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OTTOBRE 2015
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LA CAROVANA FEMMINISTA MIGRAZIONI DI MASSA L’ALTRA AGRICOLTURA
MADRI prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 70 - n.10 ISSN 0029-0920
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Ottobre 2015
DELFINA
di Cristina Gentile
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SOMMARIO
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03 / EDITORIALE di Tiziana Bartolini
4/7 ATTUALITà 04 ATTUALITà MIGRAZIONI IN EUROPA Una massa umana inarrestabile di Giancarla Codrignani 06 QUANDO EDUCAZIONE E TASSE SONO PARITARIE di Stefania Friggeri
8/9 BIOETICA DOTTORI ANCHE IN ‘UMANITà’ UN SEGNALE FORTE PER I MEDICI DI DOMANI di Luisella Battaglia
10/14 INTRECCI 10 ARCHIVI UDI, L’ALTRA STORIA Intervista a Rosangela Pesenti di Tiziana Bartolini 11 CALENDARIO UDI 2016 12 DONNA E SALUTE GLI APPUNTAMENTI DEL 2015
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14 Dedicato a Donatella Colasanti Quaranta anni dopo massacro Circeo Il monologo di Donatella Mei
01 / DELFINA di Cristina Gentile
15/21 FOCUS / MADRI 15 Voglio un figlio. Forse Il Melograno/Tiziana Valpiana di Tiziana Bartolini 18 Ad ognuna il suo Stato Interessante Intervista a Alessandra Bruno di Silvia Vaccaro
22 Una malga in Friuli Venezia Giulia Sapori e valori della decrescita possibile di Antonella Iaschi 24 Donne in Campo/Lombardia Coltivare e allevare biologico Intervista a Renata Lovati di Tiziana Bartolini
Anno 70 - numero 10 Ottobre 2015
Presidente Maria Costanza Fanelli
La testata fruisce dei contributi di cui alla legge n.250 del 7/8/90
Editore Cooperativa Libera Stampa a.r.l. Via della Lungara, 19 - 00165 Roma Stampa ADG PRINT s.r.l. Via Delle Viti, 1 00041 Pavona di Albano Laziale tel. 06 45557641 PROGETTO GRAFICO Elisa Serra - terragaia.elisa@gmail.com Abbonamenti Rinaldo - mob. 338 9452935 redazione@noidonne.org
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26 /31 MONDI
36 MILANO /LA GRANDE MADRE MEGAMOSTRA A PALAZZO REALE di Flavia Matitti
26 DONNE E UOMINI NEL MONDO Ma quante siamo? di Cristina Carpinelli
38 TOPONOMASTICA FEMMINILE/MILANO TOUR URBANO SU ALESSANDRO MANZONI di Lorenza Minoli
29 EGITTO/STREET CHILDREN AL CAIRO La ong FACE con i bambini di strada di Zenab Ataalla
41 TOPONOMASTICA FEMMINILE/PISA IL GIARDINO 8 MARZO di Matilde Baroni
31 MONDO FEMMINISTA Il passaggio della carovana di Silvia Vaccaro
42 VENEZIA 72MA MOSTRA CINEMA COPPA VOLPI A VALERIA GOLINO LOCARNO E VENEZIA A ROMA di Elisabetta Colla
32 LUISA FRESSOIA/LA CODA DELLA COMETA M. FIUME B.IACONO/VOGLIO IL MIO FIUME di Mirella Mascellino
22/25 JOB&JOB
Direttora Tiziana Bartolini
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32/43 APPRODI
20 La storia di Sara di Sara Catania Fichera
Mensile di politica, cultura e attualità fondato nel 1944
Autorizzazione Tribunale di Roma n°360 del Registro della Stampa 18/03/1949 Poste Italiane S.p.A. Spedizione abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. In L.27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 DCB Roma prezzo sostenitore €3.00 euro Filiale di Roma
OTTOBRE 2015 RUBRICHE
33 MILANO EXPO/ARTE HORTO A BRERA PERCORSO ARTISTICOBOTANICO di Tiziana Bartolini
05 Versione Santippe di Camilla Ghedini 07 Salute BeneComune di Michele Grandolfo 09 Il filo verde di Barbara Bruni 23 Strategie private di Cristina Melchiorri 44 Life coaching di Catia Iori 45 Spigolando di Paola Ortensi 46 Leggere l’albero di Bruna Baldassarre 46 Famiglia, sentiamo l’avvocata di Simona Napolitani 47 L’oroscopo di Zoe 48 Poesia Ivana Tanzi Parola minima di Luca Benassi
34 CHIOGGIA/ DA ANPI A ANPPI PER LA PARITA’ NELLA RESISTENZA di Gina Duse 35 MARIA PIA TREVISAN/LE FARFALLE DI EBENSEE di Tiziana Bartolini
amiche e amici del progetto noidonne
Clara Sereni Michele Serra Nicola Tranfaglia
Laura Balbo Luisella Battaglia Francesca Brezzi Rita Capponi Giancarla Codrignani Maria Rosa Cutrufelli Anna Finocchiaro Carlo Flamigni Umberto Galimberti Lilli Gruber Ela Mascia Elena Marinucci Luisa Morgantini Elena Paciotti Marina Piazza Marisa Rodano Gianna Schelotto
Ringraziamo chi ha già aderito al nuovo progetto, continuiamo ad accogliere adesioni e lavoriamo per delineare una sua più formale definizione L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o cancellazione contattando la redazione di noidonne (redazione@noidonne.org). Le informazioni custodite nell’archivio non saranno né comunicate né diffuse e verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati il giornale ed eventuali vantaggiose proposte commerciali correlate. (L.196/03)
ringraziamo le amiche e gli amici che generosamente questo mese hanno collaborato
Daniela Angelucci Zenab Ataalla Bruna Baldassarre Tiziana Bartolini Matilde Baroni Luisella Battaglia Luca Benassi Barbara Bruni Cristina Carpinelli Sara Catania Fichera Giancarla Codrignani
Elisabetta Colla Gina Duse Stefania Friggeri Cristina Gentile Camilla Ghedini Michele Grandolfo Antonella Iaschi Catia Iori Mirella Mascellino Flavia Matitti Cristina Melchiorri Lorenza Minoli Simona Napolitani Paola Ortensi Silvia Vaccaro
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MADRI SOLE N
ell’arco di qualche decennio la situazione si è ribaltata. Dalle lotte per ottenere la libertà di procreare in modo responsabile, siamo passate alla difficoltà di mettere al mondo un figlio desiderato. Rimangono invariati i nodi della questione: il corpo delle donne con il loro diritto alla scelta accanto alle imposizioni di chi voleva, e vuole, decidere sulla base di convinzioni etiche ed escludendo che l’interessata possa autodeterminarsi. Ieri abbiamo combattuto per ottenere l’accesso alla contraccezione e la possibilità di interrompere gravidanze indesiderate senza rischiare la galera e la vita; oggi per tantissime donne il problema è cercare di avere una gravidanza, magari rinviata per troppo tempo, contrastando le imposizioni della legge sulla fecondazione medicalmente assistita. Intanto l’aborto clandestino torna ad essere una triste realtà per l’alto numero di obiettori di coscienza che, nei fatti, impediscono l’attuazione della legge 194. Non è facile, oggi, scandagliare la dimensione della maternità cercando di cogliere le ragioni profonde che determinano il basso tasso di natalità del nostro paese, perché convivono tante e opposte realtà. Certamente il problema del lavoro e della precarietà è importante e non può essere ignorato, ma c’è altro che le donne raccontano poco. Qualcosa che non è evidente e che va fatto emergere. Ci siamo misurate con la difficoltà di addentrarci in un mondo complesso e misterioso se lo si vuole avvicinare senza la “barriera di protezione” delle statistiche sulla disoccupazione o dei dati sulla conciliazione. Insomma volevamo capire come, quando, perché le donne decidono di diventare madri. Oppure come, quando e perché decidono di non fare questa esperienza così importante, forte, impegnativa e unica. Ci rendiamo conto che il viaggio è appena all’inizio poiché la parola ‘madri’ racchiude tanti mondi e modi, tante condizioni e singolarità. Al contempo, per effetto di un curioso strabismo, la pluralità di sfumature e di vissuto entra in rotta di collisione con lo stereotipo, ancora vivo, della perfetta donna di casa prigioniera di ruoli tanto definiti quanto improbabili. Quello che colpisce è che le testimonianze raccolte nel focus di questo mese sono accomunate da una solitudine, fortissima e disperante, con cui le donne vivono la scelta di essere madri, poi la gravidanza e la cura del figlio che nascerà. Qualche decennio fa al procreare è stato conferito valore politico insieme alle lotte per uno stato sociale che - almeno nelle speranze - si voleva organizzato adeguatamente. Il ritorno al privato ce lo ha mostrato la battaglia contro le imposizioni della legge 40, che non si è vinta con i referendum ma nei tribunali. Immutato, ieri come oggi, rimane il fatto che fare figli e accudirli è affar nostro. E della famiglia, per chi ha a disposizione l’indispensabile welfare aggiuntivo (e gratuito) che i nonni possono garantire. Tiziana Bartolini
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MIGRAZIONI
MIGRANTI, RIFUGIATI, PROFUGHI.
UNA MASSA UMANA INARRESTABILE VEDE L’EUROPA COME LUOGO DI POSSIBILE SOPRAVVIVENZA.
IL PREZZO DOPPIO LO PAGANO LE DONNE di Giancarla Codrignani
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li abitanti dell’Europa sono più di 500 milioni. Poniamoci il problema: ma davvero non possiamo accogliere un milione o due di profughi e immigrati? Distinguiamo: gli stranieri sono migranti simili ai trenta milioni di italiani che più di cent’anni fa ripetutamente hanno cercato scampo dalla miseria (simili magari anche ai giovani oggi respinti da Londra), ma sono sempre più rifugiati che, come Pertini o (orrore al pensarci) come gli ebrei, cercano di sfuggire alla morte. Tra i paesi europei gli italiani sono i soli che hanno conosciuto le due esperienze: maltollerati come lavoratori stranieri (vedi box), scomodi, ma accolti come fuoriusciti dai paesi democratici nei quali il fascismo rappresentava un pericolo per la libertà comune. L’Italia di oggi non solo nel suo governo - che ha fatto quel che poteva coraggiosamente, per lunghi mesi da solo - ma con tutti i cittadini democratici dovrebbe essere in prima linea proprio per aver conosciuto sulla propria pelle le stesse pene. Angela Merkel oggi si fa interprete dell’Unione non più all’insegna del fiscal
compact, ma dei diritti umani primari e lo fa a suo rischio, dato il rigurgito nazionalista presente in una Germania che va al voto l’anno prossimo. Ma non ci si può tirare indietro quando è in gioco il primo dei diritti umani, la salvezza della vita. Con il Mediterraneo che è un cimitero…. Non viviamo nella migliore delle fasi possibili della storia umana. Piangere sul latte versato non serve, ma due parole di rimpianto sui peccati di omissione sono doverose. Fu certamente insensato il rifiuto della politica di austerità proposta da Enrico Berlinguer negli anni Settanta del secolo scorso, quando lo squilibrio nel mondo tra paesi ricchi e paesi poveri era eclatante e i paesi “ricchi” potevano senza danno accettare qualche sacrificio per avvicinare le divaricazioni: le migrazioni sarebbero state più ridotte e le banche meno cariche di derivati. L’egoismo non fa bene alla salute dei popoli e siamo venuti via via scendendo i gradini che hanno condotto ad una delle crisi più gravi, che - il crollo finanziario della Cina lo dimostra - è globale. Gli italiani hanno povertà crescente, ma stanno tra i ricchi della terra: anche se
COME ERAVAMO
L’
ispettorato per l’Immigrazione del Congresso degli Stati uniti vedeva così noi italiani: “Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. La nostra sicurezza deve essere la nostra prima preoccupazione”.
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la qualità della vita lascia desiderare, restano il settimo paese industrializzato (se l’espressione significa ancora qualcosa); ma si occupano della Libia non per difendere la democrazia, ma per non trovarsi al freddo il prossimo inverno senza il gas. In Austria è stato abbandonato un tir con settantun cadaveri: la Vienna civile è scesa per le strade a manifestare che non esistono le frontiere e che immigrati e profughi sono i benvenuti. Ovunque bisogna scacciare le paure, perché quando si muove la storia, occorre seguirne le dinamiche: le antiche nazioni sono finite, anche se resta l’importanza delle diverse culture. E ovunque la gente perbene deve esprimersi e prendere le distanze dalla xenofobia veramente stolta: l’Ungheria ha visto cadere da solo il muro della vergogna e i Salvini italiani dovrebbero tenerne conto. Pensiamo positivo: mai come oggi abbiamo bisogno di unità in Europa e, se Schauble ha proposto di creare un fondo europeo per affrontare insieme il problema migratorio, le speranze federaliste - oggi più deboli che ai tempi di Spinelli - possono riprendere quota e portare ad unificare un bilancio e, magari, una fiscalità unitari. Come in tutte le situazioni tragiche, il peggio tocca alle donne. Occorre ripeterlo in tempi in cui è tornato l’occultamento dei nostri diversi diritti. La delinquenza degli scafisti non si accontenta di ottenere dalle donne il pagamento del transito: le ricatta sessualmente. Donne emigrano con la famiglia, ma anche sole; spesso perdono i figli nella confusione degli sbarchi e le tante che rimangono nel loro paese li perdono perché li mandano via soli, per salvarli. A Budrum un bimbo è morto, tutto solo, sulla spiaggia. A Lampedusa è arrivata una neonata, la cui mamma è morta nel viaggio e il padre forse non era con loro. Anche i piccoli che si salveranno porteranno i segni di una vita iniziata nella tragedia. Sono simboli: se non provvediamo almeno nuove misure di tutela per i minori non accompagnati, davvero non abbiamo speranza. Perché nemmeno noi ci possiamo salvare da soli. b
di Camilla Ghedini
E
siste un’App per debellare il senso di impotenza? O per imparare a conviverci? O addirittura per non provarlo? Io la voglio, e se la trovate, vi prego, segnalatemela! Io, che sono profondamente occidentale e illuminista, rigorosa e razionale, prometto che potrei votarmi a qualsiasi filosofia orientale, new age, ma anche vecchia age, pur di provarla, sperimentarla e dire che avevo torto, che della vita non avevo capito nulla perché bastava questa miracolosa App, con l’immagine magari di un vecchio saggio sul fiume, a rendere la mia esistenza perfetta in quanto....priva di sollecitazioni negative. L’impotenza è il peggiore dei sentimenti. Si misura con la tua etica, coi tuoi valori, coi tuoi principi, con le tue aspettative. Col volere è potere, il più grande degli inganni, perché volere non è
Ecco, è il no che distrugge chi vive con la certezza del dubbio, dell’alternativa, della possibilità. E allora tocca prenderla persa, come col marito che ti tradisce, puoi anche sbatterlo fuori di casa, ma non cambia il passato. Sì, può cambiare il futuro, ma quella ferita è lì, e non la curi fino in fondo. L’aereo parte con ore di ritardo, puoi rivalerti sulla compagnia, portare avanti una battaglia legale estenuante, per cosa? Per un tempo che non riavrai a cui aggiungi un tempo nuovo che perderai in un conflitto pressoché inutile. Vorresti correre ma non puoi, perché il tuo fisico non te lo consente, rischi di danneggiarlo, cosa fai, tiri calci in giro? Allora la domanda è: fin dove ci si può spingere per cercare sempre e comunque la verità, soprattutto nelle cose davvero importanti, che attengono
L’UMANO SENTIMENTO DELL’IMPOTENZA potere. Perché desiderare non è ottenere. Perché sognare non è concretizzare. L’impotenza ti rimanda a specchio il tuo fallimento morale, come la mappa di una città, in cui trovi una X che significa ‘tu arrivi fin qui, oltre ti è impedito’. Il perché non lo sai, perché tu sai invece che la strada prosegue. Eppure per te c’è un muro, che tu ritieni di pasta frolla, perché basato spesso su convenzioni, stereotipi, pregiudizi. Ma è sempre un muro e tu non puoi oltrepassarlo. Fremi, ti agiti. Ti ribelli, ma nulla puoi. E allora sbatti la testa, come i bambini, forte e sempre più forte e tu sanguini ma quel muro rimane lì, così, perché è più forte. Chi lo ha costruito? Quante mani? In quanto tempo? Con quanti mattoni? Possibile che non crolli? Che non si faccia una crepa? Che non si possa aprire un pertugio? No.
la sfera morale? Quale è il confine tra la ricerca e l’esasperazione? Fin quando le battaglie hanno un senso? Io ne ho fatte tante, eppure oggi, a 40 anni suonati, persa la spinta idealista, mi interrogo. Non voglio rinunciare, eppure...eppure... eppure, talvolta davvero si urla in una folla di sordi. Mio padre mi ha insegnato a non rinunciare mai a provare a cambiare il mondo. Sempre e comunque. E a rifiutare tutte le situazioni che avrebbero cambiato me. Ma l’impotenza, quella che ti svuota l’anima, è il più imprevisto dei sentimenti, non c’è un’educazione all’impotenza. Eppure va accettata. E come mi ha detto una persona di recente, va accettata come prova, per noi. E allora forse basta fare come il giungo, sapersi piegare senza spezzarsi. Che forse è l’unico modo per non tradirsi.
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QUANDO EDUCAZIONE E TASSE SONO ‘PARITARIE’ Una sentenza della Corte di Cassazione sancisce che le scuole private devono pagare l’ICI di Stefania Friggeri
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el maggio scorso la Corte di Cassazione ha dichiarato legittima la richiesta del comune di Livorno del pagamento dell’ICI da parte di due scuole rette da religiosi, condannandole inoltre al pagamento degli arretrati. Anche se l’art.7 del decreto legislativo 504/1992 dice che sono esentati dall’imposta immobiliare solo “ i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto”, la sentenza ha fatto scandalo, come se l’imposta venisse applicata non all’immobile ma al progetto educativo religioso. Ma perché le sentenze 14225 e 14226 della quinta sezione civile della Corte di Cassazione hanno creato un caso mediatico di grande risonanza? Perché hanno messo un punto fermo (si spera) su di una questione lungamente dibattuta sostenendo che il fatto stesso di far pagare una retta agli studenti assoggetta gli istituti ad una attività di carattere commerciale, ovvero: la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché senza scopo di lucro, se svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale. L’argomento prioritario giocato dalle gerarchie cattoliche a favore dell’evasione fiscale deriva dall’innovazione introdotta dal ministro Berlinguer, cioè dalla legge 62/2000 che riconosce alle scuole private il ruolo di scuole “paritarie”, ovvero pari a quello delle scuole statali nell’erogare un servizio pubblico. Ma essere fornitori di un servizio pubblico non rende enti pubblici, non dà diritto né a sgravi fiscali né a sovvenzioni statali, per tacere dell’art. 33 della Costituzione che dice: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, SENZA ONERI PER LO STATO”. E tuttavia l’espressione linguistica del termine “paritarie” e il richiamo continuo alla “sussidiarietà” hanno consolidato negli anni la situazione di privilegio di cui godono le scuole private, ma anche creato situazioni paradossali come avvenne nel 2012 quando l’UAAR ha denunciato pubblica-
mente la differenziazione di trattamento all’interno delle stesse scuole private: le scuole laiche erano obbligate al pagamento dell’Imu, le cattoliche ne erano esonerate. Nel clima mediatico esacerbato dopo le due sentenze della Corte di Cassazione di Livorno (il 63% degli istituti dell’infanzia sono religiosi) Gabriele Toccafondi (NCD) ha dichiarato “ molte (scuole) aumenteranno le rette o chiuderanno”, e dunque ha riconosciuto, anche
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se indirettamente, che in Italia lo Stato subappalta la scuola dell’ infanzia alle scuole private. Spinto da motivazioni strettamente ideologiche, Toccafondi, sottosegretario della Repubblica italiana, e con lui i suoi sodali, finge di ignorare che la Repubblica ha l’obbligo tassativo di istituire scuole di ogni ordine e grado affinché i giovani, formati sui principi della Costituzione, divengano cittadini rispettosi dei valori che hanno ispirato il dettato costituzionale nato dalla Resistenza: libertà, uguaglianza, solidarietà. Laddove il progetto educativo delle scuole private religiose rispecchia quello dei genitori degli studenti, cioè di un numero ristretto e selezionato di persone che, convinte di agire per il meglio, chiudono i figli in un orto delimitato dove non c’è confronto con altre idee, abitudini e stili di vita: una scelta più funzionale alla vita della comunità ecclesiale che non alla promozione dello spirito critico, della libertà di scelta e della solidarietà civicopolitica. Se dunque i principi ispiratori delle scuole promosse dai privati sono diversi da quelli che stanno a fondamento della scuola pubblica, va riconosciuta la radicale, insuperabile diversità fra i due tipi di scuola, l’impossibilità di trattare da “pari” il pubblico e il privato. Nonostante il “sistema paritario integrato” introdotto da Berlinguer. E ci piacerebbe ascoltare da un alto rappresentante del clero cattolico le parole pronunciate da Soheib Bencheikh, ex imam di Marsiglia (Micromega n. 4/2015): “Prima di tutto la fede non è la religione. La religione è un insieme di credenze accompagnate da una pratica rituale. … La fede no, la fede riguarda il mistero, è inintelligibile. La fede non scaturisce da un’attività cerebrale. Non è una scelta. Io non posso dire ‘Ecco domani deciderò di essere credente o meno credente o più credente’. No, è come un germe che nasce dentro di noi, è in noi, è più forte di noi.”
