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LUGLIO / Agosto 2016
Tratta e Cie Il report di Be Free Donne in Campo Paesaggi come ricami Scrittrici e migranti Vengono dall’Est
Felicità. prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 71 - n.6 ISSN 0029-0920
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Luglio-Agosto 2016
DELFINA
di Cristina Gentile
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www.noidonne.org
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01 / DELFINA di Cristina Gentile
4/7 ATTUALITÀ
14/21 FOCUS / FELICITÀ. PARLIAMONE
04 LE SINDACHE E LA POLITICA di Giancarla Codrignani
14 INTRECCIO PERFETTO. PUBBLICO, PRIVATO E GIUSTIZIA SOCIALE IL RAPPORTO MONDIALE SULLA FELICITÀ di Costanza Fanelli
05 REBIBBIA. GIRO GIRO TONDO di Paola Ortensi 06 SANTE & STEREOTIPI SECONDO IL VOLERE DI SANTA MADRE CHIESA di Stefania Friggeri
16 LA PAROLA ALLA (NOSTRA) RETE 17 MIGRANTI PER NECESSITÀ. E ALLA RICERCA DELLA FELICITÀ
8/9 BIOETICA IN NOSTRI CORPI. UN MONDO DA SCOPRIRE A GENOVA LA MOSTRA BODY WORLD di Susanna Penco
10/13 INTRECCI 10 TRATTA DELLE MIGRANTI E CIE IL REPORT DI BEE FREE di Silvia Vaccaro
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12 ACCORDO DI AZIONE COMUNE PER LA DEMOCRAZIA PARITARIA di Daniela Carlà
03 / EDITORIALE
18 UNA RIFONDAZIONE POSSIBILE di Elena Ribet 20 COSTRUIRE UNA LIBERTÀ ALTRA di Marta Facchini 21 TRA IL SACRO E IL PROFANO di Emanuela Irace
DIRETTORA Tiziana Bartolini
Anno 71 - numero 7-8 Luglio-Agosto 2016
PRESIDENTE Maria Costanza Fanelli
La testata fruisce dei contributi di cui alla legge n.250 del 7/8/90
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22/25 JOB&JOB
32/44 APPRODI
22 COOPERATIVA NUOVE RISPOSTE CURARE LE RELAZIONI PER COSTRUIRE COMUNITÀ di Tiziana Bartolini
32 Elvira Seminara/SCUSATE LA POLVERE Claudia Bruno/FUORI NON C’È NESSUNO di Silvia Vaccaro C.Carpinelli e M.Congiu/L’UNIONE EUROPEA E LE MINORANZE ETNICHE
24 DONNE IN CAMPO/PAESAGGI DA RICAMARE INCONTRO NAZIONALE A ROMA di Tiziana Bartolini
26/31 MONDI 26 SCRITTRICI E MIGRANTI/PUBBLICANO IN ITALIANO DALL’EST CON FURORE. LETTERARIO/1 di Cristina Carpinelli 29 EGITTO/LA SESSUALITÀ TRA I GIOVANI LA RICERCA DI SALLY ZOHNEY di Zenab Ataalla 30 BRASILE/ IL GOLPE CONTRO DILMA ROUSSEF LE OLIMPIADI IN ARRIVO di Nadia Angelucci
33 ZÉLIA GATTAI/MEMORIALE DELL’AMORE di Nadia Angelucci 34 TAMMURRIATA. ENERGIA PRIMORDIALE di Elena Ribet 37 DAPHNE PHELPS E CASA CUSENI di Mirella Mascellino 38 DONNAESALUTE/IRIS ONLUS A CAMPOBASSO Salute a 360 gradi 40 DANZANDO CON IRONIA Intervista a Marguerite Donlon di Graziella Bertani
07 Versione Santippe di Camilla Ghedini 09 Il filo verde di Barbara Bruni 25 Strategie private di Cristina Melchiorri 35 Salute BeneComune di Michele Grandolfo 44 SOS Filosofia di Francesca Brezzi 46 Leggere l’albero di Bruna Baldassarre 46 Famiglia, sentiamo l’avvocata di Simona Napolitani 47 Spigolando di Paola Ortensi 48 Poesia Pierangela Rossi D’amore e di poesia di Luca Benassi
42 CANNES. LE PELLICOLE DA NON PERDERE MASAAN: TRA LA TERRA E IL CIELO/ NEERAJ GHAYWAN di Elisabetta Colla 45 VITERBO/AUSER IN MEMORIA DI UNA DONNA SCONOSCIUTA di Tiziana Bartolini
Mensile di politica, cultura e attualità fondato nel 1944
Autorizzazione Tribunale di Roma n°360 del Registro della Stampa 18/03/1949 Poste Italiane S.p.A. Spedizione abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. In L.27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 DCB Roma prezzo sostenitore 3.00 euro Filiale di Roma
LUGLIO / AGOSTO 2016 RUBRICHE
SOMMARIO
EDITORE Cooperativa Libera Stampa a.r.l. Via della Lungara, 19 - 00165 Roma STAMPA ADG PRINT s.r.l. Via Delle Viti, 1 00041 Pavona di Albano Laziale tel. 06 45557641 PROGETTO GRAFICO Elisa Serra - terragaia.elisa@gmail.com ABBONAMENTI Rinaldo - mob. 338 9452935 redazione@noidonne.org
AMICHE E AMICI DEL PROGETTO NOIDONNE
Clara Sereni Michele Serra Nicola Tranfaglia
Laura Balbo Luisella Battaglia Francesca Brezzi Rita Capponi Giancarla Codrignani Maria Rosa Cutrufelli Anna Finocchiaro Carlo Flamigni Umberto Galimberti Lilli Gruber Ela Mascia Elena Marinucci Luisa Morgantini Elena Paciotti Marina Piazza Marisa Rodano Gianna Schelotto
Ringraziamo chi ha già aderito al nuovo progetto, continuiamo ad accogliere adesioni e lavoriamo per delineare una sua più formale definizione L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o cancellazione contattando la redazione di noidonne (redazione@noidonne.org). Le informazioni custodite nell’archivio non saranno né comunicate né diffuse e verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati il giornale ed eventuali vantaggiose proposte commerciali correlate. (L.196/03)
RINGRAZIAMO LE AMICHE E GLI AMICI CHE GENEROSAMENTE QUESTO MESE HANNO COLLABORATO
Zenab Ataalla Nadia Angelucci Bruna Baldassarre Tiziana Bartolini Luca Benassi Graziella Bertani Francesca Brezzi Barbara Bruni Daniela Carlà Cristina Carpinelli Giancarla Codrignani
Elisabetta Colla Marta Facchini Costanza Fanelli Stefania Friggeri Cristina Gentile Camilla Ghedini Michele Grandolfo Emanuela Irace Mirella Mascellino Cristina Melchiorri Simona Napolitani Paola Ortensi Susanna Penco Elena Ribet Silvia Vaccaro
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LA RELAZIONE PERICOLOSA TRA FELICITÀ E POLITICA
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e immagini con piazze gremite di popoli festanti sono consegnate agli archivi e al centro della scena ci sono i problemi da risolvere, ma per un po’ la politica ha mostrato di saper regalare felicità. A chi si è riconosciuto in un progetto, a chi ha vinto insieme al suo partito, a chi è stato eletto. Resteranno impresse nella storia nazionale, oltre che nei giornali di mezzo mondo, i volti sorridenti delle due giovani sindache di Roma e di Torino. Erano donne felici. Virginia Raggi e Chiara Appendino, entrambe madri e con una minima esperienza amministrativa alle spalle, hanno sentito che era il loro momento. E hanno scelto di assumere la responsabilità di una candidatura. Di nuovo incontriamo la felicità, e la vediamo nella possibilità di non avere paura perché si è libere di autodeterminarsi. Impossibile non riconoscersi, magari per un attimo, in quel sentimento di cui conosciamo le radici lontane. Sappiamo quanto è costato conquistare la libertà che ha consentito, anche al Movimento 5 Stelle, di arrivare ai risultati di oggi. Senza le donne, senza queste donne, sarebbe stato lo stesso Movimento? Certo che no. Così come non ci sarebbero state tante sindache, donne presidenti di municipalità e consigliere comunali. La recente tornata elettorale ha permesso di raccogliere i frutti di semine lunghissime. Se pensiamo che, solo una manciata di anni fa, una delle questioni da affrontare era il superamento della ritrosia femminile nel parlare in pubblico… E che stia davvero arrivando il tempo delle donne ce lo dice anche la prima volta di una candidata alla Casa Bianca. Hillary Rodham Clinton, diventata Presidente degli Stati Uniti d’America, - come speriamo con il cuore e con il cervello - avrebbe a che fare con la presidente della Federal Reserve Janet Yellen, con la presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde oltre che con Angela Merkel. Ci fermiamo, ma la lista sarebbe ancora lunga volendoci includere funzionarie
di autorevoli istituzioni internazionali, manager o imprenditrici di livello. Non sappiamo se sono donne felici, ma certamente hanno goduto della libertà di giocare le loro partite. E un certo impatto da tutta questa energia ce lo aspettiamo, anche per colmare le fratture che si fanno sempre più profonde con la base della piramide femminile. Nei redditi e nei diritti, che sono parenti stretti. Sembra più facile, oggi, raggiungere alcuni vertici piuttosto che sconfiggere la disoccupazione o la violenza sessista. Lo stupro e l’uccisione in queste ore di Maria (10 anni) in provincia di Benevento si aggiunge alla vergogna inarrestabile dei femminicidi. Il lavoro da fare è ancora tanto e non ci si può concedere neppure una piccola pausa, ma bisogna imparare ad apprezzare i progressi piccoli e grandi. Abbiamo sempre pensato che la felicità l’avremmo ottenuta (anche) con tante donne nei luoghi del potere. Eppure, mentre raggiungiamo questo risultato, sembriamo non disporre degli strumenti per leggere il nuovo presente, che esiste grazie alle nostre lotte. Il cammino per arrivare sin qui è stato lungo, tortuoso e molto, molto faticoso. Una pausa possiamo concedercela, ma solo per cercare risposte a qualche insidiosa ma inevitabile domanda. Siamo davvero felici di vedere tante sindache, anche se non sono del nostro partito? Come chiediamo loro di interpretare ed affermare la differenza in politica? Attraverso quali categorie di giudizio valuteremo il loro operato? Abbiamo elaborato, noi donne, nuove griglie di osservazione unificanti e che trovino amalgama in una cornice culturale e politica capace di andare oltre il Novecento? Intendiamo provare a tracciarla senza dividerci? Il momento della verità non è arrivato solo per il Pd alla ricerca di se stesso, per il centrodestra allo sbando o per gli eredi di Grillo alla prova di governo. Tiziana Bartolini
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LA STORIA VA AVANTI DA SOLA? L’elezione di tante sindache non è stato frutto del femminismo. Speriamo bene, anche se sarebbe strano che fossero le donne a confermare il ruolo unico di Giancarla Codrignani
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l mondo è ben strano. Non solo per i cambiamenti climatici. Avete visto come è andato il referendum per la Brexit? secondo voi l’informazione aveva dato effettiva consapevolezza? I media infatti - ne sa qualcosa Renzi - sono diventati micidiali (in)formatori e la gente più vulnerabile - nelle periferie e in quella “classe” ex-operaia diventata indifferenziato ceto medio - ignora le ragioni di ciò che può giovare o danneggiare la polis o le conseguenze della crisi del 2008 che continuiamo a pagare. Forse d’estate conta di più Vasco Rossi che torna a parlare della Resistenza (ma è vero che, se canta “fammi vedere”, le ragazze sotto il palco si spogliano?), mentre i nuovi miti restano senza contenuto e i “social” diffondono antipolitica. Intanto le notizie sui femminicidi fluttuano tra l’enfasi periodica dei giornali (non si può sempre parlare dello stesso tema) e le proteste delle donne, associate o no. Ma gli argomenti che segnalano un protagonismo non velleitario ma un diritto ad una società migliore (anche per gli uomini) non fanno più politica. Non è bastato che la Presidente Laura Boldrini abbia appeso alla finestra di Montecitorio il drappo rosso a denunciare gli assassini di genere; non è bastato che la segretaria della Cisl Annamaria Furlan abbia deprecato che “tante sono costrette ad abbandonare la propria carriera nel momento in cui scelgono di essere mamme”; non è bastato che Chiara
Saraceno abbia ricordato che “l’Italia è al 111° posto su 145 nel Rapporto globale sulla disparità di genere sull’accesso al lavoro remunerato”. Non basta nemmeno che ci sia stata e ci sia attivazione per contrastare la disapplicazione della legge 194 a causa degli obiettori di coscienza e che siamo sempre all’erta perché il sistema, le crisi, le guerre non facciano arretrare le conquiste o che avanziamo nuovi diritti. Tuttavia non possiamo - proprio in quanto donne - trascurare il messaggio (che ormai è “storia”) uscito dalle amministrative di giugno e che ci intrigherà non solo un’estate. Vedremo se hanno vinto le donne, come hanno sperato alcune votanti, o soltanto alcune donne, ormai sindache per la prima volta in grandi città. Non è stato certo frutto del femminismo, ma della generale voglia di cambiamento. Speriamo che - le nuove amministratrici sono anche “giovani” e “madri” - gli apparati non le inducano ad amministrare il bene pubblico con il neutro di sempre. D’altra parte, il fronte delle donne, al vertice o alla base, è rimasto vulnerabile per non aver mai approfondito il femminile del diritto, delle leggi, della politica. Tempo fa un docente della Cattolica, Alessandro Rosina - un uomo fuori dal coro - avvertiva l’opinione pubblica che “servirebbe una spinta più forte, non perché pretesa dalle donne, ma perché auspicata dal genere maschile”. Sarebbe ben strano che si rovesciasse
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il gioco e fossero le donne a confermare il ruolo unico. Si vedrà. Molto dipenderò dalla “pancia” delle donne che, anche lei, conosce la rabbia, ma è, politicamente, “di genere” perché è diversa e serve anche per pensare per nove mesi ad un figlio. Tuttavia, è stata ormai registrata, perfino con qualche soddisfazione, la sconfitta della sinistra. Chi si è domandato dove fosse finita anche nei piccoli centri “rossi” che hanno votato liste civiche e la Lega di Salvini, deve aver finalmente capito che i valori del passato si oscurano se non vengono accompagnati nell’evolversi delle società. Ovviamente il Pd ha le sue responsabilità perché gli apparati da tempo si occupano delle percentuali di voto e non dell’abbandono sia della pratica del voto (che è così in tutti i paesi occidentali), sia della costruzione della cultura di partito nelle aree diventate populiste (non dimentichiamo che a Roma il maggior sostegno al candidato Giachetti è venuto dal centro e dai Parioli). La prova più forte è stata Torino, dove oggi è sindaca una donna competente, che da ragazza stava a sinistra, e non Fassino, un politico degno della massima stima (niente a che vedere con i limiti e la corruzione di Roma) ma inesorabilmente “vecchio”: i buoni amministratori possono subire umiliazioni immeritate se il loro partito non sa rinnovarli. Comunque non si illuderà a lungo Beppe Grillo: o a Torino nasce la linea e M5S diventa un luogo veramente politico o scivolerà anche lui, forse di colpo, nell’indifferenziato. Roma sta già facendo i conti come tutti con il deficit miliardario, l’immigrazione e, in più, con il Vaticano di Papa Francesco. Milano fa ancora riflettere perché anche Pisapia aveva preso le distanze dalla sinistra dura e pura. Non ha invece prodotto sufficiente impressione Mastella sindaco (di destra) a Benevento: lui, il Verdini del centro-sinistra che, con l’1% dei voti Udeur, si schierò con Prodi e pretese di conservare il Ministero della Giustizia conferitogli da Berlusconi. Solo Bologna è stata l’eccezione? Merola è rimasto sindaco della città medaglia d’oro della Resistenza perché aveva contro la rappresentante della Lega di Salvini (che ha raccolto il 45%, tutto di periferia). Per fortuna si è trattato di amministrative e la gente verificherà: come dice Pizzarotti, sindaco grillino di Parma, sono incominciate le difficoltà. Per chiudere posso invitare a considerare - nonostante le vacanze che NOIDONNE si augura buone per tutte (e anche per la rivista) - il dinamismo della storia di cui siamo tutte responsabili? Fascismo e nazismo sono nati come “movimenti” antipolitici e vennero “democraticamente” eletti dal popolo. Nel 1287 Bologna, dopo una sconfitta che aveva impoverito i nobili, riscattò, ricorrendo al denaro pubblico per risarcirli, 5.855 servi della gleba. Il bene della città non è mai stato ideologico. E nemmeno emotivo o carico di odio e vendette. b
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“Giro giro tondo. Noi bambine parliamo al mondo“ È martedì 17 maggio. Nel teatro del carcere femminili di Rebibbia a Roma si firma la chiusura di ‘A mano Libera’, il progetto portato avanti con incontri settimanali da NOIDONNE e dall’associazione Noidonne TrePuntoZero da dicembre 2015 a maggio 2016. È il secondo anno consecutivo di questo laboratorio. Circa dieci detenute hanno seguito con assiduità gli incontri, tenuti sul filo dell’Acchiappanotizie”, ironica definizione coniata per l’attività proposta: fare attenzione alle notizie quotidiane per concentrare il dibattito del gruppo su quelle che più hanno colpito. I bambini e le bambine sono il filo conduttore dell’incontro. I testi scritti dalle signore con le quali si è lavorato hanno l’obiettivo e l’ambizione di restituire al pubblico le emozioni che la tematica scelta ha suscitato. E nei testi, composti dalle detenute, si incrociano cronaca, ricordi personali, concetti eterni. Il tema coinvolge emotivamente la folta platea per l’intensità con cui è proposto. Le autrici sono interpreti credibili, l’emozione di una recitazione convincente si percepisce dal silenzio che vibra nel teatro e poi dall’applauso scrosciante del pubblico, nella sala gremita di detenute e anche di ospiti venute da fuori. Tutte/i forse si riconoscono in sentimenti e parole condivisibili. La settimana successiva commentiamo l’evento con le attrici, che con entusiasmo riferiscono dei complimenti e dei commenti che hanno ricevuto. Tutto conferma il successo di quella che, in fondo, è stata una piccola idea a cui neanche le protagoniste credevano davvero. E tutte insieme comprendiamo che è stato apprezzato l’aver scelto un tema che attraversa tutta la terra e accomuna persone e culture. I bambini e le bambine, appunto. La chiave del successo è stata aver raccontato l’infanzia partendo da sé e, contemporaneamente, guardando al mondo. “Giro giro tondo. Noi bambine parliamo al mondo“ era il titolo del reading del 17 maggio scorso. L’unico possibile…. Paola Ortensi
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Sante & Stereotipi
Secondo il volere di Santa Madre Chiesa di Stefania Friggeri la santità femminile nella Chiesa cattolica è in sintonia con la società patriarcale e con il no all’autonomia della donna
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ra i diversi temi sui quali deve misurarsi papa Francesco per alleggerire il peso della tradizione che frena il cammino della Chiesa cattolica verso il rinnovamento, fondamentale è la rivisitazione del modello e del ruolo della donna. Sul conflitto fra i sessi, sullo sforzo secolare delle donne per guadagnare relazioni umane collaborative e soddisfacenti, apre uno sguardo insolito, ma molto interessante, Rudolph M. Bell, col suo “La santa
anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo ad oggi”. L’autore dell’epilogo, W. M. Davis, così sintetizza il risultato dell’analisi di Bell: “la santa anoressia (è) in parte una risposta alla struttura sociale patriarcale del cattolicesimo medioevale”. In effetti la lettura delle vite delle sante anoressiche porta a concludere che, all’interno di una società profondamente religiosa, dove la fede in Dio è l’ossigeno respirato fin dall’infanzia, queste figure femminili, nella loro ricerca di perfezione spirituale, trovano nell’anoressia la strada che per-
mette loro di raggiungere una condizione di autonomia. Giudicando troppo blanda ed insufficiente la disciplina della vita conventuale, la santa anoressica offre il suo corpo in sacrificio a Dio per conquistarne l’amore e diventare sua sposa (“Voglio che in questa vita tu abbia fame e desiderio di me”): sopportando con una volontà ferrea e disumana una vita di crudeli penitenze affinché l’anima trionfi sui vizi della carne, cancellata ogni sensazione di fame, di desiderio sessuale, di sonno, la santa anoressica conquista il privilegio di entrare in comunione con Dio - comunione diretta, senza alcun intermediario, compreso il clero maschile. Vedi ad esempio Caterina da Siena che, stanca delle battaglie contro i famigliari che volevano sposarla, un giorno chiamò i genitori e i fratelli e li consigliò di “ mandare a monte ogni impegno di nozze perché in nessun modo intendo fare il comodo vostro; ed io devo obbedire più a Dio che agli uomini”. E quelli finalmente smisero di ostacolarla. Essere la sposa di Dio, infatti, significa non essere soggetta ad alcuna autorità terrena ma a Dio, l’autorità riconosciuta come la più alta ed indiscutibile. Illuminante anche il caso di Angela da Foligno che per lunghi anni visse così depressa da desiderare la morte perché non sentiva l’Amore di Dio, nonostante le torture che si infliggeva per soffrire come Gesù in croce; mentre curava un lebbroso bevve l’acqua in cui erano caduti dei pezzetti di carne putrefatta “ricevendone la sensazione di aver fatto la comunione” e solo “gradualmente il suo corpo le permise di obbedire alla sua anima e si professò suo servo” (ma anche Caterina da Siena bevve il pus spremuto dal petto di una donna cancerosa). Nel contesto sociale in cui vivono le sante
anoressiche medioevali la soppressione degli istinti vitali fisiologici viene interpretata come favore divino, come eccezionale esempio di trionfo dello spirito sul corpo, e la narrazione delle loro vite, si diffonde oltre le mura cittadine condita di miracoli e straordinarie eccentricità. Ma le sante anoressiche non dichiarano guerra solo al proprio corpo, ma a tutti coloro che, familiari o clero, cercano di opporsi alla loro autonomia: siamo nel XIII secolo quando gli ordini mendicanti richiamano la Chiesa ad un rinnovamento spirituale, mandando un messaggio che “conteneva un energico rifiuto della gerarchia ecclesiastica”. Nel clima suscitato dai predicatori francescani e domenicani le donne sono ispirate “ad andare al di là del passivo ruolo riproduttivo di Maria … (cercando) di diventare la sposa di Cristo. In questa loro ricerca i corpi diventano impedimenti, penosi promemoria delle realtà terrene che cercavano di trascendere …. la santa non poteva più essere semplicemente considerata un ricettacolo di grazia divina, sempre bisognosa della guida maschile. Alla donnaoggetto, sprovvista di spiritualità interiore, succedette la donna-soggetto, creatrice del suo destino”. In effetti le sante anoressiche, con le loro forme di comunione diretta con Dio, ponevano una seria sfida alla Chiesa prelatizia maschile che, dopo la riforma di Lutero, timorosa delle tendenze protestanti, guardava con sospetto ogni espressione religiosa; e i chierici, sempre più diffidenti, sorvegliavano strettamente la religiosità femminile “interponendosi fra la penitente e Dio, difendendo gelosamente le prerogative di un clero esclusivamente maschile”. E infatti la Riforma cattolica, restituita ogni autorità al magistero, promosse
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un modello di santità femminile meno autonomo di quello della santa anoressica e la santità venne a coincidere con la malattia, che solo i chierici maschi potevano accertare. Mutato l’atteggiamento della gerarchia, le anoressiche divennero oggetto di indagini mediche: “La malattia si presenta ora come il tema centrale della (loro) vita … (e) diventa un’alternativa all’eresia, alla stregoneria, alla follia”. Un caso esemplare: Colomba, nata nel 1467 muore affamata a 33 anni, si ispira al modello ascetico medioevale, ma alla fine del XV secolo la sua volontà di unirsi a Cristo non venne riconosciuta come santa ma come diabolica o, come disse l’Inquisitore, “fuori di senno”. Nei testi agiografici ora le sante sono sempre costrette a letto e la loro forza spirituale nell’affrontare il dolore diventa l’elemento essenziale della narrazione: se gli uomini potevano diventare santi andando per il mondo, la santità “confina le donne in fondo ad un letto” (il 61% delle sante del XVII secolo vissero allettate per molto tempo). Ma gradualmente, a partire dal 1600, dopo il modello della santa anoressica, dopo quello della santa sofferente, si afferma il modello della santa benefattrice che si dedica alle opere di carità, all’insegnamento, alla cura dei malati, alle missioni. La lettura di Bell sulla santità femminile nella Chiesa cattolica conferma dunque la completa sintonia fra la società patriarcale e il magistero maschile nel negare alla donna l’autonomia, quella che oggi chiamiamo libertà di scelta o autodeterminazione; e conferma che la Chiesa non ha speso la sua autorevolezza per spegnere il conflitto fra i sessi che vede la donna sottomessa. Le parole di Bergoglio sulla opportunità di dare alle donne un ruolo decisionale all’interno della Chiesa, la promessa di concedere loro il diaconato potrebbero essere l’avvio di un iter che porta al riconoscimento della parità dei diritti anche dentro al corpo tetragono della Chiesa cattolica. Ma la fiducia in una riforma così sostanziale e profonda vacilla: difficile aspettarsi una rivoluzione da un concilio di maschi, età media ultrasettantenni, nati e cresciuti in una dimensione maschilista, sessuofobica e misogina. v
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di Camilla Ghedini
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he voglia che ho di annoiarmi. Di non sapere propria cosa fare, di essere addirittura frustrata e di picchiare i pugni sul tavolo. Un po’ come fanno i bambini, soprattutto i figli unici, che si trovano spesso in queste case vuote di ‘amici’ e devono organizzare il loro spazio e il loro tempo. Oggi di noia non soffre nessuno. I più piccoli sono stressati tra scuole e magnifici corsi di lingua e pratiche sportive varie. Gli adulti sono stressati per definizione. Abbiamo perso tutti quel senso di agitazione interiore, di vuoto, che rimane l’unico capace di farci tornare creativi, che può indurci a reinventarci, a scoprire nuove passioni e interessi. Lo dico io che, sia chiaro, passo settimane intere ad auspicare un giorno libero poi, quando raggiungo l’obiettivo, non so cosa farmene. Non so come sfruttarlo. Rimango impalata sul divano, telecomando alla mano, di fianco una
pittura, scultura, letteratura, etc, non è certo il prodotto di emotività quiete. Però forse di un po’ di noia sì. Allora mi chiedo. Perché non sappiamo più neppure oziare sereni? Perché non riusciamo a progettare un tempo ‘altro’ dagli impegni lavorativi? Perché, in assenza di disagi, non riusciamo a vivere? Chiaro che chi si salva c’è. Io ho amiche che danno forma e valore a ogni ora della loro esistenza. E francamente le invidio. Ricordo quando avevo 10 o 12 anni, e durante i periodi di vacanza non sapevo cosa fare, e allora guardavo la libreria, i titoli e mi scorreva nel corpo una sensazione di euforia, perché non sapevo da dove cominciare, ne prendevo uno a caso, spolveravo la copertina e iniziavo a sfogliarlo. E poi magari mi mettevo a lavorare a ferri, emulando mia nonna, creando lunghissime sciarpe, anche d’estate, che mi davano estrema soddisfazione. Oppure
ALLA RICERCA DELLA NOIA PERDUTA mazzetta di giornali cartacei e un libro; dopo un po’ però mi scoccio, perché non sono abituata a lunga inattività, e allora accendo il pc, perché di lavoro arretrato ne ho sempre; magari guardo la borsa della piscina, incerta se andare o meno, e no, scelgo di accendere il ferro e stirare, perché la lavatrice va di continuo e visto che sono in casa, tanto vale sbrigare questioni domestiche. Uscire? Perché mai? E così, semplicemente, le ore trascorrono lente, senza che io abbia acquisito una sola nuova energia, mica parlo di emozioni. E per fortuna arriva l’indomani, con l’agenda fitta, ed ecco riaffacciarsi il buon umore. Non che io creda a quanti sostengono che nella vita bisogna tendere all’equilibrio. Questo no, perché il benessere interiore, chiamiamolo così, toglie ogni stimolo. Un sano tormento qualifica. L’arte, intesa come
guardavo nella dispensa e se trovavo uova, lievito e farina improvvisavo dolci o copiavo ricette dal Cucchiaio d’Argento. Poi facevo giri in bicicletta intorno a casa. E la mia giornata correva, non lenta, ma piena. E alla fine avevo cose da raccontare. E soprattutto, di tentativo in tentativo, ho scoperto i miei interessi veri: non la maglieria, non la cucina, ma la lettura che poi è diventata scrittura e mestiere giornalistico e le due ruote per scaricare. Ora invece, succede che se non abbiamo cose da ‘aspettare’ andiamo - vado - quasi nel panico. Certe volte mi domando come sarebbe un giorno senza Internet, Iphon, Tablet. Mi sembra spesso di desiderarlo. Poi, con lucidità, ammetto che non saprei come affrontarlo e gestirlo perché mi sentirei fuori dal mondo. Anche se la domanda vera è se ci sono davvero dentro al mondo.
