda parla di una bomba che è esplosa, di radiazioni che bruciano e di acqua che è diventata fluorescente. I testi sono un grido di paura per le armi nucleari, eppure la musica prevale e comunica un messaggio gioioso. Per cogliere i sacramenti c’è bisogno di lasciarli esprimere in tutti i registri comunicativi propri del rito. Far parlare i simboli, non noi! Le didascalie dovrebbero aiutare a comprendere alcuni gesti, ma limitano la simbologia. Dover spiegare un gesto simbolico durante un rito è come dover spiegare una barzelletta che non ha fatto ridere. Molto triste! Se l’incenso profumasse davvero ci

“i sacramenti oggi hanno la missione di togliere gli uomini dal baratro dell’individualismo e della solitudine”


50 Nipoti di Maritain richiamerebbe il trascendente, ma poiché non profuma e lo usiamo solo quando è obbligatorio, l’odore di incenso in una chiesa ci dice che prima c’è stato un funerale. Provo a rispondere alla domanda iniziale e concludo. Se per secoli i sacramenti sono stati il modo di Dio di comunicare agli uomini, oggi hanno la missione di togliere gli uomini dal baratro dell’individualismo e della solitudine e far sperimentare la compagnia di Dio e della comunità ecclesiale nel cammino della vita. Un ostacolo è l’attuale gnosticismo, per cui c’è bisogno di far parlare i riti e i simboli e lasciar coinvolgere tutto l’uomo, anche la sua parte meno razionale. Direi che c’è bisogno di un atto di umiltà da parte di chi presiede i sacramenti, cercare di non essere gli attori protagonisti ma far parlare i simboli, o meglio, lasciare spazio e far parlare il mistero di Dio che si rivela.


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Rubriche


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intervista

Pino Lorizio e i simboli da riabitare umanamente a cura di Piotr Zygulski

Professor Lorizio, innanzitutto le chiediamo cosa Lei intende per simbolo, da distinguersi rispetto ai segni, alle allegorie, alle metafore e alle rappresentazioni. Il simbolo non si definisce, ma si abita e si racconta. Penso che dobbiamo muovere la riflessione sul simbolo a due livelli: quello che definirei “naturale” e quello che possiamo chiamare “culturale”. Al primo livello ci poniamo, per esempio, attraverso la splendida lirica di Charles Baudelaire “Correspondances”: «La natura è un tempio dove pilastri viventi si lasciano sfuggire a volte confuse parole. L’uomo vi passa attraverso foreste

di simboli che lo osservano con sguardi familiari». Qui il poeta ci pone di fronte alla natura nel suo insieme, come universo simbolico, ma anche, nel prosieguo, ai singoli messaggi che le diverse espressioni naturali emanano. In questo senso il livello cosmico-naturale dell’esistenza rimanda ad altro, ad un altrove che siamo chiamati ad intravedere e che profumi, colori e suoni ci invitano a scorgere. Al secondo livello troviamo l’uomo come “animale simbolico”, ossia capace di produrre simboli, ovvero artifici o artefatti che conducano all’altrove. Mi sembra importante sottolineare come, nel simbolico-sacramentale cristiano, si intreccino le due pro-


53 spettive. Si pensi alla preghiera che accompagna le offerte nella celebrazione eucaristica: il pane e il vino sono detti «frutto della terra e del lavoro dell’uomo». E in tale senso la sacramentalità incrocia l’umano naturale e culturale. Negli ultimi decenni è cambiato il nostro rapporto con i simboli o semplicemente abbiamo cambiato simboli? La secolarizzazione prima, e la post-secolarizzazione adesso, hanno mandato in crisi il simbolico? La tentazione a strumentalizzare i simboli non concerne soltanto la città secolare e le sue espressioni. Di fatto anche negli universi religiosi accade un rapporto al simbolico di tipo strumentale che definirei idolatrico. Piuttosto direi, continuando la riflessione precedente, che, posto che il paradigma della secolarizzazione e della postsecolarizzazione sia ancora valido (il che è discutibile e discusso), lo spostamento riguarda l’accentuazione e a volte l’esasperazione della dimensione culturale rispetto a quella naturale e dunque uno squilibrio, determinato dalla pervasività della tecnica, che comporta ovviamente un modo diverso di pensare il simbolico e i simboli stessi, più come “prodotti” che come “dati”. E tuttavia, riflettendo sull’universo mediatico e sul quel nuovo Leviatano che è il web, ci vengono incontro al-

cune parole, contenute anche nella nostra tradizione, assunte a significare (non so se secolarizzate o meno) il mondo virtuale. Innanzitutto, la “rete”, che siamo chiamati ad abitare e che nel tempo presente rappresenta il regno di Dio, in cui convivono pesci commestibili e altri nocivi o inutili, ma che solo al giudizio finale spetta la selezione. Quindi l’“icona”, che, come nella rappresentazione rituale cristiana, rimanda ad altro da sé e non cattura, come l’idolo, l’attenzione di chi la contempla, ma come da una schermata apre un sito o un programma, così nel presente richiama il futuro. Infine, la “parabola” che, come frontiera del vangelo, innesta il messaggio nel quotidiano e porta il mondo nelle nostre case e nelle nostre esistenze, suggestionandole, ma anche interpellandole. Come si può notare, in queste parole-simbolo, si dà insieme continuità e distanza rispetto alla loro provenienza tradizionale ed evangelica. Un Mito – come illustra un articolo presente in questa rivista, rifacendosi a Giorgio Agamben e a Fulvio Carmagnola – instaura un certo rapporto “sacrale” che necessariamente viene “profanato”. Vale lo stesso per il simbolo? Per quale motivo? L’espressione cultuale del mito è il rito, quella dell’evento è il sacramento. Già in questa dialettica fra l’orizzonte pagano

“l’espressione cultuale del mito è il rito, quella dell’evento è il sacramento”


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“custodire l’umano è il vero culto; metterlo a repentaglio per partecipare a dei riti sarebbe profanante”

“una visione inclusiva e non esclusivista del simbolico anche cristiano”

del mitologico e quello cristiano della sacramentalità assistiamo a una metamorfosi del “sacro”, che diviene e deve divenire “santo”. Ma questa metamorfosi non costituisce affatto una profanazione, che invece si determina allorché simbolo e rito, mito e sacramento vengono decontestualizzati a orientati a processi alieni dal loro senso originario. La recente, necessitata, scelta di non celebrare l’eucaristia e i sacramenti in occasione del coronavirus nelle zone ad alto rischio, penso debba farci riflettere sul fatto che, per il cristiano, il tempio è l’uomo e il suo cuore, per cui come dice Gesù di Nazareth alla donna samaritana «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Certo abbiamo bisogno anche di esprimere in maniera “carnale” questa adorazione, ma, quando tale possibilità non ci è data (pensiamo al forzato digiuno eucaristico dei popoli amazzonici), non va dimenticato questo messaggio evangelico. Pertanto, custodire l’umano è il vero culto; metterlo a repentaglio per partecipare a dei riti sarebbe profanante. Del resto, di fronte a tutto il profondo significato nell’universo simbolico ebraico dell’osservanza del sabato, Gesù di Nazareth viene a dirci che «è il sabato per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

ne”, soprattutto in riferimento all’uso di quelli che erano simboli religiosi nello spazio pubblico e nel dibattito politico? Dovremmo rinunciare al simbolico perché sempre ideologico oppure non possiamo farne a meno?

