Eric Hazan, scrittore ed editore francese, entra nelle file del Fronte di Liberazione Nazionale durante la guerra d’Algeria. Fonda nel 1998, insieme ad alcuni amici, la casa editrice La Fabrique, con lo scopo di pubblicare libri di storia, filosofia e politica. Contemporaneamente si dedica alla scrittura, attività che affianca a quella di traduttore. Parigi. L’invenzione di una città, uscito per Seuil nel 2002, è stato tradotto in inglese da Verso nel 2010 ed è già considerato un bestseller a livello internazionale.
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PARIGI
L’INVENZIONE di una città
L’INVENZIONE DI UNA CITTà
“Volete essere felici? Comprate questo libro e andate a fare una passeggiata.” - Les Inrockuptibles -
“Un libro straordinario, da leggere a casa con l’aiuto di una mappa della città, oppure da portare con sé sur place per visitare quei luoghi che i turisti non degnano di uno sguardo.”
parigi
“Se sei abbastanza fortunato da aver vissuto a Parigi quand’eri ragazzo, allora per il resto della tua vita, ovunque andrai, essa sarà con te; a Parigi è un continuo banchettare.”
Introduzione
MARIO MAFFI
- Ernest Hemingway -
ERIC HAZAN
- Jean Cocteau -
ISBN: 978-88-6288-123-4
€ 22,00
Odoya w w w. o d o y a . i t
All’ombra della torre Eiffel, attorno alle guglie di Notre-Dame, nel cuore del quartiere Latino risuona l’eco di una storia antica. È la storia di Parigi, la più stupefacente delle capitali europee, meta obbligata per milioni di turisti che la attraversano distratti, abbagliati da poche tappe da cartolina.
Unendo l’abilità del cantastorie al rigore dello storico, Hazan rompe la superficie luccicante della metropoli e ci consegna il ritratto di una città attraverso i suoi splendori e le sue miserie, strizzando l’occhio agli scenari in bianco e nero di Doisneau, maledicendo lo scempio funzionalista di Haussmann – assassino della Parigi medievale – a braccetto con Zola, Balzac, Proust, Baudelaire, Manet.
- Adam Thorpe, The Guardian. -
“Tutti a Parigi vorrebbero essere attori e nessuno spettatore.”
Luc Sante, The New York Review of Books
Parigi. L’invenzione di una città è una guida al mondo variegato dei quartieri, alle strade dimenticate ma brulicanti di vita che il turismo di massa sfiora appena, all’atmosfera da villaggio rurale di Belleville e Ménilmontant, al silenzio del Marais, alle contraddizioni di Montmartre e di Pigalle. Una capitale vibrante e ribelle, che si veste di insoliti colori.
PARIGI
Mario Maffi è professore di Cultura angloamericana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano. Si è occupato di problematiche quali la nascita delle metropoli, la trasformazione della cultura popolare in cultura di massa, gli sviluppi delle culture urbane e immigrate. Tra le sue pubblicazioni sono già usciti per Odoya: La cultura underground (2009), New York. Ritratto di una città (2010) e Londra. Ritratto di una città (2011).
Eric Hazan
“Appassionato e poetico, completo e immediato. Uno dei più grandi libri mai scritti su Parigi.”
Il sangue dell’invasione prussiana e dei martiri della Comune nel 1871 si mescola all’energia delle rivolte studentesche del maggio 1968 che segnarono il XX secolo. Una “psicogeografia” della prima città moderna, dove una piazzetta, un muro, una curva celano storie di oppressione e gloria, bellezza e morte.
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Gare Saint-Lazare
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Odoya Library 68 - ritratti di cittĂ -
ERIC HAZAN
PARIGI
L’INVENZIONE di una città introduzione
MARIO MAFFI traduzione
FEDERICO SIMONTI
ODOYA
Titolo originale
L’Invention de Paris. Il n’y a pas de pas perdus Copyright © Éditions du Seuil 2002 All rights reserved Copyright © 2011 Casa editrice Odoya srl Tutti i diritti riservati isbn 978-88-6288-123-4 Revisione della traduzione: Manuela Usai Editing: Caterina Ciccotti Ricerca iconografica a cura di Odoya srl Hanno collaborato: Anna Scopano, Marianna Tosciri Un sentito ringraziamento a Mario Maffi, a Tania Palmieri e alla casa editrice Verso (Londra, New York) Odoya srl Via Benedetto Marcello 7 – 40141 Bologna www.odoya.it
Indice Introduzione
Non so molto di Parigi di
Mario Maffi
9 Istruzioni per l’uso e un consiglio a chi si appresta alla lettura di Federico Simonti
CAMMINAMENTI DI RONDA
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Psicogeografia del limite 23 La Vecchia Parigi, i quartieri 37
I quartieri della riva destra
I quartieri della riva sinistra
Palais-Royal 40 • Carrousel 49 • Tuileries-Saint-Honoré 55 • Passages 63 Les Halles 66 • Sentier 76 • Marais 84 • I Grands boulevards 102 I boulevard della riva sinistra 119 • Quartiere Latino 125 • Odéon 133 Saint-Sulpice 134 • Saint-Germain-des-Prés 136 • Faubourg Saint-Germain 139 I violenti interventi di Haussmann 142
La Nuova Parigi, i faubourg 147
La muraglia della Ferme Générale 147
I faubourg della riva destra
Champs-Elysées 154 • Faubourg Saint-Honoré 159 • Faubourg Saint-Antoine 161 Popincourt e faubourg du Temple 164 • Faubourg Saint-Martin e faubourg Saint-Denis 173