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di Susanna Penco* Istituto Italiano di Bioetica www.istitutobioetica.org
I NOSTRI CORPI UN MONDO DA SCOPRIRE Riflessioni e suggestioni a margine della Mostra Body World.
Ovvero quando lo spettacolo della morte sembra profanazione e per altri è invece consolazione
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e è vero che la verità non è ciò che è ma ciò che sembra, viene proprio da pensare che gli ex proprietari dei corpi esposti alla Mostra Body World (a Genova fino al 31 luglio 2016) siano morti senza soffrire. Contenti e vitalissimi. In barba ai detrattori dell’idea, di chi crede che sia quasi blasfemo offrire un cadavere in posa plastica allo sguardo dei curiosi. È forse stata questa la sensazione più confortante: se anche hanno sofferto e hanno varcato la soglia più destabilizzante ora, mentre li guardo, essi sono felici. Sono entrata timidamente, quasi mi sarei messa le dita sugli occhi come quando guardavo i film horror da ragazzina. Dopo pochi passi ero rapita dalla visione, inedita perfino per me che ho assistito a maleodoranti
autopsie, del corpo umano spogliato di pelle e grasso. Pezzi del corpo umano custoditi in teche, cadaveri interi praticamente immortalizzati e purificati sapientemente aperti sugli organi interni per mostrare la tecnicità perfetta del nostro corpo, filmati che raccontano come esplode un’arteria infartuata, o il passaggio della corrente elettrica nei nostri nervi e, per coinvolgere l’udito oltre che la vista, la quasi esoterica e monotona musica del cuore: il famoso “tum-tà” ben noto ai cardiologi. Detto così viene paura. Molte persone quasi inorridiscono di fronte alla spettacolarizzazione della morte, che per me è stata invece consolazione. L’esposizione della nudità estrema, quella vera, giudicata oscena, disdicevole, inde-
cente, quasi lubrica, per me è stato al contrario trovare un senso alla morte. Io non temo la solitudine. Anzi, sono pubblica e sociale più per necessità che per intima vocazione. Ma la bambina che c’è in me evidentemente teme la solitudine dei morti perché, se la solitudine dei vivi mi sembra una risorsa, quella dei morti non la conosco e per questo mi inquieta. Motivo per cui vegliavo il sonno degli animali morti quando ero piccola. Dire che la mostra è didatticamente ineccepibile, che è fonte di conoscenza perfino per gli addetti ai lavori, che anche il consiglio di abbandonare il pacchetto di sigarette all’uscita è perfetto, è banalizzarne il senso. È pur vero che ho finalmente scoperto come è davvero fatto il nervo sciatico e che mio marito
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Il filo verde si è dato pace scoprendo che la prostata è una castagnetta posta vicino alla vescica e che, se si ingrossa, rende urgente il bisogno di fare la pipì. Ma non stata soltanto l’osservazione inedita dei cadaveri aperti visti da vicino che mi ha entusiasmato, e neppure la descrizione del geniale metodo di “plastinazione” dei morti (una sorta di imbalsamazione moderna), bensì il senso filosofico della visione dei vivi che guardano i morti facendo loro compagnia. Quei corpi a strisce bianche e rossastre, spogliati della pelle, messi in pose vive e plastiche (la concentrazione del pensatore davanti agli scacchi con il mento appoggiato alle mani, la realisticità dell’acrobazia della coppia di pattinatori, la bellezza fiera della coppia cristallizzata eppure così vitale dei Titanic, con lei con i piedi piantati sulle cosce di lui e le braccia spalancate) mi hanno tolto il senso di pudore e quasi di vergogna dello spiare un corpo senza vita. Ero lì apposta per vederli, guardarli, osservarli, e giudicarli. C’era un’altra sorpresa: la stanza della maternità, cui poteva acceder solo chi se la sentiva. Immaginate il mio stupore quando ho visto, intorno alle piccole teche con dentro feti di varie età, dai più piccoli meno inquietanti fino a quelli coperti di finissima peluria che erano quasi dei neonati, alcuni vitalissimi bambini affettuosi e per nulla intimiditi dalla morte, che scrutavano il sesso dei feti, e commentavano con frasi infantili il concetto dell’aborto volontario, mentre le madri, con sorrisi un po’ imbarazzati, cercavano quasi scusandosi l’ indulgenza nel mio sguardo che per caso ascoltavo l’allegria delle nuove vite vicino a bambini mai nati…Se tutto ciò può apparire irriverente, io so bene che quei cadaveri (e le madri dei feti) avevano dato, da vivi, il loro placet a quel trattamento immortalizzante, senza condizioni: un vero consenso informato responsabile. Credo che loro, come me , forse temessero la
freddezza della bara e della sepoltura oppure l’incandescenza della cremazione: hanno scelto liberamente di restare alla luce, all’aperto, in compagnia dei vivi e di altri morti. Forse avevano fame di infinito, sete di immortalità, claustrofobia e ..vanità. Come li capisco! Tanto io sono stata e sono donna per nulla vanitosa da viva (anzi, talvolta quasi sciatta!) quanto vorrei recuperare apparenza da morta. Desidero farmi guardare, osservare, perfino ammirare nuda senza pelle, libera dai batteri e dalla putrefazione (sono ossessionata dalla decomposizione come il regista Peter Greenaway ne “Lo zoo di Venere”), eternamente (o quasi) intatta, curata, accudita, amorevolmente trasferita di città in città, per la curiosità (o per il superamento della paura) di chi mi starà accanto per un tempo breve ma intenso, con la voglia di carpire i segreti della mia vivace immobilità. *Biologa del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Genova
di Barbara Bruni
GLI ECOSHOPPER ILLEGALI
Secondo Legambiente, la metà dei sacchetti e delle buste in circolazione sono illegali. La Guardia di Finanza ha già sequestrato in Calabria e in Sicilia oltre 200mila shopper non in regola, denunciando all’Autorità giudiziaria 38 persone per frode commerciale e concorso nel reato. Si tratterebbe di un giro d’affari considerevole, che ruba fatturato all’economia sana. Una filiera nera che sottrae risorse all’erario, danneggia l’ambiente, i cittadini e chi produce correttamente bioplastiche compostabili. Secondo le stime di Legambiente,se la metà delle ecobuste in circolazione fossero veramente false, si parlerebbe di un volume pari a circa 40mila tonnellate di plastica immessa nuovamente sul mercato degli shopper, di una perdita di 160 milioni di euro per la filiera legale degli shopper bio, a cui si aggiungerebbero i 50 milioni di aggravio per lo smaltimento dei rifiuti, senza considerare i danni a mare ed ambiente.
EFFICIENZA ENERGETICA NEI MUSEI ITALIANI
Siglato l’accordo tra Enea e Ministero dei Beni culturali e turismo per tagliare la bolletta energetica degli oltre 5 mila luoghi della cultura italiani tra musei, palazzi storici e aree archeologiche. Grazie all’installazione di lampade a Led e all’impiego di tecnologie di “smart lighting”, in tre anni si abbatteranno del 30% i consumi per la climatizzazione e fino al 40% quelli dell’illuminazione.
API DEL CAPO: SI RIPRODUCONO SENZA IL MASCHIO
Le api del Capo, una particolare popolazione isolata che vive in Sudafrica, si sono evolute e per sopravvivere sono riuscite a riprodursi anche senza la presenza maschile. Normalmente l’ape regina produce nuova prole deponendo uova fecondate dai fuchi, ma le api del Capo hanno sviluppato una strategia riproduttiva che fa a meno della parte maschile: le api operaie depongono uova femminili, senza che siano fecondate, dando vita a nuove operaie. Queste api riescono poi a parassitare nidi di altre api, arrivando anche a sostituire la regina delle famiglie invase. Gli scienziati hanno riscontrato differenze in diversi geni di queste api che possono spiegare sia la produzione di uova femminili, sia il comportamento di parassitismo sociale.
SOLAR VOYAGER
Dopo l’aereo a energia solare che tenta il giro del mondo, adesso c’è Solar Voyager, una barca che – sempre con la sola energia del sole - cerca di attraversare l’Oceano Atlantico. Si tratta di un battello senza persone a bordo, con uno scafo in alluminio – lungo 4 metri e largo 4 - di 250 kg. Salpato da una località vicina a Boston, il Solar Voyager, telecomandato in remoto, cercherà di raggiungere Lisbona in quattro mesi. La posizione della barca può essere seguita in diretta su www.solar-voyager.com e sugli account Facebook e Twitter.
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STORIE DI TRATTA, PERCORSI DI RESISTENZE di Silvia Vaccaro
Il report della cooperativa sociale Be Free informa sulla complessità della tratta delle migranti, sulle condizioni nei Cie e delinea gli interventi possibili
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n report per fare politica”, così Oria Gargano, Presidente della cooperativa sociale Be Free, ha definito “Inter/rotte. Storie di Tratta, percorsi di Resistenze” (Casa Internazionale delle donne di Roma), il rapporto sulla tratta delle donne migranti, realizzato con il sostegno di Open Society, e diviso in due parti, la prima che illustra l’evolversi della situazione e la seconda centrata su alcune considerazioni relative alle politiche migratorie europee che vengono dall’esperienza maturata dalle operatrici della cooperativa all’interno del CIE (Centro di identificazione ed espulsione, ndr) di Ponte Galeria. “Dietro i muri che l’Europa vuole erigere ci sono migliaia di donne, i cui diritti umani sono stati già violati nei paesi di origine. Queste persone vedendosi respinte sono di fatti condannate a morte”. La situazione dei migranti, come non mancano di ricordare le cronache nazionali, è drammatica. Delle 19.932 persone sbarcate in Italia nei primi quattro mesi dell’anno con un aumento rispetto al 2015 (oltre 6.000 persone in più), la maggior parte proviene dalla Nigeria. A molte di queste persone è negato il diritto d’asilo (la percentuale dei respinti dalle commissioni è del 62%) e di alcuni e alcune di loro non si sa più nulla. Spesso si perdono nei meandri del traffico degli esseri umani che diventa sempre più competente. La nazionalità nigeriana è quella che emerge maggiormente anche quando si tratta di donne migranti, anche se non mancano le storie di donne arabe e un capitolo del rapporto è dedicato alle cinesi, curato da Federica Festagallo - sinologa e mediatrice culturale. Di alcune questioni particolarmente rilevanti sollevate nel report ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, dal 2008 la referente del gruppo di Be Free che lavora a Ponte Galeria. e con l’avvocata Carla Quinto, che ha spiegato come il fenomeno della tratta stia assumendo caratteristiche e contorni nuovi. “Negli ultimi anni è cambiato il ruolo della Nigeria, che precedentemente aveva un ruolo chiave nell’organizzazione criminale e che si occupava di in tutte
le fasi della tratta: reclutamento nel paese di origine, trasferimento nei paesi di transito e sfruttamento nel paese di destinazione. Parlando con le ragazze sono venuti fuori nuovi elementi. Adesso abbiamo potuto capire come l’organizzazione criminale si è adattata per aggirare la situazione politico-sociale che sta vivendo la Libia, diventata un perno indipendente nella fase del trasferimento delle ragazze. Si realizza quindi al confine con il Niger uno scambio tra l’organizzazione criminale e le bande armate di miliziani che comprano le ragazze. L’organizzazione criminale comincia a lucrare dopo averle già sfruttate sessualmente, mentre i miliziani le portano nei ghetti, luoghi che nelle precedenti testimonianze non comparivano. Il ghetto ha invece un ruolo chiave nel traffico delle nigeriane, perché sono luoghi chiusi e controllati, dove le donne aspettano e vengono re-intercettate dall’organizzazione nigeriana che le ha perse al confine con la Libia e le riacquista con una chiamata che la Madame fa direttamente dall’Italia. L’organizzazione nigeriana, non potendo controllare tutte le fasi del viaggio, ha studiato il meccanismo di cessione di donne, spostandone grandi numeri e questo spiega gli arrivi di massa in Italia. Ne spostano tante
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rispetto a prima perché anni fa non c’era dispersione: chi partiva arrivava; adesso invece sanno che ci sarà una dispersione data la situazione incontrollabile del paese nordafricano. In Libia ci sono diversi gruppi che gestiscono ognuno il proprio ghetto, facendo prostituire le ragazze all’interno aspettando che la Madame ordini per telefono dall’Italia un certo numero di ragazze. La Libia controlla le coste e le partenze e i miliziani riescono a lucrare due volte: prima attraverso la prostituzione nei ghetti e poi rivendendo le donne. Abbiamo anche rilevato delle intromissioni dell’ISIS. Ci sono delle cellule terroristiche che agiscono in raccordo con le organizzazioni che controllano le coste. Tutti lucrano sulla pelle delle donne e per loro è difficile ricostruire il loro viaggio e questo depotenzia la tutela perché non hanno elementi a sufficienza per dimostrare lo sfruttamento”. Chiediamo a Francesca De Masi, rispetto alla tutela delle vittime di traffico, se ci sono buchi normativi o se il problema è la mancanza di applicazione della legge. “C’è un doppio problema. Sicuramente la situazione è cambiata rispetto al 1998 quando è stato introdotto l’articolo 18. E poi anche quando le leggi esistono non vengono applicate e questo è da attribuire ad un clima di criminalizzazione a cui viene sottoposto il migrante, in particolare la donna sopravvissuta a tratta degli esseri umani è quella che rimane più sommersa, che non avrà la possibilità di far emergere la propria storia. Quindi anche se le leggi non vengono applicate o vengono applicate con discrezionalità da tutti gli operatori che vengono a essere coinvolti nell’approccio con queste donne, polizia, magistratura, operatori socio-sanitari e commissioni territoriali”. Intanto molte donne vittime di tratta finiscono nei CIE nonostante siano tante ormai le storie che hanno dimostrato la disumanità di questi centri. I Cie sono strutturalmente dei luoghi lesivi dei diritti delle persone. Quello che fa più paura è l’arbitrarietà che esiste all’interno di questi luoghi. I migranti devono avere la fortuna di incontrare un operatore preparato o un’associazione anti-tratta, cosa che non è assolutamente scontata. Il fatto che vengano o non vengano violate le leggi sta al buon senso delle singole persone che ci lavorano. Nel 2009 abbiamo anche avuto casi di donne che avevano subito violenza nei Cie. La discrezionalità fa sì che non ci sia nessun margine di miglioramento. Vanno chiusi e basta”. Quali possono essere le alternative,
gli strumenti per fare in modo che le donne possano entrare in un programma di uscita dalla tratta? “Si dovrebbero creare dei contesti che le mettano a loro agio, rispetto alla possibilità di denunciare o meno. L’articolo 18 non è un articolo premiale ma di tutela dei diritti umani, il che significa che ci sarebbe la possibilità che queste donne non denuncino affatto ma che vengano prese in carico da enti anti-tratta che si farebbero garanti della loro storia di sfruttamento. Questo binario è chiamato binario sociale ma sono sempre meno le questure che lo applicano. Le donne non denunciano a causa di deterrenti forti, come il rito giù-giù che le vincola alla persona che le sta “aiutando” ad arrivare in Italia. Si tratta di una cerimonia in cui vengono prelevati degli elementi fisiologici delle donne e lo stregone le fa giurare che mai tradiranno la persona che le sta portando in Italia, pena la morte e la follia. Inoltre le reclutatrici conoscono le case e le famiglie di queste ragazze. In Nigeria il reclutamento avviene alla luce del sole, attraverso persone che hanno una certa autorevolezza all’interno della comunità”. È mai successo che una Madame venisse arrestata? “Per le autorità italiane è molto più facile configurare il reato di sfruttamento, perché si consuma sul territorio nazionale, rispetto alla configurazione di quello di tratta, che è un reato transnazionale e ha bisogno di dimostrare gli elementi di connessione tra i diversi paesi. È difficile perché manca la volontà e le risorse, perché sono difficili le collaborazioni e i contatti con la polizia in Nigeria e in Libia. Per quanto riguarda gli sfruttatori è difficile trovarli, perché le denunce delle ragazze nigeriane sono sempre molto scarne circa i dettagli che servono alle autorità giudiziarie. Spesso le donne non conoscono i nomi veri delle sfruttatrici, l’indirizzo delle case in cui vivono e quindi si aprono procedimenti nei confronti di ignoti che non vengono trovati, sia perché c’è una mancanza di attenzione rispetto al fenomeno, sia perché spesso non si hanno sufficienti elementi. Ecco perché è importante applicare l’articolo 18 senza legarlo alla denuncia. Ma nel momento in cui il perseguimento della clandestinità e dell’irregolarità della tutela dei diritti umani è più importante, si assiste ad una massificazione, per cui quello che accomuna tutte le persone trattenute dentro al Cie è semplicemente che non hanno i documenti. Perché non ce li hanno, non è un problema delle autorità”. b
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LA PROSPETTIVA DI GENERE È UNA BATTAGLIA CULTURALE di Daniela Carlà
I risultati ottenuti e i nuovi orizzonti dell’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria
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70 anni dal diritto di voto alle donne, nel ripercorrere le tappe storiche e le proiezioni della democrazia paritaria nel nostro paese, fa piacere constatare negli ultimi anni l’intensificarsi di decisivi e importanti risultati. E fa piacere, in particolare, a noi dell’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria che, a partire dal 2010 - prima con l’elaborazione di Noi Rete Donne e il sostegno alla doppia preferenza di genere, poi con la promozione della rete di oltre 60 associazioni - ci siamo poste l’obiettivo esplicito di completare (o almeno di raggiungere importanti traguardi) il quadro normativo di riferimento per la democrazia paritaria. Era-
vamo consapevoli - e lo siamo - che ciò non esaurisce i nostri obiettivi, che resta da compiere una grande battaglia culturale per la trasformazione anche qualitativa della politica e delle relazioni tra istituzioni e cittadini, ma che i meccanismi per il riequilibrio tra i generi, a tutti i livelli istituzionali, costituiscono il presupposto anche per rivisitare oggi il funzionamento e le finalità della democrazia politica. Ci da soddisfazione aver contrastato la rassicurante e infondata credenza che tutto fosse compiuto e a posto, che non ci fossero ulteriori obiettivi sul piano normativo, che la democrazia paritaria si potesse conseguire in auto-
matico. Ma quando? Invece questi sono stati finalmente gli anni di leggi importantissime per il riequilibrio di genere nelle giunte comunali e per i consigli, per le leggi elettorali nazionale ed europea, per i consigli regionali. Ci fa piacere pure aver contraddetto il caricaturale pregiudizio sulla perenne litigiosità personale e sulla frammentazione politica dell’universo femminile e femminista. L’Accordo ha riunito, su obiettivi temporanei, mirati, non ideologici, oltre 60 associazioni, da quelle “storiche“ - che tanto hanno contribuito allo sviluppo legislativo e al miglioramento della condizione sociale delle donne - a quelle più recenti, significativa testimonianza e motore di passaggi decisivi della storia negli ultimi tempi. L’Accordo ha scelto di operare per obiettivi definiti, con un’agenda obiettivamente praticabile. L’Accordo si è mosso, tenacemente, con un approccio inusuale, che potrebbe davvero rappresentare anche una bella pratica per tutti, per attrarre energie e forze verso obiettivi espliciti e condivisi. Si è scelto chiaramente di non schierarsi rispetto alle scelte sugli assetti, alle ingegnerie istituzionali, alle tecniche legislative, ponendo l’esclusiva condizione che qualunque opzione fosse declinata in base al genere. La scelta di non schierarsi, è ovvio, è stata dell’Accordo in quanto tale e non delle singole persone e delle associazioni, più o meno “partigiane” e impegnate anche sui profili della definizione delle specifiche opzioni. Si sono così garantiti l’impatto ampio e la trasversalità dell’Accordo, e si è agevolato il lavoro prezioso di collaborazione tra le parlamentari. Non siamo ancora al 50e50, e la crisi istituzionale e di tensione etica comunque non agevola acritici entusiasmi. Sarebbe però un errore non riconoscere i risultati sino a ora conseguiti, non valorizzarli, non monitorarne gli sviluppi. Non gioverebbe disconoscere gli apprezzabili esiti: l’italico e scoraggiato disincanto è l’altra faccia e presupposto del familismo amorale, alimentatori di scetticismo e di populismo. Così come pure sarebbe una sottovalutazione, ora, non dislocare energie e iniziative per risultati ulteriori e per obiettivi più articolati, sul piano anche e soprattutto dei cambiamenti qualitativi della nostra democrazia, per sinergie sistematiche tra centro e territorio, per nuovi e strutturati “ponti” tra individui e Stato, tra comunità e istituzioni, per fluidificare partecipazione e trasparenza, per riformare democraticamente la vita interna dei partiti politici. Siamo partite nel 2010, realisticamente, dal riconoscimento dell’utilità della doppia preferenza di genere, consapevoli che quest’ultima non avrebbe di per sé innescato processi di trasformazione qualitativa, ma altrettanto convinte che la maggiore presenza femminile sia comunque nel medio periodo fattore trasgressivo e ri-
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voluzionario, motore di trasformazione, a prescindere dai curricula, dalle storie personali, dalle alleanze di chi, contingentemente, usufruisce nell’immediato dei meccanismi introdotti dal legislatore. La prospettiva di genere è dirompente e comunque dinamica, soprattutto in realtà, come quella italiana, ancora troppo bloccate. Ma è importante che l’ottica di genere si coaguli, strutturandosi non solo come fattore critico, ma anche come chiave di lettura e sguardo generale, collante ricostruttivo e aggregante nella evoluzione necessaria della democrazia politica verso nuovi ambiti e ricomposizioni.