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Maternità, allattamento e gruppi di auto-aiuto
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a molti anni le donne si sono organizzate, talvolta in piena autonomia più spesso con lo stimolo e il sostegno di ostetriche o di consultori familiari, in gruppi di autoaiuto, soprattutto per il sostegno dell’allattamento al seno. Lo scambio di esperienze e di riflessioni ha favorito una crescita di consapevolezza e un incremento dell’autostima, spesso messa in discussione dalla medicalizzazione del percorso nascita con tutto il suo portato di paternalismo direttivo che produce disempowerment. L’esperienza vissuta ha permesso di recuperare il senso delle proprie competenze, anche per contrastare e rigettare il tentativo, più o meno consapevole non importa, di biasimo delle vittime. “Il tuo latte non è sufficiente”, “il tuo latte non è buono” e così via sproloquiando. Quante volte le donne si sono sentite dire queste sciocchezze per convincerle a passare all’alimentazione artificiale (con latti di marca, naturalmente) e allo svezzamento precoce imponendo ricette cervellotiche, omogeneizzati e così via? Lo scambio di esperienze e le riflessioni alla luce delle evidenze scientifiche ha favorito la presa di coscienza delle donne che le difficoltà erano conseguenza di pratiche subite e non di incompetenza. Dal taglio precoce del cordone, all’impedimento di un serio contatto pelle-pelle, al sequestro del/la neonato/a per ore (senza ragionevole motivazione) impedendo l’attacco al seno precoce con un effetto straordinariamente deleterio di disempowerment sul/la neonato/a. È stato ampiamente dimostrato, anche dalle ricerche “population based” dell’Istituto Superiore di Sanità, che l’impedimento dell’avvio corretto dell’allattamento al seno, è determinante per l’insorgenza di problemi che, se non affrontati e risolti con l’ausilio di persone esperte, portano all’interruzione di tale vitale modalità di nutrimento. E, come è noto, non si tratta solo di nutrimento ma di sviluppo di relazione amicale (come ben descritto da Marques ne “l’amore al tempo del colera”) tra persone autonome, modello universale di relazione promuovente benessere tra le persone. Ancora più importante è l’opportunità di riflettere, sempre alla luce delle evidenze scientifiche (con una enorme disponibilità di informazioni grazie a internet, ora usufruito da oltre il 60% delle donne prima e durante la gravidanza) sulle irragionevoli modalità dell’assistenza in gravidanza, durante il travaglio, il parto e il primo puerperio. La, seppure ancora minoritaria ma crescente, richiesta del parto a domicilio o in case di maternità con assistenza garantita dalle ostetriche ne è testimonianza. I gruppi di auto-aiuto dovrebbero pretendere che si documenti con indagini epidemiologiche indipendenti - anche nella loro specifica sede locale - quale è la qualità dell’assistenza alla luce delle linee guida e delle raccomandazioni internazionali e dovrebbero maturare una capacità di stakeholder nei confronti delle autorità sanitarie per i cambiamenti auspicati.
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di Luisella Battaglia Istituto Italiano di Bioetica www.istitutobioetica.org
DOTTORI ANCHE IN “UMANITÀ”
Un segnale forte per i medici di domani
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i è salutata con grande favore la notizia dell’istituzione di una cattedra di ‘Umanità’ nel dipartimento di oncologia della facoltà di Medicina a Milano. Un insegnamento, indubbiamente, carico di promesse, anche per il carattere fortemente evocativo di una parola che condensa in sé una straordinaria ricchezza di significati, ma che soprattutto, nel sottolineare la necessità di una formazione umanistica del medico, sembra nascere dalla presa di coscienza di una crisi della medicina scientifica. Una crisi che nasce, in realtà, dal suo stesso successo. La medicina scientifica ha compiuto infatti straordinari progressi: tecniche sempre più sofisticate consentono al
malato di vedersi in tre dimensioni, il medico lo può curare a distanza grazie alla telemedicina, il chirurgo può operare senza toccare direttamente il malato. Progressi innegabili che celano tuttavia un pericolo, quello di vedere l’individuo ignorato nella sua singolarità dalle esigenze classificatorie. Siamo, in effetti, in presenza di un sistema sempre più burocratizzato che, ad esempio, anziché attribuire una valenza positiva al tempo trascorso con il paziente, considerandolo un investimento ai fini della stessa terapia, lo associa al concetto di perdita. Che resta allora della relazione originaria tra curante e curato, di quel colloquio descritto fin dall’antichità da Ippocrate e dai suoi discepoli dell’isola di Kos? Qual è il posto del malato nella malattia, in una medicina sempre più spinta verso l’universalizzazione e chiamata a divenire una scienza dell’oggetto umano? In Nascita della clinica Michel Foucault ha tratteggiato magistralmente il cammino compiuto dalla medicina moderna, concentrandosi sul momento - la rivoluzione francese - in cui la creazione dell’ospedale, inteso come - “cittadella fortificata della salute” -, alimenta l’ambizioso progetto di una medicina come scienza esatta, attraverso l’oggettivazione della malattia e del malato.
ISTITUITA LA CATTEDRA DI ‘UMANITÀ’ NEL DIPARTIMENTO DI ONCOLOGIA DELLA FACOLTÀ DI MEDICINA A MILANO
Al prezzo, tuttavia, di “sradicare” il soggetto, la persona, ignorando la molteplicità degli aspetti - biologici, psicologici, sociali - che ineriscono al problema della salute. La ricostruzione etimologica di alcuni termini chiave potrebbe qui rivelarsi particolarmente utile. Medicus richiama il verbo latino mederi che significa “prendersi cura”, ma anche la parola greca therapeia ha tale significato: la sua radice Dher vuol dire “portare”, “prestare attenzione”. Il terapeuta è dunque “colui che sostiene”. È quanto ci ricorda un grande psicoterapeuta, James Hillman, secondo il quale il medico che passeggia “lungo le sale bianche dell’ospedale, con graziose nozioni della sofferenza, della malattia e della morte”, dovrebbe ritrovare la strada verso la visione più antica e integrata della sua vocazione, specie in quelle situazioni difficili della medicina moderna - superspecializzazioni, tariffe, amministrazione ospedaliera - che mostrano come
I GRANDI PROGRESSI DELLA MEDICINA SCIENTIFICA E LE TECNOLOGIE SEMPRE l’aspetto umano sia PIÙ SOFISTICATE RISCHIANO sperimentale di inDI FAR SMARRIRE troduzione precoce caduto nell’ombra. È L’INDIVIDUO degli studenti, nei prila stessa predilezione NELLA SUA mi giorni di frequenza, per la patologia scienSINGOLARITÀ al mondo della persona tifica ad allontanarlo dalla malata, seguendo gli infercomprensione della sofmieri nelle attività quotidiane di acferenza in favore della spiegazione cudimento. In una serie di incontri della malattia: la sua attenzione è di riflessione in piccoli gruppi con spostata dal soggetto all’oggetto, una docente di Pedagogia medica, da colui che è disturbato al disturgli studenti rielaborano i profondi bo e alla sua causa. Ma, soprattutto, sentimenti e le emozioni che si oridiventa immemore della sua stessa ginano dal prendere parte al rapvulnerabilità: “I medici - rileva Hilporto di cura. Al termine del corso, lman - sono notoriamente cattivi una serie di incontri organizzati dagli pazienti forse perché hanno perdustessi studenti con scrittori, filosoto la capacità di essere feriti”. fi, medici, offre poi l’opportunità di Oggi, dinanzi ai complessi problericonsiderare i vissuti personali in mi della medicina ospedaliera, è un contesto ancora più ampio. Un davvero prefigurabile una medicina progetto sperimentale, questo, nato umanistica in grado di tenere insiedalla consapevolezza che i corsi di me capacità tecniche e carattere Medicina tradizionale, soprattutto morale? Ma, soprattutto, la cultura nei primi anni, favoriscono una conmedica è preparata a questo rinnocezione distorta e riduttiva del tipo vamento, insieme politico e culturadi medico che la società richiede: le? I segnali non sono certo incoragla concezione di un medico molto gianti: basti pensare agli attuali test centrato sugli aspetti preclinici e le di accesso alle facoltà di medicina, scienze di base, ma poco interessato che privilegiano le competenze alle dimensioni culturali, relazionali e scientifiche e ignorano sistematiumanistiche di importanza cruciale camente le questioni filosofiche ed in questa professione. etiche, di importanza fondamentale per la formazione umanistica del medico. Perché, allora, non coQUAL È IL POSTO minciare proprio da qui, dando DEL MALATO un segnale forte in direzione NELLA MALATTIA, della confluenza dei diversi IN UNA MEDICINA SEMPRE PIÙ SPINTA VERSO saperi dell’uomo e inauL’UNIVERSALIZZAZIONE gurando così quel nuovo E CHIAMATA A DIVENIRE percorso per i dottori di UNA SCIENZA domani che l’insegnamento DELL’OGGETTO di ‘umanità’ si propone? UMANO? La creazione del nuovo Dipartimento di Oncologia della Statale segna comunque una tappa importante in quel processo di umanizzazione della medicina che ponga finalmente al centro del percorso di cura la persona. Negli ultimi anni, infatti, si è provato a dare una forma originale all’insegnamento della medicina iniziando un percorso
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Il filo verde di Barbara Bruni
CIBO SPRECATO
La Commissione europea ha finanziato uno studio per calcolare gli sprechi di cibo in 6 Paesi:Regno Unito, Germania, Olanda, Danimarca, Finlandia e Romania. I dati emersi parlano di 60 milioni di tonnellate di cibo gettati ogni anno nelle pattumiere dai cittadini UE, l’equivalente di 123 kg a testa. L’80% di questi sprechi - pari a 97 kg pro capite - sarebbe evitabile. Gli alimenti più comunemente buttati senza essere stati consumati sono verdura, frutta e cereali, acquistati in quantità abbondanti perché meno cari.
IN RUANDA TORNANO I LEONI
Secondo il National Geographic, il ripopolamento nel Nord-Est del Paese africano sta procedendo. I leoni portati all’estinzione in Ruanda negli anni successivi alla guerra civile e al genocidio (‘93-’94) - furono avvelenati una quindicina di anni fa per proteggere gli allevamenti di bestiame. Nel 2010, però, il governo del Ruanda ha chiesto all’organizzazione African Parks di ripopolare le aree selvagge per riequilibrare gli habitat e anche come potenziale attrazione per il turismo.
PNEUMATICI USATI
Negli ultimi due anni, grazie al progetto Pfu (Pneumatici fuori uso), il Consorzio per il recupero delle gomme usate, EcoTyre, ha raccolto circa un milione di pneumatici abbandonati. Con 60 interventi in tutto il Pese - di cui 30 solo in Piemonte - i pneumatici abbandonati sono stati poi trasformati in nuove risorse (8.000 tonnellate). Dal 2011 il Consorzio ritira gratuitamente i pneumatici usati da gommisti e officine meccaniche garantendo che per ogni gomma nuova immessa sul mercato ne sia avviata una a recupero. Anche i comuni cittadini possono segnalare (pfuzero.ecotyre.it) la presenza di gomme abbandonate e contribuire così al recupero.
EXPO & BANCO ALIMENTARE
Solo nei primi tre mesi di Expo, il Banco Alimentare ha raccolto circa 12 tonnellate di cibo. Dai 140 i punti di recupero (tra padiglioni, ristoranti e bar) il cibo avanzato viene ritirato ogni sera e distribuito nelle diverse realtà che a Milano assistono i poveri e i profughi.
WASHINGTON AFFONDA
La terra su cui si estende la capitale americana rischia di scendere di almeno 20 centimetri di livello entro il 2100. Un team di esperti mette in guardia gli USA sul fatto che Washington sta affondando più rapidamente di qualsiasi altra parte della Costa Est, e che il fenomeno potrebbe minacciare strade, monumenti, riserve naturali e installazioni militari della regione. La causa dell’affondare di Washington è l’assestamento del terreno avuto dopo lo scioglimento dei ghiacci oltre 20mila anni fa, nonché l’innalzamento delle acque della baia di Chesapeake.
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ARCHIVI
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L’ALTRA STORIA Sono più di quaranta gli archivi sparsi in tutta Italia, giacimento di notizie e vissuti che raccontano la politica e le lotte delle donne italiane. Rosangela Pesenti è stata eletta presidente dell’Associazione nazionale Archivi dell’Udi
Rosangela Pesenti, il giorno dell’inaugurazione della nuova sede UDI e archivio (Roma, 16 settembre 2015)
di Tiziana Bartolini
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osangela Pesenti ha investito la sua esistenza e lunghi studi nello specifico femminile, nella cultura di genere, nella valorizzazione dello sguardo delle donne. Arrivata giovanissima al femminismo, l’approdo all’Udi dopo l’invito al decimo congresso negli anni Settanta è stato “illuminante” per quella giovane che sentiva la necessità di “leggere il mondo a partire da sé in quanto donna, e donna destinata alla subalternità sociale anche per la sua appartenenza ad una classe sociale povera”. La militanza nell’Udi ha generato arricchimento politico e interiore, costruito relazioni umane intessute di sintonie, ed è stato attraversato anche da conflitti che oggi, a distanza di decenni, possono essere guardati con il distacco necessario all’analisi storica delle ragioni che li determinarono. L’unanimità
con cui lo scorso luglio il direttivo dell’Associazione nazionale Archivi dell’Udi (di cui Pesenti è socia fondatrice) l’ha eletta presidente è testimonianza tangibile dei traguardi che le relazioni tra donne, quando sono autentiche, possono far raggiungere. Abbiamo incontrato Rosangela Pesenti, che è stata insegnante e da poco è in pensione, alla vigilia dell’inaugurazione della nuova sede dell’Udi nazionale a Roma (Via della Penitenza, 37), la stessa in cui è stato trasferito l’Archivio centrale. Di programmi di lavoro con la neopresidente non si può parlare ancora perché “le proposte saranno condivise e il programma di lavoro sarà deciso dal direttivo”, ma la genesi dell’associazione e i suoi desideri sì, quelli Rosangela può raccontarceli. “L’Associazione Archivi dell’Udi è nata nel 2001, per raccogliere e coordinare gli archivi territoriali nati dove c’erano raccolte di documenti conservati o nelle sedi locali dell’Udi o anche nelle case private delle donne che hanno militato nell’Udi. Ad oggi parliamo di più di quaranta archivi sparsi in tutta Italia e già organizzati; sappiamo che ce ne sono altri che vanno resi fruibili: un lavoro che pian piano sarà fatto. La possibilità per ciascuna associazione di chiedere finanziamenti è solo una delle ragioni che motiva l’attivazione delle associazioni territoriali. Questo percorso è prima di tutto politico e la sua elaborazione è iniziata nel passaggio con l’undicesimo congresso dell’Udi. Il cambiamento della forma organizzativa ci ha rese consapevoli che avevamo stabilito una discontinuità rispetto a una storia, storia che andava assunta con il criterio della conservazione, tutela e conoscenza. Abbiamo capito che era arrivato il momento di assumere le carte e i ricordi come patrimonio archivistico da mettere a disposizione di storiche/storici ma anche di tutte le donne e gli uomini che vogliono capire una parte imprescindibile della storia politica delle donne italiane senza la quale è impossibile capire la storia stessa di questo paese. Altro particolare di cui bisogna tenere
Marisa Ombra il giorno dell’inaugurazione della nuova sede udi e archivio (Roma, 16 settembre 2015)
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conto è che negli archivi dell’Udi c’è il pezzo politico più rimosso della storia delle donne italiane: la memoria delle comuniste, che non erano le comuniste del PCI ma delle donne comuniste dell’Udi. Ci tengo a sottolineare che era una locuzione normalmente usata per descriverle e questo essere ‘altro’ é uno degli aspetti più interessanti di una storia collettiva e personale non solo di emancipazione ma nell’ottica di una vera e propria liberazione delle energie femminili. Quella storia d’origine agisce ancora dentro il presente e disconoscerla significa non capire il contesto politico in cui ci stiamo muovendo. Così come è importante tenere presente che l’Udi è stata la prima associazione separatista della storia d’Italia, cioè un’associazione solo per le donne in quanto donne, e non di categoria o finalizzata alla tutela professionale. Tornando al cammino dell’associazione, tra il 1982 e il ‘90 abbiamo affrontato questo grande lavoro di recupero dei documenti, contando sulla passione e sull’impegno delle volontarie e, dove possibile, abbiamo usufruito anche del contributo specialistico di giovani laureate che si sono appassionate a questa storia. La mappa degli archivi, oggi, non corrisponde alla presenza attiva dell’Udi e spesso la conservazione e cura degli archivi sostituisce l’attività politica, una situazione che permette di mettere in connessione, e contemporaneamente separare, la storia dalla contemporaneità. Perché uno degli aspetti importanti che una lettura orizzontale dei vari archivi consente è vedere come le creatività locali si riversavano al nazionale e come le iniziative politiche nazionali sui vari temi venivano declinate a livello locale. La connessione fra gli archivi permette di trovare anche la storia del percorso politico delle donne”. Un sogno e un obiettivo Rosangela ce li confessa: “raccontare le storie d’archivio, cioè ricostruire il percorso delle carte, capire perché e come si sono salvate, con quali criteri sono stati selezionate o distrutte. Raccontare le biografie delle donne che hanno fatto politica e conservato le testimonianze. Lavorerò per costruire le condizioni per avere dopo di me una presidente giovane, di una generazione politica successiva alla mia”. Dunque molto è stato fatto e moltissimo ancora c’è da fare, per un’associazione che in una sede nuova e grande, posta nel luogo simbolico del femminismo romano (la Casa Internazionale delle Donne), comincia a conservare anche documenti audio e video e intende raccogliere la sfida della digitalizzazione dei materiali. Il sito, https://assarchiviudi.wordpress.com/, è da riorganizzare, ma intanto permette di conoscere i luoghi degli archivi e le consistenze dei documenti che conservano. Un cantiere aperto di un edificio le cui basi sono solide perché poggiano sulle lotte e sul cammino delle donne. Toccare per credere, anzi, leggere per conoscere!
IL CALenDARIO È dedicato al 70esimo annivesario della conquista del diritto di voto per le donne italiane il calendario 2016 dell’Udi
Mese dopo mese il calendario Udi attraversa i paesi di cinque continenti ripercorrendo alcune tappe ed esempi di lotte delle donne per il diritto al voto. Dall’Italia e passando per Nuova Zelanda, Finlandia, Russia, Stati Uniti, Regno Unito, Brasile, India, Cina, Messico, Sud Africa, Afghanistan arriva all’Arabia Saudita, paese governato da una monarchia assoluta islamica che fino ad ora ha impedito alle donne molti diritti, tra i quali quello di esercitare liberamente il loro diritto di voto. La vendita del calendario, come ogni anno, costituisce una forma di autofinanziamento per l’Associazione. Info e prenotazioni: udinazionale@gmail.com
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UN PROGETTO DI
PRESENTATO IL 10 GIUGNO A ROMA AL SENATO DELLA REPUBBLICA (SALA CADUTI DI NASSIRYA) CON IL PATROCINIO DI
commissione delle elette
P RO GR A MM A OT TOBRE / DICEMBRE 2015
13—14 novembre
28 novembre
2 dicembre
Cappella Farnese
Ospedale Ostetrico Ginecologico Sant’Anna Reparto di Ginecologia e Ostetricia 1 universitaria
evento annuale
Bologna
Salute e medicina di genere. Stato dell’arte Salute della donna: servizi per il benessere e la qualità della vita
Torino
Roma
DONNA E SALUTE 2015: IL PROGETTO, I BISOGNI, I SERVIZI I risultati del primo tour
Lunga vita alle signore! Prevenzione e cura DonnaeSalute è una rassegna itinerante ospitata in varie città, ogni appuntamento è costruito in collaborazione con le realtà locali che ne condividono la mission. Obiettivo del progetto è valorizzare le buone pratiche e le eccellenze territoriali, contribuire a fare il punto sull’idea di salute della donna, agire sulla divulgazione, sensibilizzazione e percezione del tema, far dialogare i soggetti che agiscono nei vari settori: operatori sociosanitari, associazionismo, politica, mondo accademico, istituzioni, ricerca. Alla fine del 2015 sarà realizzato un report del primo anno, una fotografia dello stato dell’arte con dati, esperienze, testimonianze, potenzialità e vulnerabilità. Sarà uno strumento utile per capire quanto e cosa c’è da fare per migliorare il rapporto tra donna e salute.