Come dobbiamo comportarci di fronte a questa “profanazio-

L’essere umano, oltre a creare simboli, nella storia talvol-

Certamente non possiamo fare a meno del simbolico, autenticamente e non strumentalmente inteso, così come non possiamo non esprimere la nostra identità credente. A tal proposito mi preme rammentare che “Simbolo” è detto anche il “Credo”, ossia ciò che ci identifica e ci differenzia, ma in un contesto preciso e ben determinato. Il contesto laico delle istituzioni e delle manifestazioni partitiche chiede grande cautela nell’utilizzo di riferimenti simbolici di carattere religioso, onde tenerci alla larga dalla tentazione di attivare crociate o indurre comportamenti fondamentalisti. Quando anche si ricorra all’esposizione di simboli cristiani in luoghi pubblici (penso al crocifisso o al presepe), va sempre e comunque evidenziato il messaggio umano ed universale che da essi promana, mentre d’altra parte va esercitato il necessario senso critico nei confronti di profanazioni strumentalizzanti ed ideologiche. In tal senso si tratta di assumere una visione inclusiva e non esclusivista del simbolico anche cristiano e religioso in genere.


55 ta è diventato esso stesso un simbolo, nel bene e nel male; pensiamo all’uomo vitruviano di Leonardo. Da un punto di vista cristiano, come dobbiamo porci di fronte ai vari tentativi di “simbolizzazione” dell’umano, del post-umano, ma anche della Chiesa stessa e dei suoi membri, più o meno santi? L’umanesimo integrale di Jacques Maritain cos’ha da insegnarci a tal proposito? «Un segno noi siamo che nulla indica», scriveva M. Heidegger, ispirandosi a F. Hölderlin, e questo perché «abbiamo smarrito il linguaggio in terra straniera». Ma, oltre che «sentinella del nulla», l’uomo è anche «pastore dell’essere» e in questa continua tensione fra essere e nulla, si gioca la sua identità e la ricerca di senso cui è chiamato. Il simbolo è il crocevia fra i due abissi su cui siamo sospesi nel frattempo del nostro essere qui ed ora. La possibilità del simbolo di farci pensare (P. Ricoeur) passa attraverso la nostra capacità di recuperare il linguaggio autentico rispetto alla chiacchiera del banale. In questo senso anche il linguaggio simbolico cristiano rischia l’insignificanza e «le statue sono [diventate] cadaveri privi di vita e gli inni parole da cui è fuggita la fede» (parola di Hegel). L’universo simbolico credente chiede di essere ripensato e nuovamente abitato proprio in relazione all’umano, nella sua integralità, con fragilità e potenzialità. Ma integralità

non è sinonimo di integralismo, tantomeno di fondamentalismo. In questo senso il simbolo ha a che fare col dialogo, ossia con la capacità, sulla base del logos che ci accomuna e ci rende umani, di interfacciarci con chi non condivide la nostra appartenenza, etnica, culturale, religiosa, politica … In questo orizzonte l’impegno educativo, volto alla formazione delle coscienze, diventa fondamentale e imprescindibile e richiede grande spirito critico e totale dedizione, perché, come diceva Rosmini, «solo i grandi uomini possono formare uomini grandi».

“l’universo simbolico credente chiede di essere ripensato e nuovamente abitato proprio in relazione all’umano, nella sua integralità, con fragilità e potenzialità. Il simbolo ha a che fare col dialogo”


56 Nipoti di Maritain

laudate hominem

Il Dio risorgimentale di Christian A. Polli

Durante il lungo tragitto che portò la nostra Penisola, divisa in una miriade di staterelli, a diventare un’unica e grande nazione, la riflessione politica, letteraria, filosofica ed in generale culturale divenne predominante per dotare la futura patria di una base umanistica capace di darle una fisionomia morale, oltreché meramente intellettuale. In una realtà permeata così fortemente di religiosità qual era l’Italia del XIX secolo, non poteva non esserci tra le grandi questioni quella di Dio. Un Dio che, vedremo, assumerà tinte diverse a seconda degli interpreti e dei principali intellettuali della parabola risorgimentale.

All’interno della letteratura, durante il corso dell’imperante movimento romantico, si inquadrò il Dio dei popoli, tematica che poi entrò anche nella filosofia politica a partire dagli anni ’30 e ’40. Partiamo però dalla poesia, dove si instaura, perdonatemi per la libertà con cui utilizzo la seguente coniazione, questa “teologia della liberazione” ante litteram. Nonostante le differenze, infatti, il Dio cristiano è chiamato dai vari scrittori e letterati a essere testimone del naufragio dell’Italia nata dal Congresso di Vienna e ad essere vendicatore del destino del popolo italiano, schiacciato dall’aquila austriaca. Il tema è ben presente e forte


57 in Giovanni Berchet (1783-1851), uno dei grandi del romanticismo poetico italiano, dove Dio diventa una sorta di Dio nazionale come nella celebre ode “Clarina”, quando si parla della divinità creatrice del giorno del riscatto per l’identità nazionale: «Già mature nel tuo seno, / bella Italia, fremean le ire; / sol mancava, il dì sereno / della speme; - e Dio ‘l creò: / di tre secoli il desire / il volere ti cangiò» (vv. 13-18); oppure un Dio più sommesso, più intimisticamente unito alle sofferenze dell’uomo esiliato a causa delle proprie convinzioni liberali, come mette voce ad uno dei profughi dell’omonima ode “I profughi di Parga”: «Oh Dio! Nol funestino / vaganti pensier / di patria, d’esiglio / d’oltraggio stranier» (II, vv. 24-27). Si palesa così un Dio demiurgo, vagamente platonico e sicuramente veterotestamentario, che interviene nella storia con mano potente e si palesa lui stesso patriota, vestendosi di verde, bianco e rosso, come la bandiera nazionale. Lo stesso discorso vale anche per il repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872) il quale, profeta laico dell’avvenire d’un’Italia unica, repubblicana ed indivisibile, vede nella mano di Dio la fattrice dell’unità nazionale e la stessa creatrice di una patria ideale per la quale gli italiani devono riscattarsi, come emerge in questo passo de “I doveri dell’uomo”: «A voi, uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita

dell’Europa […] Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato, i più alti monti d’Europa: l’Alpi; dall’altro: il Mare, l’immenso Mare. Aprite un compasso: collocate una punta al nord dell’Italia, su Parma; appuntate l’altra agli sbocchi del Varo e segnate con essa, nella direzione delle Alpi, un semicerchio: quella punta che andrà, compito il semicerchio, a cadere sugli sbocchi dell’Isonzo, avrà segnato la frontiera che Dio vi dava». Ma non tutti gli intellettuali sono legati a questa partigianeria divina, per cui il Creatore ha steso il suo braccio onnipotente solo per le sorti degli italiani. Guardiamo ad Alessandro Manzoni (1785-1873), per esempio, dove il patriottismo religioso di Berchet si lascia mescolare ad un patriottismo che vede in Dio il padre comune degli uomini, ma severo nei confronti di chi, come gli austriaci, ha occupato senza alcun diritto il suolo italiano. Per Manzoni Dio «è padre di tutte le genti, / che non disse al Germano giammai:/ Va’, raccogli ove arato non hai;/ spiega l’ugne; l’Italia ti do» (vv. 69-72), riportando la divinità nel giusto alone della teologia antropologica, in quanto Dio è sì nostro, ma nostro in senso universale, non in senso nazionalistico. Sulla scia del Manzoni, seppur con minor impegno di teologia politica e con maggior patetismo, si pongono “Le mie prigioni” di Silvio Pellico (1798-1854): i sen-