Il femminismo ha messo definitivamente in discussione la dicotomica e schematica contrapposizione verticale tra pubblico e privato. La dimensione ultima dell’immigrazione - nei termini quantitativi e qualitativi con i quali si presenta - ha fatto cadere irreversibilmente la separatezza dello Stato nazionale rispetto alle regolazioni Regionali
e internazionali, e i muri costruiti nevroticamente rilevano la loro inutilità. L’ampliamento di ambiti della democrazia e della politica e il rinnovamento della governance si impongono, invece, e a tutti i livelli, invocando nuovi assetti, equilibri, gerarchie. Nell’immediato nel nostro paese - e a prescindere anche qui da quale che sia l’esito del referendum sulle riforme istituzionali - occorrerà intanto trarre ogni conseguenza e applicare al meglio tutte le norme recentemente approvate, e operare anche per impegnare le energie nuove degli uomini e delle donne delle istituzioni per sviluppare e per valutare anche le politiche pubbliche in un’ottica di genere, affinando e diffondendo bilanci di genere, utilizzando tutti gli strumenti, sistematizzando le statistiche di genere. Si contribuirebbe nel concreto ad avvicinare così maggiormente le istituzioni alla concretezza della vita degli uomini e delle donne. E si contribuirebbe anche a una maggiore fiducia verso le istituzioni, alla loro autorevolezza e credibilità. Le istituzioni del nostro paese devono risultare meno distanti, per divenire effettivo punto di riferimento e dimensione riconosciuta e praticata per il concreto esercizio di un’etica laica, accogliente, plurale, coerente, con le contemporanee e articolate identità - fragili ma esigenti - degli individui nella dimensione pubblica e in quella privata. Ciò dipende molto da chi abita le istituzioni, e anche dalla capacità di rappresentare effettivamente e visibilmente le diversità presenti nella popolazione, a partire dal genere. Non vi è dunque trionfalismo inutile nel valorizzare alcuni significati progressi che, sino a ora, l’Accordo ha contribuito a realizzare; piuttosto, vi è la volontà di prefigurare ulteriori e necessari passi in avanti nella governance nazionale e internazionale, sempre più interagenti, verso l’obiettivo della parità di genere e il 50e50, a tutti i livelli. Il nostro non è un impegno disgiunto da quello (fortemente avvertito come urgente da tanta parte della opinione pubblica) per la legalità e per il contrasto alla corruzione. Sarebbe infatti contraddittorio e poco plausibile e credibile dispiegare l’impegno istituzionale per l’imparzialità, la legalità, l’avversità alla corruzione, se le istituzioni non rimuovessero al proprio interno, nella composizione e nel quotidiano operare, ogni discriminazione. L’illegalità e la corruzione restituiscono continuamente ai cittadini l’immagine di istituzioni e amministrazioni parziali e discriminanti, che operano proprio con parzialità al proprio interno e generano conflitti, ingiustizie, disparità ulteriori. Come essere così miopi da non cogliere tutti i nessi? Come non sventagliare ulteriormente l’obiettivo di progressi per la democrazia paritaria, riproponendo forte l’intreccio con le pari opportunità tra i generi, e non solo? Il principio di non discriminazione deve agire in positivo, non solo contrastando le discriminazioni, ma anche imponendosi come fattore trainante di innovazione. b
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FELICITÀ.
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INTRECCIO PERFETTO
pubblico, privato e giustizia sociale di Costanza Fanelli
Il Rapporto mondiale ogni anno elabora parametri per misurare il grado di felicità individuale e collettivo in 156 nazioni. L’Italia è al cinquantesimo posto
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uò la felicità essere misurata? La misura della felicità rimane solo un fatto soggettivo o può interessare la dimensione più ampia dello stare insieme, di una società, di un paese? C’è una relazione tra la felicità e il ben stare delle persone? La felicità è una dimensione che interferisce o può interferire nella condizione concreta delle persone? Ci sono differenze in questo tra uomini e donne, tra giovani e persone di età più avanzata? Quanto contano o possono contare sulla condizione o il sentimento di felicità le condizioni concrete di vita: reddito, salute, ambiente, istituzioni sociali, cultura? E ancora. La felicità è una misura utile per valutare i livelli di avanzamento o, al contrario, di peggioramento delle condizioni di vita delle
persone alle varie latitudini e longitudini? Tanti quesiti che richiedono risposte articolate e non scontate. In un mondo globalizzato, dove convivono differenze enormi da tanti punti di vista (geografico, sociale, economico, culturale, politico), la felicità è un termine di confronto che nella sua assoluta soggettività può aiutare a trovare chiavi per affrontare grandi questioni globali che spesso si giocano usando parole e concetti inadeguati e poveri di significato se si pensa ad una dimensione fatta di esseri umani. Dal 2012 , nell’ambito di uno spostamento dell’attenzione degli studi e delle politiche collegate agli organismi internazionali che si occupano di politiche globali, ogni anno viene prodotto un ‘Rapporto mondiale sulla Felicità’ - giunto alla quarta edizione -, costruito con sempre maggiori approfondimenti non solo in relazione alla capacità di raccogliere informazioni da quasi tutti i paesi del mondo ma soprattutto nel riuscire a capire, con indagini e studi sempre più sofisticati, come la misura della felicità possa essere una chiave per meglio mettere a fuoco le componenti complesse del benessere delle persone e quindi anche per meglio intervenire sulle politiche che devono, o dovrebbero, guardare al benessere delle persone
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PRIMA LA DANIMARCA, ULTIMO IL BURUNDI Il ‘Rapporto mondiale sulla Felicità’ 2016 sancisce che la nazione con il livello più alto di felicità ‘misurata’ è la Danimarca, che si conferma al primo posto, seguita da Svizzera, Islanda e Norvegia. A seguire, tra i primi dieci ‘della classe’ Finlandia, Canada, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Australia e Svezia. Gli Stati Uniti hanno guadagnato due posizioni più in alto rispetto allo scorso anno e si classificano al tredicesimo posto. L’Italia conferma la cinquantesima posizione. Madagascar, Tanzania, Liberia, Guinea, Rwanda, Benin, Afghanistan, Togo, Syria, Burundi sono gli ultimi dieci in classifica. L’attenzione internazionale che ottiene il Rapporto va di pari passo con l’intento di individuare la felicità e il benessere soggettivo come indicatori primari della qualità dello sviluppo umano. Fa ben sperare,
infatti, che tale attenzione arrivi da molti governi e istituti di ricerca intenzionati, si spera, ad attuare politiche volte a migliorare la qualità della vita, mettendo al centro le persone e non la finanza. IlRapporto,prodottodal Sustainable Development Solutions Network (SDSN), è stato curato da John F. Helliwell della University of British Columbia e il Canadian Institute for Advanced Research, Richard Layard, direttore del Well-Being Programme presso LSE’s Centre for Economic Performance, Jeffrey Sachs, direttore del EarthInstitute e SDSN.
L’APPROCCIO OLISTICO E LE DISUGUAGLIANZE Una novità nel ‘Rapporto sulla Felicità’ 2016 è arrivata con la misurazione della disuguaglianza nella distribuzione del benessere tra i paesi, che ha aggiunto altri indicatori rispetto a quelli classici: reddito,
nel mondo. Anche quest’anno e il Rapporto è stato presentato in Italia nel “giorno della felicità”, che l’Onu ha fissato il 20 di marzo. Il taglio di questi studi non intende, ovviamente, sottovalutare i fattori concreti del benessere quali il reddito, la povertà o le condizioni materiali di vita. C’è da dire che, proprio perché l’analisi si fonda su un lavoro che parte dalla valutazione stessa delle persone in varie parti del mondo e in contesti diversissimi su alcuni aspetti che hanno a che fare con la percezione di felicità, riesce a fornire approcci più ampi e articolati assai utili a capire - e ad affrontare - problemi enormi come le differenze esistenti nel mondo, le disparità, le condizioni di vantaggio e svantaggio, gli intrecci tra politiche economiche e politiche sociali, le connessioni tra “ambienti degli stati” e individui. Di grande importanza è anche l’osservazione degli impatti di alcuni problemi su uomini e donne. Nel Rapporto 2016 sono state usate e elaborate delle statistiche o “medie di felicità” lavorando su alcune variabili sulla felicità percepita, quali il potere di acquisto personale, il livello di supporto sociale su cui poter contare, l’aspettativa di salute e di vita, il grado di soddisfazione o meno sulla propria capacità di scelta, la percezione della corruzione in senso ampio, la propensione alla generosità.
povertà, educazione, salute e buon governo. Da uno sguardo più ampio è emersa la relazione tra la felicità e le disuguaglianze sociali accanto alla constatazione che la disuguaglianza di felicità è aumentata in modo significativo se si paragona il 20122015 al 2005-2011. “Il benessere umano dovrebbe essere promosso attraverso un approccio olistico che combina obiettivi economici, sociali e ambientali. Al posto di adottare un approccio incentrato esclusivamente sulla crescita economica, dovremmo promuovere società prospere, giuste e sostenibili dal punto di vista ambientale - ha detto Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University - e la misurazione della felicità percepita e il raggiungimento del benessere dovrebbero essere attività all’ordine del giorno di ogni nazione che si propone di perseguire obiettivi di sviluppo sostenibile”.
Quello che emerge è un quadro complesso e non facilmente riassumibile. Alcuni elementi, però, spiccano. Intanto il fatto che attraverso la percezione di felicità, oltre alle questioni legate alla dimensione economica, ci sono altri importanti fattori collegati alla dimensione individuale. Si tratta di fattori che, se messi in gioco su larga scala, intervengono attivamente sul miglioramento collettivo. Altro elemento, preoccupante, che emerge da queste analisi più complesse è l’impatto della crescita delle diseguaglianze insieme al peggioramento di vita prodotto in questi anni dalla crisi economica di proporzioni mondiali che ha colpito in diversa misura tante nazioni. L’Italia si attesta al cinquantesimo posto nella graduatoria della misurazione della felicità. Ma le informazioni e le molteplici indicazioni che vengono fuori dal documento forniscono anche importanti chiavi e spunti per affrontare in termini di “felicità pubblica” i temi dello sviluppo, del rapporto tra questa parola e la condizione di ogni persona ma anche l’importanza nella percezione di ogni individuo di elementi di contesto come il clima, il grado di libertà agita oppure le barriere oscure della corruzione rispetto ai percorsi di crescita economica e sociale..◆
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LA PAROLA ALLA (NOSTRA) RETE Abb iamo interpell ato l e l ettrici per s criv ere u na s orta d i articol o coll ettiv o. Le mol te ris pos te al ‘s ond agg io’ l anciato su F acebook m ettono ai primi pos ti: il tempo per se stesse e da trascorrere con i propri cari, l’impegno nella società, i viaggi e la natura
cose collegate fra loro, esperienze che mi fanno stare in movimento e al tempo stesso sola con me stessa, regalandomi momenti di relax e possibilità di riflettere sulla mia vita e i miei errori, o sulle cose che desidero fare” ed aggiunge: “non ho bisogno degli altri per essere felice, per me il top è potermi gustare questi tre piaceri da sola”. Sempre sul tema del tempo, Antonella sottolinea come “avere tempo per se stesse sia ormai un lusso (leggere, viaggiare, meditare, la musica)”; anche Tommasina è sulla stessa lunghezza d’onda “Avere tempo per se stesse è la conquista più importante per le donne abituate solo all’accoglienza e all’accudimento. Liberarsi dei sensi di colpa per imparare a volersi bene”; Fortunata invece ci parla della necessità di prendersi del tempo per sé per “per ritrovarsi, ritrovare la centratura”.
Cosa rende felici le donne?
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iù che un sondaggio è stato uno scambio di opinioni, quello che NOIDONNE ha lanciato su Facebook per ‘misurare’ il grado di felicità delle donne. Uno spazio aperto per raccontarci cosa ci fa stare bene, un luogo per riflettere insieme sul nostro presente e dare ad ognuna un orizzonte in funzione del quale costruire il proprio futuro. In tante hanno risposto, con entusiasmo e disponibilità, ma certamente chi ci ha fatto sapere come la pensa su questo tema non rappresenta un campione significativo, né dal punto di vista quantitativo né da quello qualitativo. Sgomberato il campo dalle questioni statistiche, a leggere le risposte delle amiche non si può far altro che pensare che la felicità è un sistema complesso (come recita il titolo di un film uscito non troppo tempo fa) ma che ha bisogno di semplici, piccole cose alla portata di tutti, o quasi. Il tema del tempo, per se stesse ma anche da passare con le persone che si ama, o con il proprio animale domestico, sembra la questione principale. Dice Patrizia che “la felicità è trascorrere tempo con amici/ amiche perché senza amici (veri) si è più soli e trascorrere del tempo con il proprio compagno per realizzare il progetto di vita comune”; Sara scrive che ciò che la rende felice è “andare in bicicletta, viaggiare e scrivere. Sono
Ecco il nostro (non) ‘sondaggio’ alla ricerca di una possibile graduatoria. 1. Godere della bellezza della natura 2. Giocare con il proprio animale domestico 3. Ballare 4. Ricevere un gesto di gentilezza 5. Trovare soldi per caso 6. Avere tempo per se stesse 7. Trascorrere tempo con gli/le amici/amiche 8. Guadagnare tanto 9. Fare l’amore 10. Fare qualcosa per gli altri 11. La musica 12. Lottare per un’idea 13. Fare un buon affare 14. Viaggiare 15. Il successo professionale 16. Fare sport 17. Giocare con i propri figli 18. Le vacanze 19. Il tempo trascorso con il/la proprio/a compagno/a 20. Nuotare 21. Fare shopping 22. Leggere 23. La politica 24. Meditare 25. Cantare 26. Altro
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FELICITÀ. Gli affetti sono l’altro elemento che non deve mancare e che va dal fare qualcosa per gli altri a passare del tempo con il proprio compagno/a e con i propri figli, fino a godere della compagnia del proprio animale domestico. Giovanna dice che “giocare con il mio cane o accarezzare il gatto mi da’ tanta gioia e serenità”; per Antonella le relazioni affettive sono quelle che portano a “curare i rapporti e le relazioni con i familiari e gli amici, fare politica”, Elvira non parla di gioco ma della gioia che le offre trascorrere del tempo con i propri figli: “anche se ho una figlia grande sono felice quando sono con lei”. “Noi siamo le cose nelle quali crediamo” dice Manuela e quindi l’impegno e l’aderenza alla propria identità sono centrali; da qui ne discende la partecipazione politica “intesa come servizio alla comunità, e non come sistemazione personale”, come dice Magda, o lottare per un’idea “perché è bello credere in un ideale che sia di altruismo e pace per tutti” come scrive Elettrika Marge. Del successo professionale parlano Patrizia: “il successo professionale significa vedere realizzata se stessa, i propri sogni e l’autonomia economica”, Antonella “il successo professionale con conseguente buon guadagno” ed Elvira “il successo professionale aumenta l’autostima e potrebbe aumentare il reddito!”. Sempre presente anche il viaggio, che incuriosisce e fa scoprire mondi nuovi come dicono Giovanna e Valentina e perché, come sottolinea Tommasina, “si entra in contatto con esperienze e vite diverse; se ne esce umanamente arricchite, aperte alle differenze e pronte alla condivisione e al confronto con chi è portatrice/ore di culture diverse”. Godere della bellezza della natura è sicuramente un’altra delle scelte prioritarie che è stata declinata in differenti modi. Valentina dice che la natura la “tranquillizza”, Magda che “la lascia senza fiato” e a Rossella la bellezza della natura “riempie il cuore”. Così come riempie il cuore a tante ricevere un gesto di gentilezza, cantare, ascoltare la musica, meditare. Discorso a parte il fare l’amore, forse meno cliccato per una sorta di pudore, ma Elettrika Marge rispolverando un vecchio slogan dice che è importante “fare l’amore perché bisogna fare l’amore e non la guerra” e Manuela scoperchia la pentola dicendo che “chi non lo include sta mentendo a se stessa”. Per finire Teresa ricorda a tutte noi che forse mancava un punto tra quelli elencati: “vivere senza guerra e averne solo sentito parlare da 70 anni” e aggiunge che siamo fortunate ad aver potuto godere di tante gioie. ◆
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MIGRANTI PER NECESSITÀ …E ALLA RICERCA DELLA FELICITÀ
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guali, perché con gli stessi sorrisi, gli stessi occhi pieni di ironia e gioia, la stessa frenesia di dover fare tante, troppe cose, nella stessa giornata. Diverse perché una guerra, la povertà e la voglia di migliorare le hanno spinte a lasciare i luoghi dove sono nate, gli affetti, le abitudini per trovare letteralmente un mondo migliore. Per sé, e molto più spesso per i propri figli, per il loro futuro. Le migranti, la maggior parte di loro, ha intrapreso un viaggio sotto l’impulso di una necessità, spesso economica e di sopravvivenza; ma se abbiamo la perspicacia di spingere il nostro sguardo oltre la superficie vedremo delle esploratrici, delle avanguardie con un’idea ben precisa di felicità. Forse un po’ diversa da quella di chi non ha mai lasciato il proprio nido però.
Angelica, più di venti anni in Italia, ancora lavora come
colf malgrado la sua laurea in biologia,“ma non importa”, perché ha costruito una casa per sé e il suo compagno in Romania, ha fatto studiare i figli e ha comprato una casa anche per loro. “È stata una scelta obbligata e dolorosissima per me e mio marito lasciare i miei figli con mia madre e venire a lavorare qui in Italia. Ma noi avevamo un progetto, che in grande parte si è compiuto. È stato un sacrificio degli affetti in cambio di una sicurezza economica e della possibilità di dare loro delle occasioni. Oggi posso dire di essere contenta ma non tornerà il tempo dei giochi e delle carezze e spero di poterli recuperare con i miei nipoti”.
Patricia
è una rifugiata politica arrivata in Italia dalla Costa d’Avorio; avere appreso a cucire a macchina e aver trovato un lavoro presso una cooperativa rappresenta per lei, in questo momento, la felicità. “Il mio stipendio a fine mese, anche se modesto, la stanza che riesco a pagarmi, poter andare al supermercato e scegliere il cibo che mangerò, una crema per il viso, un paio di jeans nuovi sono davvero quello che più desideravo quando sono arrivata qui. E adesso sono a questo punto del percorso. So che non è finita, che la vita non è solo questo ma questa stabilità mi da’ la forza di progettare il futuro”.
“Ho lasciato l’Ucraina a 19 anni - racconta Gabriela -. La povertà, non solo economica ma anche culturale ed affettiva, mi hanno spinto ad andare via. Non avevo nulla da perdere è vero, ma è stato difficile. Ora ho un bambino, un compagno, una piccola casa, anche qualche lavoretto; sono contenta. Sto imparando a cucinare, a fare le torte con la pasta di zucchero. Spero di poterne fare un lavoro stabile e redditizio in futuro”. ◆
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FELICITÀ.
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UNA RIFONDAZIONE POSSIBILE di Elena Ribet
Latou ch e, Vaugh an, De g an. Societ à, economia, pol itica, cul tu ra e natu ra s ono consum ate d all a cris i in atto. Sta a noi d onne e u omini d i ogg i rifond arl e e ricos titu irl e in mod o nu ov o
C’è
una felicità riconducibile alle scelte prese nella dimensione pubblica e politica, ma non sempre ci rendiamo conto di poter essere parte di questo processo, come massa più o meno critica che vota, acquista e consuma, o addirittura come singole persone che vivono, pensano, leggono e agiscono, cercando di sottrarsi al meccanismo. Serge Latouche, teorico della “decrescita serena”, nel recente incontro “Crescita, recessione, decrescita, un cerchio che si chiude” (Cipax-Roma, maggio 2016) ha detto: “quando gli organismi crescono, si trasformano; un seme non diventa un seme gigantesco, il seme diventa una pianta, questo è lo sviluppo: la trasformazione qualitativa di un fenomeno quantitativo. […] Quando gli economisti hanno preso in prestito questa metafora, si sono dimenticati alcune cose: 1) l’economia non è un organismo e, anche se lo fosse, dovrebbe a un certo punto morire. Si può pensare alla società umana nel suo rapporto con l’ambiente come un organismo, metaforicamente (l’ha fatto il grande biologo britannico James Lovelock, parlando di pianeta vivente Terra-Gaia). 2) Gli organismi vivono in una dipendenza reciproca, mentre l’economia prende dalla natura tutte le materie prime e butta rifiuti, senza considerarne l’interdipendenza. […]Uscire da una società per costruirne una nuova vuol dire fare una rivoluzione delle menti, dell’immaginario, si deve decolonizzare l’economicismo e soprattutto la fede nella crescita. E la decrescita? Prima di tutto è uno slogan, perché decrescere per decrescere sarebbe una cosa stupida, né più né meno di crescere per crescere… quando si comprende che la crescita infinita è un’assurdità si apre la
possibilità di un’alternativa, che io chiamo la società dell’abbondanza frugale […] in contrapposizione a un paradossale sviluppo sostenibile. Lo sviluppo è tutt’altro che sostenibile, è un modo di prolungare ancora il mito della crescita. […] Per risolvere il problema terribile della disoccupazione, si deve rilocalizzare, riconvertire, ridurre. Rilocalizzare, se prendiamo sul serio la parola, significa ritrovare localmente una vita economica sociale, politica, culturale; significa demondializzare. La globalizzazione è stato un gioco al massacro su scala planetaria. La cosa nuova non è la mondializzazione dei mercati, bensì la mercificazione del mondo, questa è la verità della globalizzazione. Lo slogan ‘lavorare di più per guadagnare di più’ è assurdo: ce lo dice la stessa scienza economica con la famosa legge della domanda e dell’offerta: se si lavora di più, aumenta l’offerta, ma se la domanda è inferiore all’offerta il risultato è il calo del prezzo della valuta e dello stipendio. Questo si è verificato negli ultimi anni; si lavora sempre di più e gli stipendi sono sempre più bassi. Quindi possiamo dire: lavorare meno per guadagnare di più e lavorare meno per lavorare tutti e soprattutto lavorare meglio per vivere meglio, allora: riduzione drastica degli orari di lavoro, fino alla piena occupazione. Questo sarebbe un primo passo nel senso della decrescita, del cambiamento: ritrovare il senso della vita contemplativa, giocare, pensare, pregare, meditare, sognare. Tutto questo non per produrre di più, ma per soddisfare i bisogni e per andare verso una società dell’abbondanza frugale. Sembra un ossimoro, perché pensiamo di vivere in una società dell’abbondanza (tutti ce lo dicono, anche attraverso la pubblicità) invece viviamo in società dello spreco, di scarsità e frustrazione”.