www.donnaesalute.org mail: info@donnaesalute.org
cell. 3395364627 — 3470940720 — 335454928
FERRARA
Salute e Genere. Una rivoluzione silenziosa 17 ottobre, ore 9.30 Sala della Musica - Ferrara Apertura Lavori Saluto Comune Ferrara, Annalisa Felletti, Assessore Pari Opportunità Saluto Università degli Studi Ferrara, Prof.ssa Cristiana Fioravanti, Delegata del Rettore per le Pari Opportunità Saluto Ordine dei Medici Ferrara, Bruno Di Lascio, Presidente Modera Camilla Ghedini, giornalista e referente territoriale del progetto Tiziana Bartolini, (Direttora NoiDonne), Presupposti e obiettivi del progetto Fortunata Dini, (Presidente Associazione Salute & Genere), Promozione e Prevenzione. Le parole chiave della salute Fulvia Signani, (Psicologa Dirigente Azienda USL di Ferrara), Una rivoluzione silenziosa per la Medicina di Genere Debora Romano, (Presidente sezione ferrarese Associazione Italiana Donne Medico), Medicina di genere: equità e appropriatezza nell’approccio clinico Luana Vecchi, (Referente Gruppo Salute Donna Udi), La parola alle donne: indagini sulla salute di genere Paola Castagnotto, (Presidente Centro Donna Giustizia), La medicina di genere e le domande di donne rese vulnerabili dalle violenze Silvia Vaccaro, (Presidente Associazione Noidonne TrePuntoZero) Donne, salute e informazione Conclusioni a cura di Paola Boldrini, Deputata ferrarese, Componente XII Commissione Affari Sociali
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Le nuove frontiere della cura
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23 ottobre, ore 09.00 Aula Magna DISFOR Dipartimento della Formazione - Università degli Studi di Genova Corso Andrea Podestà, 2 - 16128 Genova
In collaborazione con UIL Liguria e Istituto Italiano di Bioetica Con il patrocinio di Senato della Repubblica - Aiccre - Anci DISFOR, Dipartimento della Formazione Università dgli Studi di Genova, DAFIST, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia Università degli studi di Genova UDI Genova - Archivio Storico Mattino h. 9,00-13.00
Saluti Istituzionali: Pierangelo Massa, UIL Liguria Rappresentante Donne&Salute Assessore alla Sanità della Regione Liguria Modera Lella Trotta, UIL Liguria Giovanna Badalassi, GenderCapp Università di Modena e Reggio Emilia, “La Liguria e il Welfare. Quali nuovi bisogni di cura e quale ruolo delle donne alla luce dei cambiamenti socio-demografici” Roberta Serena, Direttore Amministrativo IRCCS AOU San Martino-IST, “L’esperienza del San Martino nella continuità assistenziale ospedale-territorio” Sandra Morano, Responsabile Centro Nascite Alternativo IRCCS AOU San Martino-IST, “Le Cure alla Nascita al Tempo della Paura. Esperienze di coraggio, culture della normalità” Paolo Cremonesi, Primario Pronto Soccorso A.O. Galliera, “Progetto Ospedale di distretto e il superamento dei confini del sociosanitario” Maria Romana Delle Piane, ASL 3 Direttore Distretto ValbisagnoValtrebbia, “Il Distretto Sanitario e i nuovi bisogni di assistenza nel territorio”
Claudio Basso, Portavoce Forum Terzo Settore Ligure, “Il ruolo del terzo settore nel welfare del futuro” Silvana Roseto, Segretaria Confederale Nazionale UIL, Conclusioni Pomeriggio h.14,30 -17,30 Modera Luisella Battaglia, Comitato Nazionale per la Bioetica, Università di Genova Franco Manti, Università di Genova, “Per un’economia della cura” Monia Andreani, Università di Urbino, “La bioetica con i caregiver” Marianna Gensabella, Università di Messina Roberta Cavicchioli, UIL Liguria,”Guadagnare in salute: diritto alla salute e privatizzazione dei servizi” Natasha Cola, Ethos Team, Università di Genova, “Il ruolo dell’educazione terapeutica nelle patologie cronico -degenerative” Ivana Carpanelli, Istituto Italiano di Bioetica, “Il patto di cura: le relazioni tra i curanti per una alleanza terapeutica” Alessandra Fabbri, Università di Genova, Istituto Italiano di Bioetica, “La cura dei disabili”
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DEDICATO A DONATELLA QUARANTA ANNI DOPO
Donatella Mei torna in scena con uno spettacolo teatrale che ricorda il massacro del Circeo del 1975. Il coinvolgente monologo è dedicato a Donatella Colasanti in occasione del decimo anno della sua morte
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n occasione dei 40 anni dal fattaccio del Circeo e a 10 anni dalla morte di Donatella Colasanti, una delle vittime, l’attrice Donatella Mei ha portato di nuovo in scena a Roma “Si chiamava Donatella come me”. Mei è anche autrice di un monologo a tinte forti “che vuole immaginare quello che Donatella Colasanti non ha detto e vuole ricordare quello che ci ha lasciato, dai versi alla fondamentale legge contro lo stupro, che anche grazie al suo processo viene considerato un reato contro la persona e non contro la morale”. Donatella Colasanti, vittima con Rosaria Lopez, che ne morì, del massacro del
Circeo (1975) è scomparsa nel 2005 a causa di un cancro al seno. I trent’anni successivi alla violenza subita, la sua ricerca di giustizia, le lotte politiche, la scrittura, la sua passionale aggressività, la legge contro lo stupro, sono la materia viva su cui lavora Donatella Mei. Da qui il titolo, giocato anche su una similitudine anagrafica tra l’autrice e la Colasanti. L’intenso monologo è un viaggio nell’anima della protagonista in cui ogni tappa è documentata dalla storia giudiziaria, dalle udienze, dal paradossale destino dei tre colpevoli, dal continuo confronto con la realtà e la sua metabolizzazione. Ad accompagnare la sua vita il dolore, l’eco della violenza subita e una costante ricerca di giustizia. Lei, dentro, la forza la trova e la lucidità che le ha permesso di non morire la tragica sera del massa-
cro la conserva ma, per andare avanti annulla progressivamente i segnali che il corpo le manda e muore a soli 47 anni. “L’importanza di Donatella” è uno spettacolo di denuncia, ma anche di riflessione e di introspezione, sui meccanismi relazionali fra uomini e donne. Uno spettacolo di sorprendente attualità, che smaschera l’ipocrisia della parità: non bastano le leggi, le opportunità e i progressi fatti dalle donne in tutti i settori della vita pubblica ed economica. Di violenza maschile si continua a morire, anzi proprio laddove aumenta il potere delle donne, si inasprisce il conflitto con gli uomini.b
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VOGLIO UN FIGLIO. FORSE di Tiziana Bartolini
UNA SOCIETÀ FAMILISTICA MA OSTILE AI BAMBINI, CHE LASCIA SOLE LE DONNE DI FRONTE ALLE RESPONSABILITÀ DELLA MATERNITÀ. TIZIANA VALPIANA, PRESIDENTE DE IL MELOGRANO, PARLA DELLE FRAGILITÀ E DEI BISOGNI DELLE MAMME DI OGGI
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renta anni fa venivano da noi donne consapevoli dei propri bisogni e del loro corpo, spesso erano politicizzate o femministe, e avevano scelto di cercare un’alternativa sulle modalità con cui vivere il parto e la maternità. Pian piano la platea si è allargata e hanno cominciato a venire donne diverse tra loro per cultura e provenienza sociale. Questo ha reso il nostro lavoro più difficile, abbiamo anche dovuto riprendere temi e concetti che pensavamo scontati e lo abbiamo ritenuto un fatto positivo”. E adesso? “Adesso arrivano da noi molti tipi di donna, di età e esperienze anche molto diverse, quindi è difficile parlare in generale, ma posso dire che sono accomunate dal bisogno di essere considerate persone piene e uniche, rispettate e accolte per ciò che sono. Senza giudizio. Inoltre alcune sono molto sole, non hanno cerchie di amiche, spesso non hanno un lavoro e quindi neppure colleghe con le quali parlare. Sono magari attivissime sui social, ma l’unico loro riferimento in carne ed ossa durante la gravidanza è il compagno, il padre del bimbo che nascerà, che però non può dare loro il tipo di supporto necessario ad una donna che diventerà mamma”. La sintesi di Tiziana Valpiana, fondatrice e Presidente onoraria dell’Associazione nazionale ‘Il Melograno’, è illuminante e al tempo stesso sconfortante se ci si vuole addentrare nella complessa dimensione della maternità rifiutando la retorica familistica e l’aridità delle statistiche. Perché se è vero che la scarsità dei servizi sociali è obiettivamente e concretamente un ostacolo
per le donne nella decisione di mettere al mondo un/a figlio/a, molti altri sono i fattori che concorrono. Quindi l’attesa del momento giusto, che arriverà (o dovrebbe arrivare) con un lavoro stabile, l’acquisto della casa, insomma l’uscita dalla precarietà che contrassegna la vita odierna in senso ampio. Se ne parla continuamente e sappiamo tutto. O forse no, forse c’è altro che va preso in considerazione, forse occorre esaminare aspetti che determinano la scelta - o la non scelta - di diventare madre. Partiamo dalla solitudine e riprendiamo il filo del ragionamento di Valpiana. “Oggi nei nostri Centri le donne arrivano non tanto sulla spinta di una consapevolezza, ma anche di una solitudine, alla ricerca di ambiti di scambio e di condivisione tra donne riguardo l’esperienza della maternità, nei suoi aspetti emotivi e psicologici ma anche concreti, legati alla cura e all’accudimento. E la solitudine acuisce il senso di inadeguatezza e di spaesamento. Non hanno altri luoghi in cui potersi confrontare e da noi trovano una risposta alle loro preoccupazioni, trovano persone che le rassicurano e che le informano. Naturalmente ci sono anche donne consapevoli, ma non sono la maggioranza. I tempi sono mutati e dallo spazio collettivo si è tornati a un orizzonte privato, al cui centro c’è ancora quell’istituzione malridotta ma ineludibile: la famiglia. E di familismo è intrisa la nostra società”. Sulla
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questione dell’informazione vale la pena di soffermarsi, perché davvero quello che non manca ed è a portata di mano è proprio la possibilità di conoscere e avere notizie, contenuti, esperienze, indirizzi… “Questa è una questione centrale. Un conto è essere inondati di informazioni, altro è essere informate. Se trenta anni fa la donna-tipo che veniva al Melograno aveva mediamente 25/27 anni e chiedeva di essere rassicurata circa le sue conoscenze non so, sul tipo di parto o sull’allattamento al seno, oggi le ragazze che si rivolgono a noi hanno circa 35 anni e non sanno scegliere tra la marea di informazioni cui hanno accesso”. Perché non sanno scegliere? “Perché non hanno valori di riferimento, non hanno le basi teoriche per poter scegliere per sé, troppe informazioni e poca consapevolezza di sé. Da noi trovano chi offre loro spiegazioni e soprattutto gli strumenti per poter scegliere consapevolmente. La maternità per le giovani donne occidentali di oggi da destino è diventata una scelta. Sessualità, piacere, differenza, autodeterminazione dovrebbero essere acquisite. Ma diventare madre, acme della ‘creatività’, è vissuto come ‘perdita’. Donne in teoria libere di scegliere, di decidere, di essere se stesse divengono timorose, si sentono impreparate a convivere con la forza dell’evento maternità, con il dolore e con la gioia, con la grande potenza”. Quindi arriviamo al punto in cui matura la scelta nell’intimo, nonostante tutto e forse approfittando di un temporaneo black out della razionalità…. “Sì, arriva il momento in cui nasce il desiderio nella donna o nella coppia, di avere una relazione con una creatura nuova che hai messo al mondo tu. Se la scelta arriva tardi, a volte è necessario il ricorso alla fecondazione assistita, fenomeno che sta crescendo in maniera esponenziale. Quando poi arriva la gravidanza, nascerà quello che viene definito ‘il bambino prezioso’”. Che si intende con questa definizione? “Il fatto che quella gravidanza passi attraverso un intervento esterno, doloroso, costoso, rende tutto più faticoso. Diventa una meta da raggiungere a tutti i costi, quasi un accanimento perché ti dici ‘adesso che ho deciso, lo voglio a tutti i costi, ce la voglio proprio fare’. Questa è una differenza notevole rispetto al passato e tutta la relazione della mamma con quel bambino sarà con un essere che ti sei guadagnato a forza, non un dono che ti è arrivato”. Con quali ripercussioni nella relazione madre-figlio? “Vediamo una sorta di modificazione nella relazione; nel pensiero è come se fosse qualcosa di fragile, da proteggere maggiormente”. Andiamo verso un mondo popolato sempre più di soggetti che non sono semplicemente bambini, ma sono ‘quei bambini’, sono ‘il bambino’ che ho voluto e che finalmente è nato. Qui si apre un’altra
GIOIA, DOLORE E POTERE DELLA GRAVIDANZA Le donne d’oggi quando affrontano la gravidanza sembrano più timorose, più impreparate a convivere con la forza dell’evento maternità, che è dolore, gioia, grande potere; sembrano meno in grado di trovar da sé la propria modalità. Sembrano più dipendenti dal parere medico, più propense ad affidarsi. Il ritmo biologico della fertilità sembra non coincidere più con il tempo del desiderio, il modo di vivere impone al corpo e alle menti storture che non rispettano le scadenze dei cicli di vita, con il conseguente aumento della dipendenza dal sapere medico, dalle promesse suadenti della scienza e della tecnica. La maternità è seguita in modo quasi esasperato dal punto di vista medico: visite continue, esami costosi, all’inseguimento di sicurezza e di ‘risultato’, continue intrusioni e continue pre-dizioni, trasformando quelle che dovrebbero essere opportunità in obblighi (e chi vi si sottrae viene tacciata di irresponsabilità, invece che di assunzione di responsabilità, in nome di un figlio la cui salute pare interessare molto fino a che è embrione, salvo poi, come la donna, non essere più ‘interessante’ una volta nato). La diagnostica prenatale implica un nuovo ‘mito’ della ‘sicurezza’ (parola magica del nostro vivere quanto più aumenta la precarizzazione, insicurezza per antonomasia): quanto più vi sono possibilità diagnostiche, tanto più si estende l’obbligo di prevenire: è la tecnica a ridefinire la responsabilità, piegandola a sé e ampliandola in modo abnorme. Indotte a leggere come libertà femminile la possibilità di ‘estraniarsi’ dall’esperienza ‘acquistando’ al mercato della salute un parto programmato, breve, indolore, o vivendo come libertà femminile il fatto di farsi togliere dalla pancia un bambino con un taglio chirurgico o che, invece di essere dentro l’esperienza straordinaria del parto, le donne scelgono di viverla anestetizzate, rese ancora più deboli e passive. Tiziana Valpiana
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questione di grande importanza: come la società accoglie questi bambini e bambine così desiderati? “Viviamo in un paese in cui non ci sono spazi per i bambini, non ci sono pensieri per i bambini. È una società che rifiuta i bambini e che non è attrezzata per accoglierli e non si pone il problema di come cambiarsi in funzione dei bambini. Si possono fare tantissimi esempi: dai parchi condominiali in cui è vietato ai bambini di giocare a palla fino al divieto di portare i passeggini aperti sull’autobus, come sta accadendo in varie città. Siamo al paradosso che l’autobus ha il predellino per permettere alla persona con handicap di salire, ma chiede a una mamma con un neonato di salire reggendolo in braccio, tenendo il passeggino chiuso nell’altra, magari con borse della spesa e dovendosi reggere per non cadere. Per non parlare degli scivoli sui marciapiedi occupati dalle macchine parcheggiate ecc… l’attenzione alla coppia mamma-bambino nei primi anni di vita manca del tutto. La maternità è vista come una scelta individuale e non come un bene comune della nazione. Manca completamente l’idea che se la donna mette al mondo un figlio lo fa per sé ma lo fa anche per tutti noi. Abbiamo sicuramente leggi avanzate per la tutela della maternità nel lavoro, ma ormai chi ha un lavoro fisso è una minoranza residua. La maggioranza delle donne, soprattutto le giovani, si arrabattano tra una marea di lavoretti, negozietti, precarietà in cui non possono avere nessun sostegno alla maternità”. Il Melograno ha un motto che è la sintesi della sua mission… “Con “Quando nasce un bambino nasce anche una mamma” vogliamo dire che i bisogni e i diritti dell’una non possono essere trattati separatamente e disgiunti dal benessere e dalla dignità dell’altro, che è lui che ti insegna ad essere mamma, tu scopri cosa vuol dire essere mamma di giorno in giorno nella relazione. Conseguentemente vogliamo sottolineare che anche la mamma ha bisogno di tutte le cure e le attenzioni di cui ha bisogno chi nasce e che lei riversa verso il bambino. Diciamo sempre che le operatrici del Melograno accudiscono le mamme mentre le mamme accudiscono il bambino. Il senso è: chi cura ha bisogno di essere curata”. E i papà non li considerate? “Attenzione: il padre non nasce quando nasce il bambino, ha bisogno di tempo. La mamma ha avuto un tempo, durante la gestazione, di conoscere e dialogare con il bambino e al momento della nascita lo conosce già, e poi ha dalla sua gli ormoni che la rendono particolarmente recettiva al suo linguaggio e ai suoi bisogni. Al padre non è concesso questo, noi pensiamo che lui debba essere “il guardiano della tana’, permettendo alla donna che vive questo intenso viaggio d’amore con il suo bambino nei primi mesi di non avere alti compiti, di non essere disturbata. Il ruolo del padre è importantissimo, ma non è sovrapponibile a quello della mamma. Invece purtroppo vediamo che l’immagine che viene proposta è
quella del mammo. Non è questa la paternità consapevole che va messa a disposizione perché non serve solo un aiuto concreto - ben venga, ovviamente - ma soprattutto un ascolto, un sostegno per le nuove responsabilità, un ruolo di protezione della coppia mamma-bambino. Per essere protettori bisogna essere degli uomini, invece parecchie volte vediamo ragazzini”. Ma nei vostri programmi c’è anche un lavoro con i padri. “La paternità è importante e facciamo anche incontri per i padri e molti degli incontri nei corsi di accompagnamento alla nascita sono aperti per chi lo desidera alle coppie. Speravamo che i padri si organizzassero con loro centri. Ci sono stati tentativi negli anni, ma è mancata la continuità e l’idea che potessero prendersi in carico il tema della paternità. Siamo ancora all’imitazione del modello materno. E non va bene”.
Una bella storia scritta dalle donne per le donne NON SUBIRE LA GRAVIDANZA, MA DIRIGERLA è la frase-guida scelta quando, a Verona nel 1981, nasce il primo nucleo di quella che oggi è una realtà diffusa in molte regioni con 18 centri attivi de IL MELOGRANO. L’idea alla base dell’iniziativa era “che madri si diventa piano piano attraverso una gestazione fisica ma anche emozionale e di crescita interiore, attraverso un parto
vissuto come scoperta e rispetto delle straordinarie capacità e risorse del corpo di donna, attraverso l’autodeterminazione. Si voleva realizzare un luogo dove questo potesse avvenire, creare un’istituzione in cui fossero al primo posto accoglienza e cura; che operasse non con improvvisazione e volontarismo ma che fosse servizio permanente per aiutare la consapevolezza delle donne”. Oggi in tutta Italia sono tantissime le iniziative e i progetti, quasi sempre in collaborazione con gli enti pubblici: assistenza domiciliare nel puerperio, s.o.s. allattamento, ‘farmacie amiche dell’allattamento’, formazione baby sitter, gestione Sportello Nascita e Prima Infanzia. Tutti servizi utili per sostenere le scelte delle donne con gli strumenti che da sempre Il Melograno utilizza: informazione precisa ed esaustiva, attivazione di consapevolezza ed empowerment delle donne. (Info: www.melogranovr.org)
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Ad ognuna il suo Stato Interessante di Silvia Vaccaro
Prima o poi arriva il momento in cui una donna si interroga sul suo desiderio di maternità, anche sollecitata dal ticchettio dell’orologio biologico. Il documentario di Alessandra Bruno si sofferma sulle quarantenni
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ono andata in crisi. Mi dicevo:‘Se non sei capace a fare un figlio che è la cosa più naturale del mondo, non sei capace a fare niente’”. Così Ilaria, una delle protagoniste di Stato Interessante (prodotto da B&B Film in collaborazione con Rai Tre), racconta la sua maternità mancata. Lei e il suo compagno da undici anni lasciano campo libero al destino, fino al giorno in cui decidono di capire perché questo figlio non arriva. Le analisi a cui la coppia si sottopone decreteranno che è tutto a posto, ma Ilaria continuerà ad interrogarsi su cosa fare. Insistere o desistere? Le storie contenute nel documentario sono quelle di quarantenni chiamate a mettere un’ultima parola sul tema maternità, tema che diventa quasi un pretesto per affrontare un confronto diretto con se stesse, un’esperienza da attraversare per poter scegliere con maggiore convinzione la propria strada nella vita. Sono donne che non si sottraggono all’elaborazione e che Alessandra Bruno - ideatrice e regista - ha voluto catturare proprio nella fase del
dubbio e del confronto con il partner. Le storie, narrate sapientemente, restituiscono tutta la complessità che si apre dietro questo tema: la presunta naturalità della maternità, il giudizio proprio e altrui, la capacità di sentirsi veramente libere di scegliere. “Si da per scontato che una donna non può non sapere se vuole un figlio. Ma perché non può?”, dice a un certo punto Paola, un’altra protagonista. Di questa e delle tante domande che si pongono le donne nel suo documentario ne abbiamo parlato con la regista.
Da dove viene l’idea del documentario? L’idea è venuta da me perché sono coetanea delle protagoniste e per prima io mi sono trovata in questa fase, e mi sono resa conto mentre vivevo questa esperienza che questo momento richiamava una serie di domande che facevo a me stessa, e poi agli altri e a tutta la mia vita. Mi sembrava che questi interrogativi portassero ad altre questioni molto più grandi che meritavano di essere indagate a loro volta. Parlando con le mie amiche senza figli, mi sono accorta che molte si trovavano in questa stessa situazione. Venivano fuori una serie di questioni che prescindevano moltissimo dalla maternità e che riguardavano l’identità, quello che sei: un momento di confronto senza filtri con te stessa, per cui la maternità a quel punto, a quell’età, era un pretesto.
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Quali sono le questioni di cui parli? Quando arrivi a quarant’anni e, per un motivo o per un altro, non hai avuto figli, perché l’hai evitato o rimandato, a volte senza nemmeno dirtelo razionalmente, improvvisamente ti si pone davanti un limite, che è quello biologico. Sai che non hai più tutto il tempo del mondo. Questo è il primo vero limite che incontri. Nella vita ci sono pochi limiti così, e proprio di frontea questa imprescindibilità, ti chiedi: che cosa voglio veramente? Qual è davvero il mio desiderio? Se ti fai davvero questa domanda, questo ti mette in discussione rispetto a quello che hai fatto finora e a quello che vuoi diventare.
Come hai trovato le storie? Sono partita dalle mie amiche, e poi la cosa si è andata allargando. Tantissime donne mi hanno scritto offrendosi di raccontare la loro esperienza, ma a me interessava in particolare raccontare la confusione, quando non sai ancora se lo vuoi, non hai più molto tempo e ti devi dire cosa vuoi fare. Perché, se vuoi un figlio, devi andare da un medico, parlare con il tuo compagno, metterti di impegno. Oppure devi scegliere di non averlo. Un momento in cui non puoi più lasciare la palla al caso, perché a quarant’anni è più facile che i figli non arrivino per caso. Ho scelto quindi delle donne che veramente si trovavano, per motivi diversissimi, nella fase di impasse.
Le donne del tuo film hanno più la paura di fare un figlio o più paura di non volerlo? Ho trovato più paura di dirsi “non lo voglio” e di accettare questa idea. Sia per quelle a cui questo figlio non arriva, sia per quelle che non hanno ancora deciso, per tutte è di più la paura di dirsi che non lo vogliono.
Quindi anche le donne più libere, subiscono ancora lo stereotipo della naturalità della maternità… Nonostante le donne che racconto siano libere e colte, subiscono - e subiamo - ancora il pregiudizio che abbiamo verso noi stesse. Quanto sono donna se non divento madre? Questa cosa va contro la mia femminilità? Sembrereb-
be impossibile, eppure nel momento della scelta questa domanda diventa molto forte. Si chiedono “sto rinunciando a una parte della mia potenzialità in quanto donna?”. È una cosa con cui fai i conti, che poi razionalizzi e dici “non ha alcun senso”. Ma è ancora difficile accettarlo e parlarne serenamente con i propri compagni. Una donna che non procrea si sente ancora in difetto, come se la cosa dovesse sottendere sempre un qualche tipo di problema. Poi però ci ragioni e ci passi sopra, perché è un pregiudizio cattivissimo che non puoi subire.