Faubourg Poissonnière e faubourg Montmartre 179 Saint-Georges e la Nouvelle-Athènes 185 • Europe 187 • Monceau 192
I faubourg della riva sinistra
Faubourg Saint-Marcel 195 • Faubourg Saint-Jacques 205 • Montparnasse 207
La Nuova Parigi, i comuni limitrofi 219
I comuni della riva sinistra
I comuni della riva destra
Vaugirard e Grenelle 227 • Plaisance 232 Denfert-Rochereau e il XIV arrondissement 233 Il XIII arrondissement, la Butte-aux-Cailles e il quartiere Italie 234 Passy e Auteuil 239 • Batignolles e Clichy 244 • Montmartre 245 • Clignancourt 250 Goutte-d’Or 251 • La Chapelle e La Villette 253 • Buttes-Chaumont 258 Belleville e Ménilmontant 263 • Père-Lachaise e Charonne 273 • Bercy 277 • La Zona 278
PARIS ROUGE
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La nascita della barricata 300 • La redenzione di victor Hugo 363
IL BRULICANTE SCENARIO
381
I flâneurs 383 Le belle immagini 411
Note 455
Bibliografia 473 Indice dei nomi 481
ÂŤI passi perduti? Ma non ce ne sono di passi perdutiÂť. AndrĂŠ Breton, Nadja
introduzione
non so molto di parigi di
MARIO MAFFI
N
on so molto di Parigi. Ma credo che, al pari di tante metropoli amate, Parigi sia una grande mappa da distendere sul tavolo solo dopo averla esplorata a lungo a piedi. Così almeno è stato per me, complici smarrimenti delle gambe, della testa, del cuore, reali e metaforici; complice quella “gastronomia dell’occhio” che è l’andar in giro, come scrive Balzac citato da Eric Hazan in questo libro di grande fascino – un libro che è a sua volta tutto un andar in giro, un esplorare e guardare e leggere e riconoscere: perché, è vero, “non esistono passi perduti”, ogni passo porta da qualche parte e c’è sempre un angolo da svoltare. Lo sappiamo bene, noi che amiamo i vagabondaggi per le città. Si sa: ciascuno ha i propri metodi di esplorazione, le proprie sonde, i propri segreti e manie nel vagabondare: non ci si pensa molto, ma se ne va fieri, se ne è gelosi, e non sempre si riesce a comunicarli (a che pro, poi?). E comunque, dietro a tutto, per ciascuno di noi c’è la “prima” città, quella da cui vengono fuori le altre, magari diversissime, magari opposte e non conciliabili; eppure, sotto sotto, quella traccia rimane: la Ur-Città, la Città Primordiale. La mia prima Parigi, forse quattordicenne, è stata un angolo di città, una rientranza di rue Caulaincourt sotto Montmartre, una piccola pensione alla
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ERIC
HAZAN
sommità di una delle lunghe scalinate che rotolano dalla collina o vi si arrampicano. Come non perdersi, fra tutti quei gradini? Come (non) ritrovare la via di casa, il cuore che batte? Così fu, e così da allora è sempre stato: quello “smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta” che (Walter Benjamin dixit: ma lo scoprii in seguito) è tutto da imparare. Dopo Parigi, come Parigi: le molte altre città amate, tutte da esplorare, tutte da perdercisi. E forse, ora che ci penso (gironzolare, con la mente come con le gambe, significa anche far affiorare: ve ne accorgerete, leggendo questo libro), molto prima c’è stato il potere evocativo del titolo di un film: La traversata di Parigi, di Claude Autant-Lara. Era il 1956 o il 1957, non ricordo bene, e dunque avevo nove o dieci anni, e non so nemmeno se l’ho visto allora, quel film: può darsi che me l’abbiano raccontato i miei genitori (mi raccontavano sempre i film che andavano a vedere, ed era bellissimo). In ogni caso, come non restare suggestionati da un titolo simile? Ancora e sempre il camminare, il muoversi attraverso una città. Forse quelle atmosfere sono rimaste dentro, se non tramite le immagini, tramite le parole: gli scorci, i visi, le storie, i sentieri, le strade e i vicoli, la luce tenue dal locale all’angolo, il selciato luccicante di pioggia nella sera. I film di Jean Gabin, le fotografie di Atget, le canzoni di Jacques Prévert. Una città: La Città. E su quelle suggestioni cresce tutto il resto. Non credo che allora si chiamasse già “psicogeografia” (perché poi un nome così pomposo?). Era curiosità, desiderio, movimento, e sarebbe diventata anche nostalgia, o gioia malinconica, o passione. La mattina presto scendevo da rue de la Butte-aux-Cailles e ci si ritrovava sotto le grigie incastellature della metropolitana su boulevard Auguste-Blanqui (la riunione si teneva non lontano). Il mio francese stentato quando incontravo l’editore in rue des Saints-Pères. Lungo Saint-Germain-des-Prés, oltre il caffè Flore e il caffè Deux Magots, un edificio riconoscibile per un grande globo terracqueo in pietra che sporge al primo piano: la Società di Geografia (chi vi tenne un discorso agli inizi del Novecento?). L’albergo era in rue de Seine, e vibrava di strane suggestioni; l’altro albergo era in rue Delavigne e, dietro l’angolo, c’era il ristorante Polidor, dove si mangiava bene su lunghi tavoli. Sotto Montmartre, sei strade convergevano a formare una sorta di piazzetta sbilenca e su un lato traboccavano i libri e i cd usati di “Au Lendemain D’Hier”, un vero antro pieno di scoperte. Qual era il couscous migliore? Quello del Djodjora di rue du Père Guérin (mi pare ci fosse