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Nuovi paradigmi ci sono, nelle teorie e nelle pratiche di molte donne. Geneviève Vaughan, semiologa e teorica dell’economia del dono, riprende il concetto di “valore” restituendo ad esso un significato non mercificato: la cura costruisce un valore reciproco nelle relazioni, e questo si trasforma in autostima, benessere e capacità di dare a sua volta. Un ulteriore approfondimento, a partire da queste teorie, viene dagli studi di Daniela Degan, che matura una visione radicata nel passato e nel presente e presagisce future felicità possibili: “Studi neurologici hanno dimostrato che è il legame umano, anziché il vantaggio economico o l’idea di vincere, che procura il massimo piacere (il cervello si accende). Questo, secondo gli studiosi, sta ad indicare che siamo geneticamente predisposti dall’evoluzione alla reciprocità e alla mutua cura quale efficace strategia di sopravvivenza. Quando questo non si verifica? Sempre le neuroscienze hanno verificato che gravi o croniche condizioni di stress inibiscono la nostra capacità di provare empatia e di avere la possibilità di scegliere alternative ragionate e più consapevoli. Come documentato dalla neuroscienziata Debra Niehoff, la neurochimica dello stress rende più difficile avere consapevolezza degli altri o perfino di se stesse/i. Questo perché si spende una grande quantità di energia per avvertire minore dolore e “l’empatia passa in secondo piano rispetto al sollievo della sofferenza paralizzata da un sistema nervoso reso insensibile dallo stress”. Stress, paure reali o immaginarie, piccoli affronti o grande minacce portano l’individuo a ricorrere alle strategie diciamo tradizionali ovvero attacco, fuga o immobilità. Viene meno l’empatia, la cura, la compassione. E la trasformazione rimane bloccata. Usando le parole di Riane Eisler diremmo che prendere parte a laboratori di autoproduzione, può significare agire un “modello di partnership”, di cooperazione, contrapposto al “modello della dominanza”, assai più diffuso nella vita di tutti. Sperimentare ipotesi di “trasformazione culturale” in un contesto protetto favorisce il desiderio di narrare altrove, fuori da quanto vissuto e condiviso. Coinvolgere, contaminare, dimostrare, anzi mostrare, che si può, nel fare, raggiungere una sorta di equilibrio “gilanico” della decrescita.
[…] Autoproduzione quindi come partecipazione conviviale nella ricerca ed elaborazione di uno spazio di decrescita: ma quale è in breve il significato di convivialità? Ivan Illich, partendo dal piacere e dal valore del vivere insieme, articola la convivialità prima di tutto come una diversa forma di organizzazione sociale e del lavoro “che consente (…) l’autonomia di ciascun lavoratore”, intesa come potere. Oppure “conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni”. Sinonimo di partecipazione, quindi di un agire diverso, sia nella modalità di produzione della ricchezza, sia nel controllo democratico della tecnologia. Operando in questo senso le persone vengono liberate dall’ingranaggio del mercato globale, sottraendosi a certi meccanismi, grazie alla loro partecipazione a forme conviviali di organizzazione del fare [e non del lavoro salariato] che consentono di migliorare la qualità del benessere di tutti. In questo modo c’è bisogno di meno prodotti, ma contemporaneamente la vita si alimenta di tempi più umani, non alienanti, al posto di quelli dettati dal sistema dominante”. ◆ CURIOSITÀ 1776. La Dichiarazione d’Indipendenza americana sancisce il Diritto alla felicità. 1974. Richard Easterlin teorizza il paradosso della felicità: oltre un certo reddito la felicità diminuisce. 2012. L’ONU istituisce il 20 marzo la Giornata internazionale della felicità. 2012. Felicità responsabile. Il consumo oltre la società dei consumi. Roberta Paltrinieri, senza ignorare l’infelicità generata dal consumo, indaga in un libro forme di economia che mantengono sullo sfondo valori quali fiducia, reciprocità, solidarietà, equità, autenticità, sostenibilità, giustizia, inclusione sociale. 2015. Algoritmo Twitter elabora i «cinguettii» contenenti gioia e allegria per stilare una classifica delle città più felici.
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FELICITÀ.
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COSTRUIRE UNA LIBERTà ALTRA di Marta Facchini
Le g iovani e il femminil e al cos petto d ell a fel icità, tra Simone Weil e Luisa Muraro pass and o per Carla Lonzi. Un cal eid os copico d iv enire
L
a felicità è un sistema complesso. È questo il messaggio di una recente pellicola del cinema italiano, regia di Gianni Zanasi. La trama è semplice: il protagonista, impersonato da un impeccabile Valerio Mastrandrea, è un imprenditore dalla giacca grigia, faccia seria e impenetrabile, che ha un lavoro che con la felicità ha ben poco a che fare. La vita fa poi lo sgambetto: prende il protagonista in contropiede, lo manda in crisi e lo costringe a ripensare un’intera esistenza. Lo mette davanti al necessario risvolto emozionale e affettivo delle relazioni. E, in queste nuove affinità elettive, lo fa camminare su un’altra strada.
“Siate felici, e se qualche volta la felicità si scorda di voi, voi non vi scordate della felicità. Per essere felici deve bastare poco, non deve essere cara la felicità. Se è cara non è di buona qualità“. Roberto Benigni Anche io penso la felicità come un sistema complesso. Non riesco a definirla in un solo modo. Me la immagino in una composizione multiforme. Non sta mai in un solo posto, cambia direzione. Si ferma, poi ricomincia a muoversi. È un caleidoscopio. Produce metamorfosi, è sempre in connessione con l’altro da sé stessa. Così come credo sia difficile
riflettere su cosa le nuove generazioni di donne intendano per felicità. Idea confermata se ricordiamo come, spesso, i discorsi di ampio respiro, anche se pronunciati con l’intento di chiarire, possono correre il rischio di semplificare in maniera eccessiva. E lo fanno soprattutto se non dimentichiamo le difficoltà insite nel richiamare una generica categoria femminile. Siamo tante, conteniamo moltitudini,
“Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità“. Aristotele e siamo attraversate da differenze. Noi siamo “mai tutte” ma sempre eccedenti. Mai funzionali e non rispondenti alle rappresentazioni imposte del femminile. Per parlare a partire da sé, parto da Simone Weil. E nel farlo riprendo una riflessione sollecitata tempo fa da Luisa Muraro, anche lei chiamata a interrogarsi su cosa si possa intendere per felicità. La filosofia francese è a New York, ottobre 1942, quando si chiede perché esistono alcune questioni su cui nessuno più si interroga. Tra queste, perché in nessuno sia possibile estirpare il desiderio di essere felice.
“Molte persone hanno un’idea sbagliata di ciò che porta alla vera felicità. Essa non si raggiunge attraverso il piacere personale, ma attraverso la fedeltà ad un proposito degno”. Helen Keller Una domanda che spinge l’autrice ad affermare come la felicità non sia una cosa da desiderare senza ragione e in maniera incondizionata. L’assenza di condizioni condurrebbe fuori strada, farebbe cadere in falsi miti. Non è un caso che a essere chiamato in causa sia proprio Platone, il primo ad affermare che felicità e bene si eguagliano, alla fine. Ciò nonostante, anche se a certe condizioni, per la Weil la felicità rimane un bisogno essenziale dell’anima. Le condizioni di cui parla Simone Weil, io le ho trovate nelle pratiche del femminismo. È nel femminismo, nel desiderio di vivere politicamente e nella creazione di un’alternativa forma di politica, che trovo una forma di felicità. Del resto,
“Dicono che il mondo è di chi si alza presto. Non è vero. Il mondo è di chi è felice di alzarsi”. Monica Vitti
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nei femminismi, questa ricerca della felicità mi sembra di leggerla proprio nell’originaria produzione di uno spostamento rispetto alle narrazioni dominanti. Sta nel supera-
“Ah, è un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né se stesso, ma soltanto te“. Elsa Morante mento della subalternità. Si annida nel cuore delle radici nelle pratiche delle donne. All’origine, già solo nella contestazione dei tempi in cui, alle donne, la felicità era imposta. Felicità come passione politica e condivisione di corpi in divenire, di cui credo ci sia ancora bisogno. E in
Tra il sacro e il profano… Una risata e il primo bacio. L’acqua bevuta a garganella dopo una corsa. La festa di laurea con il vestito che ti sta a pennello. Attimi che accecano, desideri che si realizzano, paure che si dimenticano. Sorella minore dell’amore, la felicità ha la misura del momento e la velocità di un passaggio mai permanente. È il tempo che acquista lo spessore necessario al ricordo, la sorpresa live che accarezza il presente, l’immaginazione del futuro. Depennata da Voltaire nel suo dizionario filosofico, coincide per gli antichi greci con l’eudemonismo, termine che rimanda al fondamento della vita come realizzazione etica. Una morale che James Hillman scandaglia in tutta la sua profondità partendo proprio dall’etimologia del concetto greco traducibile con: essere in compagnia di un buon demone. È il daimon - l’anima, il paradigma - come il genius dei latini o l’angelo custode dei cristiani. Ma è anche la forma fondamentale, l’immagine primigenia che ci crea nella nostra individualità e ci fa felici. La ghianda
modo prorompente. È il desiderio di immaginare e costruire un altro tempo. Esattamente perché penso che il femminismo sia un divenire, vedo nel suo movimento anche quello di una felicità che si compone. È la costruzione di una libertà altra perché, come diceva Carla Lonzi, “non c’è dubbio che la liberazione della donna non può rientrare negli stessi schemi (...) si vanifica il traguardo della presa del potere”. Una libertà nuova, fatta di relazioni e incarnata nei corpi, che supera l’affermazione degli egoismi. Per me, la felicità è la possibilità di una rivoluzione. ◆
che definisce il progetto della nostra vita e che ciascuno incarna. Negli archetipi di Hillman, come per Socrate e Platone, è il marchio che riceve il carattere fin dall’infanzia e che prima o poi svela chi dobbiamo essere. In altre parole, diventa quel che sei o per dirla col gigante Gargantua di Rabelais: “Fai ciò che vuoi sarà la tua legge”. Nei secoli la traccia della felicità compie arzigogoli e volteggi, tra equilibrio e misura, bene supremo o estasi mistica, si accompagna ai canoni dominanti nelle diverse epoche. Dalla mitica età dell’oro, sempre invocata, tutti la citano ma in pochi l’approfondiscono per quell’essenza passeggera, legata alle passioni e al capriccio di desideri materiali che poco interessa la speculazione dei filosofi. Sdoganata in età moderna dalle correnti del giusnaturalismo diventa centrale nel Contratto Sociale di Rousseau. Il teorico della democrazia diretta ne fa un principio cardine della politica, intesa come risultato di una scelta naturale che l’uomo attua per essere felice e trovare: “Una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ciascuno, unendosi
a tutti gli altri, non ubbidisca tuttavia cha a se stesso, e resti altrettanto libero quanto prima”. Dalle contaminazioni con il diritto e la politica il concetto di felicità assume valore pedagogico nell’Emilio. L’opera più conosciuta dello scrittore ginevrino che in polemica con i filosofi illuministi celebra la felicità dell’individuo come imprescindibile da quella dell’intera umanità, come egli stesso scrive nel primo Discorso: “Non si tratta affatto di quelle sottigliezze metafisiche che hanno invaso tutte le parti della letteratura, ma si tratta di una di quelle verità che riguardano la felicità del genere umano”. Felicità nella libertà e secondo natura, perché la più importante regola di ogni educazione: “non è di guadagnare tempo, è di perderne”. Sulla centralità del problema educativo Rousseau riesce ad anticipare molti temi del Romanticismo e della successiva psicanalisi, aprendo alla consapevolezza di un mondo interiore, oltre che politico, rispetto al quale in tanti possono, felicemente, dirsi suoi epigoni. Emanuela Irace
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CURARE LE RELAZIONI PER COSTRUIRE COMUNITÀ di Tiziana Bartolini
Cantiere Infanzia è il luogo simbolico nella periferia della Capitale di un ‘fare’ con spirito cooperativo autentico. L’esperienza di Nuove Risposte a oltre trentacinque anni dalla sua fondazione
C
ondivisione, solidarietà, innovazione, sperimentazione. Parole che contengono mondi, modi di essere e di sentirsi parte attiva della società. Concetti che sono l’humus in cui affonda le radici la cooperativa Nuove Risposte. “Il nostro è un cammino lungo, iniziato nel 1980.
Lo sguardo è stato attratto fin dall’inizio dai bisogni sociali che salivano prepotentemente e che ancora non trovavano nei servizi pubblici risposte organizzate”. Elisa Paris è la
presidente e anche il motore di una realtà che è cresciuta col tempo, acquisendo esperienza e credibilità nel territorio grazie al rigoroso lavoro quotidiano. “Avevo vinto il concorso e insegnavo lingue; mi aspettava un futuro ‘tranquillo’ ma, nonostante le resistenze della mia famiglia, scelsi di seguire la mia inclinazione ad operare nel sociale. Iniziammo con l’assistenza domiciliare agli anziani in un contesto in cui le stesse istituzioni non avevano ben chiaro quali fossero le necessità. Partecipammo al bando comunale aggiungendo alcune prestazioni non richieste di cui vedevamo l’utilità e che erano ispirate alla promozione dell’emancipazione dell’anziano. Erano attività di socializzazione come, ad esempio, i centri anziani, che ancora non erano istituzionalizzati. Insieme ai servizi a domicilio abbiamo posto attenzione alle condizioni delle abitazioni e, con l’esperienza, abbiamo visto in anticipo la necessità di centri destinati alle persone con l’Alzheimer o di strutture intermedie per il maternage. Cominciammo con 25 soci”. Oggi Nuove Risposte conta 211 soci, in gran parte lavoratori e lavoratrici, e un cospicuo numero di dipendenti a tempo indeterminato e, nei servizi temporanei, a tempo determinato. “Fatturiamo circa 9 milioni di euro. Siamo una realtà cooperativa di medie dimensioni e la nostra crescita è stata lenta, costruita passo dopo passo con la correttezza nella gestione e la fedeltà allo spirito cooperativo che all’inizio si concretizzò, ad esempio, nella costituzione di riserve rinunciando a parte delle nostre retribuzioni. Risorse economiche destinate ad una riserva che ci ha consentito di evitare il ricorso al credito per anni e anche di pagare gli stipendi con regolarità, indipendentemente dai ritardi degli enti pubblici”. È stata proprio questa lungimiranza, unita ad una non comune capacità imprenditoriale, a permettere la realizzazione di Cantiere Infanzia, la struttura polivalente in cui si svolge l’intervista e che si trova al Quarticciolo, periferia sud di Roma. “Nel 1989 abbiamo iniziato a lavorare con l’infanzia e con le persone con handicap, sperimentando servizi che ci hanno consentito di affinare le nostre competenze professionali e organizzative nel settore specifico. Nel piano regionale del 1987 era stato costruito questo edificio che doveva essere un asilo nido, ma che non era mai stato consegnato al Comune. Fu occupato e gli arredi sparirono; dentro erano stati realizzati 8 appartamenti con tanto di giardinetto. Era diventato un luogo di degrado con spaccio di droga e prostituzione. Quando il Comune di Roma assegnò agli occupanti le case popolari, ci affidò il compito di ripristinare l’asilo nido.
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Sono venuta insieme ai Vigili del fuoco a fare lo sgombero e le chiavi mi furono consegnate in presenza del Questore; le reazioni degli ex occupanti furono violente e per un periodo non potevo girare sola nel quartiere. Abbiamo investito un miliardo delle vecchie Lire, utilizzando in parte gli accantonamenti in bilancio e per il restante accollandoci un mutuo, su una struttura non di nostra proprietà. Abbiamo scelto il meglio: un progetto realizzato con bioarchitettura e con la supervisione di pedagogisti”. L’inaugurazione, nel 1999, è stata una festa di tutto il quartiere. “C’era la fila, ordinata, allegra e silenziosa, delle persone che volevano conoscere la struttura su cui avevano cominciato a vigilare mentre erano in corso i lavori di ristrutturazione: era diventata un bene comune - spiega Mariella Zotti, che è vice presidente di Nuove Risposte -. Avevamo portato l’idea di condivisione di un progetto ed era stata capita”. Cantiere Infanzia è un luogo molto curato. Il Pifferaio magico è la parte destinata a ludoteca e centro giochi che, insieme allo Spazio famiglie, affianca il Nido. “Quando parliamo di servizi innovativi, pensiamo appunto a una struttura come questa. La nostra forza è sempre stata la capacità di leggere le nuove esigenze e cercare risposte adeguate. Una volta c’era solo il nido classico – continua Mariella -, adesso le risposte ai bisogni delle famiglie sono molteplici. Abbiamo persino messo a disposizione dei genitori un appartamento pensato come luogo di incontro per le coppie che stanno affrontando una separazione o vivono in solitudine l’esperienza della genitorialità. Poi ci dobbiamo confrontare con sempre nuove situazioni, come quelle delle famiglie monoparentali o delle coppie omosessuali. Sono realtà e servizi che si inseriscono in una rete, sono tasselli che compongono un insieme”. Un’esperienza intensa, che appare oggi quasi impossibile in una società egoista e polverizzata nelle relazioni. “Sono convinta che si potrebbe ripetere, più o meno nelle stesse modalità. È quello che abbiamo fatto in un altro quartiere periferico della Capitale, La Rustica. Anche lì c’erano famiglie occupanti e il comune ci ha chiamato per custodire la struttura. È stato più difficile creare sintonie, soprattutto con gli inquilini del palazzo, ma siamo riusciti a trovare un equilibrio e a realizzare servizi di cui è stata riconosciuta l’utilità sociale. Del resto ci sono elementi fondamentali delle
nostre attività che attraversano tutti i servizi: innovazione, relazione con gli utenti, la rete territoriale. Il nostro modus operandi è sempre lo stesso: accogliere per restituire”. Parola di vicepresidente, che continua. “Le difficoltà c’erano ieri e
ci sono oggi. Devi sempre mettere l’enzima, devi mostrare che sei umile e devi costruire la tua credibilità. Rispetto al passato la differenza è che prima certi comportamenti in qualche modo erano sanzionati. Adesso è la televisione a convalidare i comportamenti. Il percorso è sempre lo stesso, il nostro codice di comportamento è sempre lo stesso, ma ci devi lavorare di più, devi dare l’esempio, dai l’esempio nell’agire quotidiano. Certo, va poi considerato che una società complessa chiede risposte più articolate”. A proposito di complessità e articolazioni, come non chiedere alla presidente di una cooperativa che opera nel sociale a Roma l’impatto che ha avuto Mafia Capitale. “La ricaduta negativa c’è stata negli atti amministrativi, con la paralisi della burocrazia e l’assenza della politica - spiega Elisa -. Mafia Capitale ha fatto un danno di immagine alla cooperazione, ma per le singole cooperative non ci sono state ripercussioni grazie alle relazioni costruite nel territorio e nella trasparenza. Nessun utente si è mai sognato di denigrare noi e il nostro lavoro”. Un’alchimia che spiega Patrizia Siani, psicologa e responsabile dell’area infanzia. “I nostri servizi sono fatti di relazione, cerchiamo momenti di condivisione con le famiglie. È un fare per i loro figli che, per esempio, ci fa chiedere ai nonni di cucire le sacchette per portare i libri a casa o ai genitori di venire in biblioteca. Curiamo il dentro perché questo dentro diventi fuori, curiamo il genitore quando è da noi ma anche quando uscirà. I nidi sono visibili dall’esterno, sono luoghi che accolgono e restituiscono. Noi coltiviamo. Infatti abbiamo sempre l’orto. E l’infanzia è una risorsa che si coltiva. I bambini saranno persone consapevoli, che hanno delle radici e delle ali, per poi poter volare….”.❂
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TERRITORIO E PAESAGGIO COME TESSUTI PREZIOSI di Tiziana Bartolini
Incontro nazionale di Donne in Campo-Cia a Roma per riflettere sul valore economico e culturale delle imprenditrici agricole oggi
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re le parole ‘guida’ che hanno scandito la mattinata: nutrire, ricamare, rammendare. Tutte declinate nella dimensione dell’agricoltura, del paesaggio, del fare comunità. “Dalla Salvaguardia al Recupero”, così Donne in Campo ha inteso titolare l’intenso incontro nazionale svoltosi a Roma il 7 giugno nell’affascinante cornice dell’Orto Botanico. La Sala dell’Arancera ha ospitato numerose delegazioni arrivate da tutte le regioni con un carico straordinario di esperienze e progetti, proposte e accolte dalla direttrice dell’Orto botanico, nonché professoressa di Ecologia vegetale all’Università di Roma, Loretta Gratani. Sul filo dell’idea di Salvaguardia e di Recupero si sono tenute le tre sessioni: ‘Nutriamo il suolo; Ricamiamo paesaggi; Rammendiamo tessuti sociali, Intessiamo comunità rurali.