“Berchet parla della divinità creatrice del giorno del riscatto per l’identità nazionale”


58 Nipoti di Maritain

“Mazzini vede nella mano di Dio la stessa creatrice di una patria ideale per la quale gli italiani devono riscattarsi”

“Manzoni vede in Dio il padre comune degli uomini, ma severo nei confronti di chi ha occupato senza alcun diritto il suolo italiano”

timenti, i destini degli uomini, l’oppressione della censura e dell’assolutismo asburgico non poggiano solo sulle spalle degli italiani, ma anche su quella degli stessi austriaci: «La bontà di quella gente mi commoveva più ancora, di quella de’ miei connazionali», disse Pellico degli austriaci che si volgevano ai futuri carcerati dello Spielberg; «Voi siete un brav’uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio», disse sempre il medesimo al carceriere Schiller, appesantito dal giuramento di fedeltà all’imperatore austriaco, in un passo felice dell’analisi di cosa sia una pulita coscienza dell’anima. L’abile teologia poetica, sia quella maggiormente “aggressiva” di un Berchet o di un Mazzini, sia quella più tiepida e caratterialmente limpida di un Manzoni o di un Pellico, è destinata a diventare, con il biennio 1846-1848, una fanatica teologia politica indipendentista sulla scia del neoguelfismo che, fondato dal sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti, vedeva nel giovane e rampante Pio IX (18461878) il sogno dei cattolici liberali italiani. Di nuovo, al motto di “viva Pio IX”, si poneva il grave dissidio tra ministero pontificio, teso all’universale, e ruolo di principe di uno Stato italiano qual era quello pontificio. Un dissidio dicotomico che travolse inizialmente il nuovo pontefice,

sostenitore delle sorti d’Italia ma poste sempre prima all’universale paternità cui è chiamato il papa quale Vicario di Cristo, ma dal quale si liberò poi con la famosa allocuzione “Non semel” del 28 aprile 1848, quando Pio IX si disimpegnò dalla Prima guerra d’indipendenza. Preoccupanti erano, infatti, le voci di un possibile scisma in terra tedesca, dove i cattolici austriaci erano sconcertati da un “papa patriota”. Si conclude così questa carrellata sul ruolo che gli uomini vollero affibbiare a Dio travestendolo secondo le loro idee: caduto il velo del patriottismo papale, infatti, il Dio mazziniano si rivelò un Dio repubblicano; quello di Mameli e dei martiri della Repubblica Romana un “Dio” laico, nazionale; quello dei liberali un Dio dietro cui si celava la lotta per la conciliazione tra progresso e tradizione. Insomma, niente di nuovo sotto il cielo italiano, sempre così pronto a tirare di mezzo Dio per le caduche ideologie umane, in una più o meno cosciente “carnevalata” da cui si salvano soltanto coloro che vi hanno creduto fermamente.


59

a ben vedere

Imago Dei: il valore della persona secondo Luigi Stefanini a cura di Michele Lasala

I tempi che stiamo vivendo sembrano contrassegnati da un malessere profondo: la perdita sempre più massiccia dell’umano. Sembra infatti che l’uomo abbia deciso di rinunciare a se stesso, e sempre più si sente parlare di transumanismo. Ma riscoprire l’umanità che in noi sonnecchia significherebbe ridare forma alla nostra persona e, al tempo stesso, riallacciare il dialogo interrotto col trascendente. Luigi Stefanini (1891-1956), già nella prima metà del Novecento, avvertì l’urgenza di recuperare la sfera spirituale, e lo fece in generale contro la minaccia derivante da tutte quelle metafisiche che inghiottivano e annul-

lavano la singolarità dell’uomo. Oggi più che mai, nell’epoca della tecnica, quella riflessione può essere ripresa e può far luce sul valore della nostra interiorità, offrendo strumenti per arginare, almeno in parte, il pericolo del possibile annichilimento della persona umana. Stefanini propose una metafisica della persona che integrasse, e non annullasse, la scienza tradizionale dell’essere. Quest’ultima infatti non doveva essere considerata come errata, né doveva essere rifiutata: presentava semmai, agli occhi del filosofo, soltanto delle lacune. «Invece di battere la via dell’e-


60 Nipoti di Maritain

“l’urgenza di recuperare la sfera spirituale contro la minaccia derivante da tutte quelle metafisiche che inghiottivano e annullavano la singolarità dell’uomo”

sperienza concreta», egli scrive, «la metafisica dell’essere segue la via dell’astrazione, nell’illusione di trovare col lumen siccum di una deduzione matematica quella apoditticità che stringa irrefutabilmente la conclusione. In sostanza il suo procedimento consiste, anzitutto, nell’estrarre dalla esperienza concreta l’idea dell’essere, quale trascendentale comune a tutte le esperienze»1.

io non si identifica con l’essere. Quest’ultimo, anche se è concepito all’interno dello spirito, resta pur sempre l’assolutamente altro verso cui l’io deve procedere per farsi persona. L’assolutamente altro è Dio; e l’atto umano, attraverso l’amore, la volontà, il pensiero, o attraverso la “parola”, attesterebbe la presenza di Dio nell’anima personale, perché è proprio questa attività dell’io l’immagine più chiara della divina esistenza.

La metafisica classica trascura la concretezza della persona e si preoccupa soltanto di definire l’ente perfettissimo. Ma per giungere all’essere non occorre attuare una «epurazione logica dell’esperienza», perché noi «ci troviamo di fronte, fin dal nostro primo atto mentale, a quell’esperienza piena che è la persona umana, dove l’essere, tutt’altro che nella sua vuota generalità, si manifesta nella vivente realtà dell’atto». E quest’atto è pensiero, volontà e amore, secondo Stefanini: un principio integrale, tale perché tutti gli elementi che lo compongono sono fusi in un «organismo dialettico».

«La produttività dell’atto umano è costitutiva di realtà, ma della realtà dell’immagine, cioè di quella realtà la cui positiva consistenza allude e significa altro da sé. Per l’immagine noi esprimiamo a noi stessi, validamente, sensi dell’essere nostro, dell’essere degli altri, dell’essere delle cose, dell’essere dell’assoluto […]. Sulla base del possesso sicuro, l’attività immaginistica apre la via ad un’inesauribile problematica, insinuando nelle sue certezze l’inquietudine feconda del mistero»2.