INTRODUZIONE
PARIGI
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un pappagallo all’entrata) o quello del Kahina di rue Marcadet? Giù per rue Damrémont con le borse della spesa e, qualche anno dopo, ai giardini dello square Léon-Serpollet, a giocare con la sabbia con una bimba di due anni. Al 14 di rue de la Corderie c’era la sede della Prima Internazionale (o era in rue des Gravilliers?). Il negozietto di libri sulla Montmartre popolare del passato (“Encre de Chine”, credo: fumetti vari, libri ingialliti sulla Banda Bonnot e il bandito Mesrine, sui pittori e sull’argot parigino, su Brassens e Leo Ferré) è su rue Lamarck e di fronte sta la mia brasserie preferita, Le Refuge (guardavo i volti, ascoltavo le voci). Ci arrampicavamo fino al sesto piano di rue Baudelique e ci affacciavamo sullo stretto balconcino, e di lì osservavamo l’andirivieni nell’edificio di fronte, occupato dai senzatetto. La strada stretta e storta vicino a rue de la Goutte-d’Or. Il village Saint-Paul e il museo della Magia. L’impasse du Curée. La libreria vicino a Les Halles (come si chiama?). La gare SaintLazare e Batignolles. Le Buttes-Chaumont. La lunga camminata per avenue Jean-Jaurès, una mattina presto, e poi un caffè alla rotonda della Villette. La sorpresa di un biglietto per uno spettacolo alle Bouffes du Nord di Peter Brook. Un vicolo accanto alla gare de Lyon, ora scomparso, con un giardinetto in fondo e una scala metallica. Il Bois de Boulogne e il grande arco della Défense in una mattina di vento forte. Compravo il giornale all’edicola di Jules Joffrin, facevo colazione al Nord-Sud, e poi mi avviavo lentamente per rue du Poteau, un tripudio per gli occhi di negozi di alimentari, e andavo fino al mercato d’angolo: poi prendevo rue Ordener. Il giorno di Natale ad Abbesses cominciava a piovere, ma decisi egualmente di salire per l’amata rue Lepic, un ennesimo pellegrinaggio. Dalle parti di place de l’Estrapade cercavo le atmosfere di Hemingway nelle strade strette e ormai troppo piene di gente, e di lì andavo fino alla casa di Gertrude Stein in rue de Fleurus. Il museo d’Orsay era chiuso e allora ho camminato sul lungo Senna fra le bancarelle di libri e stampe, e poi ho passato un ponte (quale ponte?) e mi sono trovato sull’Île Saint-Louis e in una viuzza ho osservato le miniature nella vetrina di un negozio. Su per rue de Belleville, guardandomi intorno per scoprire luoghi nuovi. Verso porte de Bagatelle, per la mostra su Darwin, dopo aver preso metropolitana e autobus. La mostra sulla pittura americana dell’Ottocento era al Grand Palais e l’ho visitata con due amici. Quella mattina, tra sole e pioggia, feci una lunga camminata tutt’intorno al cimitero del Père-Lachaise per trovare rue Ramponeau e rue de la Fontaine du Roi, gli ultimi momenti drammatici della Comune, e poi entrai nel cimitero e andai al Muro dei Federati della Comune. «Certi luoghi sono come calamite», ha scritto Patrick Modiano.
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Avrete capito che la mia Parigi è un puzzle impazzito, buttato all’aria, decine e decine di pezzi sparsi intorno. Difficile orientarsi in quel mare magnum (ancora Balzac, questa volta letto nel métro parigino: «Parigi è un vero oceano. Gettate pure la sonda: non ne conoscerete mai la profondità»). Poi è arrivato il libro di Eric Hazan: quello che avete tra le mani, che state cominciando a leggere. E mi ha aiutato a ricomporre il puzzle, a connettere i luoghi, a entrarci, ad andarci sotto; e in più ci ha messo – in maniera affascinante – la gente, gli abitanti, quelli famosi e quelli anonimi, i protagonisti della Storia e quelli delle storie: perché, come ha scritto Jerome Charyn in un libro su un’altra metropoli amata, «le ossa di una città sono spesso inscritte sulla schiena della gente». La città, la mappa, il libro: e tutto quello, tutti quelli, che ci stanno dentro. Vedrete: sarà così anche per voi. settembre 2011
istruzioni per l’uso e un consiglio a chi si appresta alla lettura di
Federico Simonti
Non vi chiamano il flâneur? Dunque è nel vostro destino, l’errare. Voi passeggiate per non consistere in nessun luogo, collezionate oggetti per trasferirvi lontano da voi, citate per non sentire la vostra voce, vi distraete per frantumare la vostra identità. Michele Mari
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eggete questo libro come un’esortazione alla flânerie da praticare proprio laddove questa sottile esperienza è nata, in una Parigi in via di estinzione che però resiste e che, pagina dopo pagina, riemergerà agli occhi di chi, divenuto flâneur anche solo occasionalmente, riuscirà a farsi affascinare dai personaggi, dai palazzi, dagli angoli, dai luoghi che in questa narrazione ricompongono un quadro che sembrava ormai perso. flâner, |fla.ne|, verbo intransitivo del primo gruppo (dall’antico scandinavo flana). Passeggiare senza obiettivo, a caso; avanzare senza avere pressioni. Flâner dans le rue. Per estensione, perdere il proprio tempo gingillandosi. Travaillez au lieu de flâner!. E di conseguenza, flâneur, euse, |fla.nœʁ|, sostantivo. Colui che ama flâner.