“Nutrire, ricamare, rammendare. Sono parole del linguaggio femminile - ha spiegato Mara Longhin, presidente nazionale Donne in Campo-Cia -. Le donne generano la vita e nutrono i figli. Il ricamo, antica arte femminile, la intendiamo come cura del paesaggio, dell’etica e dell’estetica; il rammendo è dei tessuti sociali. Ecco, abbiamo pensato ad un passo in avanti delle donne: al loro contributo nel creare anche comunità nel territorio, alla loro capacità di essere in continua evoluzione, di vivere e lavorare nel territorio ponendo costante attenzione a ciò che le circonda. Pensiamo sia arrivato il momento di passare dalla logica dell’impegno per la salvaguardia a quella del recupero del territorio che ci vede soggetti attivi affinché i nostri luoghi possano diventare un bene comune, economico e sociale, di vita e di benessere per le comunità”. Il senso politico di questo messaggio è stato pienamente raccolto e rilanciato dal Viceministro Andrea Olivero, che ha sottolineato l’importanza di una “triplice sostenibilità: ambientale, economica e sociale che sono alla base dell’imprenditoria femminile. La sfida della sostenibilità - ha detto - è prioritaria e le donne la sostengono con un lavoro che è culturale da un lato e pratico dall’altro”. Ogni sessione della mattinata ha inteso porre l’attenzione sugli aspetti teorici affiancando esperienze concrete. A voler dimostrare, ancora una volta, che fare agricoltura al femminile significa saper mantenere in costante equilibrio il rispetto dei principi e l’attenzione alla praticabilità quotidiana delle scelte. Un test continuo sulla sostenibilità che è prezioso bagaglio di esperienza messo a disposizione di questa comunità femminile. E non solo. Così se Andrea Giubilato, agronomo oltre che agricoltore, nella sessione “Nutriamo” il suolo” ha spiegato la genesi e la struttura della terra fornendo informazioni sul mantenimento della vitalità del suolo, Renata Lovati (Presidente Donne in Campo Lombardia, Cascina Isola Maria, Albairate/ Mi) ha descritto la conversione al biologico della sua azienda zootecnica e le ripercussioni positive sulla capacità del suolo di assorbire le piogge; ha fatto seguito la narrazione dell’esperienza di Sara Tomassini (Az agricola Sant’Aldebrando, Fossombrone/Pesaro) che coltiva circa 40 ettari di terreno collinare con olivi, more da rovo, legumi e cereali antichi, imponendosi come dovere primario quello di garantire la fertilità del
STRATEGIE
PRIVATE suolo, in collaborazione anche con la ricerca universitaria. Anna Kauber, studiosa di paesaggio agrario, ha aperto la seconda sessione, ‘Ricamiamo Paesaggi’, delineando la relazione tra la loro bellezza, il benessere umano e l’elevatezza del lavoro silenzioso che gli agricoltori italiani hanno svolto nei secoli. L’architetta e agricoltrice Paola Deriu (Presidente Donne in Campo Lecce, Masseria Copertino, Vernole/Le) e Donatella Manetti (Presidente Donne in Campo Marche, Podere Poggio alle Querce, Offagna/An) hanno spiegato il senso dell’impegno per il rispetto degli elementi architettonici tradizionali e la varietà biodiversa vegetale nelle loro aziende. Ha affidato al pensiero ‘alto’ la sua riflessione Natascia Mattucci, professoressa di Filosofia politica all’università di Macerata, aprendo la terza sessione: “Rammendiamo tessuti sociali, Intessiamo comunità rurali. “Coltivare la capacità immaginativa per saper rappresentare e richiamare la memoria dei luoghi (storica e agricola), saperla attualizzare nella dimensione presente e proiettarla nel futuro. È questo il processo femminile messo in atto dalle agricoltrici quando, così come rileva l’Associazione Donne in Campo, si impegnano nella rivitalizzazione di zone rurali abbandonate. Quella del recupero e sviluppo di zone rurali rappresenta il sentiero da percorrere nel futuro”. Della ricchezza che alimenta la solitudine ha parlato Lorraine Flynn (Azienda Casa Santini, Orsigna/Pt), irlandese che si è trasferita nelle verdi valli del pistoiese per dedicarsi alla pastorizia e al recupero della lavorazione tradizionale dei formaggi locali restituendo nuova vita all’economia di luoghi che rischiavano lo spopolamento. Mentre Laura Bargione di Palermo ha descritto l’attività di recupero della produzione di olive da olio e di uva da vino con caratteristiche organolettiche di alta gamma e ha illustrato l’impegno nel sociale accanto a giovani e adulti con diversi tipi di disagio. Il Presidente nazionale della Cia Dino Scanavino ha portato il saluto della Confederazione sottolineando come la visione delle agricoltrici “sia feconda per tutto il settore e indichi una via importante, perché le donne sono un’enorme risorsa per il settore e uno dei driver vincenti per lo sviluppo, la tenuta e la crescita del Paese”. La mattinata si è conclusa, oltre che con la visita all’Orto botanico, con le meraviglie gastronomiche dell’Agricatering Donne in Campo Teramo di Anna Maria Di Furia. ❂
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di Cristina Melchiorri
IL COMPLESSO DEL GREGGE Ho trenta anni e da qualche mese sono a capo di un gruppo di lavoro di altri nove sviluppatori di soluzioni web, in una agenzia di comunicazione e di web marketing a Milano. Spesso mi trovo a prendere decisioni che riguardano il team, dalla pianificazione delle attività ai contenuti delle soluzioni. Ma ho sempre paura di sbagliare, cerco di essere razionale e di affidarmi alla maggioranza delle opinioni del gruppo. Ma questa mia insicurezza si percepisce e qualcuno ci gioca, compreso il mio capo… Maria Rita Anceschi (Lodi) Cara Maria Rita, hai mai affittato o comprato una casa che ti piaceva moltissimo e quando sei entrata hai scoperto che tutti gli infissi erano da rifare? Sicuramente questo problema era visibile anche prima della firma del contratto. Semplicemente, hai preferito non vederlo. Decidere dovrebbe significare compiere scelte sensate e razionali. E tutti noi siamo portati a considerarci razionali. Ma quando prendiamo una decisione siamo anche irrazionali. Oltre all’emotività specifica altri fattori condizionano le nostre scelte. Ad esempio: le figure autoritarie possono minare le capacità decisionali delle persone. Certi piloti in seconda sono stati incapaci di opporsi ad una decisione del primo pilota, che poi si è rivelata fatale. Oppure pensa ai tifosi di calcio, dove l’appartenenza ad un gruppo deresponsabilizza i singoli , che compiono atti di teppismo che da soli non farebbero mai. Il “complesso del gregge”, cioè il nostro desiderio “naturale” di non essere diversi dagli altri, tende a farci pensare che la decisione giusta sia quella condivisa da tutti, anche quando è vero l’esatto contrario. E che dire dell’”Effetto Concorde”? I produttori del Concorde, le due compagnie aeree di Francia e Inghilterra, avevano investito in denaro e in immagine moltissimo. Il costo di produzione di un Concorde era passato dagli iniziali 6 milioni di Franchi, alla fine degli anni ‘70, ai 30 milioni alla fine degli anni ’80. Hanno tuttavia continuato a tenere in vita l’aereo, pur perdendo denaro per gli alti consumi e costi di manutenzione, per non abbandonare il progetto. Alla fine, dopo l’incidente del 2000, in cui morirono tutti i 100 passeggeri, ritirarono il velivolo. In altre parole, quando prendiamo una decisione tendiamo inconsciamente a rimuovere gli aspetti critici e a concentrarci sui dati che sostengono la nostra idea iniziale. Quindi? Quando sei ragionevolmente sicura di una soluzione, esprimi con chiarezza quello che deve essere fatto, da chi e in che tempi. Spesso un progetto fallisce perché le persone coinvolte non capiscono cosa ci si aspetta da loro. Consulta il team, ma poi decidi tu. Assumi la responsabilità dei buoni risultati e degli errori. Tutti ti rispetteranno.
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DALL’EST CON FURORE. LETTERARIO/1 Scrittrici e migranti
Vivono nel nostro paese e hanno pubblicato libri in lingua italiana. Sono maggiormente le donne migranti provenienti dall’Europa Centro-Orientale1 di Cristina Carpinelli
L
a letteratura migrante è un’occasione di costruttiva reciprocità. Allo stesso tempo, decostruisce una visione etnocentrica del mondo, consentendo di rifuggire dalle secche di una mortifera autoreferenzialità e di aprirsi al rinnovamento imposto dalla storia. Essa traccia il sentiero di uno scambio autenticamente paritario fra culture diverse. Non si limita, infatti, a rielaborare criticamente in forma artistica i processi relativi al passato, né a descrivere quelli di creolizzazione tuttora in svolgimento al livello mondiale, ma offre, altresì, una speranza nuova per il futuro, alimenta le ragioni dell’utopia, in vista di un concreto orientamento sul fronte dell’incontro interculturale. I migrant writers provenienti dall’Europa Centro-Orientale e Sud-Orientale hanno iniziato a pubblicare in lingua italiana dalla seconda metà degli anni Novanta. Alcuni di loro sono arrivati in Italia prima ancora del crollo
Anilda Ibrahimi
1 Questo articolo è la sintesi di un mio intervento alla Tavola Rotonda “Fenomeni sociali e produzioni letterarie migranti” (Carroponte di Sesto San Giovanni - 2 giugno 2016), promossa dall’Assessorato Pace e Cooperazione Internazionale del Comune di Sesto San Giovanni (MI).
Marina Sòrina
dell’Urss, della caduta del muro di Berlino e dei diversi regimi comunisti dei paesi che avevano fatto parte dell’orbita sovietica (inclusi la Romania di Nicolae Ceauseşcu e l’Albania di Enver Hoxha). Tuttavia, molti di loro sono arrivati in Italia dopo, nel corso degli anni Novanta, con i grandi flussi migratori dall’Est. Sono emigrati a seguito di crude realtà di guerra, oppressione e sfruttamento, o di povertà sperimentate sulla propria pelle nei loro paesi d’origine. Si pensi, soltanto, al peso che ebbe sui flussi migratori dall’Est, il conflitto nei Balcani, o la trasformazione delle economie dei paesi ex-comunisti da pianificate a economie di mercato, con l’uso di ricette neo-liberiste che spinsero milioni di individui sotto la soglia assoluta di povertà. La gran parte della produzione letteraria in lingua italiana di questi ultimi scrittori migranti appartiene agli anni Duemila. L’attività principale di lavoro di tutti questi scrittori non è quella di romanzieri, poeti o prosatori (sono, in genere, mediatori culturali, traduttori, educatori, ecc.). L’attività letteraria coincide più sovente con la professione primaria tra i migrant writers, che vivono in Italia già da
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alcuni decenni. Volendo tracciare un loro “identikit”, possiamo affermare che questi scrittori/letterati sono, di solito, in possesso di un livello medio/alto d’istruzione e sono in gran parte donne. Ecco perché in questo articolo ci concentreremo sulla produzione letteraria femminile. In via convenzionale possiamo identificare due gruppi di migrant women writers: Un “primo” gruppo, non più giovane (nato tra gli anni Trenta e Cinquanta), arrivato in Italia prima del crollo del comunismo, e un “secondo” gruppo (nato tra gli anni Sessanta e Ottanta) emigrato nel periodo in cui andavano consolidandosi nei paesi d’origine società post-comuniste, o a seguito della dissoluzione della Jugoslavia. Fanno parte del “primo” gruppo, la scrittrice e poetessa ebrea ungherese Edith Steinschreiber Bruck [1932], che si stabilisce in Italia nel 1954, dove conosce Montale, Ungaretti, Luzi, e dove stringe amicizia con Primo Levi, che la sollecita a ricordare la Shoah. Tra le scrittrici migranti, Edith Bruck è considerata l’antesignana della letteratura testimoniale sulla Shoah; la traduttrice e mediatrice culturale, originaria del Montenegro, esperta di cultura balcanica e rom, Nada Strugar [1943], che vive in Italia (Brescia) da oltre vent’anni; la croata Vesna Stanić [1946], autrice
Ingrid Beatrice Coman
Jarmila Očkayová
di poesie, racconti e saggi. Trasferitasi a Roma negli anni Settanta, oggi vive e lavora a Trieste; la scrittrice slovacca Jarmila Očkayová [1955] arrivata in Italia nel 1974. Figlia di due genitori dissidenti, sostenitori di Alexander Dubček (interprete di una linea politica anti-autoritaria definita “socialismo dal volto umano”), è stata testimone durante la sua adolescenza di quella feconda stagione politica che fu la Primavera di Praga, stroncata nell’agosto del 1968 dall’occupazione del paese da parte dei carri armati sovietici; la scrittrice croata Sarah Zuhra Lukanić [1960] trasferitasi in Italia (Roma) nel 1987, vincitrice con la raccolta di racconti Rione Kurdistan del premio letterario “Mare nostrum” dedicato alla cultura migrante (Viareggio, 6-7 ottobre 2006). Benché questi due gruppi di migrant women writers abbiano caratteristiche proprie, entrambi hanno condiviso uno stesso percorso di emancipazione letteraria che li ha visti impegnati nella costruzione di una scrittura “nuova” nello stile e nei contenuti, e che si è trasformata in un lasso di tempo relativamente breve da letteratura legata all’immigrazione (spesso di tipo autobiografico) letteratura di testimonianza o di denuncia della condizione drammatica dell’immigrato, delle difficoltà di quest’ultimo a inserirsi nella società italiana e dei pregiudizi di cui è spesso vittima, o descrizione delle strategie di sopravvivenza adottate nei paesi d’accoglienza. Si pensi, al riguardo, al romanzo Voglio un marito italiano (Il Punto d’Incontro, 2006) della scrittrice ucraina Marina Sòrina [1973], con il quale l’autrice sfata il luogo comune secondo cui le donne dell’Est europeo sarebbero delle avide ammaliatrici pronte a sedurre e ad accaparrarsi un marito italiano, per acquisire la cittadinanza e poi fare i propri comodi
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Edith Steinschreiber Bruck
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temi universali: l’amore, la morte, la solitudine, la giovinezza, ecc.
Scrittrici e migranti
Valeria Mocanaşu
a racconto delle proprie origini, o a letteratura sulla storia, cultura e tradizioni del proprio paese d’origine es: il libro Il sapore della mia terra (Angolo Manzoni, 2006) della romena Valeria Mocanaşu [1959], in cui quest’ultima racconta la sua infanzia trascorsa in un villaggio rurale della Romania comunista; il libro Rosso come una sposa (Einaudi, 2008) con il quale l’albanese Anilda Ibrahimi [1972] approda alla scrittura italiana. È una saga familiare (con qualche spunto autobiografico), attraverso cui l’autrice percorre la storia dell’Albania, dalla sua indipendenza ai nostri giorni, attraverso gli occhi e la vita di diverse generazioni di donne di una famiglia nel profondo sud albanese; la raccolta delle favole popolari di Serbia e Montenegro La cesta del principe (EMI, 2006) di Nada Strugar o Il re del tempo e altre fiabe slovacche di Pavol Dobšinský (a cura di Jarmila Očkayová, Sellerio Editore, 1988)
infine, a testi significativi del patrimonio letterario italiano con l’abbandono dei temi classici dell’immigrazione o del rimpianto per la propria terra, per affrontare, invece,
Sarah Zuhra Lukanić
es: il romanzo “sull’amicizia e la morte” Verrà la vita e avrà i tuoi occhi (Baldini Castoldi Dalai, 1995) di Jarmila Ockayová. L’autrice mostra attraverso le sue protagoniste, Stefania e Barbara, che anche guardando il mondo da angolazioni completamente opposte si può riuscire a comporre un rapporto umano: metafora dell’incontro/dialogo con l’altro/a; il “romanzo d’amore e di guerra” L’amore e gli stracci del tempo (Einaudi, 2009) della scrittrice albanese Anilda Ibrahimi, con il quale l’autrice abbandona la storia e i ricordi del proprio paese per regalarci, invece, un intenso romanzo d’amore e di guerra ambientato nei Balcani degli anni Novanta. Il libro racconta le peripezie di Ajkuna (kosovara di etnia albanese) e Zlatan (serbo), due giovani innamorati che vivono a Pristina, capitale del Kosovo, separati dalla guerra. Durante la loro forzata separazione, entrambi hanno come unica risorsa il pensiero di potersi un giorno riabbracciare e insieme riprendere la loro esistenza da dove era stata così bruscamente interrotta. Ma la guerra non lascia inalterate le vite di chi l’ha attraversata. Quando dopo dieci anni si ritroveranno, niente corrisponderà più alle loro aspettative e ai loro desideri. La guerra si è portata via tutto il loro futuro da vivere insieme; il romanzo Le lezioni di Selma (Libri bianchi, 2007) di Sarah Zuhra Lukanić. Le lezioni cui si allude nel titolo di quest’ultimo romanzo sono date da una donna ebrea colta, sposata con un medico musulmano che, confinata in casa sotto il controllo dei militari serbi nella Sarajevo sotto assedio, rifiuta la legge dell’odio e vi oppone quella dell’accoglienza, mantenendo il dialogo con chi improvvisamente è diventato il ‘nemico’; Cercasi Daedalus disperatamente (Tracce, 1997) della croata Vera Slaven [1971] e, ancora, il romanzo La città dei tulipani (Tufani, 2005) della romena Ingrid Beatrice Coman [1971]. Ambientato in Afghanistan, è una storia di ribellione femminile agli orrori della guerra. Infine, il romanzo Il paese dove non si muore mai (Einaudi, 2005) della scrittrice albanese Ornela Vorpsi [1968]. La Vorpsi si concentra sulla condizione femminile in Albania e smaschera i due oppressori delle donne: la società patriarcale e il partito comunista rumeno di Nicolae Ceauseşcu.
[prima parte - continua]
Ornela Vorpsi
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LA SESSUALITÀ
AL TEMPO DI INTERNET Sally Zohney, giovane attivista per i diritti civili in Egitto, ha pubblicato una ricerca sul tema della sessualità tra i/le giovani
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n Egitto non ci sono programmi ministeriali sull’educazione sessuale nelle scuole e tanto meno è possibile parlarne apertamente in pubblico. In una società conservatrice il tema richiede molta riservatezza ed è interessante capire il rapporto dei giovani e delle giovani egiziani con la loro sessualità e il loro livello di consapevolezza, oppure in quale modo ottengono le prime informazioni. Sally Zohney cerca di rispondere a queste domande con una ricerca, pubblicata per la Global Information Society, in cui, parlando dei diritti sessuali in Egitto al tempo di internet, affronta il tema anche da un punto di vista di genere e spiega “se i ragazzi dipendono molto da internet per acquisire informazioni sui cambiamenti portati dalla pubertà, le ragazze si affidano alle loro madri che diventano anche la principale fonte di informazione sui diritti sessuali e riproduttivi”. Ma per le ragazze non sempre è semplice parlare di questo tema con le madri e, quando anche le amiche non sono di aiuto, internet diventa il mezzo attraverso cui acquisire informazioni. “Le ragazze hanno curiosità che vanno al di là dei problemi riproduttivi. Vogliono conoscere i loro corpi e la loro sessualità”. A questo punto si apre uno scenario che fa riflettere. L’autoeducazione sessuale passa attraverso la fruizione di materiale pornografico che, invece di educare a relazioni sane, fa leva sugli stereotipi ed enfatizza il piacere maschile, aprendo la strada al problema delle molestie sessuali e della violenza domestica, ancora presenti nel Paese. “I materiali pornografici rispecchiano una visione distorta e incompleta dei rapporti ed allo stesso tempo forniscono una visione incompleta del piacere sessuale, mostrando relazioni sessuali che non sono sane. E di questo sono diretta conseguenza la violenza di genere e
la violenza domestica che rientrano in una cornice sociale che vede la sessualità come un tabù anche per l’assenza di vere piattaforme di educazione per via di un patrimonio culturale e sociale rigido - continua la ricercatrice -. Le donne sono ritratte come oggetti a disposizione del maschio. Ma il piacere femminile dove è? L’argomento, pur non essendo nuovo nel discorso femminista progressista egiziano, rimane ancora oggi un tabù nella società”. E visto che internet diventa il principale veicolo di informazione, allora bisogna fare una inversione di marcia. “Se esistono contenuti pornografici, bisogna fornire anche contenuti alternativi perché altrimenti non si può combattere la violenza di genere e tanto meno le future generazioni possono essere educate a rapporti di coppia sani e rispettosi della dignità”. Senza, naturalmente, demonizzare in assoluto la rete che negli ultimi anni in Egitto ha permesso la nascita e l’azione di gruppi e progetti volti a combattere la violenza contro le donne, offrendo loro assistenza ed informazioni su come affrontare gli abusi. Sally Zohney sottolinea tuttavia quanto sia fondamentale il ruolo che lo Stato deve assumere per il cambiamento della società egiziana, anche organizzando nelle scuole laboratori ed attivando progetti rivolti all’educazione sessuale e sentimentale. “Le donne in Egitto hanno un disperato bisogno di capire i loro bisogni sessuali, separatamente da quelli che sono i bisogni sessuali degli uomini. Solo così facendo possono rivendicare un’autonoma gestione dei loro corpi e capire la differenza tra un atto sessuale consensuale ed un atto sessuale non voluto. Fino ad allora, continueranno ad esistere casi di violenze domestiche e casi di aggressioni sessuali che vanificheranno ogni diritto acquisito”. b
egitto
di Zenab Ataalla
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UN GOLPE AL TEMPO DELLE OLIMPIADI brasile
IL PAESE CHE SI PREPARA AI GIOCHI È ATTRAVERSATO DA UN CRISI POLITICA CHE METTE A CONFRONTO UN GRUPPO DI UOMINI E DILMA ROUSSEF
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di Nadia Angelucci
el giorno della votazione dell’impeachment a Dilma Rousseff il deputato del Partito Social Cristiano Jair Bolsonaro, conosciuto per le sue idee razziste ed omofobe, ha concluso la sua dichiarazione di voto contro la presidente con una dedica a Carlos Alberto Brilhante Ustra, “terrore di Dilma”. Brilhante Ustra, ex capo del Doi-Codi, organo d’intelligence e repressione
del regime militare durante la dittatura del 1964-85, é stato il responsabile dei tormenti subiti da Dilma quando fu sequestrata, torturata e picchiata per ventuno giorni, e in seguito condannata a sei anni di carcere (poi tramutati in tre). Bolsonaro ha così reso chiaro da dove hanno origine le sue posizioni politiche e quale e quanto profondo sia il suo odio nei confronti di Dilma. Il governo ad interim di Michel Temer (Partido del Movimiento Democrático Brasileño - PMDB), costituitosi dopo la
messa in stato d’accusa e la conseguente sospensione della presidente eletta, avrebbe dovuto scandalizzare il mondo: un esecutivo formato essenzialmente da un gruppo di uomini bianchi, adulti, indagati. In Brasile la totale assenza di donne (prima volta dopo la dittatura) e di afrodiscendenti ha sollevato molte polemiche che sono sfociate in partecipatissime manifestazioni al grido di “I Ministeri senza donne sono dei Machisteri” e “Non riconosco questo governo golpista, misogino e oppressore”. Di fronte alle proteste, in particolare dei movimenti femministi, Temer ha ‘rimediato’ nominando una donna alla Banca per lo Sviluppo (BNDES) ma sono scomparsi il Ministero della Donna, dell’Uguaglianza Razziale, dei Diritti Umani e la Segreteria per la Gioventù (che aveva un rango ministeriale) che sono entrati a far parte del Ministero della Giustizia. La crisi brasiliana ha mostrato così la sua faccia più maschilista e conservatrice. Gli attacchi contro la presidente, iniziati formalmente già dopo le elezioni del 2014 vinte di stretta misura, si sono trasformati in aprile in impeachment con l’accusa, per la verità assai debole, di aver truccato i conti pubblici del 2014 facendosi anticipare dalla banca i soldi per i programmi sociali - una pratica già messa in atto da governi precedenti e chiamata “pedaladas fiscais”. In pratica come spiega Marcelo Lavenere, ex presidente dell’Ordine degli Avvocati del Brasile e membro della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza dei vescovi brasiliani, la presidente avrebbe firmato decreti per l’apertura, nel bilancio, di crediti supplementari senza la necessaria autorizzazione amministrativa e avrebbe postergato la restituzione delle risorse dal Tesoro alla Banca del Brasile per il
finanziamento di programmi sociali; ma i crediti non hanno determinato un aumento delle spese di bilancio (già coperte dalla soppressione di altre voci) e il ritardo nella restituzione era permesso dalla Corte dei Conti brasiliana. Pur nella complessità della situazione ciò che emerge con chiarezza è da un lato il ritorno revanscista delle destre sudamericane e dall’altro la profonda cultura patriarcale che permea fortemente anche la società brasiliana. La stessa Rousseff in una intervista dei primi di giugno al quotidiano argentino ‘Pagina 12’ si è espressa su questo tema e ha detto che “in Brasile persiste una cultura di violenza e di disuguaglianza di genere che ha trovato in questo processo contro una presidente donna canali preferenziali per esprimersi. (…) Sappiamo che possiamo occupare qualsiasi ruolo istituzionale e che, nel momento in cui lo facciamo, dobbiamo affrontare il maschilismo e la misoginia che ancora pervade la società brasiliana. (…) Dover fare i conti con la leadership femminile, ricevere ordini da una donna, essere diretto da una donna sono novità che danno fastidio e perturbano il ‘cosiddetto’ ordine naturale della società nei nostri paesi”. Temer, presidente ad interim fino a quando non verrà concluso il giudizio, è l’ex vicepresidente di Dilma e su di lui pende la stessa accusa che grava su di lei, avendo anch’egli firmato quei decreti che adesso giustificano la messa in stato d’accusa della presidente eletta. E il suo stesso governo provvisorio a pochi giorni dall’insediamento ha dovuto affrontare una crisi in seguito alla divulgazione di intercettazioni che hanno convolto il Ministro della Pianificazione in cui si fa riferimento all’urgenza dell’avanzamento della procedura di impeachment contro Rousseff per “frenare l’indagine Lava Jato” sulla corruzione. “Bisogna cambiare il governo per fermare questa carneficina” si dice in un’altra conversazione intercettata. È pur vero però che la presidenza di Dilma ha commesso anche parecchi errori: l’alleanza in Parlamento con partiti di diversa estrazione politica ha impedito la possibilità di sperimentare una vera trasformazione, e i gravi limiti espressi in relazione alla questiona indigena, energetica,
agraria ed ambientale, alcuni dei quali hanno trovato parziale risposta solo negli ultimi mesi, hanno alienato l’appoggio di molta parte dei movimenti sociali, naturale sostegno del PT. Dilma sembra essere “tornata a casa” solo negli ultimi mesi, da quando l’offensiva neoliberale si è fatta più sostenuta, e questo fa rimpiangere ancora di più quello che poteva essere e non è stato. Le misure progressiste con le quali lascia il governo sono arrivate troppo tardi: la demarcazione di terre rivendicate da anni da indigeni e afrodiscendenti; l’espropriazione di aree per la riforma agraria; un aggiustamento del programma Bolsa Familia (programma nazionale di sostegno al reddito) che insieme a Minha casa minhavida e a Fame Zero hanno fatto emergere dalla povertà estrema 40 milioni di brasiliani. E ovviamente le misure annunciate o già prese dal governo Temer rappresentano un’inversione di marcia: possibilità di privatizzazione delle imprese statali a partire dalla Petrobras (impresa petrolifera), innalzamento della pensione minima a 65 anni per uomini e donne, tagli al sistema di salute pubblico, chiusura del Ministero dello Sviluppo Rurale e dei programmi di assistenza ai contadini mentre Blairo Maggi, il più grande produttore agricolo del paese, vero leader dell’agro business e chiamato ‘il re della soja” è stato nominato ministro dell’agricoltura. Intanto i movimenti politici e sociali sono in piazza quotidianamente; UNASUR ha dichiarato che la situazione “pone a rischio la stabilità democratica della regione” e l’OEA che genera “insicurezza giuridica”; i Paesi dell’ALBA hanno parlato di “golpe”. Dilma ha ribadito la sua resistenza ad oltranza mostrando lo stesso coraggio di quando, ventiduenne, affrontava a testa alta il Tribunale militare della dittatura mentre gli ufficiali che la interrogavano nascondevano il volto dietro le mani (vedi foto). “Ho forza e coraggio sufficienti per affrontare questa ingiustizia. (…) Ad un uomo non sarebbe stato riservato questo trattamento” ha detto. Una prima vittoria in questa lunga partita l’ha registrata i primi di giugno quando il Senato ha deciso di non accettare la richiesta di Temer di chiudere il giudizio politico prima dell’inizio delle Olimpiadi, richiesta inoltrata per cercare di evitare la destituzione di Dilma durante i giochi olimpici, quando l’attenzione mondiale sarà concentrata sul Brasile e le manifestazioni di appoggio a Rousseff e di rifiuto del suo governo potrebbero fare il giro del mondo. La Commissione Speciale dell’impeachment ha invece deciso di prolungare il giudizio fino a metà/fine agosto frustrando le richieste del governo. E secondo alcune indiscrezioni di stampa in Senato non ci sarebbe più la maggioranza di 2/3 necessaria per la conferma dell’impeachment e la destituzione di Dilma. Tutto è pronto quindi. Le Olimpiadi e l’impeachment viaggeranno su due binari paralleli. Il Brasile in agosto sarà osservato speciale. b
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LIBRI a cura di Tiziana Bartolini
LE INDAGINI DI… COSCIENZA “Scusate la polvere” di Elvira Seminara è una deliziosa commedia dark, un giallo ironico, leggero e piacevole. La protagonista, la quarantenne Coscienza, nome che tutti i suoi cari preferiscono storpiare a loro piacimento, scrive per lavoro tesi di laurea dai titoli assai improbabili e conduce una vita normale con il marito agronomo che sopperisce alla sua mancanza di razionalità e pragmatismo. Il verificarsi di un evento del tutto inaspettato porta Coscienza a dover indagare come una detective goffa e stralunata su cosa sia realmente successo quel giorno in cui lei si trovava in un camerino di H&M a Parigi, città dove vive la madre incontrollabile perché malata di Alzheimer. Nella ricerca della verità, Coscienza non è sola ma viene sostenuta dalle amiche di sempre, Mia e Alice, donne sopra le righe ma che non le fanno mai mancare il loro supporto. Un libro da leggere in un giorno, dal finale tenero, ma di cui si apprezza più di tutto l’ironia spietata per i tic, le fissazioni e le stramberie che accomunano tutti noi esseri umani. Silvia Vaccaro
Elvira Seminara Scusate la polvere Nottetempo, pag 212, 12,00
PER COMPRENDERE LA XENOFOBIA Comprendere il fenomeno delle minoranze etniche attraverso strumenti analitici. È l’obiettivo del libro di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu (ed Amazon.com), L’Unione Europea e le minoranze etniche. Nella prima parte l’analisi è focalizzata sul “concetto di minoranza” e sulle “caratteristiche di una minoranza” con riferimento ai criteri oggettivi stabiliti nelle diverse sedi internazionali con appositi trattati in base ai quali un insieme di individui è identificabile come gruppo di minoranza se condivide un’identità culturale, etnica, religiosa e/o linguistica. Tale identificazione è particolarmente importante per garantirne diritti e tutele. Nella seconda parte del libro sono studiati alcuni paesi dell’Europa Centro-Orientale (Paesi Baltici, Ungheria e Romania). Questa parte di Europa può essere rappresentata come la geografia delle etnie, il cui studio abbraccia gli aspetti storici, culturali, religiosi ed antropologici. Ma non solo. Lo studio della multietnicità non può sfuggire a considerazioni interpretative di norme giuridiche che stabiliscono la possibilità di tutelare o discriminare le minoranze, a seconda che l’accento sia posto sull’inclusiveness o sull’exclusiveness. Le etnie sono sicura-
mente un portato storico ma costituiscono anche un percorso dentro un mosaico che preannuncia un futuro sempre più “contaminato”. Proprio in questa chiosa, il rapporto tra etnie autoctone e “straniere”, così come può essere la rappresentazione di valori condivisi, che sta alla base della convivenza dei popoli, così pure può trasformarsi nella descrizione di rigetti xenofobi e di politiche di “apartheid” verso le minoranze etniche. L’attualità di questi Paesi mostra la crescita di consenso nei confronti di piattaforme politiche di movimenti nazionalistici e xenofobi vs. minoranze del tutto estranee alle politiche comunitarie in materia di rispetto e tutela delle minoranze dell’Unione Europea, che rendono più complesso il processo d’integrazione.