L’essere, dunque, non deve più essere pensato come un mero contenuto mentale, bensì come vita concreta che anima il nostro spirito. È proprio nell’interiorità dell’uomo che si annida, agostinianamente, la verità del mondo. Tuttavia, il nostro

L’immagine dunque è il mezzo attraverso cui noi avvertiamo l’esistenza di «qualcosa d’altro» e rivela la tensione che c’è tra finito e infinito determinando in noi un senso di inquietudine. È qui che nasce il desiderio di trascendere il limite che connota la nostra persona, perché l’io sente in qualche modo l’esigenza

1 L. Stefanini, Metafisica della persona e altri saggi, Editoria Liviana, Padova 1950, p. 3.

2 Id., Idealismo cristiano, Zannoni, Padova 1932, p. 97.


61 di approssimarsi alla perfezione personale di Dio. La persona è dunque un continuo farsi, un costante trascendimento empirico, secondo una concezione che Stefanini mutua prima da Gioberti e poi da Croce. Essa instaura con l’Assoluto un rapporto di natura “analogica”, perché attraverso il conoscere e l’agire, la persona emula il conoscere e l’agire divino. E l’anima è imago Dei. Per giungere a Dio converrebbe dunque non partire dall’esse, ma dal sum, se è vero che Dio è colui che di sé disse «Ego sum qui sum». È il sum il punto di partenza della metafisica della persona. Questo dovrebbe anche essere l’avvio del pensiero contemporaneo, per Stefanini, in opposizione a quanto aveva fatto già il pensiero moderno. Quest’ultimo infatti avrebbe collocato al posto dell’uomo e al posto di Dio una logicità impersonale, capace di risolvere in sé i tratti individuali della persona. Tale logicità coinciderebbe, in altre parole, con lo Spirito di Hegel e con la Ichheit di Fichte. La rivolta del pensiero contemporaneo contro la modernità sarebbe allora a tutto vantaggio della persona, umiliata da quel logicismo dialettico. Stefanini muove un’aspra critica nei confronti del trascendentalismo, a cominciare da quello kantiano, secondo il quale l’io altro non sarebbe che una

semplice funzione e non già una sostanza o un atto vitale ed esistenziale. Il trascendentalismo ammetterebbe l’immanenza del pensiero nelle cose, intendendo il pensiero però come la forma di esse, con l’impossibilità di cogliere, oltre che l’unità delle sintesi del pensiero, l’unità stessa del soggetto che pone queste stesse sintesi. «Nella Dialettica trascendentale», scrive Stefanini, «le antinomie che investono la Teologia razionale non sono altro che un’illazione dalle premesse stabilite nella Psicologia razionale: è la mancata conquista del principio spirituale nella persona umana che impedisce a Kant di conquistare il principio spirituale nell’Assoluto»3. Kant dunque avrebbe fallito doppiamente, dal momento che fu incapace di vedere il “chi” delle forme trascendentali e, conseguentemente, di comprendere Dio. Tutte queste considerazioni inducono Stefanini a tentare una possibile correzione del pensiero trascendentalista (nelle forme dell’idealismo e del marxismo), e per far questo egli concepisce l’io non più «quale forma immanente nella empiricità», ma precisamente come «principio produttivo delle forme in cui va organizzandosi il mondo nella sua esperienza»4.

3 Id., Metafisica della persona e altri saggi, op. cit. p. 9. 4 Cfr. Ivi, p. 10.

“l’atto umano, attraverso l’amore, la volontà, il pensiero, o attraverso la “parola”, attesterebbe la presenza di Dio nell’anima personale, perché è proprio questa attività dell’io l’immagine più chiara della divina esistenza”


62 Nipoti di Maritain

“l’accadere dell’essere, nell’uomo, non è altro che un dono di Dio, e il suo stesso accadere è, agli occhi di Stefanini, un mirabile avvenimento”

L’identità di questo principio non è dovuta a me stesso, ma è qualcosa che mi accade e ne avverto in me continuamente la presenza: è, in altre parole, un «fatto». È l’accadere dell’essere in me. E se questo fatto non accadesse nella mia persona costantemente, di momento in momento, io cadrei nel nulla, non avendo gli strumenti adeguati per potermi costituire nelle profonde radici del mio essere. L’accadere dell’essere, nell’uomo, non è altro che un dono di Dio, e il suo stesso accadere è, agli occhi di Stefanini, un mirabile avvenimento. «Prima ancora che la religione mi insegni a chiamarlo il Salvatore», scrive il filosofo, «perché mi salva dai miei peccati, io lo chiamo il Santo (Der Heilige) perché mi dà salute e salvezza (Das Heil), sospendendomi al suo potere sull’abisso del nulla»5.

5

Ivi, pp. 18-19.


63

umanesimo integrale

Maritain e Camaldoli a cura di Andrea Bosio

Il Codice di Camaldoli è allo stesso tempo uno dei documenti più importanti e uno dei testi meno studiati del cristianesimo democratico. Composto tra il giugno del 1943 e la primavera del 1945 da un gruppo di lavoro ampio, guidato da Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno e don Adriano Bernareggi, ma del quale facevano parte anche Aldo Moro, Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e molte altre personalità della politica cattolica, è un tentativo di fornire una proposta cattolica per la ricostruzione politica, istituzionale e sociale dell’Italia dopo la guerra e dopo il Ventennio fascista.

Si trattava di un tentativo di dare attuazione alla Dottrina sociale nel contesto italiano ed europeo come stava delineandosi dal quadro ormai evidente della guerra mondiale. Riprendendo l’esercizio del Codice di Malines, che aveva riorganizzato la Dottrina sociale per un suo uso maggiormente politico, il Codice di Camaldoli voleva andare oltre e avanzare proposte concrete per la politica, la società e le istituzioni dell’Italia post-fascista. Questo testo, tuttavia, non sorge isolato, ma è il frutto di numerose riflessioni che si sono succedute e accavallate sia lungo gli anni ’30, sia nel triennio di guerra mondiale, un mare di tributi


64 Nipoti di Maritain e rimandi che è impossibile qui sintetizzare anche solo a grandi linee.

“il Codice di Camaldoli è un tentativo di fornire una proposta cattolica per la ricostruzione politica, istituzionale e sociale dell’Italia dopo la guerra”

Poco studiato il Codice, ancor meno studiato è il contributo indiretto che le riflessioni di Jacques Maritain diedero alla sua realizzazione. Maritain, infatti, era uno dei filosofi più letti dai giovani intellettuali cattolici dell’epoca e numerosi suoi testi avevano saputo superare le maglie sempre più strette della censura fascista. L’appello di Maritain all’azione dei cattolici è datato 1936. In Umanesimo integrale il filosofo francese invertiva le priorità che aveva delineato dieci anni prima con Primato spirituale: Maritain intuiva con un quinquennio di anticipo l’orrore verso cui si stava incamminando l’Europa e chiamava i cattolici a un’azione concreta nella vita sociale, civile, politica. Non era un appello nuovo: già Pio XI aveva avanzato un simile appello. Papa Ratti, tuttavia, partiva ancora dalla visione radicalmente negativadel mondo moderno e della sua società e chiamava i cristiani all’impegno per una ricristianizzazione sullo stile della società medievale. Se il successore Pio XII si era reso conto della impossibilità di una simile proposta, aveva comunque provato a riproporre la medesima sintesi in chiave nuova. Il termine più ricorrente in questo campo è “nuova cristia-