Forse è proprio il fatto di parlare di naturalità che è sbagliato… La naturalità della maternità è un luogo comune e fa moltissimi danni. Il fatto di parlare di una potenzialità che la donna ha per natura significa che questa cosa non può rimanere inespressa. Invece il discorso è molto più complesso, perché il fatto di avere questa potenzialità non corrisponde sempre al proprio desiderio, che è frutto di tante altre cose, che per alcuni sono solo sovrastrutture, per altri sono ciò che fa di te un essere pensante. Esiste la potenzialità ma quello che fa la differenza è la tua capacità di scegliere. Ovviamente io non voglio generalizzare, la mia indagine è molto parziale e io racconto un certo tipo di donne. Però è vero che per molte donne i figli non vengono così facilmente. La naturalità può creare un senso di inadeguatezza.
Forse l’unica cosa naturale della maternità è il fatto che ti ci devi confrontare… Si, indubbiamente. Mi sembra difficile che si abbia una posizione aprioristica su questa questione, se non magari per motivi ideologici. Si può passare oltre rapidamente e risolvere in fretta la cosa, ma devi comunque elaborare questa esperienza, confrontarti, fermarti un attimo per poi andare avanti.
Il ruolo dei partner nel film è marginale perché è stata una tua scelta di regia o perché quella di fare un figlio è ancora più una scelta della donna che della coppia? Non era una mia scelta a priori non coinvolgerli, anzi, ho interpellato donne che avessero coppie solide, con anni di relazione alle spalle. Ho trovato uomini coinvolti, partecipi, innamorati e comprensivi però mai decisivi, in grado di prendere in mano la situazione. Non so perché avviene, forse perché in fondo c’è l’idea che solo la donna può decidere di avere un figlio. Di fronte a questo dilemma di individuare il loro desiderio, gli uomini hanno un altro modo di elaborare queste questioni. Il fatto di non avere un limite biologico li mette in una condizione psicologica diversa, non li angoscia, nonostante le loro compagne lo siano. 4continua a pag. 20
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LA STORIA DI SARA
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Il documentario si apre e si chiude con molta ironia. Può essere una chiave per affrontare questo momento di passaggio? Io ho cercato di mantenere un tono che non fosse mai drammatico. Ho volutamente aperto e chiuso in questo modo, perché credo che la vita continua, e che questa è una fase che si supera. Non è detto che poi non ci tornerai su quella scelta, però intanto ci hai pensato, ragionato. Finisco con un’apertura verso la vita e con l’idea che sei tu che devi essere libera di decidere per te stessa.
Alla fine ti sei data una risposta sul perché alcune donne non fanno figli? Quanto conta l’aspetto socio-economico? I figli non esistono finché non ci sono. Tutto quello che avviene prima è una proiezione di te. E c’è quella della maternità e mille altre. C’è chi si immagina con un bambino in braccio e chi no. Avere figli è una scelta tra le altre. Ci sono tante immagini del sé, e più vai avanti più le immagini di te si moltiplicano. L’aspetto socio-economico è sicuramente un fattore, ma l’ho lasciato da parte perché secondo me a quarant’anni non è prioritario. A quell’età hai fatto pace con il tuo stile di vita, se vuoi fare un figlio lo fai. Il problema è che sei grande e quasi metà della tua vita l’hai vissuta senza un figlio quindi l’immagine di te madre non prende tutto lo spazio. Devi quasi forzarti a immaginarti con un bebè in braccio. Sei disposta a volerlo in un modo così forte? E tutto quello che hai costruito intanto dove lo metti? La questione è questa, e ovviamente ne porta con sé tante altre.
Il desiderio di maternità, il percorso della procreazione assistita. Finalmente la gravidanza e poi il sogno spezzato. Ringraziamo Sara per averci regalato il racconto del suo dolore
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uando lo scorso 29 agosto - nel corso della Scuola estiva di politica delle donne di Befree - Tiziana Bartolini mi ha chiesto se volevo scrivere la mia esperienza di maternità per questo numero di “NOIDONNE”, all’inizio ero titubante: l’argomento è per me dolcemente-dolorosamente complicato ed è difficile scriverne in tempi brevi, in modo conciso e su richiesta, ma poi ho pensato che era l’occasione per riconnettere pezzi sparsi di alcune riflessioni e per non privare altre della mia esperienza. Da femminista, e da mamma di una bimba morta in utero nei pressi della data del parto, penso sia giusto e sano trasformare il dolore in messaggi politici, è questo un modo per procedere, comunque e oltre, e anche per dare corpo e vita a lei. Così ho scelto di scrivere il mio racconto e di farlo oggi perché è il mio compleanno, mi sembra così di intrecciare le fila di tre percorsi: io-figlia, io-mamma, io-“non mamma”-figlia, e perché ogni volta che parlo di Zoe per me è una piccola rinascita. Da bambina non mi pensavo mamma, volevo fare altre cose da grande; crescendo, lentamente rifiutavo tutti i ruoli considerati femminili e comunque, prima di capire se volevo procreare, volevo laurearmi, lavorare, avere una casa adeguata e una storia d’amore che mi sembrasse giusta per condividere un’esperienza genitoriale. Così cominciai questo percorso solo intorno ai 40 anni; il desiderio doveva essere forte se scelsi di sottopormi a protocolli di procreazione assistita, che ritenevo invasivi da tutti i punti di vista. Per me la Legge 40 era insopportabile tanto quanto i metodi relazionali dei vari centri di procreazione medicalmente assistita catanesi, un vero concentrato di stereotipi sulle donne, la procreazione e la maternità. Così, dopo gli
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esami pre-concezionali, sono andata all’estero dove ho trovato professionalità e un forte senso di civiltà fra personale medico e paziente. Ho vissuto due gravidanze su tre tentativi, la terza si è conclusa con un aborto per morte dell’embrione in utero alla decima settimana e per assurdo, nel contesto fortemente gravato dall’obiezione di coscienza in cui viviamo, mi sento fortunata perché il mio ginecologo mi ha praticato il recuttage non sottoponendomi al dolore fisico e psicologico di un’espulsione fisiologica dell’embrione. Dalla prima gravidanza invece è nata morta Zoe, con un cesareo d’urgenza, l’8 dicembre del 2010. Il mio corpo si era fatto casa diventando luogo di dinamiche impreviste ad ampio raggio. Ho sempre pensato che piuttosto ché sottoporsi a pratiche
invasive sarebbe più giusto battersi per l’adozione ai e alle single.Tuttavia l’adozione non prevede il tempo, lo spazio e il luogo della gravidanza, come esperienza dei corpi, quei mesi di intensa attività, di scambio e dialogo continuo fra quei due corpi, un laboratorio del sé per ciascuna delle due: entrambe creature, entrambe creatore di sé e dell’altra. Uno spazio, quello dell’utero e un luogo, quello della gravidanza, “civile perché politico” dice Emma Baeri, e non il tempo statico dell’attesa come il patriarcato ci ha insegnato per invidia e per paura di questa fertile potenzialità dei corpi nati portatori di utero e ovaie, socialmente riconosciuti come femminili, corpi portatori di vita e morte insieme, morte come vita. La nostra società rimuove costantemente la morte e non vi è alcuna cittadinanza per le morti perinatali, anzi, l’idea va cancellata, è un tabù, quasi una vergogna. Le donne e le coppie che subiscono una tale lacerante esperienza non sono supportate in alcun modo nell’elaborazione di un lutto che è doppio perché, oltre la morte in sé, va elaborata la brusca e imprevista frattura fra progetto e realtà. Ma per me è impossibile rimuovere un’esperienza così importante, quella piccola vita che ha abitato brevemente il mio corpo ne ha modificato profondamente struttura e capacità percettiva, regalandomi un’energia inusitata: vivo come una e vivo come due, e per due, ormai entro ed esco dal mio dolore con grande velocità, piango e rido insieme e, come mi ripete Emma, sperimento un modo imprevisto di governo della simbiosi. A partire dalla mia storia mi fa un po’ paura l’avvento dell’utero artificiale, al quale però farei ricorso immediatamente se fosse già una realtà - le contraddizioni sostanziano la nostra esistenza - perché lo sento come espropriazione di una esperienza possibile e foriero di nuovi scenari di marginalizzazione, sfruttamento ed esercizio di potere sui corpi femminili. In tal senso rivendico la mia “isteria” come momento creativo di un altro corpo e di me stessa, come legame emotivo e sessuale con mia madre, e come espressione orgogliosa di un sé castrato dal patriarcato: penso alle lacrime, all’emozione, all’ansia come sentimenti che si possono liberamente esprimere, mentre il patriarcato ha prescritto che in certi contesti essi sono sconvenienti e fuori luogo. Col senno di poi posso dire che la prima tappa nell’elaborazione del mio lutto è stata guardare a lungo il corpo nudo di mia figlia fuori di me, carezzarla prima che la piccola bara fosse chiusa, pensarla viva dentro di me e, la sera precedente, quella doppia onda nel mio pancione governata da lei, un saluto forte, determinato, carnale: “ciao mamma, ci sono, ci sono stata”. Sara Catania Fichera, 6 settembre 2015
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SUONI, SAPORI, VALORI DELLA DECRESCITA POSSIBILE di Antonella Iaschi
Una Malga, l’unica ad avere una fattoria didattica in Friuli Venezia Giulia, rappresenta il sogno di Sonia e Luca realizzato tra mucche, latte, formaggio e burocrazia. All’insegna della serenità
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onia sta sgocciolando la ricotta. Si è svegliata alle cinque questa mattina. Il formaggio è già sotto le presse e la ricotta è pronta per essere messa nelle formine. C’è profumo di “una volta”. Gli scaffali sono pieni di forme. È un buon formaggio quello di Malga Fossa di Sarone (Caneva), unica Malga in Friuli Venezia Giulia ad avere una fattoria didattica. Il latte ottimo per la qualità ha da poco ottenuto la certificazione PPL (Piccole Produzioni Locali). Questo racconta fiero Luca, che ha gli occhi pieni di passione quando parla delle sue 30 mucche e soprattutto della prima che ha 15 anni ed è ancora lì fra le altre. I ragazzi stanno mettendo le campane ad alcune di esse, le capo-mandria. Rumori di vita che vengono da tempi lontani, dai tempi dei nonni e prima ancora. Sonia era ragioniera, Luca geometra. Hanno fatto una scelta e la portano avanti aggiungendo valore ai giorni. È difficile. Troppa burocrazia, troppe tasse, troppe cose gestite da chi non sa niente dei luoghi, del tempo e del lavoro in una Malga. Ieri sera abbiamo parlato davanti una terrina di pesche e vino rosso. Pesche, zucchero e vino. Come preparava il nonno di Luca. Uno dei ragazzi dello stage ha intonato ‘Bella Ciao’ al pianoforte. Sì, decisamente anche questo è resistere.
Resistere all’omologazione, resistere al qualunquismo, resistere a tutto ciò che, mascherato da progresso, sta togliendo umanità alle persone. Tutto appare più semplice in questo luogo che incanta, ma è difficile portare avanti i sogni quando non hanno lo stesso ritmo del quotidiano che ti circonda. Ci vuole un’infinità di coraggio e di amore. Sonia e Luca ce l’hanno scritta in faccia la passione, ma anche la stanchezza, il timore di non farcela. Tanti parlano di decrescita necessaria. C’è chi scrive di decrescita felice. Stando qui in questo utero di terra che avvolge e stupisce, uno si accorge che quella “decrescita” è invece una crescita possibile. Sonia e Luca lo sanno e qui, assieme alle loro figlie (quella piccola ha una grinta da conquistamondo che fa invidia) accolgono ragazzi e bambini condividendo con loro lavoro, esperienza, emozioni. Condividono la propria “Resistenza” e quando al mattino il sole entra dal portone della sala da pranzo illumina un grande tavolo pronto per la colazione. Tredici tazze con scritte come Amore, Armonia, Quiete, Felicità, Gioia ed altrettante persone che gustano i prodotti della terra e della stalla, ma soprattutto il prodotto più importante: la condivisione. Qui non c’è campo, non ci si può isolare guardando un di-
STRATEGIE
PRIVATE splay. Qui c’è ancora la possibilità di vivere il noi dall’alba al tramonto. Ed è un noi che guarda al futuro e ti fa venir voglia di buttare le chiavi della macchina. Nel pascolo che sembra un mescolo l’asino Bruno sta tentando di montare l’asina. Sua figlia bruca, l’altra asinella di pochi giorni fa scatti ridicoli sulle zampine non ancora esperte. Tutto è ritmato dal sole che sorge a sinistra e scende a destra là in cima, da dove io ho visto Trieste ed ho chiesto che lago era quel mare. La luna alle spalle si vede anche se è giorno. Alle spalle c’è la casa e un po’ più in giù la stalla. Quanto lavoro, quanta fatica, quanta forza di volontà sono necessarie per tenere acceso un progetto come questo? Tante volte chi sale qui da turista pensa alla fortuna di chi lavora qui, magari lo invidia anche un po’. Ma se si va oltre, se si tenta di capire anche la fatica di una scelta e la volontà di portarla avanti oltre alla fortuna e al privilegio di vivere in questa conca si scopre la bellezza delle persone. Quella bellezza che rende speciali Sonia e Luca e racconta quanto valore aggiunto stanno seminando giorno dopo giorno. C’è stato un attimo a colazione, quando il sole che entrava faceva chiudere gli occhi e Luca raccontava dei ragazzi degli stage, che ho pensato al tavolo dell’Ultima Cena. Ci vorrebbe un pittore per fermare nel tempo Luca che parla ai “suoi” ragazzi e il titolo del quadro potrebbe essere “Germogli”. Claudio sta suonando, il sole entra “Questo istante me lo scrivo nell’anima” dice Luca. Sonia arriva con la padella del frico. Sorride come sempre. Io nell’anima mi sono scritta le sue braccia che girano la ricotta mentre lei spiega che ha iniziato a fare formaggio da pochi mesi, a causa di un “incidente di percorso”. Anche questo le riesce bene. Molto bene. Come sorridere. E io penso prima di andarmene che ho già voglia di tornare qui a Malga Fossa di Sarone per guardare, ascoltare, respirare, imparare il ritmo del tempo e magari sognare di rimanere.
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di Cristina Melchiorri
GESTISCI IL TUO CAPO! Sono Ginevra, lavoro in un’azienda multinazionale che vende servizi finanziari e da poco sono stata “promossa” passando dal settore amministrativo a quello del controllo di gestione. Fin qui tutto bene. Il punto è che il mio nuovo capo, olandese, non parla una parola di italiano, quindi comunica con tutti noi in inglese. Io penso che se ha accettato di lavorare in Italia dovrebbe imparare la lingua e integrarsi con noi, giusto? Ginevra Lugli (Milano)
Cara Ginevra, non è questo il punto. In linea teorica, certo, dovrebbe imparare la nostra lingua e fare di tutto per dialogare più agevolmente con chi lavora qui. Ma, in realtà, sei tu che dovrai imparare a gestirlo. Saper gestire il proprio capo è indispensabile per lavorare serenamente e con reciproca soddisfazione. In primo luogo ti consiglio di abituarti a collocare velocemente i tuoi interlocutori in uno dei quattro profili macro cui tutti apparteniamo: analitico, direttivo, relazionale, sognatore. Ci sono le persone “analitiche”, che adorano raccontare per filo e per segno, nei minimi dettagli, cosa è accaduto, prima di arrivare al punto. Se stanno dialogando con un’altra persona dello stesso tipo vanno benone. Ma se parlano con un “direttivo”, cioè un soggetto che va subito al punto, che è veloce e dopo tre minuti già scalpita, se dettagli troppo lo irriti e non ti scolta più. Poi ci sono le persone “relazionali”, che hanno bisogno di instaurare un rapporto personale. Facili, no? Tutt’altro! Perché se fai un errore la prendono sul personale e faticherai a recuperarli nel lavoro. Infine c’è il “sognatore”, che ha sempre bisogno di inquadrare la visione di ogni cosa. Parte ogni volta dall’origine del mondo, o del tema, e ti fa perdere un sacco di tempo. Devi solo allenarti ad avere pazienza. Cerca di collocare il tuo capo in uno di questi profili e saprai come comunicare con lui. Valorizza te stessa e le tue qualità, in relazione ai suoi obiettivi e alle sue priorità. Aiutalo a integrarsi. Anzi, perché non impari qualche parola di olandese, per metterlo a suo agio quando bevete un caffè insieme?
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LÀ DOVE L’ALLEANZA FA LA DIFFERENZA di Tiziana Bartolini
Coltivare la terra e allevare animali in modo biologico e nel rispetto dell’ambiente si può. Parola di Renata Lovati, presidente Donne in Campo Lombardia
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ono sempre stata ambientalista e, da imprenditrice agricola, vivevo le contraddizioni di non riuscire a produrre in modo naturale e biologico”. Renata Lovati, presidente di Donne in Campo/Cia Lombardia, non ha dubbi: quella biologica non solo è un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e della salute, ma è anche sostenibile economicamente. “C’è voluto coraggio a riconvertire un’azienda di vacche da latte fondata nel 1980 portandola totalmente al biologico: tutti i tecnici ci sconsigliavano. Ci dicevano che non era possibile produrre latte se non ricorrendo all’aiuto della chimica. Il coraggio ci é stato dato dai cittadini, riuniti nei gruppi di acquisto solidale, che si sono impegnati ad acquistare i nostri prodotti”. Nel 2009 la grande decisione di passare alle produzioni naturali modifica anche le modalità di vendita e il latte, che prima era conferito
all’industria, viene in parte lavorato da un piccolo caseificio producendo formaggi freschi e yogurt. La conversione al biologico dell’azienda Cascina Isola Maria è fatta per contaminazione, se così si può dire, ed è bello ascoltare il racconto di Renata. “Un nostro vicino aveva iniziato a far fare la raccolta nell’orto direttamente ai cittadini. Oggi è di moda, ma dieci anni fa era un percorso agli inizi. Il Parco Sud, dove sorge la nostra azienda, è uno dei più grandi parchi agricoli europei con i suoi originari 47mila ettari. Nel 2009, con l’idea di immaginare un cambiamento, venne creato un distretto di economia solidale a partire dai contadini disponibili ad aderire al progetto. L’accordo consisteva nell’impegno dei cittadini nel comperare i nostri prodotti biologici favorendo la produzione di formaggi, carne, uova, riso, farine biologiche, frutta e ortaggi. La cosa bella é stata che si sono poi aggiunte altre cascine. In tutto nel parco siamo una ventina di aziende biologiche e chi ha fatto questa scelta non è tornato indietro. Si è creato un grosso fermento culturale che è stato uno stimolo per noi. Abbiamo investito nella multifunzionalità perché volevamo dimostrare che invece della monocultura si poteva fare altro”. Una scommessa vinta, dunque, e nuovi obiettivi da raggiungere. “Oggi la nostra lotta è la difesa di una zona conosciuta in tutta Europa: chiediamo di preservare il territorio e di non costruire una nuova strada, che nelle intenzioni della Regione Lombardia sarebbe la chiusura dell’anello a sud di Milano con un sistema di nuove tangenziali, e vogliamo far capire che la viabilità può essere riqualificata. Il fronte che contrasta questa opera è vasto, insieme a noi ci sono anche dei sindaci”. Non è una donna dai mezzi toni, Renata, ed è stata sorpresa quando l’assemblea regionale di Donne in Campo nella sua regione l’ha scelta come presidente. “È stato significativo che abbiano sostenuto una persona che ha le mie idee. Nel mio programma ho scritto che volevo avvicinare
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saperi, una bella esperienza attraverso la quale le donne hanno scoperto di avere la capacità di auto-formarsi partendo dalle proprie conoscenze. Con l’aiuto della nostra coordinatrice Chiara Nicolosi, oltre ai mercati contadini organizziamo molte iniziative di formazione professionale, incontri con le scuole. Ad ottobre al castello visconteo c’è ‘La fattoria del castello’, un grande evento unitario, forse unico in Italia, che riunisce le tre associazioni femminili di categoria: Cia, Coldiretti e Confagricoltura. Quando ci si incontra tra imprenditrici agricole difficilmente si parla di reddito”. La solita difficoltà a relazionarsi con il denaro… “No, è che le donne hanno puntato su altro, hanno fantasia. Penso che certe volte sollevare il problema del reddito sia una scusa per continuare a fare nello stesso modo, per non sperimentare”. Qual è il grande nemico dell’agricoltura? “È l’omologazione, il pensare che tutti si debba produrre allo stesso modo, il nemico è la mancanza di curiosità e la mancanza della voglia di informarsi”. Biodiversità anche nelle idee e nell’anima, quindi. È la ricetta di Renata Lovati, che dialoga con il futuro e non ha paura di dialogarci.