Cristina Carpinelli e Massimo Congiu L’Unione Europea e le minoranze etniche Ed CreateSpace, pagg 246, euro 36,95
UNA STORIA DOVE I SENSI SONO PROTAGONISTI Il romanzo d’esordio di Claudia Bruno, trentenne giornalista ambientale, si legge d’un fiato lasciando al lettore la voglia di saperne ancora delle due protagoniste, Greta e Michela, amiche sin dall’infanzia, diverse e anche per questo inseparabili. “Fuori non c’è nessuno” è una storia di sorellanza interrotta a causa delle scelte che le due hanno compiuto da adulte, scelte da cui non sempre si ha il tempo e la possibilità di tornare indietro. Attorno a questa amicizia densa, si muovono gli altri personaggi importanti, principalmente femminili, che intrecciano le loro storie e i loro ricordi alla vicenda principale. Anita, la nonna speciale del fidanzato di Greta, Katarzyna, donna delle pulizie polacca che tutti credono strana e che osserva il mondo dalla sua casa a piano terra e Isabella, la nonna di Greta, che appare a ogni apertura di capitolo con un conto alla rovescia fatto di filastrocche in dialetto e ricordi di un Sud lasciato indietro e in cui Greta sente di affondare le sue radici più profonde. L’ambientazione del romanzo è la cittadina desolata di Piana Tirrenica, fatta di “case con finestre sempre troppo piccole”, capannoni industriali e colate di cemento spesso lasciate a metà. Una periferia che racchiude in sé i molti luoghi d’Italia vittima dell’abusivismo edilizio, dell’avidità e dell’incuria. La bellezza del romanzo è certamente frutto dell’ossatura narrativa ben costruita ma anche di una grande sapienza stilistica. Tutta la storia è un’armonica sinestesia dove i sensi sono attori principali ed è proprio grazie al loro intreccio che ci si sente come avvolti e rapiti dalle pagine, dove non mancano i riferimenti al tempo presente fatto di precariato e insicurezza, di migrazioni e di incroci e scontri di culture. Un esordio promettente di cui vorremmo leggere presto un secondo capitolo. Silvia Vaccaro
Claudia Bruno Fuori non c’è nessuno Ed Effequ, pagg 224, euro 13,00
Luglio-Agosto 2016
La Casa di Rio Vermelho di Nadia Angelucci
A cento anni dalla nascita della scrittrice brasiliana Zélia Gattai esce in Italia il ‘Memoriale dell’Amore’, i ricordi della sua vita con Jorge Amado
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élia Gattai conosce Jorge Amado nel 1945 mentre entrambi lavoravano ad una campagna per l’amnistia ai prigionieri politici. I due non si lasceranno mai più. Quando si conoscono lui è già molto famoso, ha già subito carcere ed esilio e i suoi libri sono stati messi all’indice e bruciati in piazza, ma anche Zélia ha la sua storia di lotte: nipote e figlia di emigranti italiani, il padre Ernesto Gattai è un anarchico, la madre un’operaia arrivata in Brasile al seguito dei genitori per lavorare nelle piantagioni di caffè dopo l’abolizione della schiavitù. Ultima di cinque figli, nata a San Paolo nel 1916, cento anni fa, trascorre i suoi primi anni nei quartieri dei migranti, in mezzo alle manifestazioni operaie ed anarchiche. Suo padre subisce il carcere e le torture durante la dittatura di Getulio Vargas; l’esperienza è così atroce che quando uscirà di galera morirà a soli 54 anni. Quasi una leggenda la nascita dell’amore tra Zélia ed Jorge: si narra che la scintilla tra i due nacque sulle note di una canzone di Dorival Caymmi e che alla fatidica dichiarazione di Amado assistette nientedimeno che Pablo Neruda. I due vivranno negli anni successivi l’esilio, vari traslochi in differenti paesi, la nascita dei due figli, João Jorge e Paloma, il rientro a Rio de Janeiro fino al progetto di costruire un luogo tutto per loro, una Casa a Salvador de Bahia. Memoriale dell’amore, uscito nel 2004 in Brasile e quest’anno in Italia per la Nova Delphi Libri, racconta la storia di questa casa. Con leggerezza ed allegria narra come venne costruita, come il luogo venne trasformato dalle volontà dei
due proprietari, come Zélia e Jorge vissero lì quaranta anni del loro amore. Amado non c’è più, e la saudade prende Zélia che si guarda intorno ed ogni oggetto, ogni angolo parla di lui, delle sue abitudini, degli animali e delle cose che ha amato, degli amici che sono passati a rallegrare le loro giornate, dei momenti di intimità e di agognata solitudine. La descrizione di un vero e proprio “paradiso coniugale”. Scrive nell’Introduzione Paloma, figlia dei due: “Per cinquantasei anni furono solo Lei e il suo amore. (…) Senza perdere l’individualità, si fusero e poi si amalgamarono alla casa: la perfezione. La casa divenne il Memoriale e questa è la sua storia”. Fotografa, militante sociale, libera pensatrice, Zélia si scoprì scrittrice nel 1979, a 63 anni, per caso. La figlia Paloma le chiese di scrivere un ricordo della sua infanzia per le sue nipotine e Zélia si mise a scrivere scoprendo di non poter fermare il flusso dei suoi ricordi di infanzia e gioventù. Nasce così Anarchici, grazie a Dio primo libro di una donna che aveva tanto da raccontare e che non smetterà più di ricorrere alla sua memoria per narrare storie semplici ed emozionanti “da dentro a fuori, con il cuore” come le diceva il suo compagno Jorge Amado. Al grande successo di Anarchici, che vendette in Brasile 200mila copie, e dal quale venne anche tratta una miniserie per la televisione brasiliana prodotta da Rete Globo, seguirono molti altri romanzi in cui Zélia raccontò le incredibili memorie sue, della famiglia Gattai, della famiglia Amado e di tanti loro amici. Undici libri di memorie, 3 favole, 1 romanzo e una fotobiografia sono il bilancio del suo lavoro di scrittrice. Zélia ci ha lasciato nel 2007, non ha potuto vedere, come aveva progettato, la trasformazione decisiva della casa dove lei e Amado avevano vissuto il loro amore in Memoriale aperto al pubblico. Questo è avvenuto solo nel 2008. Ma chi avrà la fortuna di viaggiare a Salvador de Bahia non dimentichi di recarsi in rua Alagoinhas 33, nel quartiere di Rio Vermelho, dove i due scrittori hanno vissuto il loro amore e dove riposano, vicini, sotto l’albero di mango. b Per le informazioni su Zélia Gattai si ringrazia Antonella Rita Roscilli biografa della scrittrice brasiliana e autrice del libro Zélia di Euá, Rodeada de Estrelas, ed. Casa de Palavras, 2006.
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Luglio-Agosto 2016
TAMMURRIATA, ENERGIA PRIMORDIALE DA DANZARE CON ANIMA E CORPO di Elena Ribet
Voci, tradizioni, magia di un ballo dedicato fin dall’antichità a divinità femminili
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a tammurriata è una danza antichissima e ricca di simbologie legate ai cicli delle stagioni, alla fertilità, alla spiritualità e all’amore. Si danza in coppie (maschio/femmina, femmina/femmina, maschio/maschio) con l’accompagnamento del tamburo o tammorra (un tamburo a cornice) e di castagnette (una sorta di nacchere). “O’ ball e ‘o canto ncopp’o Tammurro” ci spiega Enzo Esposito, ballatore di danze del sud e artista, è un “evento coreutico-musicale facente parte di riti propiziatori e devozionali legati al ciclo riproduttivo della terra, che costituisce l’ancestrale cultura mediterranea e ancora vive nelle comunità rurali. Appartiene alle celebrazioni rituali arcaiche dei primi popoli e delle civiltà
precristiane; i contadini sono i degni depositari della tradizione che si rigenera e si trasforma, mai interrompendosi. Tutto ciò si convoglia in un connubio perfetto di tre elementi di base: ballo, suono e danza. Un linguaggio coreutico musicale ricco di energie e sinergie, di materia e forma, di sguardo e intensità. La tradizione orale rappresenta in assoluto l’autentica forma di trasmissione, genuina e attendibile, semplice e istintiva, non accademica e legata
COSA PROVI QUANDO BALLI LA TAMMURRIATA? “Per me Ballare la tammurriata è come tornare alle nostre origini, fondersi con il battito del tamburo, che scandisce il tempo della danza, equivale ad unirsi al ritmo della terra... sentirne le pulsazioni e tutta la sua energia. Essendo un ballo di coppia si stabilisce con il partner una sintonia notevole fatta di sguardi, passione e complicità, si disegna un cerchio al cui interno si svolge un rito propiziatorio, simbolico e magico, legato al culto della terra e alla divinità, le movenze che assumiamo richiamano la gestualità contadina nel lavoro dei campi... si semina, si setaccia, si raccolgono i frutti; quello che si prova è un richiamo irresistibile verso la Madre Terra, fonte di vita. Ci si lascia coinvolgere totalmente, senza limiti di tempo fino ad arrivare alla fase del ballo più frenetica e coinvolgente, la cosiddetta ‘vutata’, simbolo di sfida o di accoppiamento, momento di frenesia, di ebbrezza, di estasi divina... che porta allo sfinimento e alla liberazione da tutte le fatiche quotidiane, una vera terapia per il benessere dell’anima e del corpo”. Monica Flemac, insegnante di pizzica e danze popolari “Ballare la tammurriata è entrare in un’altra dimensione, al primo canto di fronna sento un fremito alla bocca dello stomaco, un’energia che sale dalla terra inizia a scorrermi nelle vene. Ecco, parte la tammorra a scandire il battito dei miei passi, rimanere fermi è impossibile, braccia e gambe si muovono in un’armonia con la musica e il canto, rimanendo ben ancorati alle proprie radici in omaggio al passato e ai riti di ringraziamento alla madre terra … ogni movimento ha una sua leggerezza, ma al contempo un radicamento storico e culturale che rimanda al rapporto viscerale che in passato si aveva con la terra, e mentre ballo mi sento unito al terreno dove ballo e al contempo sento l’energia che quel terreno mi tramanda per farmi muovere nel tempo e nello spazio, avendo nelle orecchie i suoni delle tammorre e le voci dei cantori. Non ballo solo coi piedi o le braccia, ma con tutto me stesso, pervaso da quell’energia. Partecipare a quel rito con l’uso delle proprie castagnette è contribuire a mantenere viva questa tradizione. Provare e ascoltare col cuore per credere”. Giuseppe Loiacono, insegnante di pizzica e danze popolari “La tammurriata è un ballo dell’anima e del corpo. Non puoi non farti trascinare… è un ballo che coinvolge tutti i sensi”. Valeria “Liberazione. Radici. Trasportata da un flusso di energia e ritmo primordiali”. Ilaria “Potenza e gioia”. Sandra
Giugno 2016
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LE TANTE VIOLENZE CONTRO LE DONNE
G alla sfera puramente emotiva e spirituale. La tammurriata è espressione anche oggi della venerazione collettiva di immagini sacre, prima pagane e poi cristiane, di divinità perlopiù femminili. È una leggenda popolare a indicarci il viaggio affascinante all’interno della cultura popolare e contadina che fa luce su sette immagini differenti di Sorelle Madonne. Secondo alcuni studiosi del fenomeno, sociologico, antropologico e etnomusicologico, le stesse Madonne sarebbero sei sorelle più una: sei so’ belle, una è nera, è brutta, è a’ Mamma Schiavona. Ad esse corrispondono sette relativi stili di danza sul tamburo”. La tammurriata, con le sue differenti espressioni, contaminazioni e interpretazioni, è ancora oggi un fenomeno spontaneo, non sempre codificato o codificabile, al quale si può accedere nelle sue forme più autentiche nelle piazze, nei paesi,
nelle celebrazioni rituali. Il tamburo, strumento sciamanico per eccellenza, ha un ruolo centrale nelle pratiche spirituali di moltissime tradizioni in tutto il mondo. In questo senso la tammurriata è, aldilà degli aspetti folcloristici, un punto vitale di intersezione fra memorie e miti. Fede, storia, identità, magia, rito, festa, emozioni sono tutti elementi presenti nella circolarità sacra di questo ballo, dove si mescolano elementi femminili e maschili e dove il tamburo (declinato anch’esso al maschile o al femminile a seconda del sesso di chi lo suona) trasforma i gesti in vita e il ritmo in vibrazione di potenza creatrice e creativa. b Foto 1 e 2 Courtesy Defy, foto eventi Foto 3 Courtesy Giuseppe Loiacono
li omicidi di donne da parte di partner o ex partner ripropone all’ordine del giorno l’attenzione su un fenomeno apparentemente aberrante ma, invece, punta di iceberg di una dimensione radicata nelle società umane: il controllo del corpo delle donne come fondamento del controllo di tutti i corpi, compresi quelli maschili, attraverso gli stereotipi di genere. Non c’è persona di buon senso che non inorridisca alle storie di omicidio di donne, perché donne, ma ritengo si debba riconoscere come violenza quotidiana tutte le volte che si nega l’autodeterminazione, l’autonomia, il rispetto alle donne. L’ambito della salute è paradigmatico della qualità di una società. In tale ambito assistiamo a fenomeni che rappresentano un clamoroso oltraggio alle donne nel momento in cui si impedisce l’autodeterminazione, come nel caso del ricorso all’aborto, o si opera, contro ogni evidenza scientifica accumulata da oltre trent’anni, impedendo l’espressione di competenza delle donne nel percorso nascita. In tali circostanze il controllo del corpo ha valenze ideologiche primali e tale esercizio di controllo nella riproduzione umana rappresenta il fondamento di tutte le altre forme di controllo e di tutti gli stereotipi di genere: la donna ha bisogno di tutela perché soggetto debole. Riguardo il ricorso all’aborto è forma di violenza non proporre, contro ogni evidenza scientifica, l’aborto farmacologico entro le 9 settimane (in Italia per ragioni ideologiche e non scientifiche è permesso solo entro le 7 settimane) e costringere la donna in ospedale per tre giorni esponendola al rischio di contrarre infezioni nosocomiali, quando molto più efficacemente, anche per ridurre il rischio di aborto ripetuto, si potrebbe procedere nei servizi consultoriali. Come è forma di violenza costringere la donna all’aborto chirurgico in anestesia generale, maggiormente dannoso per la salute della donna e implicante la presenza dell’anestesista che pure può opporre obiezione di coscienza oltre a un impegno non indifferente di risorse strutturali e infrastrutturali, necessarie anche per altre procedure chirurgiche essenziali, quando si potrebbe procedere in anestesia locale e operare a livello ambulatoriale, con maggiore tutela della salute della donna. Riguardo la nascita, il non rispetto delle competenze della donna, la continua azione di inibizione delle sue competenze e di quelle della persona che nasce, costruiscono il senso di inadeguatezza e di incompetenza tali da fondare lo stereotipo della donna da mettere sotto tutela e di chi nasce da trattare come animale di allevamento industriale, quindi privo di autonomia e prono/a a acquisire gli stereotipi di genere. Va detto che ultimamente le donne hanno ripreso la parola e vanno denunciando in migliaia e migliaia, con la campagna #bastatacere e all’osservatorio violenza ostetrica, le violenze subite, i soprusi, le mancanze di rispetto. Operare secondo le prove scientifiche, oltre a esprimere rispetto determina ingenti risparmi economici utili per finanziare integralmente il POMI (progetto obiettivo materno infantile) e tutti i servizi relativi alla salute delle donne e dell’età evolutiva, a partire dagli incontri di educazione sessuale nelle scuole. Mostrare orrore per gli omicidi contro le donne non basta, è necessario che chi ha responsabilità di governo centrale e locale, chi ha responsabilità amministrative e tecniche e tutte le professionalità coinvolte facciano la propria parte quotidianamente per riconoscere l’autodeterminazione ed esprimere rispetto nei confronti delle donne.