nità”. Come spiega Bartolomeo Sorge, la proposta di Maritain «si distingue da quella medievale soprattutto per una visione rinnovata della realtà temporale. Mentre il modello medievale era sacrale, quello maritainiano è invece profano», dando una centralità insolita per la riflessione cristiana alla realtà temporale. È il momento del primato temporale, un primato che non mette in discussione quello spirituale, ma porta l’azione cristiana sul piano temporale: nell’uomo, infatti, il piano della fede incrocia quello della cultura. È «il superamento della vecchia sintesi medievale tra fede e cultura», una sintesi che aveva spinto molti a ritenere che «la fede è l’Europa e […] l’espansione del regno di Dio tra i popoli consista nel portare a essi la civiltà occidentale», come scriveva Maritain ne La Chiesa cattolica e le civiltà. Rimane saldo il “primato di Dio”, ma è declinato nella cultura nel linguaggio e nella cultura del suo tempo, abbandonando fantasiose speculazioni su un impossibile ritorno al passato. Maritain contribuisce a fornire quindi al cristianesimo democratico l’ossigeno filosofico – e teologico – di cui era stato privato durante la lotta al “modernismo”. Oggi una riflessione analoga è quella di Duilio Albarello, esposta in La grazia presuppone la cultura. Il Codice di Camaldoli fa suoi questi spunti e guarda alla società e alla cristianità italiane che emergono dalla tragedia del


65 Ventennio fascista attraverso questi occhiali peculiari. Orientato all’Italia, il Codice cerca di essere scevro dalla mentalità di colonialismo occidentale – anche se vi ricade, soprattutto quando tratta i temi della famiglia – e dalle aspettative di una società cristiana ideologicamente medievaleggiante. L’obiettivo del Codice è – per dirla con il Maritain dell’Umanesimo integrale – uno «Stato laico cristianamente costruito», che riconosca così anche i diritti dell’uomo, «nel presupposto che la stessa libertà della Chiesa non potesse fondarsi su una sorta di orgogliosa separatezza, come se la libertà religiosa fosse scindibile dalle libertà civili», come appunta Giorgio Campanini. Gli autori facevano così proprie le istanze per l’adesione cattolica alla democrazia politica, una scelta che si trova a monte del Codice stesso, frutto appunto delle riflessioni – spesso silenti, e su questo si dovrebbe aprire un’altra riflessione – che in quegli anni si erano man mano stratificate, dando attuazione concreta alle proposte di Maritain e della riflessione cristiana che, mettendo al centro l’essere umano, voleva ridisegnare la società, consapevoli che «l’uomo è per sua natura un essere socievole: sussiste cioè tra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà per cui le esigenze delle singole personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società» (Codice di Camaldoli, 1).


66 Nipoti di Maritain

a misura d’uomo E se tornassimo a testimoniare? Il contributo dei cattolici nella crisi delle istituzioni a cura di Rocco Gumina

«Niente va più da sé, tutto diviene problematico. È adesso che bisogna cambiare stile per non lasciare dissolvere la comunità. È adesso che bisogna fare appello a tutte le risorse e a tutte le forze; anche a quelle cattoliche.» (J.-L. Marion, 2019). Fra le più rilevanti conseguenze del cambiamento d’epoca in atto, possiamo registrare la crisi delle istituzioni tanto su scala internazionale quanto sullo scenario locale. Se è vero che ogni organizzazione umana segue il perenne divenire dello sviluppo sociale e culturale, è ancora più certo che l’era della globalizza-

zione ha accelerato tale dinamismo tanto da ridurre l’opera degli organismi istituzionali a enti capaci solo di constatare i mutamenti avvenuti altrove. Ad indebolire ulteriormente il valore simbolico e l’efficacia reale delle istituzioni possiamo ricordare, in nazioni come la nostra, la profonda crisi economica che colpisce sia i giovani sia le famiglie e produce disoccupazione, denatalità, aumento dei NEET, crescita della povertà assoluta e degli abbandoni scolastici, sottosviluppo del Mezzogiorno e l’esodo di migliaia di laureati verso altri Paesi. In pri-


67 mo luogo, tali fattori spingono i singoli cittadini ad una radicale sfiducia nei confronti di tutto ciò che è comunità; in seconda battuta, alimentano il disincanto e le pulsioni antidemocratiche1. Se, nella nostra epoca, tutto è divenuto problematico anche perché le istituzioni hanno perso il ruolo che avevano nel passato, pare profilarsi il tempo per un’azione volta a risignificare il valore simbolico delle comunità e degli enti chiamati a sostenerla. Infatti il nostro tempo, prima di una riforma dal tono esclusivamente giuridico delle istituzioni, abbisogna di una riflessione culturale sui motivi simbolico-essenziali che sostengono lo stare insieme. Uno sforzo del genere potrà portare frutto solo se tutti gli attori della comunità daranno un contributo. Fra questi, i cattolici. Dall’unità d’Italia in poi, nel nostro Paese il ruolo del cattolicesimo sociale e politico ha vissuto alterne, ma sempre importanti, vicende. In Italia, dal Non expedit alla Democrazia Cristiana, i credenti – alla luce della loro visione del mondo radicata in Cristo Gesù – hanno generato cultura e azione in grado di sostenere e sviluppare l’intera comunità nazionale. Nell’evitare di percorrere piste già battute e ormai fuori dalla portata della 1 Sulla situazione economico-sociale della nostra nazione, si vedano il 27° rapporto annuale dell’ISTAT e la 53ͣ relazione elaborata dal CENSIS.

storia – oltre che nel rifuggire dal tentativo di cristianizzare direttamente o implicitamente la società – i cristiani, al pari di tutti gli altri cittadini italiani, sono invitati a dare un contributo culturale, sociale e politico al fine di riformare le istituzioni adeguandole, così, al cambiamento d’epoca in atto. Quale messaggio nella società del nostro tempo, e per le istituzioni politiche e sociali, può offrire il cristianesimo? Quali contenuti simbolici, nel rispetto dell’aconfessionalità dello Stato, può proporre al fine di sostenere la comunità? L’immagine del Dio di Gesù Cristo, del Signore della vita divenuto uomo come noi, invita anzitutto a prendersi cura delle persone portartici di storie e di volti – per dirla con Italo Mancini – da guardare, da rispettare, da accarezzare2. Il valore della centralità della persona all’interno della società conduce alla promozione di politiche, e di relative istituzioni, capaci di tutelare le fragilità, di sostenere le pratiche associative, di accogliere le diversità, di riconoscere il limite della stessa opera politica. Si tratta, allora, di provare a ridare ragioni e simboli alla politica decaduta per via di semplificazioni e paure esasperate. La politica a qualsiasi livello, incluso quello istituzionale, ne2 Cfr. I. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1999.