l’agricoltura al mondo ambientalista: evidentemente tra le donne Cia c’è una grande sensibilità. Penso che se si crede nelle proprie idee, piano piano i risultati arrivano”. Quindi il cambiamento è possibile! “Sì, certo, ma bisogna fare molto a livello scolastico. In questi decenni l’impatto della chimica e stato devastante anche sul piano culturale e all’università non si offrono alternative”. Chiedo a Lovati come vede possibile uno sviluppo su più ampia scala delle produzioni biologiche. “La grande distribuzione sta cominciando a capire e anche noi stiamo lavorando sulla logistica, tutti dobbiamo fare uno sforzo e mirare a modelli economici sostenibili, con il km zero vero. Sappiamo che è un lavoro lungo, ma se le persone prendono coscienza, poi difficilmente tornano indietro”. E l’Expo, che senso e utilità ha avuto? “Premetto che ho aderito al comitato no expo, rilevando forti contraddizioni nel consumo di suolo agricolo e di risorse che forse si sarebbero potute usare per aiutare le economie più deboli. Ciononostante può aver avuto una sua utilità, soprattutto per lo scambio e per gli incontri che ha permesso (ho conosciuto donne straordinarie, imprenditrici formidabili), poi i convegni sono stati interessanti. Spero che i messaggi lanciati non cadano nel vuoto. In relazione all’Expo, inoltre, è stata vinta una battaglia grazie alla mobilitazione dei cittadini : è stata abbandonata l’idea di fare le vie d’ acqua attraverso alcuni parchi cittadini. Hanno realizzato parcheggi rimasti inutilizzati perché la gente arriva a Expo con i mezzi pubblici. Da un certo punto di vista, però, questo è la dimostrazione che quando insegni alla gente a fare cose diverse, poi le fa...”. Dicevi di aver conosciuto molte colleghe, imprenditrici agricole come te, venute a Milano anche da molto lontano. Come vedi il lavoro delle donne nell’agricoltura? “Come donne abbiamo una sensibilità maggiore e riuscire ad unirsi sarebbe un bel messaggio. Noi siamo riuscite a fare tante iniziative. Penso al baratto dei
COLTIVARE IL PAESAGGIO “Se la terra è considerata un bene comune, gli sforzi per trasmettere la bellezza dei paesaggi agricoli rimangono uno dei fini principali dell’agricoltore; e la riscoperta della contadinità può farci studiare i saperi agronomici e zootecnici che hanno contraddistinto l’agricoltura non ancora industrializzata. Ripiantare siepi e filari, reintrodurre le rotazioni colturali, ripristinare la fertilità dei suoli, ridurre l’uso dei pesticidi e dei farmaci veterinari, sono obiettivi che possono essere condivisi da tutti i tipi di agricoltura. E l’agricoltura naturale, biologica, biodinamica possono essere da stimolo anche per migliorare l’economia delle nostre aziende”. Renata Lovati
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MA QUANTE SIAMO? di Cristina Carpinelli
DONNE E UOMINI NEL MONDO
Lo squilibrio di genere della popolazione globale esiste a causa delle discriminazioni nei confronti delle donne
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ulla base degli ultimi dati dell’ONU (United Nations. DESA.World Population Prospects, the 2015 Revisions), in questo momento sulla terra ci sono più uomini che donne: per ogni 100 donne ci sono, infatti, 101,8 uomini (in totale: 3,64 miliardi di donne contro 3,7 miliardi di uomini). Si stima che la popolazione mondiale sia diventata a maggioranza maschile a partire dal 1962. Da allora il divario di genere (a svantaggio del sesso femminile) si è sempre più allargato. Nel 2013 gli uomini superavano le donne di 58 milioni. Il fatto che ci siano più maschi che femmine è il risultato di vari fattori, di cui il principale è la discriminazione contro le donne.Tenuto conto che la maggior parte dei Paesi del mondo ha più donne che uomini (se non altro per il fatto che, in genere, le donne vivono più a lungo degli uomini), lo squilibrio mondiale di genere esiste soprattutto a causa di due Paesi e delle loro politiche “eugenetiche”: la Cina e l’India, due regioni molto popolose, dove sono diffusi gli aborti selettivi e l’infanticidio delle neonate. La Cina ha quasi 50 milioni di uomini in più rispetto alle donne e l’India 43 milioni. Tuttavia, uomini e donne sono diversamente distribuiti nelle diverse parti del mondo. Nei Paesi Europei, ma soprattutto in quelli dell’ex Unione Sovietica, per esempio, ci sono molte più donne che uomini (Paesi superati soltanto da una piccola isola “francese” delle Antille, la Martinica, dove ci sono 84,5 uomini su 100 donne). Al contrario, il numero più alto di uomini in rapporto a quello delle donne lo si trova negli Emirati Arabi Uniti, in Paesi densamente popolati come India e Cina, e nel Western Sahara(Nord Africa). Negli USA, la divisione della popolazione in base al sesso è quasi paritaria, con un leggero squilibrio a favore delle donne
(98,3 uomini ogni 100 donne). Questo dato è più o meno stabile dal 1950. Le quattro grandi economie emergenti che fanno parte dei BRIC si dividono in tre gruppi. Cina e India hanno un forte squilibrio verso gli uomini, la Russia verso le donne, mentre Brasile e Sud Africa sono nel mezzo. A rilevare tutte queste informazioni è una mappa elaborata dal “Pew Research Center” (gender ratios in 2015) sulla base dei dati ONU 2015 (Immagine 1). Ma perché negli ex Paesi sovietici ci sono più donne che uomini? Nell’ampio territorio, conosciuto come ex URSS, la popolazione è prevalentemente femminile da almeno la Seconda Guerra Mondiale, e cioè da quando molti uomini sovietici morirono in battaglia o lasciarono l’Unione Sovietica per andare a combattere altrove (quasi il 15% della popolazione maschile in età riproduttiva perse la vita durante le guerra). Ad esempio, nella Russia sovietica, nel 1950, c’erano 76,6 uomini ogni 100 donne, mentre nel 1959, quasi quindici anni dopo la fine della Grande Guerra Patriottica, erano rimasti solo 81,9 uomini ogni 100 donne. La distanza era ancora più ampia in altri Paesi dell’ex URSS coinvolti direttamente nella guerra come, ad esempio, in Ucraina, dove c’erano 79,7 uomini ogni 100 donne. Quel rapporto sbilanciato era andato, tuttavia, nei decenni successivi, equilibrandosi costantemente (attestandosi, per esempio, nella Russia di Gorbachev a 88,4 uomini ogni 100 donne), per poi mostrare dalla dissoluzione dell’URSS un’inversione di tendenza. Negli anni ‘90, comuni indicatori demografici dei Paesi transizionali dell’ex URSS, a seguito del passaggio dall’economia pianificata a quella di mercato, erano stati l’alta mortalità degli adulti maschi e la brusca caduta della speranza di vita sia per uomini che per donne (nel-
la nuova Russia indipendente,fra il 1991 e il 1994, l’aspettativa di vita media era scesa di sei anni per gli uomini e di tre per le donne). Oggi (dato 2015), il gender ratio (uomini ogni 100 donne) nella Federazione Russa è di 86,8 uomini ogni 100 donne. Anche in altri ex Paesi sovietici si registrano rapporti di genere simili: in Lettonia (84,8), Ucraina (86,3), Armenia (86,5), Bielorussia (86,8), Lituania (85,3) ed Estonia (88,0).(Immagini 2e 3). La maggior parte di questi Stati ha bassi tassi di fertilità rispetto alla media globale. Questo fattore è causa nel tempo di uno squilibrio di genere della popolazione, poiché gli anziani hanno maggiori probabilità di essere di sesso femminile, mentre i giovani di essere di sesso maschile (tendenza, peraltro, riscontrabile anche a livello globale - Immagine 4). In più, i giovani maschi adulti hanno un tasso insolitamente alto di mortalità, e la speranza di vita maschile è più breve rispetto a quella femminile. Ecco perché Lituania, Lettonia, Kazakistan, Bielorussia, Russia, Estonia e Ucraina sono fra i Paesi al mondo con una più elevata popolazione femminile e con il maggior divario nell’aspettativa di vita fra uomini e donne. Un esempio aL mondo Siamo per tutti: in Bielorussia ci sono 86,8 uo3,64 miLiardi mini ogni 100 donne; quest’ultime handi donne no un’aspettativa di vita di 77,0 anni, e 3,7 miLiardi mentre gli uomini - di 65,3 anni, con di uomini. iL divario una differenza di 11,7 anni (Immagini (58 miLioni 3 e 5). Molti uomini perdono la propria di uomini vita per incidenti dovuti al tasso eccesin più) è cauSato sivo di alcol, suicidi e malattie. Com’è Soprattutto noto, il consumo di vodka, soprattutto
daLLe poLitiche ‘eugenetiche’ in cina e india
da parte dei giovani, è stato a lungo un problema nell’ex Unione Sovietica, ed è ancora oggi una delle principali cause di morti precoci. Solo la Siria, dove da quattro anni è in corso una guerra devastante, supera, per tutt’altre ragioni, i Paesi ex sovietici, con un life-expectancy gap di ben 12,3 anni (maschi: 64,0; femmine: 76,3). In conclusione, gli ex Paesi sovietici occupano 7 dei dieci posti con la più alta quota di donne tra i 126 Paesi del mondo mappati con più donne che uomini. Nei Paesi sviluppati dell’Europa occidentale, il rapporto tra popolazione femminile e maschile è più equilibrato (rispetto all’Est europeo), anche se le donne sono quasi sempre in numero maggiore rispetto agli uomini. Nel nostro Paese (Italia), ci sono 94,6 uomini ogni 100 donne, un dato vicino a quello rilevato in Francia (94,8) e comparabile a quello di Germania, Grecia e Serbia. Qui il fattore che gioca a favore del genere femminile è la speranza di vita media solitamente più alta nelle donne che negli uomini. In generale, in questi Paesi, il divario di genere si è nel tempo ridotto in gran parte a causa di stili di vita e condizioni tra uomini e donne sempre più simili. Gli unici Paesi europei dove sono presenti (seppure in numero statisticamente irrilevante) più uomini che donne sono Islanda, Norvegia e Lussemburgo). In Cina e India ci sono più uomini che donne. Questi due Paesi sono noti per le loro pratiche di “femminicidio infantile”. In Cina, ci sono attualmente 106,3 uomini ogni 100 donne; in India - 107,6 uomini ogni 100 donne. Le politiche di riduzione della natalità di questi Paesi ha fatto sì che le prime rappresentanti dell’eugenetica per fini economici (oltre che demografici) fossero le madri: le figlie femmine sono un costo (dote), un peso (se non si sposano), non sono adatte per il lavoro pesante (campi, miniere, ecc.) e non tramandano il cognome e i beni di
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famiglia. Ecografie, amnioUomini e donne centesi e altri esami servono sono a quelle popolazioni per stadiversamente bilire il destino di un feto: se distribuiti è femmina, verrà sacrificata. nelle diverse Le autorità cinesi stanno ora parti del pianeta. provando a ridurre il divario Nei Paesi Europei, numerico fra uomini e donne soprattutto inasprendo le pene per gli in quelli dell’ex aborti selettivi (quelli che si Unione Sovietica, ci sono molte basano sul sesso del feto) e più donne istituendo bonus per i genitoche uomini ri delle bambine nelle zone rurali del Paese. Chiudiamo con i Paesi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), dove la sproporzione tra uomini e donne, a sfavore di quest’ultime, è assai sensibile. Il Qatar è abitato, ad esempio, da 265,5 uomini ogni 100 donne, mentre gli Emirati Arabi Uniti - da 274 uomini ogni 100 donne (quasi tre volte di più - Immagine 1). In quest’ultimo Paese (e in altri Stati limitrofi), sono arrivati negli ultimi anni molti lavoratori stranieri maschi (soprattutto dall’Asia meridionale), che sono Fig.4
stati impiegati nelle industrie e a cui non è stato consentito di portare con sé la propria famiglia. Infine, proprio in Medio Oriente - dove le donne sono pesantemente sottoposte al controllo comunitario e ai divieti religiosi - si evidenziano ben 6 Paesi con il maggior divario di genere tra i 69 Paesi del mondo mappati con più uomini che donne. b
Legenda immagini: Fig. 1: “Dove le donne superano in numero gli uomini, e dove no” (uomini ogni 100 donne) Fig. 2: “Più donne che uomini nell’ex URSS” (uomini ogni 100 donne) Fig. 3: “Ex Paesi Sovietici: numero di uomini ogni 100 donne” Fig. 4: “Le persone più giovani sono maschi, le più vecchie sono femmine” (dato espresso in milioni) Fig. 5: “Le donne sopravvivono agli uomini nell’ex URSS” (gap nell’aspettativa di vita - espresso in anni)
Fig.5
Street chiLdren AL CAIRO di Zenab Ataalla Li chiamano Street chiLdren, Sono i bambini di Strada egiziani che vivono ai margini deLLa SocietÀ e che grazie aLLe attivitÀ di face poSSono Sperare in un futuro migLiore
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l Cairo. “Non posso sopportare che i bambini soffrano” risponde così Flavia Shaw-Jackson a chi le chiede la ragione per la quale ha iniziato a lavorare con i bambini egiziani che vivono in povertà con le loro famiglie o da soli per strada. “Tutto è iniziato nel 2003, quando ho visitato 25 orfanotrofi nelle aree dimenticate di questa immensa città. Quando, senza paura, ho cominciato a parlare con la gente che popola le aree più povere per capire che cosa fare in concreto per loro”. Sposata e madre di tre figli, Flavia da oltre dodici anni vive tra il Belgio e l’Egitto, dove con grande impegno e risolutezza è riuscita a creare FACE, l’associazione benefica belga-egiziana che si occupa della cura dei bambini più bisognosi e della quale è fondatrice. (www.facechildren.org) “Mi piace ricordare che la nostra organizzazione è nata in realtà il giorno in cui abbiamo seguito la riqualificazione vera e propria di due orfanotrofi già esistenti al Cairo, uno cristiano e uno musulmano, nelle zone di Kaliubeya e Zeitoun. Le condizioni di questi due orfanotrofi erano drammatiche. Rimasi scioccata per giorni. I bambini appena nati e salvati dalla strada venivano immersi nell’acqua
fredda. I pannolini usa e getta venivano puliti e messi ad asciugare per essere riutilizzati. Le cose che mi colpirono furono i pianti, le urla e le cure inadeguate. Mi ricordo che un giorno presi in braccio un bambino piccolissimo che aveva ferite e cicatrici sul piccolo corpo e chiesi il motivo. Mi dissero che era stato abbandonato in strada dove era stato sbranato da cani e gatti. Ecco in quel preciso momento decisi che non avrei permesso che si ripetesse una cosa del genere”. Secondo la recente indagine del Governo egiziano, presentata all’inizio dell’anno, sono circa 22 milioni i poveri in Egitto. Di questi circa 9 milioni sono bambini con un’età compresa tra 0 a 17 anni. Ma sono poco attendibili i dati che riguardano i bambini di strada che, come ricorda anche Flavia, si aggirano tra i 300mila ed il milione a seconda delle fonti. Proprio a questi ultimi sono rivolte le principali attività di FACE perché, rispetto agli altri bambini, sono soggetti a molti più pericoli, tra cui la violenza sessuale ed il traffico di organi. “Aiutare i bambini che da soli vivono per strada è difficile. Bisogna stabilire con loro una relazione che comporta anche dare delle regole. Ogni bambino viene seguito dai nostri operatori, sanitari e sociali, i quali lavorano giorno e notte per le strade, sotto i ponti, negli edifici abbandonati. Si cerca con molta pazienza di instaurare un rapporto di fiducia e duraturo che possa aiutarli a inserirsi di nuovo in una società che li ha abbandonati”. Nonostante le difficoltà, tra cui l’aver intrapreso le procedure laboriose di registrazione come organizzazione non governativa in Egitto, Flavia Shaw-Jackson è riuscita a creare FACE grazie ai rapporti con il Ministero della Salute, il Consiglio Nazionale di Infanzia e la Maternità ed il Ministro degli Affari sociali egiziani. “Mi ritengo fortunata, sono una madre, una moglie con una famiglia sana ed ho la possibilità di aiutare i bambini più bisognosi grazie all’incontro le persone giuste al momento giusto. Ogni bambino aiutato mi spinge, ci spinge ad andare avanti per la nostra strada, nonostante tutto”. Al momento Face impiega 160 persone, tutte di nazionalità egiziana. I progetti in attivo ora sono sei e si snodano tra programmi di sviluppo infantile, programmi assistenziali per i bambini di strada e la formazione del personale all’interno degli orfanotrofi statali. b
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ALZATI
CHE STA PASSANDO LA CAROVANA FEMMINISTA! MONDO
Le giovani attiviste sono arrivate a bordo del loro caravan nella Capitale. Ad attenderle per una tre giorni di eventi una coordinamenta nata dal basso di cui NOIDONNE ha fatto parte
di Silvia Vaccaro
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uando leggerete questo pezzo le ragazze della Carovana femminista saranno arrivate in Portogallo e si staranno preparando a raccontare la loro incredibile avventura all’evento finale del progetto, previsto per il 17 ottobre a Lisbona. L’obiettivo della Carovana, nata in seno alla grande rete della Marcia Mondiale delle donne, network internazionale femminista che conta oltre 6.000 associazioni presenti in più di 150 paesi, era quello di mappare e mettere in rete le donne, i gruppi e le loro pratiche di resistenza femminista nei diversi territori, attraversando il continente a bordo di un caravan, quello stesso che lo scorso otto settembre è arrivato nella Capitale. Ad accogliere le attiviste una coordinamenta composta da singole e realtà femministe romane quali la Cooperativa Sociale Be Free, il collettivo Cagne Sciolte, la Casa Internazionale delle Donne, il Centrodonna L.I.S.A., la Casa delle donne Lucha y Siesta e la nostra rivista. La tre giorni romana è stata un momento di scambio intenso, iniziato subito con un incontro dall’alto valore simbolico: la visita al centro antiviolenza di Torre Spaccata gestito dalla cooperativa Be Free, seguita poi dalla cena di accoglienza presso la Casa delle donne Lucha y Siesta. In quell’occasione le ragazze ci hanno raccontato di come sia stato appagante ma faticoso Foto di Valentina Faraone, gentilmente concesse
viaggiare per tutti questi mesi, alternandosi alla guida, macinando chilometri e tappe, stringendo mani e imbattendosi in tante storie di donne, anche molto diverse tra loro. Un’impresa ambiziosa la cui idea, come ci hanno spiegato Clara, Marion, Sara, Natalia, Ann e Miriam, è venuta proprio alle giovani femministe del gruppo “Young Feminists”, costituitosi nel 2011 all’interno della Marcia Mondiale delle donne. Dodici ragazze hanno lavorato al progetto, dandosi il cambio nelle varie tappe del viaggio, iniziato lo scorso 6 marzo nel Kurdistan Turco e proseguito attraversando Grecia, Bulgaria, Romania, Serbia, Kosovo, Bosnia, Croazia, Austria, Svizzera, Francia, Belgio, Germania, Polonia, Italia, Spagna e Portogallo. Per dare un senso a questo grande sforzo logistico e investigativo, a questa potente pratica femminista transnazionale, e poterla raccontare alle donne che hanno incontrato sul loro cammino, hanno raggruppato le battaglie delle don-
esempio viene dal Kosovo, dove tante vedove di guerra producono insieme frutta e ortaggi, dandosi sostegno a vicenda. La terza battaglia è quella legata all’autodeterminazione dei corpi, necessaria oggi più che mai per combattere contro il diffuso clima reazionario nei vari paesi europei e la difficoltà di esercitare il diritto all’aborto. L’ultimo ambito è quello della sovranità alimentare, ovvero come le donne si stanno auto-organizzando per trovare modi di produrre cibo nell’ottica di contrastare il predominio delle multinazionali, generatrici di disastri ambientali, povertà, disuguaglianze. In segno simbolico le ragazze hanno raccolto e scambiato con le donne che hanno incontrato semi di piante e alberi da frutto. La tre giorni romana è coincisa con la bella Marcia delle donne e degli uomini scalzi, che a Roma è partita dal Centro Baobab, simbolo di accoglienza, e a cui le attiviste della carovana e della coordinamenta hanno
ne in quattro aree tematiche. Il primo tema è quello della violenza contro le donne. Le battaglie di cui ci raccontano sono quelle delle donne curde, combattenti - armate e non - per la libertà del loro popolo. Donne che combattono contro la guerra e che colpiscono l’immaginario per via del loro coraggio e dell’indomita voglia di vivere una vita libera. Un’altra esperienza che le ha colpite è stata la visita in Austria nei campi di concentramento nazisti, dove gruppi di femministe e lesbiche custodiscono e cercano di trasmettere la memoria della specificità femminile anche nella prigionia: le donne infatti, oltre a sopportare fame, malattie e torture, venivano date come premi agli altri prigionieri. Un’altra ragione per cui le donne lottano è l’autonomia economica. A Tusla, in Romania, le ragazze della carovana hanno incontrato donne che si battono affinché le fabbriche dove lavorano non chiudano. Un altro
partecipato per denunciare l’ingiustizia delle politiche migratorie europee e globali e, in particolar modo, la violenza agita sui corpi delle donne migranti prima, durante e dopo i loro percorsi di fuga. Spazio di confronto anche sulla salute sessuale e riproduttiva presso il Centrodonna L.I.S.A, e sul tema della salute psichiatrica alla Casa Internazionale di via della Lungara, partendo proprio dalla discussione del libro “Praticare la differenza: donne, psichiatria e potere” di Assunta Signorelli, nota psichiatra e allieva di Franco Basaglia. Tre giorni di confronto e dialogo, che danno forza all’attivismo quotidiano e infondono speranza alle donne e alle femministe di tutta Europa. I racconti che ci sono giunti dalle ragazze della Carovana ci fanno dire con convinzione che siamo tante, siamo potenzialmente vicine e siamo dalla parte giusta. b
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LIBRI a cura di Tiziana Bartolini
LA SAFFO DI NOTO, INQUIETA E VISIONARIA ‘Voglio il mio cielo. Lettere di Mariannina Coffa al precettore, ai familiari, agli amici’ consta di due parti. La prima, un notevole saggio critico di Marinella Fiume, la studiosa alla quale si deve la riscoperta della poetessa netina nel contesto politico-culturale, con le travagliate vicende biografiche. La seconda, curata con Biagio Iacono, comprende il corpus delle lettere scritte dalla poetessa al precettore-canonico Corrado Sbano, ai familiari e agli amici, nel corso della sua breve vita. Mariannina Coffa Caruso (1841-1878), chiamata la Saffo o la Capinera di Noto, è una figura risorgimentale, attuale più che mai. La sua vicenda umana, comune a tante borghesi dell’Ottocento, diventa originale attraverso il contatto con filoni di pensiero riconducibili alla Massoneria, al Magnetismo o Mesmerismo animale, al Sonnambulismo, allo Spiritismo, al Raffaellismo, all’Omeopatia. Marinella Fiume, attraverso il ricco Epistolario, restituisce la vita e il pensiero di una donna inquieta, mal mariée, poetessa visionaria, intellettuale antesignana che affida a una protesta metafisica la possibilità di un riscatto e di una realizzazione personale. Mirella Mascellino Marinella Fiume e Biagio Iacono Voglio il mio cielo Lettere di Mariannina Coffa al precettore, ai familiari, agli amici Ed Bonanno, pagg 422, euro 40,00
IL ‘NOI’ DI CHI C’ERA E NON È STATA A GUARDARE Il libro è frutto di un percorso durato quattro anni durante i quali Regina, Maria, Anna, Giovanna, Grazia, Maria Pia, Marina, Rosa, Teresa, Eugenia e Regina partecipano ad una ricerca della LUA - Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Lo scopo della ricerca é indagare “le modalità con cui oggi viene vissuto il passaggio alla seconda età adulta da parte di coloro che erano giovani negli anni Sessanta e Settanta”. Accanto all’obiettivo conoscitivo, Luisa Fressoia - pedagogista e formatrice oltre che collaboratrice scientifica della LUA e curatrice del libro - sottolinea l’intento formativo legato alla singola “presa di coscienza di sé generato dal riflettere e rispecchiarsi nella propria storia di vita” che ha stretta connessione con l’obiettivo etico-politico rispetto all’osservazione della “ricaduta che la propria vita ha nella vita degli altri e delle future generazioni di donne e uomini”. Le dieci autobiografie riguardano donne che vivono o sono arrivate a Milano in quegli anni. Pur nella diversità delle vicende, delle origini e delle scelte che ciascuna ha fatto, vi è un nesso che tiene insieme il tutto. Sono vissuti di una generazione che, certamente, ha incontrato un periodo storico molto particolare in cui ciascuno/a si sentiva parte importante di un fluire e in cui sono stati messi in discussione e abbattuti modelli di riferimento, in cui sono stati infranti tabù che il patriarcato aveva imposto. “La scoperta delle donne” (Teresa, pag 164) e il ruolo del femminismo accomunano le testimonianze raccolte che si leggono alla luce di un “sentire femminile” sempre diverso perché intessuto dei ricordi privati ma al tempo stesso uguale perché calato in un contesto socio-culturale in cui l’intreccio tra pubblico e personale era volutamente una pratica quotidiana. Le lotte, le vacanze, la fabbrica, l’università, la politica, l’amore, la maternità: i molteplici universi abitati dalle autonarranti si intersecano in un andirivieni dal passato al presente senza un ordine prestabilito. È il fluire libero dei pensieri e dei ricordi elaborati e fissati su carta in un tempo della vita in cui si fanno bilanci. E il conto torna, perché le narrazioni sono percorse da una comune soddisfazione: aver conquistato la propria vita, anche pagando dei prezzi. “Fu un’epoca di apertura al mondo, di negazione della famiglia come negazione del limite e della povertà della vita privata… solo nel rapporto con gli altri si poteva costituire la propria identità” scrive Eugenia in “La coda della cometa”, capitolo da cui il libro prende il titolo. Un testo che fluisce come un romanzo ma che regala, come un film, sequenze e istantanee destinate a comporre un affresco corale che ha il valore di documento storico. Luisa Fressoia (a cura di) La coda della cometa Ed ali&no, pagg 207, euro 15,00
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L’ARTE DELLA NATURA Alla Pinacoteca di Brera va in scena l’intreccio tra natura e pittura. È Arte Horto, percorso artistico-botanico di Tiziana Bartolini
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o sfondo, in un angolo, raffigura la raccolta (forse sono ciliegie) e introduce la ‘Fruttivendola’, protagonista, insieme al tripudio di frutti e ortaggi ordinatamente disposti in ceste e piatti, della grande tela di Vincenzo Campi (1536-1591 circa). Ma l’attenzione è richiamata sulle more, frutti del Gelso nero che nel Rinascimento era pianta “connessa alla saggezza, alla pazienza, alla diligenza”. Tra le tante informazioni che l’elegante opuscolo porge al visitatore, si apprende che della Morus nigra L. si apprezzavano “le proprietà medicinali, già riferite da Galeno, che ne impiegava i frutti maturi come purgante, quelli immaturi come astringenti e la corteccia come vermifugo”. Ecco servito ‘l’assaggio’ di Arte Horto, percorso artistico-botanico che propone l’osservazione di alcuni particolari raffigurati in 17 tele, scelte tra i tanti capolavori di pittura ospitati nella Pinacoteca di Brera a Milano. L’intento dell’iniziativa, che si inserisce tra gli eventi di ‘Expo in città’ ed è visitabile fino al 31 ottobre 2015, è quello di sottolineare l’importanza simbolica e culturale del mondo vegetale nei dipinti. La visita continua nell’Orto Botanico adiacente, oppure può iniziare proprio dalla magia dei suoi colori e profumi. È un itinerario affascinante con cui
Aboca, in collaborazione con l’importante struttura museale voluta da Maria Teresa d’Austria, ha voluto richiamare l’attenzione sull’intreccio vitale tra uomo, natura e cultura accanto ai profondi legami con le piante medicinali, per millenni l’unica cura contro le malattie e sollievo dai malanni. Della pera, frutto del Pyrus communis L, conosciamo il sapore e le molteplici forme ma abbiamo dimenticato il suo ruolo terapeutico “utile perfino per eliminare la tossicità dei fungi velenosi”, come spiega un prezioso opuscolo soffermandosi sulla splendida ‘Madonna della Candeletta’ di Carlo Crivelli (1430-1495 circa). Il poetico ‘Fiori nel chiostro’ di Eugenio Gignous (1850-1906) mette in primo piano la Malvarosa, che nel linguaggio dei fiori nell’Ottocento rappresentava la fertilità e l’ambizione femminile ma, prima ancora, secondo Ippocrate era efficacissima “per ogni tipo di ferita e contro i morsi velenosi di serpenti, ragni e scorpioni”. Certo non tutti sanno che la verga consegnata ai pretendenti di Maria fosse di legno di Oleandro; così dice la tradizione, opponendo forse al candore della Madonna l’immagine fosca della sua nota tossicità. E lo spunto per sapere che il Nerium oleander L. è lo stesso ‘ammazzalasino’ delle Metamorfosi di Apuleio lo offre nientemeno che lo ‘Sposalizio della Vergine’ di Raffaello Sanzio (1483-1520). Una mostra nella mostra che regala sorprendenti sguardi, fornisce spunti e informazioni, rinnova miti e leggende in una sapiente e piacevolissima miscellanea che è occasione per apprezzare la ricchezza della trama e dell’ordito con cui è tessuta la nostra cultura. Un insolito viaggio insieme ai maestri della pittura che non delude.