COOPERATIVA LIBERA STAMPA
Sede in Via della Lungara, 19 - 00165 Roma (RM) Bilancio al 31/12/2015 (forma abbreviata) STATO PATRIMONIALE ATTIVO 31/12/2014 31/12/2015 A) Crediti verso soci per versamenti ancora dovuti (di cui già richiamati) B) Immobilizzazioni I. Immateriali - (Materiali) II. Valore lordo 11.562 11.562 - (Ammortamenti) (9.989) (10.367) - (Svalutazioni) Totale immobilizzazioni materiali 1.573 1.195 III. Finanziarie - (Svalutazioni) Totale immobilizzazioni (B) C) Attivo circolante I. Totale II. Crediti - esigibili entro 12 mesi - esigibili oltre 12 mesi
187.514
159.801
189.087
160.996
3.520
--
57.330
48.922
Totale Crediti con separata indicazione per ciascuna voce… IV. Disponibilità liquide Totale attivo circolante (C)
57.330 72.958 133.808
48.922 38.033 86.955
D) Ratei e risconti (D)
6.544
510
TOTALE ATTIVO
329.439
248.461
STATO PATRIMONIALE PASSIVO 31/12/2014 31/12/2015 A) Patrimonio netto I. Capitale 2.500 2.500 IV. Riserva legale 8.931 11.033 VII. Altre riserve -- 4.694 Riserva straordinaria o facoltativa -- 9.749 Differenza da arrotondamento all’unità di Euro Totale riserve VIII. Utili (perdite) portati a nuovo - IX. utile d’esercizio IX. Perdita d’esercizio 7.007 (11.939) Acconti su dividenti ( ) ( ) Totale patrimonio netto 18.438 6.288 B. Fondi per rischi e oneri C. Trattamento fine rapporto di lavoro subordinato
31.163
34.627
D. debiti - entro l’esercizio 245.208 - oltre l’esercizio 34.630 Totale Debiti con separata indicazione per ciascuna voce… 279.838
173.116 34.630 207.546
TOTALE PASSIVO
248.461
329.439
CONTO ECONOMICO 31/12/2014 31/12/2015 A) Valore della produzione 1) Ricavi delle vendite delle prestazioni 94.209 65.179 2) Variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione: 5) Altri ricavi e provenienti 30.241 29.095 Totale valore della produzione B) Costi della produzione 6) Per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci 7) Per servizi 8) Per godimento di beni terzi 9) Per il personale a) Salari e stipendi b) Oneri sociali c) Trattamento di fine rapporto Totale per il personale
124.450
94.274
24.899 84.896 8.838
17.048 53.057 3.606
44.173 12.779 4.289 61.241
44.125 13.322 3.543 60.990
10) Ammortamenti e svalutazioni 252 b) Ammortamento delle immobilizzazioni materiali Totale ammortamento e svalutazioni 11) Variazioni delle rimanenze di materie prime,sussidiarie, di consumo e merci 80 14) Oneri diversi di gestione 3.997 Totale costi della produzione 184.203
3.520 2.687 141.286
Differenza tra valore e costi di produzione (A-B)
(59.753)
(47.012)
C) Proventi e oneri finanziari 15) Proventi da partecipazioni: -altri
216
62
16) Altri proventi finanziari: -altri Totale altri proventi finanziari 216
378
62
17) Interessi e altri oneri finanziari: -altri
156
154
Totale proventi e oneri finanziari
60
(92)
D) Rettifiche di valore di attività finanziarie 18) Rivalutazioni
3 2
19) Svalutazioni Totale rettifiche di valore di attività finanziarie
(27.715) (27.715) 3
E) Proventi e oneri straordinari 20) Altri 90.861 21) Minusvalenze 1.034 22) Altri 20.503 Totale 21.537 Totale delle partite straordinarie 69.324 Risultato prima delle imposte 9.634 22) Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate 2.627 23) Utile (Perdita) dell’esercizio
7.007
Il presente bilancio corrisponde alle risultanze contabili. Da pubblicare ai sensi dell’art.1, comma 23, del decreto legge 23 ottobre 1996, n.545, convertito con legge 23 dicembre 1996, n.650. RICAVI DELLE VENDITE E DELLE PRESTAZIONI Ricavi delle vendite di copie di cui per abbonamenti Ricavi delle vendite per spazi pubblicitari e redazionali di cui per la vendita tramite concessione di pubblicità
39.839 39.839 18.889 ------------
COSTI PER SERVIZI Lavorazioni presso terzi Agenzie di informazione
14.359 ------------
Presidente del Consiglio di Amministrazione MARIA COSTANZA FANELLI
67.539 -751 751 (66.788) (8.029) 3.910 (11.939)
Luglio-Agosto 2016
L’ANIMA DI CASA CUSENI di Mirella Mascellino
DAPHNE PHELPS HA DEDICATO LA VITA ALLA CURA DELLA VILLA, CHE HA MANTENUTO OSPITANDO PERSONAGGI DI FAMA INTERNAZIONALE
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isitare Casa Cuseni, la dimora della nobildonna inglese, Daphne Phelps, nipote del progettista e costruttore della villa, Robert Hawtorn Kitson, è ritrovare l’anima della donna che ne custodì la bellezza e la memoria. La villa fu costruita tra il 1905 e il 1911, sotto la Rocca di Taormina. Ospitò artisti, letterati e filosofi, tra i più importanti del Novecento, che nel ventre della villa e nel panorama mozzafiato tra il golfo e l’Etna, trovarono l’ambiente adatto alle loro ricerche, al loro genio, ma anche al loro riposo. Per onorare la grandezza di Daphne Phelps, lo scorso giugno nella casa, all’interno di Nostos, il festival del viaggio e dei viaggiatori, sezione di Naxos Legge, festival del libro e delle letture, diretto da Fulvia Toscano, si è svolta la prima edizione del Premio Custodi della Bellezza, intitolato a Khaled al-Asaad, di cui è stato insignito il professore Moncef Ben Moussa, direttore del museo Bardo di Tunisi. È stato inoltre presentato il progetto per la creazione di un laboratorio permanente di scrittura femminile di viaggio e di traduzione di testi di viaggiatori in Sicilia, tenuto dalla scrittrice e studiosa Marinella Fiume e un carteggio inedito, curato dalla stessa, tra Daphne Phelps e Dinu Adamesteanu, l’archeologo romeno, pioniere e promotore dell’applicazione delle tecniche di aerofotografia e prospezione aerea nella ricerca e ricognizione archeologica. La villa, quest’anno, è diventata Casa Museo delle Belle Arti e del Grand Tour della città di Taormina. È entrata a far parte del circuito delle “Case della memoria”, di cui è direttore il proprietario Francesco Spadaro che, con la moglie Mimma, è stato accanto alla nobildonna inglese, fino alla morte. Robert Kitson, pittore di acquerelli, originario di Leeds, membro eletto dell’Accademia Britannica, era chiamato il pazzo inglese, dalla gente di Taormina, per questo amore folle che lo legherà fino alla morte a quella città, all’epoca sconosciuta. Muore nel 1947, lasciando la villa alla sorella che ne fa una procura alla nipote Daphne Phelps, giovane psichiatra infantile che giunge a Taormina, per l’eredità, pensando di vendere la villa e tornarsene in Inghilterra a continuare la sua professione. Ma rimane affascinata e stregata dalla villa e dalla bellezza che la circonda, tanto da decidere di prendersene cura e di vivere a Casa Cuseni, custodendone intatta la bellezza. Nata il 23 giugno 1911 e morta il 30 novembre 2005, la Phelps lascia la sua memoria in un libro,
tradotto in otto lingue, Una casa in Sicilia, Neri Pozza edizioni, dove racconta la storia della villa, dalle origini, fino al periodo aureo, quando tra stanze e meravigliose terrazze si aggiravano personaggi illustri. La casa custodisce gli acquerelli di Kitson, ma anche di altri pittori incontrati da questi, in giro per il mondo. Donna di grande cultura e spessore umano, era determinata, coraggiosa, acuta, instancabile, spiritosa, con grande senso per gli affari, Daphne Phelps sarà custode di “Casa Cuseni” per oltre sessant’anni. Per sbarcare il lunario e curare l’eredità dello zio al meglio, la donna trasforma la sua casa in guest-house, una singolare casa degli ospiti che accoglierà grandi celebrità del primo novecento, come Tennessee Williams, Greta Garbo, Bertrand Russell, Mack Smith, Alfred Barr, Henry Faulkner e Pablo Picasso, personalità che lasciano sempre un loro ricordo, portando con sé, nel mondo, la storia di questa casa e la bellezza mozzafiato che la circonda. Nella dining-room, è perfettamente custodito il fregio figurato, opera di Sir Frank Brangwyn, dipinto nel 1910, che illustra un’adozione omosessuale. Kitson aveva adottato un bambino orfano del terremoto di Messina. Questa è l’unica testimonianza al mondo di un interno progettato e realizzato da questo importante artista.❂
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LA SALUTE A TUTTO CAMPO Iris Campobasso, nell’ambito di DonnaeSalute, ha organizzato il convegno “Salute e Medicina di Genere. Integrazione tra buone pratiche”
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n mattinata densa di informazioni e di scambi quella organizzata dalla onlus Iris Campobasso nell’ambito del progetto DonnaeSalute con il patrocinio della Consigliera di Parità Giuditta Lembo convegno dal titolo “Salute e Medicina di Genere. Integrazione tra buone pratiche” che si è tenuto presso la Fondazione di ricerca e Cura ‘Giovanni Paolo II’ dell’Università Cattolica di Campobasso (11 aprile 2016). “È importante che le donne prendano in mano la propria
IRIS a Campobasso IRIS – PCR - OG - Onlus, sede territoriale Campobasso (insieme per Realizzare Iniziative di Solidarietà nella Prevenzione Cura e Ricerca in Oncologia Ginecologica) è attiva dal 2006 presso la Fondazione di ricerca e Cura ‘Giovanni Paolo II’ dell’Università Cattolica, nel reparto di Ginecologia Oncologica e nel Centro di Senologia affianca le donne e le loro famiglie nella gestione dei bisogni emotivi e sociali legati alla patologia e organizza servizi con psicologi (sostegno alla donna e ai familiari durante le varie fasi della malattia e delle cure), assistenti sociali (attività di accoglienza e segretariato sociale alle pazienti e ai familiari), volontari (affiancamento per esigenze pratiche e di socializzazione) mediante una ludoteca, una biblioteca di reparto, il servizio parrucche, l’umanizzazione degli spazi e l’organizzazione di concerti e varie manifestazioni artistiche. (www.iriscampobasso.it / tel 0874312443 / 0874-312236 – info@iriscampobasso.it). IRIS Campobasso è parte dell’associazione IRIS onlus nazionale, nata nel settembre 2002 con i professori Salvatore Mancuso e Giovanni Scambia del Policlinico Universitario ‘A. Gemelli’ di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, i quali hanno constatato che quando un tumore colpisce una donna è come se colpisse tutto il nucleo familiare.
salute e che aumentino la loro consapevolezza - ha sottolineato la dr.ssa Giuseppina Sallustio, direttore del Dipartimento Immagini e Servizi del Giovanni Paolo II, valorizzando - l’efficacia dell’approccio multidisciplinare e del lavoro di squadra”. Elemento, quello della multidisciplinarità dell’iter terapeutico, su cui ha insistito anche il dr Francesco Deodato, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Radioterapia per fasci esterni della Fondazione stessa. Utili gli interventi che si sono soffermati anche sui problemi cardiovascolari, prima causa di morte per le donne. A tal proposito Piero Modugno in qualità di responsabile dell’Unità operativa Semplice di Chirurgia vascolare ha insistito sulla necessità della prevenzione primaria nelle donne dai 65 anni in poi. La differenza tra uomini e donne nell’approccio e nella relazione con le patologie è stata trattata dalla dottoressa Giovanna Mantegna, psiconcologa che ha affrontato anche il tema dell’umanizzazione delle cure. “Sono tanti gli aspetti che prendono in carico i bisogni della donna, si tratta di un’esperienza consolidata perché dal 2008 la Fondazione Giovanni Paolo II ha avuto il riconoscimento con tre Bollini Rosa. Grazie ai contributi economici di Iris Onlus possiamo realizzare percorsi assistenziali preferenziali (…). Riteniamo la psiconcologia una parte integrante delle cure oncologiche, che hanno molte ripercussioni per la persona. (…)..
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GUIdA AI dIrITTI
dELLE PErSOnE COn MALATTIA OnCOLOGICA
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na guida pratica contenente le informazioni basilari che le persone colpite da una patologia oncologica devono conoscere per muoversi consapevolmente nel campo dell’assistenza, dei diritti nel lavoro, nel sistema previdenziale. Il libretto, realizzato da IRIS Campobasso e distribuito gratuitamente, parte dalla Carta Europea dei Diritti del Malato Oncologico (2014, European Cancer Concord - organizzazione che riunisce esperti in ricerca, innovazione e advocacy - e Coalizione europea dei malati di cancro). (…). In modo schematico e chiaro intende fornire alle persone interessate una ‘cassetta degli attrezzi’ con cui affrontare temi concretissimi, quali (facendo alcuni esempi): l’esenzione dai ticket, le pensioni di inabilità, l’indennità di accompagnamento, l’assegno di invalidità, il collocamento obbligatorio, le mansioni lavorative, diritto al telelavoro, permessi e congedi, agevolazioni fiscali, spese mediche. Un’iniziativa quanto mai opportuna, dunque, maturata grazie all’esperienza di chi ha compiuto, con spirito di solidarietà e attenzione umana, un cammino accanto alle persone colpite da patologie oncologiche.
Va detto che sono maggiormente le donne a chiedere l’aiuto psicologico, è un bisogno che arriva forte subito dopo le cure mediche attive, dopo la chirurgia e la radioterapia. Ecco, una volta superata quella fase, la donna affronta un momento cruciale, difficilissimo. La donna che ha subito un grande trauma, non ha gli strumenti adatti per superarlo. In quel momento arriva la richiesta di aiuto psicoterapeutico. E a Campobasso noi siamo pronti ad accoglierle”. Giuditta Lembo, Consigliera di Parità regionale del Molise e vicepresidente Iris Onlus, è intervenuta sul tema della Medicina di genere in relazione al lavoro. “Tutelare la salute dei lavoratori e delle lavoratrici negli ambienti di lavoro significa avere attenzione che l’ambiente sia idoneo, avere attenzione per i casi di mobbing, e le ripercussioni dei casi di stress da lavoro correlato oppure alle patologie determinate da mancanza di strutture, arredi o illuminazione idonei. Ecco quindi l’idea dell’opuscolo ‘Guida ai diritti delle persone con malattia oncologica’ realizzato con Iris e ispirato allo stesso principio, ossia informare sui diritti costituzionalmente riconosciuti come il diritto alle cure mediche e alla salute.
Sulle donne va sottolineato che la loro salute deve necessariamente essere tutelata in modo particolare perché si ha una ripercussione sulla salute dell’intera famiglia: dove la donna è serena, tutta la famiglia vive meglio. Da qui l’interesse a promuovere la Medicina di genere insieme all’associazione Iris”. A sottolineare l’importanza della Medicina di genere in quanto sguardo da cui non si può più prescindere è stato il presidente di Iris Campobasso, Domenico Mantegna, in conclusione dei lavori, cogliendo l’occasione per annunciare l’istituzione di una borsa di studio su tesi dedicate, appunto, alla Medicina di genere. “La mission della onlus Iris di Campobasso - ha detto - è organizzare varie attività per la prevenzione e ricerca nel campo della ginecologia oncologica ponendo la massima attenzione alla Medicina di genere, divenuta una necessità ormai ineluttabile in considerazione delle differenze tra il corpo delle donne e degli uomini che la ricerca ha evidenziato; la speranza è che tale prospettiva possa essere inserita anche nell’ambito dei corsi di Scienze infermieristiche”. ❂ Videointerviste e versione integrale dell’articolo in: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=07150
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DANZARE SULLE NOTE DELL’IRONIA
L’eclettismo e il coraggio della coreografa Marguerite Donlon portano in scena l’étoile internazionale Svetlana Zakharova con il programma ‘Amore’
di Graziella Bertani
I
l mondo della danza è costellato di “prime ballerine assolute” e di coreografe che hanno creato anche proprie compagnie segnando passi importanti e svolte nel mondo del balletto, Isadora Duncan Martha Graham, Marie Rambert, Pina Bausch, Trisha Brown, Carolyn Carlson tanto per citarne alcune, ma raramente, nelle serate di gala nelle quali le “Stelle” sono protagoniste assolute, al pubblico vengono proposti brani creati da donne. Chissà perché… Ebbene, finalmente col programma “Amore” che recentemente ha debuttato in Italia, a Modena Svetlana Zakharova (étoile del Teatro Bol’šoj di Mosca e ospite delle principali scene internazionali, Teatro alla Scala compreso) ha rivelato un fatto straordinario: un evento che presenta un lavoro firmato da un’altra donna che ne rivela un aspetto insolito, quello dell’ironia. O meglio, dell’autoironia. L’artefice di questo lavoro e di questa scoperta è Marguerite Donlon. Irlandese, già étoile di numerose compagnie, dal 2001 al 2013 direttrice artistica del Balletto del Saarländisches Staatstheater e che con la sua “Donlon Dance Company” ha dato vita ad un complesso artistico originale ricco di un repertorio di oltre 30 creazioni. Fondatrice e direttrice artistica del festival “n.o.w. dance saar” e della Compagnia di danza
giovanile“iMove”, da tempo risiede a Berlino e dal 2012 è presidente e membro onorario Comitato Nazionale del Balletto e dei Direttori della Danza della Germania. È considerata una innovatrice ed un esempio unico nel mondo del teatro di oggi. Le sue idee artistiche sembrano non avere limiti grazie ad un linguaggio creativo assai vasto e ricco. Il perfetto equilibrio tra “umorismo” e profondità è arricchito dalla freschezza che domina il palcoscenico senza mai allontanarsi dalla realtà. Il suo stile, il suo humour irlandese ed il suo uso di diverse forme di arte la collocano in una posizione privilegiata nel panorama internazionale della danza.
Che cosa è la danza per lei e come la sua origine irlandese influenzano il suo linguaggio? La danza per me è spesso una riflessione sulla vita, altre volte è parodia, una piattaforma politica e spesso un mezzo per trovare rifugio in un mondo extra verbale per offrire al pubblico il potere di creare le proprie fantasie associate a ciò che stanno vedendo. Le mie origini irlandesi
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che conosciamo quando il movimento entra nel suo corpo e in quel momento assistiamo alla sua improvvisa trasformazione. La sua naturale musicalità, l’impegno infinito nell’uso del corpo e la sua anima trasparente, rendono palese ciò che la rende straordinaria. È molto speciale vedere il mix di ingredienti che la rendono un’artista così geniale.
Freschezza ed umorismo posso trasformarsi anche in indicatori di aspetti sconosciuti della personalità e delle capacità dell’artista. Che cos’è lo humour per lei e quanto influenza il suo lavoro?
Come coreografa pensa di avere avuto più difficoltà nel richiamare l’attenzione sul proprio lavoro e forse anche nell’organizzazione della sua Compagnia di danza? Bella domanda. Vorrei poter dire no, ma devo ammettere che come donne è un po’ più difficile; forse una delle ragioni potrebbe essere che noi non riusciamo a fare rete come gli uomini. In ogni modo alla fine riusciamo a lavorare bene in squadra, ed essere leader ed incoraggianti ci diventa facile.
Chi sono i suoi principali sostenitori: uomini e donne o donne e uomini? Sia donne che uomini.
È riduttivo sostenere che ha un approccio femminile al linguaggio del corpo? Non è un linguaggio di genere cosciente quello che cerco di creare. Pensare che io trovi più facile coreografare sugli uomini…
Raramente star internazionali inseriscono nei loro gala lavori di donne. Ho trovato molto interessante e non comune la sua collaborazione con Svetlana Zakharova per il suo gala “Amore”. Come vi siete incontrate? Stavano cercando un pezzo in cui Svetlana doveva essere era l’unica donna in scena circondata da soli uomini. Penso che abbiano fatto una ricerca approfondita e che abbiano trovato me ed il mio pezzo “Strokes Through The Tail”.
Come è stato il vostro incontro? Come è creare, lavorare con un’artista come Svetlana? In un certo senso è stato come in qualsiasi altra esperienza. In studio Svetlana lavora sodo, molto concentrata ed autocritica. Riesce ad essere quella ballerina straordinaria
Grazie del complimento e che veda il mio lavoro in quel modo. Amo veramente “rovistare” nella cassa del tesoro personale dell’artista. Il mio desiderio è rendere ciascuno unico per quella persona e non solo per la sua abilità di movimento ma anche per ciò che la sua personalità è in grado di offrire. Sul palcoscenico voglio vedere l’anima della persona, i suoi tic eccentrici, la sua stranezza e la sua bellezza interiore.
Sappiamo che lei è molto richiesta e crea per numerose compagnie internazionali. Come affronta il grande repertorio classico? Quando allestisco balletti classici cerco sempre un legame col mondo di oggi. Cerco il vero senso della storia, aggiungendo anche “punti di svolta” alla trama o una sorpresa. Sono interessata a tutto ciò che accade dietro le porte chiuse come in “Carmen Private” in cui non vediamo solamente la Carmen che tutti conosciamo, ma anche la Carmen fragile quando è sola, la Carmen respinta da bambina e di cui il padre abusò e la trattò da giovanissima come oggetto sessuale. Vorrei rispondere a domande tipo ‘perché Rothbart nel Lago dei Cigni odia così tanto Sigfrido e dove è il Re, il padre di Sigfrido’. Nel mio Lago dei Cigni Rothbart arde di desiderio per la regina al punto di rapirla e da cui, senza venirlo a sapere, attende un figlio. Rothbart sa che Sigfrido è la persona più importante per la regina e dopo l’ennesima sconfitta decide di rovinarlo. Dopo aver raggiunto il proprio obiettivo dalla la regina, gli dice che Sigfrido è “sangue del suo sangue”…
È corretto dire che lei riserva una attenzione speciale ai giovani talenti? Quali nuove prospettive apre il lavoro coi giovani? Amo lavorare e scoprire giovani talenti. È una parte importante del mio lavoro. Come coreografa traggo sempre ispirazione dall’energia di un danzatore curioso, senza pregiudizi e desideroso di cimentarsi con nuove forme e modalità che ovviamente accompagnano la giovinezza, ma non solo. Ogni generazione ha qualcosa di prezioso da dare. b
Le foto a colori sono tratte dsl sito http://donlon.de (Bettina Stoess)
mi hanno notevolmente influenzato nello humour che sembra sempre non troppo lontano e nell’intricato lavoro dei piedi che trova un proprio esito in una o un’altra forma.
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A TUTTO SCHERMO
PELLICOLE DA NON PERDERE
di Elisabetta Colla
VINCITORI E PROTAGONISTI DI CANNES 2016. PALMA D’ORO A KEN LOACH, CANTASTORIE DEGLI ULTIMI. NELLA GIURIA LA ‘NOSTRA’ VALERIA GOLINO
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e pellicole autoriali presentate a Cannes, almeno le più importanti come quelle firmate da registi noti, vengono poi distribuite nel corso di tutto l’anno. A parte dunque la bella manifestazione cinematografica Le vie del cinema - da Cannes a Roma, organizzata da Anec Lazio in collaborazione con la Regione Lazio CityFest - Fondazione Cinema per Roma, rassegna attesissima dalla Capitale e che quest’anno ha raggiunto la sua XX edizione con un incremento di pubblico del 22% in soli 5 giorni di programmazione - grazie alla selezione proposta di quasi tutte le opere vincitrici o di ‘spessore’ del Festival - bisogna in genere attendere alcuni mesi per vedere nelle sale italiane i film della kermesse cannense, con qualche eccezione. Fra queste, Julieta, l’ultimo film di Pedro Almodóvar, ispirato a tre racconti tratti dalla rac-
colta Runaway (2004) -Chance, Soon e Silence - della scrittrice canadese Premio Nobel Alice Munro, film discusso e meno vigoroso di altri, che ha deluso alcuni fan del maestro spagnolo ma che riprende un angolo visuale prettamente al femminile, raccontando la storia di Julieta e del suo difficile rapporto con la figlia Antía, oltre ad evidenziare i linguaggi generazionali ed i danni del fondamentalismo emotivo. Tra le opere già uscite, due film italiani presentati alla Quinzaine des Realizateurs: La Pazza Gioia (cft. Noidonne-Giugno) di Paolo Virzì e Fiore, del regista romano Claudio Giovannesi, storia di Daphne, un’adolescente detenuta per furti e rapine e del suo amore per Josh, anche lui in carcere nella sezione maschile. In autunno invece arriveranno in Italia i tre film più importanti del concorso. Il primo, I, Daniel Blake, dell’ormai ottantenne regista inglese Ken Loach, ispirato cantore della classe operaia e della gente comune, si è aggiudicato la Palma d’Oro 2016, con la bellissima storia di Daniel Blake, un falegname vedovo che, a causa di un grave problema cardiaco, deve sospendere il lavoro ed affidarsi ai
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Masaan, ovvero l’India di ieri e di oggi Un film sulle ineguaglianze sociali e di genere, ‘tra la terra e il cielo’ del sub-continente indiano
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ontro ogni aspettativa, è arrivato con l’estate nelle sale italiane distribuito da Cinema di Valerio De Paolis - il film indiano indipendente Masaan: tra la terra e il cielo, primo lungometraggio del giovane regista e sceneggiatore Neeraj Ghaywan, vincitore a Cannes lo scorso anno, nella sezione Un Certain Regard, del Premio Fipresci della critica internazionale e del Premio dell’avvenire, in ex-aequo con l’iraniano Nahid di Ida Panahandeh. La pellicola racconta l’intrecciarsi di complesse e tragiche storie di ineguaglianze, sociali e di genere nell’India contemporanea dove, sembra dire il regista, al di là di utilitaristiche apparenze e di uno sviluppo complessivo riconosciuto a pieno titolo dai mercati internazionali, sono ancora all’ordine del giorno gravi questioni legate alla casta di appartenenza, enormi difficoltà di emancipazione per le donne, invalicabili ostacoli per uomini e donne nella scelta libera di chi frequentare e sposare, ampia corruzione ed abusi della polizia, in generale diffusa ipocrisia sociale. Masaan, che significa crematorio, è stato girato nei magnifici scenari naturali di Varanasi (Benares), la città santa, dove buona parte della vita e della morte si svolge sui ghat, le rampe discendenti al fiume Gange, fra le abluzioni sacre e le pire delle cremazioni che bruciano costantemente. I protagonisti del film sono personaggi di tutte le caste, le cui vicende esistenziali s’incrociano in uno script ben equilibrato e denso di pathos: giovani che vogliono vivere, sperimentare ed amare liberamente, hanno studiato, si scambiano messaggi, pensano che tutto sia possibile, ma in realtà non è così; adulti che credono di conoscere il mondo e si adeguano a situazioni anacronistiche, rimpiangendo gli errori passati; forze dell’ordine violente, che ricattano e minacciano la gente comune con odiose ed assurde denunce per guadagnare illegalmente; bambini orfani che vivono di espedienti tirati su dalla variopinta comunità dei ghat. Le vite di Deepack, un giovane dei quartieri poveri laureatosi in ingegneria ed innamorato di una ragazza ricca, Devi, una ragazza in crisi, schiacciata dal senso di colpa per il suicidio di un giovane a seguito della scoperta pubblica della loro relazione, Pathak, un padre vittima della corruzione della polizia, Jhonta, un ragazzino in cerca di una famiglia, si incontreranno misteriosamente, mentre sul fiume continuano a splendere albe e tramonti mozzafiato, preludio per tutti di un domani migliore, nel travaglio fra modernità e tradizione. “Per me questo film - afferma il regista - è una sorta di storia iniziatica, nella quale il dolore e la morte, che toccano tutti i personaggi, possono trasformarsi in qualcosa di positivo e non necessariamente condurre alla disperazione assoluta. D’altronde Benares è conosciuta come ‘la città della morte’ e si dice che, chi muore laggiù, troverà la salvezza”. Un film sul destino, tra scelte, morte e vita.