Se ci si fermasse alla definizione fornita dal dizionario francese non ci sarebbe scampo: se qualcuno vi additasse come flâneur vorrebbe dirvi “alla francese”
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che siete dei pigri, svogliati perdigiorno, «Lavorate al posto di perdere tempo!». Eppure è proprio alla flânerie che vi spingiamo, perché è solo tramite questa parola magica che sarete introdotti in un mondo fatto di illustri personaggi, in una tradizione, tutta parigina, di scoperta, di ricerca, di conoscenza. Eric Hazan – e tutti noi che a vario titolo abbiamo concorso alla pubblicazione italiana – ripercorre, come prima di lui hanno fatto Baudelaire, Balzac, Atget, Benjamin, le vie di Parigi alla ricerca dell’essenza della città. Se, parafrasando Balzac, la maggior parte degli uomini passeggiano per Parigi, così come mangiano, vivono, senza pensare, in uno stato “vegetativo”, solo il flâneur è in grado di trasformare questa attività urbana, ovvero questo suo errare, girovagare, vagare, in un vero e proprio approccio conoscitivo nei confronti della società. Siamo ben lontani da quell’ozio pigro che il dizionario vorrebbe attribuire alla parola, ma, al tempo stesso, siamo altrettanto lontani dalla ricerca di produttività. Malgrado sia un’attività faticosa, è pur vero che chi la pratica si disinteressa dei risultati: la flânerie ha il solo scopo di procurare piacere a chi è in grado di praticarla. La vita di chi sin da giovane è stato conquistato da quest’arte appare ben presto segnata: «Così, per tutta la mia adolescenza sono andato lentamente ma inevitabilmente verso una vita d’avventure, a occhi aperti… non potevo nemmeno pensare di studiare una sola delle dotte discipline che portano ad avere questo o quell’impegno, poiché mi apparivano tutte estranee ai miei gusti… mi sono fermamente tenuto, dottore in niente, lontano da ogni parvenza di partecipazione agli ambienti che passavano allora per intellettuali o artistici… e posso dire che la povertà mi ha dato principalmente un gran lusso di tempo… è vero che ho gustato piaceri poco conosciuti da coloro che hanno obbedito alle tristi leggi di quest’epoca» (Guy Debord). Ecco apparire il tratto predominante di colui che può essere considerato come l’ultimo baluardo di un nomadismo, intellettuale e fisico, autentico: la volontà di intraprendere un percorso conoscitivo autonomo, libero, personale, misterioso. «Ho una grande simpatia per gli uomini che si lasciano chiudere di notte dentro un museo per poter contemplare a loro agio, in ore illecite, un ritratto di donna che illuminano con una pila. Come potrebbero, alla fine, non sapere di quella donna molto più di quanto ne sappiamo noi?» (André Breton). Partendo dalla vita quotidiana e rivalutando la sensibilità come forma di indagine profonda, «chi cammina lungo le strade senza meta viene colto dall’ebbrezza. Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre di più e sempre
ISTRUZIONI PER L’USO
PARIGI
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più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada, di un lontano gruppo di foglie, del nome di una strada» (Walter Benjamin). Vi domanderete quale sia la ricerca che il flâneur conduce, quale sia la ricerca che Hazan ha intrapreso con questo libro. Delineando i tratti del suo personaggio – a cui stranamente attribuisce il nome di Walter Benjamin – Michele Mari (in Tutto il ferro della torre Eiffel) rivela che «in realtà la sua malinconia non aveva mai accettato la perdita d’aura inflitta dalla riproduzione industriale, ed era proprio questo che egli andava cercando in giro per Parigi: l’aura. Inseguita come feticcio, l’aura gli si palesava nel quadro intravisto in un’anticamera, in una vecchia pompa idraulica, nel fermacapelli di una passante, nella baguette dipinta a mano sulla fiancata di un furgoncino: gli si palesava con uno scintillio, e scompariva. L’aura! L’aura dell’aura! Il brivido del sentore dell’alone dell’aura!». «La loro ebbrezza è il movimento e la memoria. Hanno dolorosamente constatato che niente permane e hanno cercato rifugio in un moto perenne» (Ulf Peter Hallberg). La Parigi che dà ebbrezza, la Parigi non illuminata, la Parigi aura, la si conosce solo se si è in grado di combinare la conoscenza della sua storia più profonda, più nascosta, con quella frenetica attività motoria che