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UNA DOPPIA ‘P’, PER LA PARITà NELLA RESISTENZA PARTIGIANA di Gina Duse
Proposta dell’A.N.P.I. di Chioggia di modificare il nome in Associazione Nazionale Partigiani Partigiane d’Italia
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l tentativo è lodevole. L’A.N.P.I di Chioggia porterà come ordine del giorno al prossimo Congresso Comunale dell’ente (in programma a marzo-aprile 2016) la proposta di raddoppiare la lettera P. della sigla, in modo da leggersi: Associazione Nazionale Partigiani Partigiane d’Italia. Se votata dall’assemblea, l’idea sarà messa in discussione al Congresso Provinciale, per essere infine sottoposta al vaglio del Congresso Nazionale di primavera. La richiesta è figlia dell’entusiasmo con cui la città ha vissuto il 70° anniversario della Liberazione, anniversario che si è caratterizzato per l’attenzione dedicata alla partecipazione femminile alla Resistenza. Due le iniziative centrate sull’argomento: lo studio di un documento donato alla biblioteca comunale “Cristoforo Sabbadino” dalla famiglia di Antonio Ravagnan, sindaco di Chioggia dopo la Liberazione; e l’affissione della targa commemorativa della partigiana Otilla Monti in Pugno sulla facciata della sua abitazione, dove ebbe sede il comando del CLN di Chioggia. Naturalmente, circoli e gruppi femminili che da tempo in città sono impegnati per la valorizzazione del ruolo della donna nella storia e nella società contemporanea non hanno fatto mancare il loro sostegno alla riuscita delle manifestazioni. Il documento in questione è la foto ricordo del SIP di Chioggia, il servizio di informazione e propaganda attivo nel biennio resistenziale. Vi sono rappresentate tutte le forze del CLN chioggiotto, a dimostrazione dello spirito di collaborazione, indispensabile alla riuscita delle varie operazioni, che animò il gruppo. Per valutare l’importanza del SIP locale, si tenga
presente che il territorio chioggiotto, anche se non poi così esteso, è sempre stato considerato un’area strategica per la sua posizione geografica. Subito, quindi, si rese necessario il controllo dei movimenti delle forze nemiche tra laguna, costa, foci di fiumi e il vasto entroterra che confina con le province di Padova e Rovigo. Il gruppo svolse egregiamente tale compito, trasmettendo i dati raccolti ai centri superiori. Pregio della fonte è l’evidenza della presenza femminile. Tra i ritratti dei 57 aderenti sono, infatti, riconoscibili i volti delle 13 donne che operarono nei ruoli di capo-zona, capo-nucleo e agenti delle sette sezioni in cui era stato diviso il territorio tra Venezia e la foce del Po.
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Come è stato sottolineato nella conferenza che ha preceduto la donazione, da qualche tempo le storiche hanno ravvisato la necessità di allargare il concetto di Resistenza, includendovi sia la Resistenza non militare sia una vasta gamma di comportamenti contro il nazifascismo da parte delle donne. Questo ha permesso di infoltire le file della Resistenza, anche di quella chioggiotta. Finora, in città, ricordando l’eccidio della famiglia Baldin da parte dei tedeschi, si è sempre rievocato il nome di Ortensia Boscarato, fucilata insieme ai figli e al marito. Ora, al nome di Ortensia, che rimane per la sua tragica sorte il simbolo delle sofferenze patite dalle donne, se ne possono accostare altri, con l’intento di ricostruire quel tessuto civile che fece da humus alla difesa dei valori di libertà e di uguaglianza. Con l’avvertenza, appunto, che non c’è stata un’unica tipologia di vissuto resistenziale femminile. Dalle informazioni in nostro possesso, capiamo che ogni donna ha contribuito con proprie motivazioni e sensibilità e questo ampio spettro di profili crea le condizioni per un’ampia identificazione. Del SIP, ad esempio, fecero parte Vituglia e Otilla, donne diverse ma entrambe indispensabili. Vituglia Battagin, la più anziana del gruppo, incarna il pre-politico. La memoria di un’altra donna ce la tramanda impegnata a fare la staffetta con addosso il tradizionale costume chioggiotto: zoccoli, gonna lunga, pièta che copre il capo. Un’innocua comare, hanno pensato i tedeschi, ingannati da tanta semplicità, lasciandola andare dove voleva. Viceversa, la già menzionata Otilla interpreta al meglio la consapevolezza della militante. Famiglia rossa alle spalle, studi superiori interrotti a forza dai fascisti nella sua terra d’origine, la Romagna, una volta a Chioggia, la Monti mostra di avere la stoffa della leader. “La sera del 19 aprile 1945- ha raccontato un partigiano - mi mandò a chiamare Otilla Monti. Mi disse che dovevo recarmi presso l’intendenza di finanza, prendere tutte le armi e le munizioni. Le chiesi un ordine scritto del Comitato di liberazione. Mi scrisse un biglietto”. La targa alla memoria ha avallato un carisma riconosciuto da uomini e donne, anche di diversa appartenenza politica. Insomma, i tempi sono maturi perché il suggerimento dell’A.N.P.I. di Chioggia possa essere accolto. Siamo fiduciose. b
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DALLA NASCONO I
Il passato, soprattutto per chi non si è sottratto all’appuntamento con la Storia, non passa mai del tutto. E può capitare che, tornando, sveli pezzi di verità rimaste nell’ombra per le contingenze del momento. Le sofferenze che il professor Stefano Rovati, il protagonista dell’intenso romanzo di Maria Pia Trevisan, ha vissuto per quindici mesi nel campo di sterminio nazista di Ebensee non hanno cancellato la sua capacità di amare e la convinzione che bisogna trovare comunque il modo di esprimere il proprio senso civico. Stefano per anni porta un messaggio di pace testimoniando ai giovani la sua esperienza di sopravvissuto al lager, sempre intimamente accompagnato dal senso di colpa verso i compagni di lotta morti per conquistare la libertà e la democrazia. È una sottile sofferenza che non lo ha mai abbandonato, nonostante l’affetto che lo circonda nella sua famiglia. “Per troppo tempo… si era raccontato, e aveva raccontato, una storia di sé molto parziale. Una storia vera, certo, vissuta in prima persona, ma il racconto molto spesso si limitava all’esposizione dei fatti memorizzati. Difficilmente varcava la soglia dei suoi sentimenti…”. Dopo cinquanta anni un incontro casuale in occasione di uno dei tanti ‘Viaggi della memoria’ lo riporta sulle tracce della giovane partigiana Rosalena, all’epoca sua fidanzata, che aveva creduto morta durante la Resistenza. L’intrigante costruzione narrativa crea suspence e porge via via nuove e inaspettate ipotesi sui ruoli che i protagonisti sembravano aver avuto all’epoca dei fatti. A partire Frank Gabel, l’ufficiale della Wehrmacht che gioca un ruolo centrale nella vicenda. Come ‘Le farfalle di Ebensee’, titolo del libro (ed la Memoria del mondo, pagg119, euro 12,00), la memoria si libra, finalmente non più fardello. La sospirata e personale riconciliazione con il passato consente a quei ‘giovani di ieri’ di godere pienamente ‘dell’eredità dell’amore’ - sottotitolo del libro - che loro stessi avevano custodito per tanto tempo. T. B.
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1. Gillian Wearing, Autoritratto come mia madre Jean Gregory, 2003 © Gillian Wearing. Courtesy Maureen Paley, London 2. Pipilotti Rist, Madre, figlio e il santo giardino milanese, 2002/2015 Courtesy Pipilotti Rist; Hauser & Wirth; Luhring Augustine, New York 3. Ketty La Rocca, Vergine, 1964-1965 Estate Ketty La Rocca by Michelangelo Vasta 4. Catherine Opie, Autoritratto/ Allattando, 2004 Collezione privata. Courtesy Studio Guenzani, Milano 5. Nari Ward, Grazia Meravigliosa, 1993 Foto Marco De Scalzi 6. Marlene Dumas, Immagine gravida, 1988-1990 Collezione Connie e Jack Tilton. Courtesy Marlene Dumas e David Zwirner, New York/Londra 7. Anna Maria Maiolino, Per un filo, 1976 Collezione Finzi, Bologna. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano 8. Martha Rosler, Semiotica della cucina, 1975 Courtesy Electronic Arts Intermix (EAI), New York
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MADRI E MATERNITà NEL NOVECENTO di Flavia Matitti
La Grande Madre, megamostra a Milano, è visitabile fino al 15 novembre a Palazzo Reale 2.
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Il colonnello Paul Tibbets aveva dato il nome di sua madre, Enola Gay, al B-29 che la mattina del 6 agosto 1945 sganciò su Hiroshima la bomba atomica (detta Little Boy). Certo, associare la propria madre a una simile ecatombe appare oggi un’orribile bravata, tuttavia la si può considerare una scelta emblematica, rivelatrice del fascino ambiguo esercitato dalla maternità sull’immaginario maschile e forse anche su quello femminile, se è vero che Enola Gay ne fu orgogliosa. L’episodio, per il suo lato oscuro e inquietante, può servire a introdurre La Grande Madre, megamostra straordinaria e complessa, anticonvenzionale, psicanalitica e politica, ironica e feroce, promossa dal Comune di Milano e ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi. La rassegna, tra i principali eventi dell’autunno di Expo in città, è allestita fino al 15 novembre 2015 negli spazi di Palazzo Reale dove, al primo piano, si snoda lungo 29 sale con oltre 400 opere tra dipinti, sculture, installazioni, video e fotografie di artiste e artisti, dalla fine dell’Ottocento a oggi (il bel catalogo è edito da Skira). Il curatore Massimiliano Gioni, 42enne direttore artistico della Fondazione Trussardi e del New Museum di New York (e nel 2013 della Biennale di Venezia) spiega che l’esposizione non vuol essere una critica alla maternità, ma al modo in cui la società patriarcale ha visto la maternità. Collegato via skype da New York il giorno della conferenza stampa, Gioni ha citato lo slogan degli anni ’70 “il personale è politico” per rivelare di essere ap-
pena diventato padre per la prima volta. Se suo figlio fosse nato prima, ha ammesso, forse la mostra sarebbe stata più sdolcinata, ma dopo aver assistito al parto è ancora più convinto che le donne siano il sesso forte. La mostra, come in un caleidoscopio, accavalla e intreccia temi diversi. Esplora l’archetipo della madre (il titolo La Grande Madre è tratto dal libro dello psicologo Erich Neumann, discepolo di Jung) e indaga il rapporto tra le donne e il potere (Gioni cita, tra gli altri, i testi di Simone de Beauvoir, Adrienne Rich, Carla Lonzi). Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la rassegna è pur sempre curata da un uomo, ma nell’elaborare il progetto Gioni si è circondato di donne, a cominciare da Beatrice Trussardi, che oltre a presiedere l’omonima Fondazione ha svolto un ruolo determinante nell’individuazione del tema. Va poi ricordato che nel 1980 proprio Palazzo Reale ospitò L’altra metà dell’avanguardia, curata da Lea Vergine, una mostra storica perché per la prima volta riscopriva il ruolo svolto dalle artiste all’interno dei
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movimenti d’avanguardia. La Grande Madre deve molto a quella mostra, ricordata in catalogo con un’interessante intervista dello stesso Gioni a Lea Vergine. Lungo il percorso, ordinato cronologicamente e per temi, le suggestioni e gli spunti di riflessione sono molteplici. Troviamo, per esempio, una foto che immortala un anziano dottor Freud accanto alla vetusta mamma (1925); Virginia Woolf posa per “Vogue” (1926) con i vestiti della madre, perduta in giovane età; Julia Warhola, mamma di Andy Warhol, è ripresa dal figlio mentre cucina; l’inglese Gillian Wearing si fotografa nei panni di sua madre, con indosso una maschera di cera modellata sul viso di lei (è il manifesto della mostra). In generale le avanguardie artistiche giudicano il soggetto della maternità troppo legato alla tradizione, eppure alcuni capolavori di Boccioni ritraggono proprio la mamma. E se la futurista Marisa Mori dipinge L’ebbrezza fisica della maternità (1936), la surrealista Meret Oppenheim raffigura in un delicato acquerello una donna che ha in braccio un bimbo appena sgozzato. Il titolo è Immagine votiva (1931) e per l’artista rappresentava una specie di talismano per scongiurare gravidanze non volute. Un’ampia sezione è dedicata alle battaglie femministe raccontate attraverso opere, filmati, documenti e manifesti originali; in una vetrina è perfino esposta una confezione
di Anovlar, la prima pillola anticoncezionale commercializzata in Europa nel 1961. Un’altra sezione è dedicata alla guerra, dalla madrepatria che divora i propri figli, al film La ciociara (1960), fino alle madri coraggio di Plaza De Mayo. Particolarmente toccante appare, circa a metà percorso, la sala che ospita l’installazione del giamaicano Nari Ward, Grazia meravigliosa (1993), realizzata con 280 passeggini raccolti dall’artista per le strade e che parla di infanzia, ma anche di povertà. Il titolo deriva dal gospel che si sente in sottofondo, cantato da Mahalia Jackson. La mostra prosegue analizzando desideri e paure legate alla maternità, con le opere di Louise Bourgeois, Carol Rama, Nathalie Djurberg, Marlene Dumas, fino all’immaginario tecnologico del video di Pipilotti Rist. Due iniziative accompagnano la mostra. Il progetto digitale sui social media My Mommy is Beautiful di Yoko Ono e la performance di Roman Ondák. Ogni giorno una mamma insegnerà al figlio di un anno a camminare negli spazi dell’esposizione, davvero un bel modo per affacciarsi alla vita e all’arte. b
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L’ALTRA METÀ DELLE TARGHE URBANE
per la Casa delle donne di Milano. Arricchito e corredato da varianti e alternative di tracciato verrà riproposto al Convegno lombardo di Toponomastica femminile in programma per il 16 ottobre prossimo a Milano, Palazzo Reale.
VIA BRERA 6
Toponomastica femminile a Milano a cura di Lorenza Minoli*
Un tour urbano alla scoperta della storia di Alessandro Manzoni e della sua famiglia
La facciata tardo neoclassica dell’edificio situato in via Brera 6, a Milano, realizzata nella prima metà dell’Ottocento su un preesistente palazzo settecentesco, reca sul lato destro una targa che ricorda Cesare Beccaria.
TARGA CESARE BECCARIA
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arghe, iscrizioni, lapidi murarie nella città di Milano non appaiono molto numerose. Forse in tutto il nostro paese non è una tradizione così radicata e diffusa come in altri ambiti europei. Penso ad esempio all’Inghilterra e in particolare a Londra dove, passeggiando per le vie della woolfiana Bloomsbury, notai che la candida sequenza delle facciate vittoriane era animata dai racconti di piccole targhe a ricordo di qualcuno o di qualcosa. Quasi superfluo a dirsi è che il numero delle dediche a soggetti femminili in città è ancora più esiguo. Lo studio di questi rari esemplari che presuppone una precedente ricerca da Sherlock Holmes in gonnella per individuarli, appare comunque interessante per il legame che si evidenzia tra i personaggi e i luoghi. Connessione che non è nelle intestazioni viarie che per lo più sono attribuite, o meglio “disseminate” in città, a prescindere dal luogo fisico in cui si è svolta la vita oppure l’opera dell’intestatario. Occasione intrigante e spunto per ampliare il patrimonio delle conoscenze nell’ambito del rapporto luogo/biografia è la focalizzazione proprio sulle targhe maschili, davanti alle quali interrogarsi sulle vicissitudini esistenziali di chi accanto al personaggio celebrato è vissuto condividendone, oltre alla vita e agli affetti, i medesimi luoghi, edifici e interni domestici. Spazi che in molti casi questi “angeli” senza storia hanno contribuito personalmente a governare/rigovernare/manutenere. Qui di seguito riporto un’esemplificazione tratta da alcune tappe del tour urbano “Itinerari sulle tracce delle donne a Milano”, da me progettato, realizzato e guidato tra maggio e giugno 2015
In questo palazzo nacque e certamente trascorse l’infanzia e la prima giovinezza Giulia Beccaria (1762 - 1841), futura madre di Alessandro Manzoni.