“pare profilarsi il tempo per un’azione volta a risignificare il valore simbolico delle comunità e degli enti chiamati a sostenerla”


68 Nipoti di Maritain

“una riflessione culturale sui motivi simbolicoessenziali che sostengono lo stare insieme”

“il cristianesimo? Quali contenuti simbolici può proporre al fine di sostenere la comunità?”

cessita di capacità progettuale e quindi di visione. Il cattolicesimo può contribuire alla formulazione di un pensiero lungo e profondo per la società non finalizzato alla riconquista del potere o alla sacralizzazione delle istituzioni ma per favorire una vera e propria rivoluzione interiore in grado di riavvicinare la politica alle attese dei cittadini3. Per i cattolici, il cambiamento interiore e la promozione di nuovi modelli di partecipazione alla vita delle città e del Paese sono generati non tanto da una strumentalizzazione della spiritualità per fini politici quanto dalla libera testimonianza carica di attrattività destinata ad innescare processi comunitari e rinnovati stili4. Così, nella società odierna e per le istituzioni del nostro tempo, i discepoli del Cristo non possono restare spettatori della decadenza in atto bensì sono chiamati a divenire, alla luce delle proprie peculiarità, protagonisti attivi del rinnovamento sociale e politico. Solo in tal modo, i credenti possono realizzare nella storia la chiamata ad essere sale della terra, luce del mondo, seme e lievito di rinnovamento. Tutto ciò, per Giorgio La Pira, significa che i cristiani nel mondo hanno una «missio3 Sulla questione, segnalo un’interessante intervista a O. Sedakova, Io spero nella rivoluzione interiore, La nuova Europa, 31 dicembre 2019. 4 Rimando a M. Borghesi, La fede non vive di potere, ma solo di testimonianza, Il Sussidiario, 11 settembre 2019.

ne trasformante da compiere […] che per opera del nostro sacrificio amoroso […] dobbiamo mutare le strutture di questo mondo per renderle al massimo adeguate a Dio»5. Alla luce di tale consapevolezza, nella comunità umana iper-connessa, tecnologica e globalizzata ma, allo stesso tempo, impaurita, disgregata e sfiduciata, il ruolo del cristianesimo – testimoniato tanto dai singoli quanto dai gruppi associati – può essere quello di sostenere un’autentica “spiritualità” civica. Quest’ultima – generata da un approccio aconfessionale e fondata su di un’etica del bene comune e della tutela delle diversità – deve trovare le vie culturali, politiche e sociali per mobilitare le energie profonde del nostro popolo al fine di indirizzarle verso uno sviluppo della nostra democrazia e delle relative istituzioni pubbliche6. Dunque, la testimonianza cristiana può favorire processi finalizzati a sviluppare quella consapevolezza politica e civica che i singoli cittadini radunati in popolo devono ritrovare. In tal modo, il contributo del cattolicesimo italiano, insieme a quello di tutti gli altri, potrà inaugurare una nuova stagione generativa di visioni, contenuti, 5 G. La Pira, La nostra vocazione sociale, AVE, Roma 2004, p. 41. 6 Per approfondire invito a rileggere G. Dossetti, I valori della Costituzione, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2005.


69 simboli e percorsi destinata tanto a risignificare il valore delle istituzioni quanto ad avvicinarle ai cittadini.


70 Nipoti di Maritain

recensione

Claudel e il teatro del mondo. Le Soulier de satin (Riccardo Bravi, Aracne, Roma 2019) a cura di Piotr Zygulski

In Italia noto ancor meno che in Francia, dov’è sbrigativamente etichettato tra gli autori cattolici integralisti, Paul Claudel viene presentato in un orizzonte più vasto – globale, nel senso letterale del termine – dallo studioso Riccardo Bravi, lettore di italiano all’Université Nice Côte d’Azur e dottorando in letteratura francese all’Université di Aix-en-Provence, con il suo recente volume “Claudel e il te­atro del mondo”. A partire dal lungo e tempestoso dramma teatrale “Le Soulier de Satin” (tradotto in italiano come “La scarpetta di

raso”), Bravi non offre un riassunto della trama, bensì fa affiorare tre aspetti in particolare: gli intrecci tra politica, letteratura e cultura europea; il fascino, la ricerca e la sperimentazione di forme artistiche orientali; la comicità cosmica che si sprigiona dal silenzio svelando la gioia cristiana. Dal silenzio su Claudel, quindi, il percorso permette di cogliere il Silenzio di Claudel e in Claudel. Il letterato francese – che fu diplomatico di professione – rappresenta sulla scena rinascimen-


71 tale, ma con gusto già barocco, la sua Europa in decadenza tra le due Guerre Mondiali, senza riuscire a scorgere nelle avanguardie culturali una significativa via d’uscita da tali secche. Raffinati rimandi intertestuali, figure simboliche di santi, incroci spazio-temporali presiedono alla costruzione di un’Europa futura. Come osservava però Von Balthasar, è più un «panneggiarsi di tratti simbolici» che non una «intenzione storiografica»: «gioca con i motivi storici come il compositore gioca con le serie di accordi che la tradizione gli ha consegnato» per sviluppare in un kairos incandescente l’«incontro fra il mondo e la Chiesa». Bravi nota le sintonie tra quest’opera di Claudel e altri suoi interventi in cui egli riconosce come l’Europa si sia «mummificata in un istante e non riesce più a muoversi, né a reagire» (p. 25). A partire da questa morte della cultura europea, ormai svuotata, il francese fa dialogare terra e cielo, atteggiamenti differenti nei confronti della storia e della politica, interessi di parte in un unico orizzonte globale in cui vengono compressi paesi ed epoche diverse, secondo le intenzioni esplicite del poeta-diplomatico stesso. Ecco quindi che «la politica in lui è quasi sempre inseparabile dalla riflessione sulla cultura, dalla metafisica e dalla invenzione letteraria, che non si riduce solamente a un gioco sull’immaginario e sulle sue forme poetiche: “Le Soulier de satin” può essere

considerata come la prima e la più formidabile mise en scène dell’entrata dell’Europa in letteratura» (p. 31). L’ambizione di Claudel era appunto quella di essere «le premier grand poète européen» – il primo grande poeta europeo – che nella simbologia cela le proprie considerazioni politiche su un’Europa che potrà essere rifatta solamente «alla tripla condizione di mescolare il politico al religioso, di eleggere un centro e di creare un insieme federale, per l’istante, sinfonico, con più voci» (p. 34). I santi che fa dialogare – da Saint Boniface in cui nasconde il cancelliere Stresemann, fautore dell’unione franco-tedesca, a Saint Nicolas, che viene dall’Oriente per superare le rovine dell’Europa – hanno una funzione unitaria e portano un messaggio per dare forma alla scena caotica degli Anni Venti del Novecento: il loro ruolo «è paragonabile, in sostanza, a quella del poeta, dell’attore, del diplomatico» (p. 44). Mentre il dramma di Claudel si svolge tra il Vecchio Continente e il Nuovo Mondo, il poeta si trova ad attingere alla cultura orientale – soprattutto al teatro Nō giapponese – per una scelta poetica decisamente simbolista, in cui i gesti producono la parola tra le infinite pieghe del silenzio che offre il suo non-essere a disposizione dell’essere, con una presenza non rivale rispetto all’assenza. Se nel barocco le figure tendono a sovrabbondare rispetto allo spazio scenico,

“incroci spaziotemporali presiedono alla costruzione di un’Europa futura”


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“i gesti producono la parola tra le infinite pieghe del silenzio”