alla fine del Settecento aiutò Mercier a comporre Ritratto di Parigi: «Ho scorrazzato così tanto che posso dire di aver fatto questo Ritratto con le gambe, e ho imparato a percorrere i selciati della capitale in modo agile, brioso, zelante». Questo perché il flâneur ha imparato qual è il passo da tenere: cammina per ore, non troppo lentamente ma neppure così velocemente da non avere il tempo di osservare; in effetti la sua vera capacità consiste proprio nel sapere quando è il caso di soffermarsi. Si muove seguendo tre dimensioni: lo spazio, il tempo e il libro che gli serve come strumento conoscitivo per gestire i suoi movimenti. Difficilmente si ferma, ma spesso si sofferma, sugli oggetti, sulle persone, sui nomi, sulle pagine di un libro. La Parigi del flâneur, che ora è anche un po’ la vostra, non conosce vie, piazze, borgate, ma solo rue, place, faubourg, perché «nei nomi si nasconde l’enciclopedia magica del mondo: per questo leggere il nome di una strada è sempre una forma di incantesimo» (Michele Mari). Tutto può avere importanza, tutto può servire a far riaffiorare ciò che è stato; proprio nei dettagli si nasconde la realtà più impenetrabile: il viaggio è la registrazione di queste parole scolpite, ascoltate, rubate. La lettura è l’arma preventiva che vi consentirà di vivere «fra le crepe della storia incisa sulle città, misterioso linguaggio scritto dal tempo sul corpo e sulle
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cose dell’uomo che soltanto il flâneur sa decifrare e la cui decifrazione è il suo destino, il senso del suo esistere» (Claudio Magris). La chirurgia plastica che cambia la faccia della città, liquidando le macerie del passato, può essere sconfitta solo con una conoscenza personale della storia della città unita a una gran voglia di praticarla con le proprie gambe e con il proprio sguardo: e poi, se Breton era affascinato da Nadja per «quel suo modo di orientarsi, unicamente fondato sulla più pura intuizione e sempre con qualcosa di prodigioso…», metteteci anche un po’ del vostro. «I passi perduti? Ma non ce ne sono di passi perduti» risponde Nadja a Breton. Quindi, state pur certi che, se leggete e rileggete queste pagine, se camminate allo sfinimento alla ricerca di questi luoghi per lo più scomparsi, mantenendo costantemente lo sguardo del flâneur, non perderete neppure un minuto del vostro tempo, al limite troverete qualcosa. A patto che riusciate davvero ad apprendere la sottile arte del soffermarsi. Se leggendo queste pagine e, di conseguenza, se vagando per questa Parigi, per la prima volta o anche dopo averla vista mille volte, dopo aver lasciato che il caso dia libero corso al suo gioco, arrivaste a provare quelle sensazioni di libertà che sorprendono Louis Aragon («Sento a tal punto la mia libertà che non sono più padrone di me stesso»), allora avremmo raggiunto il nostro scopo: la città, la sua narrazione, avrà preso il sopravvento su di voi. Se anche il vero “paesano” di Parigi si perde nel rocambolesco labirinto che è questa città, lui che ne conosce ogni angolo, non peccate di presunzione e prima di iniziare la lettura, la visita virtuale, munitevi di una cartina dettagliata, perché possiate davvero apprezzare la densità della narrazione, il racconto della città attraverso le sue strade, i protagonisti che le hanno attraversate ogni giorno, nel corso dei secoli. «Parigi è un oceano. Se vi si getta un piombo non si raggiunge mai il fondo» (Honoré de Balzac). Quindi armatevi e partite alla sua scoperta, se ne siete capaci! E per finire una decina di letture, da fare o rifare prima o poi: Louis Aragon, Il paesano di Parigi, Il Saggiatore, collana Est, Milano 1996. Walter Benjamin, Opere complete: IX. I “passages”di Parigi, Einaudi, Torino 2000. André Breton, Nadja, Einaudi, Torino 1972.
ISTRUZIONI PER L’USO
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Roberto Calasso, La folie Baudelaire, Adelphi, Milano 2008. Guy Debord, Panegirico, Castelvecchi, Roma 1996-2005. Ulf Peter Hallberg, Lo sguardo del flâneur, Iperborea, Milano 2002. Michele Mari, Tutto il ferro della torre Eiffel, Einaudi, Torino 2002. Lorenzo Viani, Parigi, Ponte alle Grazie, Firenze 1994. Jacques Yonnet, Le vie incantate di Parigi, fbe edizioni, Trezzano sul Naviglio 2005. Edmund White, Il flâneur. Vagabondando fra i paradossi di Parigi, Guanda, Parma 2001.