Elisabetta Colla
sussidi statali di disoccupazione, entrando così in un dedalo senza uscita di problemi burocratici versione 2.0 e di odiose sanzioni, e del suo incontro con Katie, una madre single con due figli, disperata e senza lavoro, categoria per la quale Loach continua a mostrare qui, come in altri film, il suo occhio premuroso e benevolo. Il secondo film, già cult, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria - il secondo premio più importante di Cannes, assegnato al film ritenuto più originale - è Juste la fin du monde (dramma familiare con un cast di stelle fra cui brillano Marion Cotillard e Léa Seydoux), del ‘fenomeno’ francese Xavier Dolan, regista ed attore 27enne, enfant prodige ed omosessuale dichiarato, sempre alle prese con tematiche ricorrenti quali i rapporti fra famiglie d’origine, madri e figli ‘diversi’, già vincitore nel 2014 del Premio della Giuria con Mommy, un film che in Italia ha avuto grande successo. Infine, il terzo film da tenere d’occhio, vincitore di due Premi a Cannes 69, per la Miglior Sceneggiatura e per il Miglior Attore (Shahab Hosseini), è Forushande (Il cliente) firmato dall’iraniano Asghar Farhadi - già Orso d’Oro ed Oscar per Una separazione nel 2011 - un drammatico e raffinato thriller esistenziale e psicologico che, attraverso sottili metafore, indaga sull’importanza delle apparenze e degli stereotipi, sociali e di genere, di cui è impregnata la società iraniana, e su temi quali colpa, onore, sospetto, orgoglio, vendetta e perdono: protagonista una giovane coppia di neo-sposi, amante della letteratura e dell’arte, che la sera mette in scena la pièce teatrale Morte di un commesso viaggiatore, di Arthur Miller, quasi in parallelo con i vissuti quotidiani. La Giuria del Concorso di Cannes, fra i cui membri era la nostra Valeria Golino, ha premiato i contenuti, le relazioni umane e l’autenticità oltre le apparenze ‘mondane’ del Festival: strano ma vero. Da segnalare anche il film vincitore della Caméra d’or, Divines, presentato alla Quinzaine, opera prima della regista franco-marocchina Houda Benyamina, che sarà visibile a tutti, entro l’anno, sulla piattaforma Netflix. b
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UN CERTO GENERE DI CITTADINANZA
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n’ignota compagnia/ solo col tempo viene giudicata. Ognuno ha lingua svelta e ingenerosa/ verso lo straniero” (Eschilo, Le Supplici). Quante volte in questi mesi mi è risuonato nella mente (ma anche nel cuore) questo passo, e ritengo che la filosofia debba affrontare, almeno nei nodi essenziali, il fenomeno migratorio, che si presenta come
un grande groviglio, una matassa difficile da dipanare, significativa e ricca di tanti fili, avvenimento prismatico. Da un lato la visione desolante di donne, uomini bambini, in cammino che ogni giorno si offre al nostro sguardo incredulo, ma anche inattivo, dall’altra le teorizzazioni, spesso violente, aggressive, razziste, sì che la voce della ragione (e del cuore) è troppo lieve e inascoltata. Una domanda irrompe: chi è per noi l’altro, il diverso, lo straniero? ricordando subito che l’umanità non esiste
come un unico corpo politico, ma si presenta divisa in comunità multiple, nelle quali alcuni/e vi appartengono come membri, altri/e sono stranieri, divisione che non va confusa con amici/nemici, e legata, questa, alla guerra e alla pace. La prima annotazione proviene dalla Bibbia Ebraica che rovescia la domanda affermando che noi stessi siamo stranieri gli uni agli altri, perché per rendere ragione della nostra identità collettiva, abbiamo bisogno di paragonarci con gli altri e qui nascono i problemi. Più in profondità vorrei ricordare il contributo apportato dalla riflessione femminista, iniziando da Simone de Beauvoir che definiva la donna come l’altro, secondo sesso rispetto al primo, per concludere con l’invito dei post colonial studies (Spitvak in particolare): “non si può parlare per l’altro”, cioè la necessità di abbandonare un’ottica eurocentrica; così come è urgente che il fenomeno stesso dello straniero e delle migrazioni vada contestualizzato e storicizzato, perché esso non consente uno studio astratto, il cui risultato sarebbero stereotipi falsanti, quali l’idea di un’Europa assediata, di una “Fortezza europea”, ma va colto come trama di vissuti, sentimenti, prassi, focalizzabili in una serie di parole chiave, che sgorgano l’una dall’altra e mostrano una complessità in se stesse: identità, donne e identità, viaggio, confini, frontiere, soglie, margini, infine Europa, perché corre sotterraneo il tema della cittadinanza europea. Temi vastissimi che riassumo: le donne sono frontiere di genere, e insieme ‘genere di frontiera’. Tralascio, pertanto, altri confini, reali e simbolici, spaziali interni o esterni, tra mondo femminile e mondo maschile, tra giovani e vecchi, e delineo la donna come frontiera di genere, per i suoi tanti attraversamenti: la soglia della diseguaglianza culminata nel ‘68 - il cosiddetto primo femminismo emancipazioni sta - e successivamente la frontiera della differenza grazie al secondo femminismo ed infine la decostruzione ultima del soggetto, la distruzione dell’identità presente nella queer theory, che rifiuta la risposta sostanzialistica alla domanda: cos’è una donna? mostrando come il concetto stesso debba sostituito a favore del ruolo che ogni essere umano recita o interpreta. Soggetto come farsi e non come fatto, intreccio di identità e differenza, l’io nomade secondo Rosi Braidotti. Circa le donne come genere di frontiera, in via previa si deve rilevare come esse aggiungono all’invisibilità che è frequente nei confronti dello straniero una seconda invisibilità, in quanto donne che vivono in
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situazioni di maggiore isolamento. Ma si può sottolineare come proprio dalla riflessione femminista sia derivata una riformulazione dell’ideale universale dei diritti umani che ha influito sulle politiche nazionali portando all’adozione di nuovi strumenti per il miglioramento dello status delle donne, attuando politiche per l’eliminazione di discriminazione fra i sessi e prevedendo forme specifiche di tutela. Dalle analisi sociologiche poi sappiamo che alcune donne cercano nuovi cammini di fronte ad una società estranea e difficile, creando e partecipando a reti associative, reti che rappresentano anche un luogo di confronti e negoziazioni, con enti pubblici e istituzioni, ma insieme mantengono i contatti con i paesi di origine, quindi un continuo passare e attraversare frontiere. Da qui deriva una declinazione positiva del termine frontiera, non come muro, ma ricordando Kant che coglieva una differenza tra barriera (schranze) o confine (grenze): l’una chiude, l’altro apre. Frontiera, quindi, come scambio di saperi e comunicazione di esperienze, poiché ci si deve collocare all’incrocio tra Oriente e Occidente, interrogando questi concetti da tanti punti di vista: geografico, storico, sociale e culturale. È questo il difficile viaggio del divenire soggetto del cittadino/a, che consente un nuovo modo di concepire la cittadinanza, cittadinanza non indifferente, i cui caratteri sono ridisegnati dall’ingresso dei migranti nello spazio europeo. Cittadinanza che non solo superi discriminazioni sociali e politiche, e affermi la effettiva parità fra le persone, ma risolva esclusioni, e allarghi il concetto di cittadinanza compiuta a categorie storicamente emarginate come le donne e gli stranieri, e esprima il riconoscimento della differenza. La conclusione può essere la pagina kantiana de La pace perpetua, in cui si disegna il diritto di visita, cioè l’“ospitalità universale”, l’uguaglianza delle condizioni, che riequilibra la disimmetria iniziale. Impegno, questo, etico e politico. b
Una Donna Rimasta Sconosciuta
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8 giugno 1944 8 giugno 2016. A Viterbo la memoria in nome delle donne senza nome. Un patto tra generazioni
i piedi delle mura verso piazza Gramsci, a Viterbo, c’è un masso di peperino in cui è incastonata una lapide a ricordo di una rappresaglia tedesca contro inermi cittadini: lì l’8 giugno 1944 vennero trucidate due uomini e una donna. La lapide riporta due nomi, la terza vittima non ha nome, ed è definita “una donna rimasta sconosciuta”. La memoria di quella fine tragica è rimasta viva, la “donna sconosciuta” è diventata il simbolo di tante altre donne che muoiono tragicamente e rimangono sconosciute: quelle che affogano nel Mediterraneo in viaggio verso un mondo migliore, quelle che muoiono lungo sentieri di guerra che terminano contro barriere invalicabili di filo spinato. A distanza di 72 anni Auser di Viterbo, Spi-Cgil, Anpi, Arci in collaborazione con la Consulta Provinciale degli Studenti, proprio partendo da questo simbolo, hanno voluto celebrare i 70 anni del voto alle donne. L’iniziativa ha coinvolto anche le scuole della città con il concorso Cento Storie Cento Volti, il cui obiettivo era sensibilizzare i giovani sull’episodio e sulla guerra. Lo scorso 8 giugno un piccolo corteo è partito da piazza della Rocca per un tour guidato dalla dott.ssa Agata Di Francesco, volontaria Auser, alla scoperta dei luoghi della memoria di Viterbo e la passeggiata è stata avviata con la lettura di “Effetti collaterali”, lo scritto di Nicole Stella Metz (Liceo Buratti) dedicato alle donne vittime di tratta che si è aggiudicato il primo premio della sezione letteraria/ poetica. Il cammino si è concluso davanti al masso. A deporre i fiori quest’anno sono state due donne immigrate: Aoua Ouoluguem del direttivo Auser Viterbo e Lukusa Tshiela dell’associazione Sans Forntiere, un gesto simbolico che ha lanciato il tema del prossimo anno del concorso, dedicato alla “Donna rimasta sconosciuta”. Alle immigrate è stato dedicato anche il video “Un volto? No. Cento e più mila storie” di Lucrezia Spugnini (Istituto Paolo Savi), vincitore del primo premio del concorso per la sezione grafica, che recita “Queste donne attraversano le nostre terre, i nostri paesi e città e spesso non le vediamo, sono anch’esse donne senza volto, senza storia”. Giovanna Cavarocchi presidente Auser di Viterbo ha spiegato: “Tutti i quaranta lavori presentati hanno saputo cogliere l’universalità del dolore di donne vittime innocenti delle guerre e delle violenze e hanno saputo riprendere il filo della memoria tra generazioni così tanto distanti tra loro. Alle immigrate vogliamo rendere omaggio lanciando per il prossimo anno scolastico un concorso che parli di loro e che sia anche rivolto a loro; chiederemo infatti di partecipare anche alle immigrate che frequentano i nostri corsi di italiano L2”. Tragedie di ieri e di oggi, accomunate da un filo conduttore tutto al femminile. Tragedie che vanno ricordate per il rispetto dovuto e “per rendere vigili le coscienze contro i pericoli di un ritorno di passate barbarie”. Tiziana Bartolini
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LEGGERE L’ALBERO
FAMIGLIA
TRA CIELO E TERRA
AUTONOMIA TRA CONIUGI
DI BRUNA BALDAssARRE
Cara Bruna, sono una ragazza di 29 anni, lavoratrice free-lance e fidanzata. Ho avuto problemi di intolleranza alimentare, ora sto meglio ma le abitudini consuete non aiutano a mantenere un sano stile di vita. Mi piacerebbe diventare mamma e spero di esserlo proprio come mia madre! Ho perso mio padre a 12 anni e spero di poter mantenere un fruttuoso equilibrio. Che pensi del mio albero? Klaudia Carissima Klaudia, sei nella fase biografica che risponde all’interrogativo fondamentale: “Come vivo il mondo e come devo organizzarmi in rapporto ad esso”. Infatti stai cercando il giusto respiro rispetto all’ambiente in cui vivi, il giusto equilibrio negli affetti e nel lavoro. È la fase delle “aspirazioni obiettive”. È il periodo di grande attività e di prestazioni eccellenti basate su un sistema di valori fondato sull’obiettività. Purtroppo il vissuto della morte del padre a 12 anni coincide con un’altra grande prova: si passa dalla protezioneinvolucro della fantasia infantile alla contrapposizione Io mondo interno-mondo esterno come realtà concreta di vita, così il dualismo è il motivo conduttore. Il periodo della pre-pubertà è caratterizzato dalla conquista del mondo evidenziato da un peculiare sviluppo psicologico, che in un certo senso caratterizza anche la fase biografica dai 28 ai 35 anni. Dal tuo disegno dell’albero appare la terra come andamento divisorio tra due vite, due essenze, proprio come quando si sottolinea la differenza tra cielo e terra. La base del tuo albero che evidenzia il tuo passato - senza il disegno delle radici - ci indica una certa inibizione nello sviluppo, con una paura di smarrimento e i rami angolosi indicano una forma regressiva. È il minimo dopo una perdita come quella che hai dovuto subire. Nel tronco sono scritte tutte le fasi difficili e intense della tua vita che corrispondono agli anni: 4, 11 e 8 mesi, 21, 24. La chioma invece denota un bel senso della forma, di gentilezza e buone maniere. L’investimento in una professione che richieda stile e eleganza permetterà la realizzazione del tuo fruttuoso equilibrio di donna in carriera e il raffinato gusto associato alla tua sensibilità consentirà di realizzare in modo veramente ottimale il tuo ideale materno. Auguri di cuore!
Sentiamo l’Avvocata di Simona Napolitani mail: simonanapolitani@libero.it
I
Giudici danno sempre maggiore spazio all’autonomia contrattuale tra i coniugi nell’ambito delle decisioni dirette a dirimere controversie, a regolare la loro futura vita da separati o da divorziati. È stata un’importante evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali che, con il passare del tempo, hanno attribuito efficacia e riconosciuto validità alle scritture private intercorse tra coniugi o tra divorziati, con cui le parti hanno disposto pattuizioni di natura economica, al fine di risolvere bonariamente questioni che avrebbero potuto generare in futuro un eventuale contenzioso. Nei tempi addietro, la magistratura aveva una funzione determinante nelle soluzioni delle crisi familiari, e la famiglia aveva una sua rilevanza come “nucleo”, cioè un unicum, costituito dalla somma di più individui (marito, moglie, figli), per cui nell’applicazione della tutela si faceva riferimento alla famiglia in quanto tale. Oggi l’evoluzione del pensiero sociale e giuridico ci ha insegnato e ci sta insegnando a dare rilevanza alla persona, cui fanno capo i diritti fondamentali che vanno rispettati e lasciati nella disponibilità del titolare. Ecco che al nucleo familiare - in un primo momento oggetto di attenzione da parte delle Istituzioni - si inizia a dare rilevanza ai singoli componenti della famiglia, perché persone, la cui singola posizione sociale e familiare va tutelata e rispettata in quanto tale. La famiglia, quindi, diventa l’insieme di più persone (marito, moglie, figli), ciascuno dei quali mantiene la sua individualità all’interno del nucleo. Sulla scia di questa evoluzione, la Corte di Cassazione, con una recente decisione, ha ritenuto valido l’accordo di contenuto patrimoniale stipulato tra coniugi non destinato a essere omologato dal giudice e che sia finalizzato a transigere il giudizio di separazione coniugale. Tale decisione conferma l’indirizzo che considera validi gli accordi di contenuto patrimoniale intervenuti tra coniugi in vista della separazione o del divorzio o nel corso dei relativi giudizi. Nel caso specifico, si discuteva della validità di una transazione con la quale i coniugi separati avevano cessato un procedimento di separazione giudiziale, in grado di appello. L’accordo transattivo non era poi stato adempiuto da uno dei coniugi, cosicché l’altro l’ha convenuto in giudizio per sentir dichiarare la risoluzione della transazione. Dopo i primi due gradi di giudizio, la Corte di Cassazione ha riconosciuto validità alla scrittura intervenuta tra marito e moglie, nel corso del procedimento di separazione, sebbene non omologata ed intervenuta a definizione della causa.
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SPIGOLANDO tra terra, tavola e tradizioni di Paola Ortensi
ORIZZONTE FELICITÀ Non c’è né luogo né epoca dove la felicità non sia stata cercata, vissuta raccontata, dove non si sia tentato di definirla, giudicarla, negarla, cantarla, metterla in rime o in strofe. Filosofi, poeti, cantautori, scrittori e pensatori d’ogni epoca hanno voluto dire la loro, in tantissimi. E così per non lasciare di contribuire a un tema così grande ho pensato di spigolare proprio tra versi e definizioni che parlano da soli e che attraversano e/o uniscono tanti paesi e genti di ogni terra e di ogni tempo. Da romana, però, non ho resistito dall’iniziare citando il grande poeta Trilussa che così racconta la felicità: “C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va… Tutto sommato la felicità è una piccola cosa”. Due versi e un concentrato dei pensieri che la felicità evoca: la leggerezza, l’attimo, l’incontro importante , la bellezza, la natura il senso del vivere e del produrre amore, che per l’ape è il miele e per ognuno un desiderio diverso; quell’idea di piccolo che richiama l’immenso .. e tanto altro che potremmo evocare. Un aiuto immediato ci viene da un altro poeta come Jacques Prévert che fra l’altro ha scritto “Ho riconosciuto la felicità dal rumore che ha fatto andandosene” che se vogliamo pensarlo per il bottone di rosa potrebbe essere il lieve battito d’ali dell’ape che vola via. E continuando a giocare col nostro bottone di rosa, prima di lasciarlo libero all’aria e
DA SEMPRE E OVUNQUE
al sole, sussurriamo che un altro pezzetto di verità c’è forse in Giacomo Leopardi: “La felicità consiste nell’ignoranza del vero”. Il bottone di rosa non pensa che all’ape serva il suo nettare ma ha solo goduta la carezza della sua presenza. La felicità è sempre anche un sogno e così spesso c’immergiamo in quella che vediamo negli altri, che leggiamo, ascoltiamo, che sentiamo cantare. E pensando proprio al cantare, un esempio interessante è una canzone che da anni ogni volta che viene presentata da Romina e Albano continua a piacere
ed entusiasmare, “Felicità”, appunto. Quando uscì nel 1982, più di 30 anni fa, aldilà della orecchiabilità rappresentava le parole credibili di una coppia che l’Italia amava davvero. Albano arrivato al successo dalla Puglia, figlio di un contadino, Romina bellissima americana figlia di uno dei miti cinematografici più amati, anche per l’avvenenza: Tyrone Power. Una favola che molte/i facevano propria e, ripetendo il testo, sognavano la propria felicità… tenendosi per mano, con l’amato e andare lontano, e restare vicini come bambini, condividere un cuscino di
piume o guardare l’acqua di un fiume che passa e che va, una canzone che va come un pensiero d’amore che sa di felicità ... È così forte il bisogno di sognare che decenni dopo, non più marito e moglie e riunitisi almeno come interpreti, Romina e Albano la cantano insieme perché ne conoscono il successo senza tempo… Nel rispetto dello spazio una citazione mi sembra racchiuda la ricchezza del tema felicità. Aristotele, il grande filosofo greco nato presumibilmente nel 384 A.C, è autore insospettabile per lo spessore del suo pensiero: “Sulla natura della felicità non si riesce a trovare un accordo e la spiegazione dei saggi e del popolo sono inconciliabili”. Concludo con due sottolineature tipiche di questa rubrica e così ricordo che il tronchetto della felicità è una pianta tropicale che spesso ci viene donata a Natale e che deve alla sua longevità, quando piantata in terra diviene albero, la specifica della felicità. Vi sono poi dolci come Tronchetto e Mattonella della felicità, traboccanti di cioccolata di cui invito a trovare la ricetta. A questi, per giustizia, unirei il Tiramisù per chi la felicità va cercando!
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Luglio-Agosto 2016
Pierangela Rossi D’amore e di poesia
Versi che sanno cogliere i bagliori improvvisi che per un attimo fanno vedere la verità di Luca Benassi
P
ierangela Rossi è poetessa, saggista, critica d’arte; collabora inoltre come giornalista con Avvenire. È autrice prolifica, che ha pubblicato oltre dodici fra libri e plaquette di poesia. In questa produzione è possibile enucleare due modalità di scrittura, quasi un doppio passo che si distingue per stile e temi. Da una parte si legge una poesia articolata in frammenti, in schegge, spesso capaci di cogliere l’attimo, il momento, il secondo dello scatto dell’orologio, oppure il fotogramma di una vicenda, la macchia esplosa di colore. “Carte del Tempo” (Campanotto), ad esempio, è un libro dove l’occasione, anche meteorologica, il richia-
mo a un tempo e a un’ora (o a una stagione) sono il modo per riflette sull’esistenza, far scoppiare la luce di un incontro, accennare all’amore per subito uscirne, come a cogliere i bagliori improvvisi che fanno vedere e capire la verità, per subito gettarla nuovamente nell’oscurità. Sulla stella linea si possono leggere gli haiku, in particolare quelli di “Ali di colomba” (Campanotto), capaci di tracciare paesaggi e situazioni con il tratto rapidissimo di una manciata di versi. A questa poesia acuminata, legata al bagliore, all’occasione, se ne affianca un’altra che, invece, si stende in maniera piana sulla pagina, assumendo una dimensione quasi narrativa. Si tratta di sequenze liriche dalla stilistica complessa (punteggiatura, retorica, uso dell’enjambement, tutto è più articolato e strutturato), dove l’emozione si impasta con la riflessione e la luce dell’abbaglio si interseca e si screzia di penombra. L’amore è sofferto, emergono il tema della fede, del dubbio, del ricordo, richiamandosi all’arte, al mito, alla letteratura. I testi qui pubblicati sono tratti da “Punti d’amore” (Campanotto): si tratta di un libro di sintesi delle modalità di scrittura di Pierangela Rossi, capace di muoversi nella verticalità della scheggia affilata e nell’orizzontalità della riflessione maturata al buio dell’attesa. È una poesia forte, intimamente e profondamente sentita, dove si percepisce una tensione potente, un motore su di giri che romba e fa scattare in avanti il linguaggio. Questo libro offre esiti notevoli, aguzzi pur senza rinunciare a quel meccanismo di catena di trasmissione della sequenza-flusso che costringe chi legge ad andare avanti fino alla fine: «da che il mare sospetta la montagna/ il futuro si apposta al congiuntivo/ ti aspetto così/ come si aspetta un silenzio/ che non viene.» Insomma, la poesia di Rossi è multiforme, si impone per lo stile, per la sicurezza della voce, per un pensiero e una sensibilità maturi.
è la tua pelle che tace e respira a tentare la notte il respiro caldo del giorno: la vita è promessa diversa
— il riso è questo risarcimento del vivere così misero tutta una vita per vane parole infine con voce chiara per la tua bocca cibo per la tua bocca bacio per la tua bocca riso
— questa sera vorrei innamorarmi o morire lasciando andare il corpo incontro e tu che amerei non attutire il colpo avverti invece il fruscio dell’urto l’ombra che si fa chiara l’improvviso silenzio
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LUGLIO / Agosto 2016
Tratta e Cie Il report di Be Free Donne in Campo Paesaggi come ricami Scrittrici e migranti Vengono dall’Est
Felicità. prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 71 - n.6 ISSN 0029-0920
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