Claudel nel Soulier de satin «elabora un’ontologia del nulla», esaltando «tutto ciò che in Europa presenta la vocazione del nulla. Il teatro, concepito su questo modello straordinario, potrà diventare un esercizio sacramentale, a condizione di non sacrificare l’assenza alla presenza e di non camuffare l’abbandono del divino attraverso un’abbondanza di riflessi ingannevoli, di finte scintille e di rumori capaci di trasmettere delusione e afflizione, invece che gioia e letizia» (p. 73). Sarà così possibile anche riscoprire il carattere «mistico e rivelatorio» del teatro quale precario «luogo di passaggio: dalla scena alla sala, dall’assenza alla presenza e dagli uomini a Dio» (p. 74). Ecco quindi che le figure barocche vengono straniate da Claudel e ricollocate su una tela di fondo orientale, nella quale nondimeno fa irruzione il sacro nelle attività umane in modo imprevedibile eppure continuo. Così la poetica giapponese in modo chiaroscurale permette di cogliere ciò che nel dramma europeo resta obnubilato, vale a dire «l’assente, l’invisibile e l’inafferrabile, insiti nelle vicende umane» (p. 87), illustrando come sia l’assenza a rivelare la presenza. Veniamo infine alla riflessione teologica di Claudel, per il quale «la fede è inseparabile dalla gioia». Anche in quest’opera, il poeta – noto per il suo ottimismo, il suo coraggio e al contempo la sua serietà al servizio della sua

Patria – aiuta a riconoscere l’agire della Provvidenza e a difendere con la sua arte comica il senso del mistero, in opposizione alle tendenze positivistiche, materialistiche e tecnocratiche. Bravi osserva come il riso del poeta, «è il riso dell’angelo che vede in faccia Dio. Un riso che è la molla stessa dell’opera drammatica claudelliana» (p. 102), «perché la vita stessa è uno spettacolo» (p.103); perciò non disdegna giochi di parole, burle, buffonerie nella sua drammaturgia che abbraccia con leggerezza i sentimenti contraddittori della vita. Lo stesso dramma viene deriso. Scandagliando tutte le sfumature della gioia, questa conduce l’uomo alla liberazione dalla finitudine temporale per trovare una salvezza nella disperazione; cristianamente, la comicità consente di «sorridere nelle lacrime», con la forza redentrice della Croce e della Resurrezione. Non è quindi il grigiore dei professori e dei tecnici – neppure quando con la medesima certezza scientifica pretendono di controllare la Parola di Dio – bensì la profondità dell’esistenza che, al di là delle apparenze che mietono innumerevoli vittime, rivela come liberazione possa darsi solamente in una relazione che trascende il singolo individuo. Di qui una gioia sempre più interiore e sempre più cosmica, «dove non si sa più esattamente di cosa bisogna ridere anche se si è assolutamente sicuri dello spirito ironico del dialogo che si ha sotto gli occhi» (p.121). In


73 questa prospettiva Bravi consente di restituire autenticità al senso religioso di Claudel, senza rinchiuderlo in facili stereotipi, ma mostrando come la lettura del poeta sia viva, attuale, spirituale, proprio a partire dalla meta-poetica del silenzio che sacramentalmente unisce i simboli della terra e del cielo, con le loro metafore. Nella prefazione a questo volume Massimo Raffaeli riconosce come, secondo Bravi, «in parallelo con Antonin Artaud, l’opera di Claudel “è la mise en scène del silenzio” pure se appare ovvio che il silenzio in Artaud equivale al gesto dell’immolarsi e via via annientarsi dentro una dinamica crudele e nichilista mentre per Claudel il silenzio corrisponde alla pienezza potenziale del senso, a una polisemia integralmente concentrata solo un attimo prima del contatto o del riconoscimento di “Dio”» (p. 12). Resta infine quella gioia, che è «la metrica profonda, la prosodia del Mondo. Perciò il riso, che è appunto la immediata espressione della gioia, nel “Soulier de satin” compare sempre in margine al silenzio dove si propizia la parola espressa. Ma questo è un riso ormai perfettamente estraneo al comico perché dentro vi pulsa qualcosa di divino, è un riso cosmico, il solo che può avvicinare gli uomini a “Dio”» (p. 13).

“la gioia conduce l’uomo alla liberazione dalla finitudine temporale per trovare una salvezza nella disperazione”


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Autori Lorenzo Banducci Nato a Lucca nel 1988, si è laureato in Odontoiatria a Pisa nel 2012 e dal 2013 esercita la professione in vari studi della Toscana. È stato fra i rifondatori del gruppo FUCI di Lucca nel 2009 per poi esserne responsabile regionale per la Toscana dal 2010 al 2012. Dal 2011 ad oggi ha incarichi diocesani in Azione Cattolica di Lucca dove attualmente è Vice-Presidente del Settore Giovani. Con Niccolò Bonetti è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. iaffo@hotmail.it Niccolò Bonetti Nato a Lucca nel 1990, dopo la maturità classica ha conseguito la laurea triennale e poi quella magistrale in Filosofia presso l’Università di Pisa, con particolare interesse per la storia del pensiero patristico e medievale. È impegnato nell’Azione Cattolica e nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale di cui è vicepresidente diocesano. È stato impegnato nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, per la quale è stato consigliere centrale. È segretario del centro culturale “P.M. Vermigli” fondato dalla Chiesa valdese di Lucca. Con Lorenzo Banducci è tra i fondatori di Nipoti di Maritain. Andrea Bosio Nato a Genova nel 1980, si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova con una tesi sulla narrazione della fisica nella società contemporanea; insegnante, studia Scienze religiose presso l’ISSR di Albenga-Imperia e si occupa di storia contemporanea della Chiesa. Samuele Del Carlo Nato a Lucca nel 1980 da genitori evangelici, dopo gli studi classici ha studiato Lettere Antiche a Pisa, approfondendo, oltre al greco e al latino, da lui poi insegnati per alcuni anni, anche la linguistica, il sanscrito, l’ebraico, la storia antica, la letteratura cristiana e la storia delle religioni. Frequenta la FUCI di Pisa e i colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli. Formatosi alla scuola del pastore Domenico Maselli, è tra i responsabili della Chiesa Valdese di Lucca nella quale collabora alla cura della predicazione, degli studi biblici e dei rapporti ecumenici. Dal 2016 al 2018 ha presieduto il centro culturale lucchese “Vermigli”, lavorando alla nascita di un centro ecumenico. Oggi la sua ricerca è orientata soprattutto al bisogno di spiritualità nel mondo laico.