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camminamenti di ronda
La città è uniforme soltanto in apparenza. Perfino il suo nome assume suoni differenti nei diversi quartieri. In nessun luogo – se non nei sogni – il fenomeno del confine può essere esperito in forma così originaria come nelle città. Conoscerle significa avere un sapere di quelle linee che, con funzione di confini, corrono parallele ai cavalcavia, attraversano caseggiati e parchi, lambiscono le rive dei fiumi; significa conoscere questi confini nonché le enclavi dei vari territori. Come soglia, il confine passa attraverso le strade; un nuovo territorio ha inizio come passo nel vuoto, come se si inciampasse in un gradino di cui non ci si era accorti. Walter Benjamin, I “passages” di Parigi
Psicogeografia del limite
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olui che attraversa boulevard Beaumarchais e scende verso rue Amelot sa che sta lasciando il Marais per il quartiere Bastille. Colui che supera la statua di Danton e costeggia l’alto muro posteriore dell’École de médecine sa che sta lasciando Saint-Germain-desPrés per entrare nel quartiere Latino. Spesso i confini tra i quartieri di Parigi sono tracciati con questa precisione chirurgica. I punti di riferimento sono a volte dei monumenti – la rotonda della Villette, il leone di Denfert-Rochereau, la porta di Saint-Denis –, a volte le asperità del terreno – la frattura del colle di Chaillot sulla piana d’Auteil, l’incontro delle strade che conducono in Germania e nelle Fiandre, tra la Goutte-d’Or e la collina delle ButtesChaumont –, altre volte, come esempio estremo, le grandi arterie, come i boulevard di Rochechouart e di Clichy. Questi tracciano una demarcazione così netta tra Montmartre e la Nouvelle-Athènes da dar vita, uno davanti all’altro, non solo a due quartieri ma a due veri e propri mondi. A Parigi non tutti i confini sono linee prive di spessore. Per passare da un quartiere all’altro, è necessario talvolta attraversare delle zone franche, dei micro-quartieri di transizione. Non è affatto raro che questi abbiano la forma
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di cunei che si insinuano nella città: come il triangolo dell’Arsenale, tra boulevard Henri-IV e boulevard Bourdon – laddove comincia, su una panchina con un caldo di trentatré gradi, Bouvard e Pécuchet –, che ha il suo vertice estremo a Bastille e che separa il quartiere di Saint-Paul dalle vie d’accesso alla gare de Lyon; o come l’area delle Épinettes, da cui si dipartono le avenue de SaintOuen e de Clichy, che consente un passaggio non repentino dal quartiere di Batignolles a quello di Montmartre; o ancora come il triangolo rettangolo di Arts-et-Métiers, incastrato tra il Sentier e il Marais, il cui angolo destro è porte Saint-Martin e l’ipotenusa rue de Turbigo, e da cui emerge, rivolto verso il centro cittadino, il campanile di Saint-Nicolas-des-Champs. Il passaggio può avere contorni più sfumati, come accade per quell’area conventuale che converge su rue de Sèvres, e che occorre superare per passare dal faubourg Saint-Germain a Montparnasse e che i vecchi tassisti sono soliti chiamare “le Vatican”. Lo stesso vale per quel gruppo di strade che, al di là del Jardin du Luxembourg, si estendono su quell’area compresa tra il quartiere Latino e Montparnasse, tra la Val-de-Grâce e la Grande-Chaumière, tra l’allegoria della Quinine, rue de l’Abbé-de-L’Epée e l’eroica effige del maresciallo Ney, davanti alla Closerie des Lilas. Nelle ultime pagine del suo Ferragus, Balzac faceva trascorrere all’ex capo dei Dévorants [divoratori] le sue giornate in questo luogo, guardando in silenzio i giocatori di bocce a cui prestava occasionalmente il bastone per misurarne i colpi, e osservando che lo spazio racchiuso tra la cancellata sud del Luxembourg e la cancellata nord dell’Obsérvatoire [è uno] spazio senza genere, spazio neutro in Parigi. In effetti, là, Parigi non è più; e là, Parigi è ancora. Quel luogo ha al tempo stesso della piazza, della via, del viale, della fortificazione, del giardino, del corso, della strada, della provincia, della capitale; certo c’è un po’ di tutto questo; ma non è niente di tutto questo: è un deserto.
Come lo sfondo neutro di certi fotomontaggi dadaisti, dove si incontranoscontrano porzioni fotografiche di città, così i transiti più banali finiscono per condurre agli shock più sorprendenti. Lasciandosi alle spalle il grigiore della gare de l’Est, seguendo l’antico convento des Récollets, che cosa può esserci di più inatteso della superficie d’acqua scintillante del canale Saint-Martin, della chiusa Grange-aux-Belles, del ponte girevole e della passerella nascosta sotto gli ippocastani, il tutto sullo sfondo d’ardesia dei tetti aguzzi dell’ospedale SaintLouis? E ancora, all’estremità opposta di Parigi, che contrasto tra il chiasso di avenue d’Italie e, appena aggirata la manifattura dei Gobelins, lo square