GIULIA BECCARIA
Fu la primogenita dell’illustre giurista ed economista Cesare Beccaria (1738-94), uno dei massimi rappresentanti dell’illuminismo nazionale, autore tra l’altro del celebre trattato Dei delitti e delle pene (1764). Frutto del matrimonio d’amore del Beccaria con una donna di condizione sociale inferiore, la bella e rossa Teresa de Blasio (o Blasco) della quale si era innamorato, cosa quasi riprovevole all’epoca. Giulia trascorse l’infanzia nella residenza paterna fino alla prematura morte della madre (1774). Teresa Blasioforse non si era molto occupata della piccola né della figlia secondogenita, più attratta dalle occupazioni mondane e dagli amanti. Pare che il marito, per gelosia non ingiustificata, lasciasse in tutta fretta Parigi dove si era recato nel 1766 con Pietro Verri, dopo la tradu-
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zione di Dei delitti e delle pene, ed era stato accolto con grande calore e grandissimo interesse dagli ambienti intellettuali. Benché innamoratissimo della prima moglie, dopo la sua morte, Beccaria non lasciò passare più di tre mesi per convolare a nuove nozze, sempre per amore! All’arrivo nell’abitazione di via Brera della seconda moglie, Anna dei conti Barnaba Barbò, la dodicenne Giulia fu relegata nel collegio annesso al convento delle suore di San Paolo, dove rimase in pratica abbandonata per sei anni. Soltanto il fedele amico di famiglia Pietro Verri si recava a trovarla. La giovane ritornò nel palazzo di via Brera solo a diciotto anni. Era bella e soprattutto molto desiderosa di vivere. Anche se non molto colta, aveva però una mente aperta, vivace e ricettiva e un carattere molto forte. Frequentando il salotto dei Verri si innamorò del più giovane dei fratelli, Giovanni, un trentaseienne che aveva già maturato molte esperienze che lo rendevano particolarmente attraente agli occhi di Giulia. Iniziò una relazione prestamente troncata dal padre, che temeva per il buon nome della famiglia e dall’altra parte dal fratello maggiore che invece temeva, nel caso di un’unione legale, la dispersione del patrimonio familiare. In breve tempo si combinò un matrimonio conveniente al padre, che voleva risparmiare sulla dote e accettato dalla figlia, desiderosa di lasciare al più presto la casa paterna, non avendo un buon rapporto con il padre. Il conte Pietro Manzoni, austero vedovo, abbiente, di età già matura che abitava in via San Damiano fu visto come marito ideale. Le nozze furono celebrate nel 1782. Le impressioni di Giulia al suo primo ingresso nel palazzetto di via S. Damiano n.16 non furono per nulla positive. Lo trovò poco accogliente, anzi tetro. Nel 1785 venne alla luce il piccolo/grande Alessandro, riconosciuto dal padre Pietro nonostante le dicerie e i pettegolezzi che ne mettevano in dubbio la paternità biologica. Una targa apposta sul lato destro della facciata ricorda che proprio nel palazzo di via San Damiano n. 16 nacque Alessandro Manzoni.
TARGA NASCITA ALESSANDRO MANZONI
Come le premesse potevano già fare supporre, l’unione non fu per nulla felice. Giulia, precorrendo i tempi, chiese la separazione legale, che ottenne nel 1792 a condizione di lasciare il figlio al padre.
GIULIA BECCARIA E ALESSANDRO MANZONI
Nel frattempo aveva conosciuto il vero amore della sua vita, il conte Carlo Imbonati, che aveva tutte le qualità per farsi amare. Bello, molto ricco, di animo generoso e innamorato. Con lui lasciò Milano e visse nella capitale francese il periodo più felice della sua vita, frequentando i salotti intellettuali di tradizione illuministica ed enciclopedistica, fino all’improvvisa morte di lui (1805). Poco prima del tragico evento, il giovane Alessandro, allora ventenne, aveva raggiunto la madre accogliendone il ripetuto invito. Fu una rivelazione per entrambi. Tra madre e figlio si ritrovò una comunanza di idee e di sentimenti che fece sì che Giulia da quel momento divenisse il perno della vita familiare dello scrittore, stimolandolo nel lavoro, curandone le amicizie e gli interessi anche dopo il primo e il secondo matrimonio. Con la prima moglie, Enrichetta Blondel, che lei stessa aveva contribuito a scegliere come compagna per la vita del figlio, ebbe un ottimo rapporto. Ne accettò i fervori religiosi, arrivando a condividere la scelta della conversione al cattolicesimo. Seguì da vicino i nipoti, occupandosi della loro educazione, specialmente al momento della morte della loro giovane madre. Non altrettanto felice fu la convivenza con la seconda moglie Teresa Borri vedova Stampa, che mal sopportava le ingerenze della suocera nella vita familiare. Ciò amareggiò forse un poco gli ultimi anni della sua esistenza che, benché a momenti travagliata e difficile al punto da richiedere scelte coraggiose e controcorrente, fu tuttavia o forse proprio per questo, ricca di esperienze e di affetti. Fu sepolta nell’amata Brusuglio (Mi). La famiglia Manzoni si trasferì nel palazzo sito al n. 1 di piazza Belgioioso a Milano nel 1814 e vi rimase fino alla fine della sua esistenza.
PIAZZA BELGIOIOSO
Il grande scrittore era rientrato a Milano dal quinquennale soggiorno parigino, che come si è detto lo aveva riavvicinato intellettualmente e affettivamente alla madre Giulia Beccaria, da allora sempre presente nella vita e nelle dimore dello scrittore. Anche dopo il primo matrimonio con la giovane Enrichetta Blondel e il secondo con Teresa Borri vedova Stampa. Al momento dell’acquisto, il palazzetto si presentava in uno stato abbastanza fatiscente, per cui il proprietario dovette provvedere a un primo restauro. L’aspetto attuale però si deve a un intervento successivo (1864), affidato all’architetto A. Boni, che realiz-
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zò la versione rinascimentale lombarda, secondo i desideri del committente. Di volume apparentemente modesto, se rapportata alle due imponenti strutture neoclassiche di palazzo Belgioioso e di palazzo Besana che si affacciano sulla medesima piazza, ma compatta e unitaria, ha fronte simmetrica imperniata sull’asse portale d’ingresso/soprastante balcone. È arricchita dall’uso del cotto per bordare le aperture, segnalando ulteriormente quelle del piano nobile con un motivo aggiuntivo soprafinestra. In cotto sono anche le fasce marcapiano di cui quella intermedia, con effetto quasi trompe-l’oeil, richiama l’idea di una balconata continua a livello del piano nobile, mentre quella terminale sottogronda è decorata con motivi a grottesche. L’intonaco è trattato a graffito. La pianta è articolata intorno ad un cortile porticato, sul quale si affacciava lo studio dello scrittore, più vicino dunque agli accessi dall’esterno. Gli ambienti per la famiglia erano invece più defilati, al piano superiore. Il palazzo attualmente è sede della Società storica lombarda e del Centro nazionale di studi manzoniani, cui si deve la conservazione di parte degli arredi originari. È normalmente visitabile, ma al momento è sottoposto a un intervento di restauro. Enrichetta Blondel (1791-1833) nacque da una famiglia ginevrina di industriali tessili, di religione calvinista. Il padre trasferitosi in Italia a Casirate (BG) fondò un’industria tessile e lì nacque Enrichetta, che ebbe altri sette fratelli. Appena sedicenne, conobbe Alessandro Manzoni, che rimase subito colpito e conquistato dai pregi del suo carattere. “... un carattere molto dolce, una notevole rettitudine morale e un grande attaccamento ai genitori... Penserete che ho corso un po’ troppo, ma dopo averla veramente conosciuta, ogni rinvio mi è sembrato inutile” confida in un carteggio poco prima di decidere di sposarla. Il matrimonio venne celebrato a Milano nel 1808 e poco dopo i giovani sposi ripresero il cammino per Parigi. Nella capitale francese, dove ormai Alessandro era di casa, oltre ai salotti intellettuali di tradizione illuministica ed enciclopedistica, già frequentati con la madre, i giovani sposi presero confidenza con ambienti giansenisti. In quest’ambito Enrichetta, molto interessata e sensibile alla questione religiosa, maturò la riflessione critica sulla propria religione arrivando a decidere l’abiura del calvinismo e la conversione al cattolicesimo, coinvolgendo anche Alessandro e persino la suocera Giulia.
ENRICHETTA BLONDEL
Tornata a Milano la famiglia prese alloggio dapprima in via San Vito al Carrobbio, poi nell’avito palazzo Beccaria in via Brera e infine nel Palazzo di piazza Belgioioso, angolo via Morone. La giovane sposa continuò a osservare, anche secon grande fatica e sacrificio personali, i rigorosi canoni dell’abate fran-
cese nonostante la sua vita fosse già di per sé faticosa, come era tipico delle donne dell’epoca ma forse per il suo organismo fragile e minato dalla tisi ancora più a rischio. Ebbe, infatti, dodici gravidanze, secondo alcuni storici o quindici, secondo altri e dieci parti. Sopravvissero inizialmente nove figli ma due mancarono prematuramente negli anni successivi. Intanto, nel 1833, dopo anni di malattia e semicecità, Enrichetta si spegneva lasciandoli orfani. A lei il marito addolorato, e per alcuni anni inconsolabile, dedicò l’Adelchi. Fu sepolta a Brusuglio (Mi). Pochi anni dopo la scomparsa dell’amatissima prima moglie, Enrichetta Blondel, mai dimenticata, lo scrittore conobbe Teresa Borrivedova Stampa, madre di un figlio, chesposò nel 1837. Teresa condivise con il marito l’interesse per la ricerca linguistica, collaborando con lui alla toscanizzazione della lingua italiana. Tuttavia, anche se molto attenta alle esigenze e ai gusti del marito, per cui pare nutrisse una quasi venerazione, e del figlio che le fu affezionatissimo, non seppe essere altrettanto accogliente con i figli della prima moglie e quindi assumereil ruolo di nuova madre di cui avevano ancora bisogno. Perciò essicercarono di abbandonare la casa paterna al più presto. Due figliescelsero di sposarsi ancora molto giovani. Il grande pittore romantico Francesco Hayez, amico di famiglia, ne fermò l’immaginein due diversi momenti della vita:giovane vedova con il figlio, la madre e il fratello e in seguito più anziana e austera nell’abbigliamento, nella medesima posizione del ritratto del marito.
TERESA BORRI
Ancora peggiore fu il rapporto con la ormai attempata suocera Giulia Beccaria, che trascorse gli ultimi anni molto amareggiata per questo motivo. A sua volta Teresa, diventando anziana, si ripiegò sempre più su se stessa e le sue malattie. Anche per questo i coniugi fecero frequenti e lunghi soggiorni nella villa di Lesa sul lago Maggiore, unico luogo in grado di ritemprarla per qualche periodo. Per Alessandro però il vero rifugio era nell’altra villa, che la madre aveva ereditato dal conte Carlo Imbonati, a Brusuglio (Mi). b
*LORENZA MINOLI, architetta progettista, studiosa del rapporto architettura - storia delle donne dagli anni ‘70. Ha pubblicato tra l’altro “Margarete SchutteLihotzky. Dalla cucina alla città” (F. Angeli, Milano 1999) sulla vita e le opere della grande architetta austriaca, madre dell’architettura moderna, inventrice della cucina razionale moderna.
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A PISA IL GIARDINO INTITOLATO ALL’8 MARZO Le infinite vie di Toponomastica femminile
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utti i giorni percorriamo strade, piazze, ponti e giardini spesso di corsa, sovrappensiero senza fare troppo caso alla segnaletica, senza notare i nomi di quei posti. Ora invece siamo tutte invitate a fare più attenzione ai nomi di quei luoghi, a interessarci cioè anche alla toponomastica delle nostre città, dei nostri paesi. In Svezia le donne si sono date, tra i moltissimi traguardi da raggiungere per l’eliminazione della discriminazione in ogni ambito della vita civile, anche quello di arrivare in breve ad una parità numerica di luoghi intitolati a uomini e a donne. E noi? A più di quaranta anni dall’inizio del movimento femminista è quasi imbarazzante descrive la situazione. Però non siamo ferme. NOIDONNE ha già pubblicato un bell’articolo e anche su internet troviamo molte informazioni sotto la voce Toponomastica femminile. In molte città le donne chiedo-
no, propongono e qualche volta ottengono quello che chiedono, come è accaduto a Pisa. La Casa della Donna di Pisa da tempo chiedeva al Comune che venisse intitolata una strada alla giornata dell’8 Marzo. Ci sembrava che questa data potesse rappresentare tutte noi più che il nome di questa o quella donna, seppur famosa. Ma le nuove vie sorgono in periferia, tra file di palazzoni anonimi. Così abbiamo chiesto e ottenuto che un bel giardino cittadino fosse intitolato giardino 8 marzo. Ha fatto da tramite tra la Casa della Donna e il Comune in una pratica lunga ed intricata l’assessora alle pari opportunità Maria Luisa Chiofalo. E finalmente l’8 marzo 2015, presenti donne e autorità cittadine, il giardino è stato intitolato a questa importante giornata. Nell’occasione è stata piantata una giovane mimosa. Matilde Baroni
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A tutto schermo Alla 72ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia consegnata a Valeria Golino la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile
PER AMORE DEL CINEMA ITALIANO di Elisabetta Colla
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nche quest’anno il Festival di Venezia, all’interno di una ricca ed interessante proposta cinematografica, non ha potuto mettere d’accordo tutti soprattutto quanto all’assegnazione dei premi: del resto è fisiologico, accade in tutti i Festival, o quasi, di restare spiazzati dopo promettenti pronostici o rumors rispetto alle insindacabili scelte delle giurie. Ma sulla Coppa Volpi - il riconoscimento lagunare alla miglior interpretazione femminile - non ci sono state polemiche né dubbi, se l’è aggiudicata a pieno titolo, e per la seconda volta, la nostra brava Valeria Golino, a quasi trent’anni dalla vittoria ottenuta con Storia d’amore nel 1986, oggi come interprete principale del film in concorso Per Amor Vostro, opera indipendente, complessa e interessante, diretta da Giuseppe Gaudino, che sperimenta diversi stili narrativi ed estetici. Valeria, la bellissima ed irrequieta ragazza di un tempo, sguardo malinconico, camminata indolente e voce roca, entrata nel cinema quasi per caso, oggi, alle soglie dei 50 anni, si conferma attrice e donna completa, apprezzata a livello internazionale: nel film di Gaudino porta sullo schermo il difficile personaggio di Anna, madre di tre figli di cui uno
sordomuto, ‘per amore dei quali’, per quieto vivere e per non far loro mancare nulla, finge da sempre di non sapere che il marito, violento e cinico, è un pericoloso usuraio pesantemente coinvolto con la camorra. In una Napoli dipinta in bianco e nero, che si accende di colore solo nel ricordo del passato, sospesa tra superstizioni e miseria, dove disoccupati e sfrattati fanno parte della vita quotidiana, Annarella - che da piccola, per salvare il fratello da una pesante condanna, si è dovuta assumere la colpa di un furto ed ha trascorso quattro anni in riformatorio si dimena fra incombenze familiari (compresi gli anziani genitori, di cui nessuno si occupa), il nuovo lavoro da suggeritore alla televisione (dove un fascinoso ma losco attore inizia a
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Il Cinema attraverso i Grandi Festival: Locarno e Venezia a Roma
La collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma ha dato nuovo slancio alla manifestazione
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razie alla rassegna Il Cinema attraverso i Grandi Festival: i film di Venezia e Locarno a Roma, che ha avuto luogo nella Capitale - organizzata da Anec Lazio, con il contributo dell’Assessorato Cultura e Sport di Roma Capitale, della Direzione Generale per il Cinema del MIBACT, in collaborazione con Fondazione Cinema per Roma e col sostegno di Bnl Gruppo Paribas - coinvolgendo 16 sale con oltre 70 proiezioni, è stato possibile vedere quasi in contemporanea, nel caso della Mostra di Venezia, e con circa un mese di distanza per Locarno (che si svolge in pieno agosto) le opere più importanti dei due Festival. Per quanto riguarda Locarno da segnalare un film iraniano, dal titolo Paradise, del regista Sina Ataeian Dena, vincitore del Premio Giuria Ecumenica, e dedicato alla condizione femminile (e non solo) in Iran, che racconta le peripezie di una giovane insegnante alle prese con i divieti e le vessazioni esercitati dal regime (non riesce ad ottenere il trasferimento perché, all’esame obbligatorio per cambiare scuola, non risponde correttamente a tutte le domande di dottrina, come sapere quali minuscole parti del corpo è consentito tenere scoperte in classe, inoltre viene sospettata di non portare il velo a casa e non essendo ancora sposata a 25 anni, le vengono fatte proposte di matrimonio in cambio della lettera di trasferimento) e che lei, a sua volta, è costretta ad esercitare sulle sue alunne per ogni inezia, bambine che subiscono un vero e proprio indottrinamento quotidiano, finché due di esse non vengono rapite (probabilmente per matrimoni precoci, poiché è lecito sposare ‘donne’ dall’età di sei mesi) e non fanno più ritorno. Dal panorama internazionale al femminile della ricca selezione della Mostra di Venezia, sono stati presentati all’interno della manifestazione romana, film come Janis, della statunitense Amy Berg, poetico docu-film sulla grande artista del blues-rock anni Sessanta Janis Joplin (Fuori Concorso); The Danish Girl, di Tom Hooper, storia di Lili Elbeuna delle prime persone (tra fine Ottocento e primi Novecento) ad identificarsi come transessuale e la prima ad essersi sottoposta ad un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale (Concorso); A peine j’ouvre les yeux, opera prima (Premio del Pubblico e Premio Label Europa Cinemas) della regista tunisina Leyla Bouzid, su una giovane cantante che, agli albori della Primavera araba, si ribella al regime (Giornate degli Autori). Fra le opere della Settimana Internazionale della Critica (SIC) molto interessanti Motherland, film turco-greco della giovane regista SenemTüzen (1980) ritratto di due donne, madre e figlia, sullo sfondo della Turchia di oggi, sospesa tra modernità e tradizione, e Tanna, degli australiani Martin Butler e Bentley Dean, sulla tribù Yakel dell’isola di Tanna, dove non esiste il matrimonio d’amore ma le regole impongono piuttosto unioni di convenienza che risolvono conflitti con le comunità vicine.
corteggiarla) ed i suoi demoni ed incubi, che la assalgono nei momenti più impensati: finestre spalancate su uragani di morte, sotterranei della mente che cercano spazio fra sogno e realtà, paure sopite ed inconsce: da sempre lei si sente una cosa ’e niente, una nullità, incapace di reagire e di mettere alla prova il suo valore, raccontando così la storia di tante donne come lei, nel nostro ed in altri Paesi, costrette a chiudersi gli occhi e la bocca fino ad annullarsi completamente. Questi momenti, che danno al film ed alla protagonista una profonda irrequietezza, sensualità ed originalità, sono resi con effetti speciali e giochi virtuali. Ben concepite e girate anche le scene di vita fra Anna ed i suoi figli, quasi tutte in-
torno alla tavola, fra allegria, litigi e legami autentici. La camera a mano indaga il volto, le emozioni ed il cambiamento che si produrrà in Anna/Valeria, grazie al recupero di un po’ di autostima e della parte migliore di sé, alla forza dell’autonomia ed alla denuncia del coniuge malavitoso: dall’orlo del precipizio alla rinascita. Fra le altre opere italiane presentate a Venezia, da segnalare Sangue del mio sangue, di Marco Bellocchio, pellicola a metà fra passato e presente ispirata alla storia di suor Benedetta, una monaca murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio perché accusata di aver sedotto un uomo, con Alba Rohrwacher; Arianna di Carlo Lavagna, presentato alle Giornate degli Autori-Venice Days sul tema dell’identità di genere, del potere e della presunta anormalità, con Ondina Quadri (che si è aggiudicata il Premio Miglior Attrice Emergente) e Valentina Carnelutti; Non essere cattivo, del compianto Claudio Caligari (evento speciale Fuori Concorso), tragico cantore della strada e della periferia già noto per Amore tossico. b
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Life coaching [ Decima puntata ]
di Catia Iori
IL TEMPO DEL DESIDERIO
È
nella pazienza e nel tempo, a volte immobile, che si costruisce il desiderio. Perché non si può vivere senza “qualcosa da aspettare”. Nella mia infanzia che ricordo sempre con infinita riconoscenza, i desideri erano dilazionati, tutti o quasi. Un giocattolo, l’inizio della scuola, la festa di compleanno, un viaggio tanto fantasticato: nessun desiderio o quasi era destinato a una risposta immediata. Poi si doveva a volte sopportare anche il peso del rinvio per il tempo inclemente o per un imprevisto dell’ultima ora. Ricordo per me l’attesa della scuola, dell’arrivo dei libri di testo, con l’indimenticabile odore di carta appena stampata. La scuola, appunto, rappresentava quel mondo di relazioni assai invitante per la bambina piuttosto solitaria che ero io e poi, stanca di tutte quelle incombenze quotidiane, i compiti, i ripassi, le letture volontarie, c’era l’attesa agognata che la scuola finisse di nuovo, perché anche il tempo della vacanza (il mare, la partenza familiare, le lunghe giornate assolate libere da obblighi scolastici) era separato da quello dell’attività in maniera ben più definita di quanto non accada adesso: io non facevo settimane bianche, o week end aggiuntivi e le vacanze di Natale o di Pasqua erano
anche una grande fatica di compiti da fare, lezioni da imparare, disegni particolari per celebrare la festa. Ricordo che per tutta la mia carriera scolastica ho sempre studiato a menadito i tempi verbali e addirittura alle elementari si organizzavano gare tra le classi sulla velocità di risposta alle sollecitazioni di un maestro competitivo ed esigente. A scuola studiavamo il presente, il passato prossimo, il passato remoto, il futuro, il futuro anteriore. Forse i bambini di oggi li studiano ancora, questo non lo so, ma nel linguaggio quotidiano sono rimasti il presente e il passato prossimo: tutti gli altri sono stati risucchiati in un vortice di appiattimento. Studiare i tempi verbali aveva senso perché il tempo di tutti aveva allora sue partizioni rigide, indiscutibili. La sirena di una vicina fabbrica di confezioni ci diceva che era mezzogiorno o le diciotto, la domenica, il campanile della chiesa rintoccava ogni ora e con un solo piccolo suono le mezzore. L’orologio vero, quello importante, da far vedere agli amici era il regalo più ambito della prima comunione, a sette otto anni, segno di un passaggio d’età ancora fortemente ritualizzato perché netto e definito. Oggi anche i bambini hanno uno Swatch di plastica e addirittura sbirciano l’ora sul telefonino passato dai grandi a loro quasi inconsapevolmente. La pazienza del desiderio è stata sostituita dal tutto e subito, dall’intollerabilità dell’attesa, dall’insofferenza per quello che consideriamo tempo vuoto e tempo sprecato. Siamo tutti nella trappola del tempo che è denaro e ci vuole molta saggezza anche solo per imporsi o immaginare l’otium, il tempo davvero liberato in cui si sedimentano le emozioni, il tempo in cui la mente gira a vuoto ma solo apparentemente, il tempo in cui i desideri prendono la forma di progetto e i progetti prendono corpo. Ci forziamo a rinascere ogni giorno, quasi privi come siamo di memoria storica, e la fatica di essere eternamente giovani cancella la possibilità dell’attesa, della pazienza, di un progetto che contempli anche la fine e non solo un fine. L’attesa oggi è diventata attesa del subito. Il desiderio non ha modo di costruirsi, di diventare progetto. Il tempo morto quando si guida, in fila alla posta, appesi al corrimano dell’autobus, è percepito come qualcosa di intollerabile. Ma intollerabile, così, diventa il pensiero, perché è proprio nei tempi cosiddetti morti che si fanno le associazioni di idee, che la mente vagola in libertà, insomma che si formano le idee nuove. C’è stato un periodo in cui i tempi morti erano scomparsi dalla mia vita. Facevo di tutto, dicevo sì ad ogni proposta ed era vietato fermarmi. Mai mi sono sentita cosi alienata e lontana dal mio centro. Ero piena di cose da fare, non perdevo un minuto e mi sentivo attiva e agitata. Il risultato è stato che la testa, il pensiero, l’immaginazione non mi hanno mai funzionato così poco come in quella fase. Sono convinta che anche quest’inzeppamento contribuisca a rendere il fare politica quella morta gora che è sotto gli occhi di tutti: un eterno presente cui la progettualità di lungo respiro si trova inevitabilmente sacrificata. Quasi inavvicinabile. E impossibile da attuare. Non esiste prospettiva. Non esiste futuro da immaginare. Figuriamoci da sognare.