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Michele Di Gioia Nato a San Giovanni Rotondo (FG) nel 1987, dopo la maturità classica ha conseguito il baccalaureato in Filosofia e Teologia, specializzandosi successivamente in Antropologia teologica. È presbitero per la Diocesi di Lucera-Troia dal 2013. Rocco Gumina Nato a Caltanissetta nel 1985, insegna Religione nella Diocesi di Palermo. Dopo la licenza in Ecclesiologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi su Dossetti, ha conseguito un master all’Istituto di Studi Bioetici di Palermo – con cui ora collabora come docente – con uno studio sulla bio-politica di Habermas. È dottorando in Teologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Dal 2009 al 2011 ha presieduto il gruppo FUCI Caltanissetta; dal 2014 è presidente dell’associazione culturale “A. De Gasperi”. Collabora con l’Ufficio IRC della Diocesi di Palermo e pubblica su Ricerche teologiche, Ho Theológos e Bio-ethos, della quale è redattore. Michele Lasala Nato a Barletta (BT) nel 1983. Laureato in Scienze filosofiche presso l’Università degli studi di Bari “Aldo Moro” con una tesi su Armando Carlini e il problema della metafisica. Autore di articoli di critica d’arte, di saggi e di prefazioni. È membro della associazione culturale “Das Andere” di Ascoli Piceno e redattore della omonima rivista. Attualmente i suoi interessi sono orientati verso il pensiero italiano novecentesco. Tra i suoi lavori: “Was ist Metaphysik? Armando Carlini interprete di Martin Heidegger” (Limina Mentis 2016), “La crisi dell’età contemporanea e il fallimento della ragione” (Gnasso Editore 2019). Giuseppe Lorizio Nato a Poggio Imperiale (FG) nel 1952, presbitero della Diocesi di Roma, nel 1988 ha conseguito il Dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana sulla Teodicea di Antonio Rosmini e una successiva Licenza in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense. Già docente alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, e all’ISSR “Ecclesia Mater” di cui è stato Preside dal 2003 al 2010, attualmente è Professore ordinario di Teologia fondamentale in Lateranense. Membro di numerosi comitati scientifici, è stato vicedirettore della rivista “Rassegna di Teologia” e direttore di “Lateranum” tra il 2005 e il 2010 e nuovamente dal 2015 al 2020. Mattia Lusetti Nato a Mondovì (CN) nel 1985, inizia gli studi teologici presso lo S.T.I. di Fossano conseguendo poi il baccellierato in Teologia a Roma (Pontificia Università Gregoriana) con un lavoro sull’Incarnazione in Tommaso d’Aquino; prosegue gli studi filosofici conseguendo la laurea triennale (Università Tor Vergata, Roma) con un lavoro sulla Husserl e la licenza in Filosofia (Pontificia Università Gregoriana, Roma) con un lavoro sull’etica di Aristotele. Insegna da cinque anni Religione Cattolica in Licei e Istituti Tecnici a Roma.


76 Nipoti di Maritain Omar Orrù Nato a Sorgono (NU) nel 1987, dopo la maturità classica ha conseguito il Baccellierato in Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo a Roma, dove è attualmente dottorando, nel 2018 ha conseguito la licenza in Liturgia con una tesi sulla preghiera di ordinazione dei diaconi. Presbitero dal 2013, dal 2015 è parroco, collaboratore dell’Istituto di formazione teologico-pastorale e vicedirettore dell’Ufficio liturgico dell’Arcidiocesi di Oristano. Giovanni Francesco Piccinno Nato a Nardò (LE) nel 1989, dopo aver conseguito la Laurea in Filosofia a Lecce presso l’Università del Salento ha proseguito gli studi filosofici a Firenze e successivamente ha conseguito la Laurea in Scienze Religiose presso l’ISSRM di Lecce, dove conclude il percorso di studi nell’indirizzo pedagogico-didattico della Laurea Magistrale con una tesi dal titolo: “Il Messia sconfitto e vivente. Una lettura esegetico-teologica di Mt 26-27”. Da settembre 2018 è Docente IRC della Diocesi di Albano, attento alle dinamiche didattico-comunicative della fede cristiana, legate alle sue declinazioni biblica, teologico-fondamentale e dogmatica. Christian Alberto Polli Nato a Monza nel 1989, da sempre vive a Brugherio. Dopo la maturità classica ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ottenendo nel 2013 la laurea triennale in lettere moderne e nel 2015 la laurea magistrale in Filologia Moderna con una tesi storico-religiosa incentrata sulla visione che l’ancora anglicano John Henry Newman aveva dell’ufficio pontificio. Cresciuto nella spiritualità dehoniana, è poeta e studia presso l’Archivio di Stato di Milano. Impegnato nella ricerca storica locale, da due anni insegna Storia d’Italia all’ACU (Accademia della Cultura Universale). Collabora inoltre attivamente alla redazione di voci d’ambito storico e umanistico su wikipedia. Alessio Santiago Policarpo Nato a Bordighera (IM) nel 1985, ha conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte presso l’Università degli Studi di Firenze, con una tesi su due monumenti di tema sacro dello scultore Domenico Trentacoste (1856-1933). Attualmente è docente di sostegno in una scuola di Torino. È impegnato nella critica d’arte e nella divulgazione attraverso il suo blog ARTEOGGI; ha curato due mostre collettive a Firenze (“Corpus Hominis” e “R-Esistenze”) e ha tenuto diverse conferenze relative a temi da lui studiati, come le linee artistiche novecentesche e contemporanee legate alla tradizione e al figurativo, e la critica discorde.


77 Luigi Previtero Nato a Tricase (LE) nel 1991, è presbitero della Diocesi di Nardò-Gallipoli dal 2017. È stato alunno del Seminario Minore di Nardò e successivamente del Pontificio Seminario Romano Maggiore. A Roma presso la Pontificia Università Lateranense ha conseguito il baccalaureato in Filosofia e il baccalaureato in Teologia, specializzandosi nel 2017 presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo dove ha conseguito la Licenza in Teologia dogmatico-sacramentaria con un lavoro focalizzato sulla ritualità. Presso la sua chiesa locale è Vicario Parrocchiale della Basilica Cattedrale di Nardò, di cui è membro del capitolo, ed è vicedirettore dell’Ufficio Liturgico Diocesano. Rosario Sciarrotta Nato ad Agrigento nel 1983, dopo la maturità classica ha intrapreso gli studi giuridici per poi dedicarsi a quelli teologici, conseguendo il baccellierato presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia con una tesi di antropologia teologica su Romani 5,20. Docente presso il liceo “Caetani” di Roma, è licenziando in Teologia Biblica presso la Pontificia Università Gregoriana. È studioso anche di Storia della Chiesa e di Arte cristiana. Ha collaborato alla pubblicazione del Dizionario dei pensatori e teologi di Sicilia e collabora con la Rivista della Facoltà Ho Theológos. Giacomo Tarullo Nato a Scanno (AQ) nel 1993, ordinato presbitero nel 2019. Dopo il diploma ha proseguito gli studi presso l’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano in Chieti conseguendo il baccalaureato in Sacra Teologia. Dal 2019 all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano prosegue gli studi di licenza in Ontologia Trinitaria. Omar Vitali Nato a Bergamo nel 1981, ha conseguito il Baccalaureato in Teologia presso il Seminario Vescovile “Papa Giovanni XXIII”. Ricevuta la dispensa dagli oneri sacerdotali, attualmente insegna religione presso le scuole della provincia di Brescia. Piotr Zygulski @piozyg Nato a Genova nel 1993, dopo la maturità scientifica e la laurea in Economia all’Università di Genova, ha proseguito gli studi all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano e all’Università di Perugia, conseguendo due lauree magistrali rispettivamente in Ontologia Trinitaria e in Filosofia, con una tesi sull’apertura teologica dell’attualismo gentiliano. È dottorando a Sophia sotto la guida dei teologi Mohammad ‘Ali Shomali e Piero Coda su tematiche escatologiche cristiane e musulmane. L’ultima sua pubblicazione è “Il battesimo di Gesù” (EDB 2019). Giornalista pubblicista, è redattore della testata Termometro Politico e dal 2016 dirige Nipoti di Maritain. pz.senet@hotmail.it


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