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ombreggiato dove scorre l’acqua della Bièvre, alle porte del quartiere della Glacière! Alcuni quartieri, quantunque tra i più antichi e meglio definiti, possono conservare dei confini incerti. Per molti parigini il quartiere Latino termina alla sommità della montagne Sainte-Geneviève, come ai tempi di Abelardo. Balzac situa la locanda Vauquer in rue Neuve-Sainte-Genviéve [Tournefort], «in queste strade strette fra la cupola di Val-de-Grâce e quella del Panthéon, due monumenti che fanno mutare le condizioni dell’atmosfera gettandovi toni gialli, oscurando tutto con le tinte severe proiettate dalle loro cupole».1 Ma oggi, sul versante sud della collina, la presenza dell’École Normale Supérieure, degli istituti di ricerca e degli alloggi studenteschi, con gli storici laboratori di Pasteur e dei Curie e l’università Censier, giustificano forse l’ipotesi di ampliare il quartiere Latino fino alla manifattura dei Gobelins. Le divergenze sui confini possono essere anche molto più importanti, tanto da rimettere in discussione l’identità stessa del quartiere preso in considerazione. Quando ci si allontana dal centro, dirigendosi verso nord, dove comincia Montmartre? La storia – ovvero i confini del piccolo nucleo prima della sua annessione a Parigi – concorda con il sentimento comune nell’affermare che si entra a Montmartre oltrepassando il tracciato della linea 2 della metropolitana, che tra le stazioni Barbès-Rochechouart, Anvers, Pigalle, Blanche e Clichy riprende la curvatura dell’antica cinta daziaria di Parigi (mur des Fermiers généraux). Ma Louis Chevalier, nel suo capolavoro Montmartre du plaisir et du crime,2 conferisce a Montmartre un confine molto più basso, estendendo il quartiere fino ai Grands boulevards e comprendendo anche le aree di Chausséed’Antin, di Saint-Georges, del Casino de Paris e del faubourg Poissonnière. A prescindere dalle indicazioni del piacere e del crimine, anche la geografia fisica gioca a favore di un tale tracciato, dal momento che la salita verso Montmartre inizia ben al di sotto dei boulevard de Rochechouart e de Clichy. La pendenza del terreno è visibile sin dall’antico braccio morto della Senna, qualche decina di metri al di là dei Grands boulevards. Walter Benjamin, incomparabile scopritore delle strade di Parigi, se n’era già accorto: Egli [lo sfaccendato] sta dinanzi a Notre-Dame-de-Lorette e i suoi passi rammentano: questo è il luogo dove un tempo si attaccava il cavallo di rinforzo [cheval de renfort] all’omnibus che risaliva la rue des Martyrs verso Montmartre.3
Si potrebbe obiettare che Montmartre è un caso a parte, che non si tratta di un quartiere come gli altri, ma che siamo di fronte, allo stesso tempo, a un’area
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autonoma all’interno della mappa di Parigi e a un mito storico-culturale, con all’interno una serie di sotto-confini per ogni suo particolare aspetto. Ma, in fondo, non è proprio questa ambiguità che caratterizza i quartieri a forte identità? E, d’altra parte, in assenza di una forte identità, possiamo davvero parlare di quartiere? Queste domande ci portano a un interrogativo più generale: che cos’è in definitiva un quartiere parigino? Il frazionamento operato dall’amministrazione – ottanta quartieri, ovvero quattro per ognuno dei venti arrondissement di Parigi – ci consente di abbozzare una risposta a contrario: una lista di unità non gerarchizzate, un mosaico così astratto, può avere un senso solo per il fisco e per la polizia. D’altra parte non è neppure sicuro che metodi più sottili riescano a definire un’entità urbana di base in un contesto come Parigi, dove il termine “quartiere”, malgrado appartenga alla notte dei tempi, tradisce una semplicità solo apparente, senza essere in grado di identificare realtà omogenee e comparabili. Facciamo degli esempi: Saint-Germain-des-Prés, la piana di Monceau e l’Évangile sono tutti e tre quartieri di Parigi, ciascuno con la propria storia, i propri confini, il proprio sviluppo, la propria architettura, la propria popolazione, le proprie attività. Il primo tra questi si forma nel corso dei secoli intorno alla grande abbazia, organizzando strade molto antiche attorno al moderno incrocio tra boulevard Saint-Germain e rue de Rennes. Oggi non conserva niente degli anni del Dopoguerra che lo hanno reso celebre nel mondo, ma da allora ha subito una museificazione completa. Nel secondo caso, la piana di Monceau fu lottizzata alla metà del XIX secolo dai fratelli Pereire, che diedero vita a «un quartiere di lusso nel bel mezzo di terreni abbandonati dell’antica piana», dove sorgeva anche la palazzina di Nanà, che Zola definì «di stile rinascimentale, con un’aria di palazzo». Reso celebre dagli artisti accademici dell’“art pompier” che furono tra i primi ad abitarci – tra cui Meissonier, Rochegrosse, Boldini, Carrier-Belleuse –, è questo un quartiere residenziale tipo, tant’è che ancora oggi i suoi palazzi neogotici e neopalladiani sono abitati dai successori della borghesia affaristica del Secondo Impero. Infine l’Évangile, alla fine del mondo, incastrato tra le linee ferroviarie della gare du Nord e della gare de l’Est, venne costruito al margine dell’antico villaggio di La Chapelle, dove gli addetti a liberare Parigi dal fango venivano a svuotare i loro carichi («La melma e la spazzatura sono tolte con dei carretti e riversate nelle vicine campagne, sfortunato chi si trova nei paraggi di questi depositi infetti» scriveva nel 1781 Sébastien Mercier). I grandi gasometri, allineati come mostri su rue de l’Évangile, non ci sono più; resta in piedi il Calvaire
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Un’immagine di rue de l’Évangile con i suoi grandi gasometri nel 1946.