Ottobre 2015
SPIGOLANDO tra terra, tavola e tradizioni di Paola Ortensi
DALLE OTTOBRATE ROMANE ALL’INDIAN SUMMER Roma e l’America dei nativi, luoghi lontani per cultura, lingua e distanza chilometrica eppure incredibilmente legati da un filo verde forte come quello della terra e dell’agricoltura. Infatti eventi come le ottobrate e l’Indian Summer, in autunno, trovano le radici nella fine della vendemmia e nel raccolto presumibilmente di cereali. Nella Roma pontificia, in un tempo in cui - da Testaccio a Ponte Milvio, da San Giovanni a Monte Mario e Monteverde - orti e
casa firmato da quel chiasso e fermento che il nettare di Bacco garantiva a coloro che ne avevano fatto abbondante uso. Dei quartieri citati, tipici della festa, sicuramente Testaccio - e più precisamente Monte di Testaccio, discarica degli antichi romani dove i cocci di anfore formano una vera collina - costituiva il punto più significativo. Il montarozzo dei cocci, appunto, veniva usato per scavarvi delle grotte e conservarvi, al fresco, botti e damigiane di vino. Le feste, che qualche ricercatore collega a un ricordo degli antichi baccanali, sono proseguite fine alla fine dell’Ottocento circa, per lasciarci poi un messaggio legato alla bellezza delle giornate d’ottobre. L’ottobrata oggi evoca un cielo terso, il tempo tiepido, un
volano fino a posarsi per formare tappeti soffici e ricamati. Colori e tepori autunnali segnati poi alla vigilia dell’inverno da uno sprazzo d’estate, secondo la leggenda di San Martino, che divise il suo mantello con un povero per proteggerlo dal freddo ,determinando il miracolo del ritorno di sole, luce calore.
RICETTE
vigne partecipavano alla fine della vendemmia, a ottobre, di domenica e talvolta di giovedì, si faceva gran festa. Su carri e carretti i romani si preparavano per la scampagnata fuori porta alla ricerca delle fraschette, sorelle delle osterie e antesignane delle enoteche dell’oggi, che costituivano luoghi di bevuta, svago e allegria. Le donne si ornavano di fiori e, grazie al cibo e alle bevute, esplodeva il saltarello che le coinvolgeva con gli uomini in un ballo liberatorio pieno d’allegria. La tradizione vedeva ripetersi gli appuntamenti della giornata come riti consolidati: la danza, gli stornelli , il gioco a mora, gli alberi della cuccagna e il cibo che, protetto nei canovacci legati coi quattro pizzi del quadrato, comprendeva di base: gnocchi, funghi gallinacci, trippa, abbacchi e maccaroni. Tutti piatti sostanziosi che andavano accompagnati al vino, anche novello, quale punteggiatura della festa. Infine il ritorno a
tramonto dal rosa acceso e sfumature della natura che vanno dal giallo oro al marrone all’arancione al rosso vinaccio e ancora verdi intensi e sbiaditi; un tripudio e armonia di colori che Ottorino Respighi, il compositore che tanto amò Roma e le sue fontane, ha tradotto in musica. Una musica che chiudendo gli occhi come in un film ci racconta l’originale tavolozza delle ottobrate. Una musica che potrebbe fare anche da sottofondo a quelle immagini d’autunno che arrivano dagli Stati Uniti per la loro celeberrima “Indian Summer”, dove vediamo le foglie intrecciarsi in un sublime armonico rincorrersi di colori che emanano serenità e dolcezza e che staccandosi dai rami
Gnocchi di patate ispirandoci alle scampagnate. Bollire le patate di buona qualità, passarle fredde e mescolarvi farina (quanta ne assorbono, come dicevano le nostre madri) ottenendo un impasto compatto e morbido. Qualcuno ci aggiunge un uovo. Fare dei mucchietti, trasformarli in budelli col gioco delle mani e tagliare a quadratini facendo una fossetta col dito che, una volta cotti, aiuterà ad accogliere il sugo o di pomodoro semplice o con carne o guanciale. Aggiungere parmigiano o pecorino. Gnocchi alla romana. Semolino cotto nel latte col sale; versato il tutto sulla” spianatora”, fatto freddare e tagliare a tondi, usando un bicchiere, mettere al forno con parmigiano e un po’ di burro. Abbacchio. Alla cacciatora, a scottadito, braciolette a cotoletta, al forno, brodettato (cotto come uno spezzatino e alla fine ripassato per uno o due minuti in due o tre uova sbattute col succo di limone).
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LEGGERE L’ALBERO DI BRUNA BALDASSARRE
FAMIGLIA
Sentiamo l’Avvocata BOTTE DAVANTI AI MINORI
AMORE COME ARTE Cara Bruna, ho appena compiuto 40 anni. Con il passare degli anni la fiamma dello spirito e della passione sembra imprigionarsi e poi spegnersi, come per rispondere a convenzioni sociali e ipocrisie che ci uccidono giorno per giorno. Ho scelto di mettere me stessa al primo posto e ho scoperto che si può essere sereni con poco se dentro abbiamo deciso di fare pace con noi stessi. Una domanda: cos’è l’amore? È una necessità e un bisogno istintivo di non essere soli? Amo il ragazzo che sto frequentando con tutto il cuore, e non solo perché è buono, gentile, intelligente e altro, ma come la cosa più naturale del mondo, come amo le mie figlie. Letizia Cara Letizia, auguri per i tuoi 40 anni! Jung indica questo periodo come la fase della “grande morte”, nel senso che dal lato animico si esprime l’abbandono della parte di personalità più orientata verso l’esterno e dall’altra si esprimo le forze demolitrici del corpo fisico. Sono proprio queste forze che permettono un forte ampliamento della coscienza. È come se il “piccolo principe” che vive negli altri si rivelasse in tutta la sua grandezza. Può anche accadere di nascondere il vuoto interiore che si prova dentro rifugiandosi in una sorta di fuga, soprattutto quando nelle relazioni si è costretti al confronto con se stesse. Le radici del tuo albero rivelano che ogni tua realizzazione sarà sempre sofferta. La serena conquista della realtà, infatti, può essere impedita da un mascherato senso di possesso. Nel tronco invece ci sono tutte le esperienze che hanno segnato la tua vita. Le più importanti a 1 anno e mezzo, a 17 e mezzo, a 20, a 33 e mezzo. Dai 20 ai 33 anni e mezzo è come se si determinassero le condizioni inevitabili di ciò che avverrà successivamente. Il tronco rivela che sei di buona comunicativa, sai comprendere gli intenti altrui agendo di conseguenza. La chioma denota da un lato, il senso della bellezza e gentilezza, e dall’altro una forte delusione affettiva - anche se al posto delle foglie cadenti ci sono i fiorellini - con instabilità e timore di non essere ascoltata. Per quanto riguarda l’amore si ha spesso l’impressione di conoscerlo e possederlo, ma ciò che si possiede davvero è l’innamoramento. L’amore è molto diverso nell’uomo e nella donna, anche se l’anima dell’uno dovrebbe mostrare costantemente un atteggiamento di disponibilità, dedizione e calore verso l’altro. Nella donna l’amore è più pedagogico, nel senso che può desiderare spesso di cambiare il suo partner, mentre per l’uomo è importante che la donna non cambi mai. La donna ha una relazione con il cosmo, per il suo stesso legame con la vita, che l’uomo non ha. Eppure l’individuo nella sua accezione spirituale, la sua persona, il suo Io, non è né maschile né femminile. Erich Fromm nel suo libro “L’arte di amare” parla di amore come arte. L’amore costituisce la forma più sublime della dedizione altruista. L’amore per le tue figlie non può avere fine, è indivisibile. Forse nel paragone intendi dire che ami il tuo ragazzo nella sua totalità e non certo come un altro figlio?!
di Simona Napolitani mail: simonanapolitani@libero.it
L
a violenza in famiglia può assumere diverse forme ma, a prescindere da come si manifesta, è sempre devastante, sia per le donne, sia per i figli. Purtroppo non sempre i giudici rispondono al fenomeno in maniera coesa, i loro punti di vista sono a volte diversi e danno purtroppo luogo a pronunce contrastanti che possono offrire il fianco al reiterarsi di condotte dannose, perché non censurate. Il punto della questione è se il minore ha per forza bisogno di confrontarsi con due genitori, se il padre, posto che sia violento, è indispensabile; come questo padre può esercitare la sua genitorialità? Incontri protetti a vita? Oppure c’è un margine di recupero per l’uomo violento? Domande che a volta non trovano risposte, a volte le risposte sono diverse. Un recente titolo di giornale Firenze, lui condannato per pugni all’ex moglie, ma il Giudice impone gli incontri col papà ‘vanno garantiti i rapporti con i due genitori’. Ma è sempre vero? Di diverso avviso il Giudice penale di Roma, nella sua ordinanza si legge che il padre del minore si reca sotto casa e suona incessantemente al citofono dell’appartamento ove vive il bambino; telefona continuamente ed invia alla ex compagna sms molesti e minacciosi; la minaccia dicendole “vuoi vedere che ti ammazzo” , alla presenza del figlio. Il Giudice, considerate tali condotte, protrattesi nel tempo senza alcuna remora a fronte del coinvolgimento del figlio minore, nonché caratterizzate da una allarmante escalation ed intensità (culminata con un episodio di pesanti percosse alla donna, davanti al bambino che piangeva inorridito), prescrive il divieto al padre di avvicinamento alla persona offesa e al figlio minore, con l’ulteriore prescrizione di non comunicare attraverso qualsiasi mezzo con l’ex compagna e con il minore. Una decisione del Giudice civile, una del Giudice penale, contrapposte ed inconciliabili: un padre violento allontanato, un padre violento imposto al minore che non desiderava avere contatti con lui. Forse ci vorrebbe un po’ di ordine e capire che un figlio maltrattato, un figlio testimone di violenza perpetrata ai danni di sua madre subisce danni, a volta irreversibili. È possibile tutelarlo? Occorre chiarire tanti dubbi, fare luce su molti aspetti, per poter dare indicazioni chiare ai soggetti deboli che necessitano di tutela.
Ottobre 2015
L’OROSCOPO DI
ZOE Ottobre CARA ARIETE, ha scritto il filosofo rumeno Emil Cioran: “Appartengo a coloro che, tra il sistema e il caos, sceglieranno sempre il caos”. In effetti, Cioran era del tuo stesso segno e forse anche tu potresti sottoscrivere questa affermazione. Tranquilla, il mese di ottobre non sarà troppo disordinato e conflittuale, tutto il contrario. Ma forse, proprio per questo, abituata come sei a metterti dalla parte del caos, potresti annoiarti un po’. CARA TORO, il 21 hawaiano Sean Yoro, in arte Hula, disegna murales con figure realistiche di bellissime donne su muri cittadini a pelo dell’acqua, per esempio a Brooklyn, sulle rive dell’Hudson. Trasforma così intere facciate di edifici in disuso, magari allagati, in superfici su cui appaiono volti meravigliosi, lavorando in equilibrio su una tavola da surf. Ti propongo di sviluppare, nel corso del prossimo mese, le tue abilità da artista, o magari da acrobata. CARA GEMELLI, “quante vite hai?/ te ne ho trovata una che non andava e l’ho nascosta.../ quante vite hai/ da regalarti così”. Non sono i versi di una poesia, ma le parole della canzone Habanera di Gianmaria Testa. Non sono esperta di musica e non cito spesso canzoni, ma questa sembra fatta apposta per te. Tante vite divertenti e piacevoli come regali, ma anche, ogni tanto, qualcuna che non va: abbi il coraggio di nasconderla, di metterla via. CARA CANCRO, Craig Dykers, architetto a capo del progetto di riqualificazione di Times Square a Manhattan, dopo aver vissuto qualche tempo a Roma, ha detto: “Lì ho scoperto quanto sia inibente e stimolante vivere in un museo a cielo aperto, dove una straordinaria energia convive con l’immobilismo più totale”. Spesso le situazioni più soddisfacenti sono anche quelle che ti impediscono di muoverti, di cambiare, di andare avanti. Che ne dici?
PREDIZIONI SEMI-SERIE E PRONOSTICI POSSIBILI
CARA LEONE, per il mese di ottobre, in cui le stelle preannunciano possibili successi professionali, ti dedico questa affermazione della filosofa Simone Weil: “Del mondo noi non possediamo niente all’infuori del potere di dire Io”. Si potrebbero fare mille battute, cara amica dal segno di fuoco, sulla tua celeberrima autostima, sul tuo ego smisurato, eccetera eccetera. Questa volta, però, ti do ragione: centrati sul tuo Io, o almeno sul tuo potere di affermarlo. CARA VERGINE, “Se rinasco/ti chiedo d’essere una pala eolica/stagliata su di un cielo azzurro come questo/piantata sulle colline dolci e verdi/tra la Campania e la Puglia./Con i miei bracci roteanti al vento/tutto il giorno a rinfrescare/le giovani spighe di maggio”. Che ne pensi di questi versi della poetessa Rossella Tempesta? Per smaltire la grande energia che potresti sentirti addosso questo autunno (grazie a Giove!), ti propongo un breve viaggio nel Sud. Magari in Lucania, a salutare le pale eoliche! CARA BILANCIA, lo scrittore e poeta Franco Marcoaldi, nel suo Animali in versi, ha scritto: “L’unica chance offerta all’uomo eretto è di sdraiarsi a terra: osservando le stelle assieme agli animali, magari si scorderà di essere una macchina di sopraffazione e guerra”. È questo l’augurio che ti faccio per il tuo compleanno, in un mese che vede vegliare su di te Mercurio, Marte e Venere. Mentre tu, nel frattempo, puoi dedicarti a guardare le stelle... CARA SCORPIONE, ho scoperto recentemente che all’origine del mito delle sirene, irresistibili e fatali, ci sarebbero gli avvistamenti della Foca Monaca, un tempo molto presente in tutto il Mare nostrum, e oggi quasi estinta. Cosa? Ma siamo impazziti? Scambiare una Foca Monaca per una bellissima donna con la coda da pesce? Non ci posso credere! Riflettiamo insieme sull’immenso potere dell’umana immaginazione...
CARA SAGITTARIO, ti dedico per questo mese i versi scritti a soli 23 anni dalla poetessa Antonia Pozzi, dedicati al suo amore e già nostalgici, proiettati nell’inevitabile momento in cui lo avrebbe perso: “Nell’aria della stanza/non te/guardo/ma già il ricordo del tuo viso/come mi nascerà/ nel vuoto/ed i tuoi occhi/come si fermarono/ora – in lontani istanti –/sul mio volto”. Guardare sempre al futuro, addirittura come se fosse già passato, prevede a volte il rischio di non vivere pienamente la propria vita: pensiamoci. CARA CAPRICORNO, nel film del 1962 L’angelo sterminatore il grande regista Luis Bunuel proponeva una feroce critica nei confronti della borghesia mostrando un gruppo di persone dell’alta società che, misteriosamente, non riesce più uscire dal salotto di una villa, dopo un ricevimento. Insomma, semplificando: un’intera classe sociale prigioniera delle istituzioni che essa stessa ha creato. Hai un Mercurio un po’ faticoso che ti potrebbe inchiodare in un luogo per te troppo chiuso. Ma hai anche Marte e Venere dalla tua, magnifici alleati per uscire da lì, e finalmente liberarti... CARA ACQUARIO, nel 1968 l’artista Ugo Nespolo ha ideato l’ironica performance Elogio delle pagine gialle. Per demitizzare l’idea di arte come attività speciale e intellettuale, Nespolo proponeva ai giovani artisti di usare gli elenchi telefonici con la pubblicità categoriale, chiamando gli artigiani che avrebbero permesso loro di fare arte correttamente (cioè, appunto, artigianalmente). Un elogio della concretezza e della leggerezza che voglio girare a te, cara amica, come auspicio per il prossimo mese. CARA PESCI, a te, rappresentante di un segno d’acqua, riservo infine questi versi della poetessa Silvia Bre, che parlano del potere riflettente e calmante del liquido di cui prevalentemente è fatto il nostro pianeta, e che caratterizza il tuo segno: “l’acqua che mi riflette/ e che mi pensa/fermissima/mi tiene/come un suo bene/acqua io sono in lei, anima persa/altra io sono in lei/quello che posso/quello che vorrei”. In questo autunno, specchiandoti nell’acqua del tuo animo, forse potrai essere quello che vorresti.
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Ivana Tanzi
Parola minima Ogni cosa, l’evento minimo della giornata, l’incontro inatteso diventano poesia di Luca Benassi
L
a poesia è un modo di vedere il mondo, una specie di lente attraverso la quale osservare la realtà per cogliere sfumature, improvvisi bagliori, sorprese laddove all’occhio comune compare solo la banalità del vivere quotidiano. Chi scrive versi ha la capacità di donare questa luce a chi ha la pazienza e il desiderio di leggere. Di questa capacità è dotata in sommo grado Ivana Tanzi che con i suoi versi schiude un universo fatto di giornate in città, di viaggi, di incontri, di ricordi. Nulla sembra sfuggire al suo occhio (e alla penna), i suoi testi raccontano del sole, del mare, degli ulivi e del vento del Golfo dei Poeti, della
Lunigiana e delle alpi Apuane, ma anche della quotidianità della casa e delle strade di Milano, nelle quali si accende improvvisa la poesia. Ecco allora che le inquiete ore della mattina vengono scandite e riportate all’ordine dal «ruminare intermittente» della lavatrice, che il desiderio di libertà per la pagina bianca viene ricondotto alla «regola/ dietro la ferrea grata/ del sudoku», mentre le macchine, che si incontrano a una rotonda stradale per mezzo giro, «subito si perdono/ con un breve rimpianto/ come quando i bimbi/ smontano dalla giostra.» Ogni cosa, l’evento minimo della giornata, l’incontro inatteso sono occasione di riflessione, diventano metafora dell’esistere e consentono alla poetessa la riflessione sulla vita, su Dio, sul trascorre del tempo. Se il ricorrere all’oggetto d’uso comune come correlativo oggettivo ricorda per certi versi la ricerca di Guido Oldani (si pensi alla lavatrice sopra citata) e più in generale l’etica del quotidiano della poetica lombarda, d’altra parte la scrittura di Tanzi cerca sempre l’innalzamento verso la riflessione, verso uno stupore, posato e mai infantile, ma che apre squarci sui sentimenti profondi, sull’abisso dell’amore e dell’inquietudine. Ecco allora i testi che indagano le relazioni umane, familiari e affettive, i versi sulla religione e quelli, dai tratti a volte gnomici e aforistici, sullo scrivere poesie e sull’esperienza dell’essere poeta. Come Emily Dickinson e Wisława Szymborska, Tanzi trova nella sua geografia quotidiana – Milano, Pugliola in Liguria e Campomarino nel Salento – l’interezza del cosmo, nel quale cercare la ragione di vita e mettere ordine nel caos del tempo. Ivana Tanzi è nata a Parma e vive a Milano. Ha pubblicato le raccolte di versi “Un sasso un sogno ed altro” (ed. FirenzeLibri) e “Stanze e distanze” (ed. Joker). I testi qui pubblicati sono tratti da “Il metro estensibile” (edizioni puntoacapo, Novi Ligure 2010).
Il rovo Ostile fino alla fine il ramo di rovo tranciato si torce cadendo ti sfiora la faccia e s’aggrappa ad un lembo di gonna. Se tiri la strappa, se lasci ti graffia il polpaccio.
Attesta e dispensa Attesta e dispensa il suo affetto servendo, una madre del sud. Il cibo specialmente. Scelto conservato cucinato condito distribuito assegnato secondo esigenze a lei note gusti e desiderata di tutti. E se il beneamato, figliolo o marito, nelle serate tiepide si attarda con gli amici sul corso, al ritorno troverà sempre pronto il suo pasto tenuto in disparte. Seduto senza indugio o incombenza all’indisturbata mensa, dovrà con entrambe le mani fare l’unico sforzo di levare dal piatto il piatto fondo sopra capovolto.
Il poeta sa Il poeta lo sa che la voce che gli canta dentro non sempre canta e non è sempre voce. Certe volte è un martello che lo inchioda a una croce
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