fotografato da Atget, così come il mercato coperto di La Chapelle, ancor’oggi uno dei più colorati di Parigi. Per rendersi conto di questa diversità, le abituali coordinate geografiche (est-ovest, riva destra-riva sinistra, centro-periferia) appaiono spesso superate. Bisogna cercare altrove, in particolare nelle modalità di crescita della città. In tutto il mondo occidentale nessuna grande capitale si è sviluppata come Parigi, in modo così discontinuo e con un ritmo così irregolare. E ciò che ha dato impulso a questo ritmo è proprio la successione centrifuga delle diverse cinte difensive della città. Le città senza mura – eccetto quelle organizzate su una rigida griglia ortogonale, come la Lisbona del marchese di Pombal, Torino o Manhattan – crescono senza un ordine, come un polpo che allunga i tentacoli, come un batterio che si moltiplica nel suo ambiente. A Londra, a Berlino, a Los Angeles, i limiti urbani, le forme dei quartieri, sono incerti e variabili. La proliferazione dell’immensa megalopoli di Tokyo fa pensare a un baco da seta che mangia una foglia di gelso […]. La forma della città è instabile, i suoi confini una zona ambigua in continuo movimento […]. È uno spazio incoerente, che si allarga senza ordine e senza limiti, con dei confini non definiti.4
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Al contrario Parigi, più volte minacciata, assediata, invasa e sottomessa, è sin dalla notte dei tempi costretta dentro i suoi limiti. Per questo ha sempre avuto una forma regolare che riprende l’andamento circolare delle mura e non ha potuto estendersi se non per strati successivi, densi e concentrici. Dalle mura di Filippo Augusto alla tangenziale (boulevard périphérique), sei cinte si sono succedute in otto secoli – senza contare le aggiunte, i rinforzi e gli aggiustamenti parziali del tracciato. Lo scenario è sempre lo stesso: un nuovo sistema difensivo viene costruito volutamente più largo rispetto all’abitato in modo da lasciare uno spazio vuoto tra le mura e il tessuto esistente. Rapidamente questo spazio si riempie con nuovi edifici e ben presto è sempre più difficile trovare del terreno disponibile all’interno della cinta, l’abitato diviene sempre più denso, le costruzioni aumentano di piani e i lotti si riempiono, producendo una densità abitativa che rende la vita sempre più difficile. Durante questo periodo all’esterno della cinta e nonostante il divieto – rimasto costante in qualsiasi secolo, sotto qualsiasi governo politico ma mai rispettato (la zona non aedificandi, che i parigini poco familiari con il latino chiamano semplicemente zona) – si costruiscono, nell’aria buona che si respira nei faubourg, case con giardino. Quando la concentrazione all’interno delle mura diventa intollerabile, le mura vengono abbattute e se ne costruiscono delle nuove più distanti, i faubourg sono assorbiti nella pianta della città e il ciclo ricomincia. Filippo Augusto […] imprigiona Parigi entro una catena circolare di grosse torri, alte e massicce. Per più di un secolo, le case si accalcano, si ammassano e salgono di livello in quel bacino come l’acqua in un serbatoio. Esse iniziano a diventare profonde, accumulano piani su piani, crescono le une sulle altre, zampillano in altezza come ogni linfa compressa e fanno a gara a superare in altezza le vicine per avere un po’ d’aria. La via s’incava e si restringe sempre più; ogni piazza, stipata, scompare. Le case infine scavalcano il muro di Filippo Augusto e si sparpagliano allegramente nella piana senza seguire alcun ordine e tutte di traverso, come delle fuggiasche. Qui si dispongono a loro agio. A partire dal 1367, la città si espande a tal punto che si rende necessaria una nuova recinzione, soprattutto sulla riva destra. La edifica Carlo V. Ma una città come Parigi è perennemente inondata. […] La cinta di Carlo V ha quindi la medesima sorte della cinta di Filippo Augusto. A partire dalla fine del quindicesimo secolo è scavalcata, superata e il sobborgo corre oltre.5
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Come gli anni leggibili all’interno del tronco di un albero, così i quartieri compresi all’interno di due cinte murarie sono tra loro contemporanei, anche se il loro completamento può essere avvenuto a velocità diverse all’interno della stessa circonferenza – sempre in ritardo a ovest e sulla riva sinistra. Stesso periodo e quindi stessa progettazione, per questo ci sono degli evidenti punti in comune tra Belleville e Passy, annessi a Parigi tardivamente e che conservano i tratti tipici dei paesi dell’Île-de-France: la grande via commerciale, la chiesa, il cimitero, il teatro che oggi si direbbe municipale, la piazza centrale animata, dove si va a comprare il dolce ogni domenica. Tali analogie si possono ritrovare anche nei faubourg o nei nuclei urbani più centrali, ma dal momento che a Parigi gli spostamenti si fanno più spesso seguendo strade disposte a raggiera piuttosto che ad arco di cerchio, è più facile prendere atto della differenza diacronica dell’abitato che della contemporaneità tra quartieri lontani. Tra le due mura di cinta medievali di Parigi, la più antica, costruita sotto Filippo Augusto intorno al 1200, ha lasciato tracce più nette sulla riva sinistra, dove, sul versante nord della montagne Sainte-Geneviève, il muro di cinta perimetrava l’Università, ove per tracce non si intende vecchie pietre o vestigia archeologiche, peraltro ripartite su entrambe le rive, quanto piuttosto le conseguenze urbane ancora manifeste, leggibili osservando una carta o visibili a occhio nudo. Le mura iniziavano sulle rive della Senna, all’altezza della tour de Nesle, nel luogo dove oggi sorge il palazzo dell’Institut de France; seguiva il tracciato dell’attuale rue Mazarine – un tempo des Fossés-Saint-Germain – fino a raggiungere porte de Buci, l’entrata della città verso l’abbazia di SaintGermain-des-Prés. La cinta fiancheggiava quindi rue Monsieur-le-Prince, già Fossés-Monsieur-le-Prince, che, non certo per caso, ancora oggi funge da limite tra il quartiere Latino e quello dell’Odéon, per raggiungere la sommità della montagne Sainte-Geneviève, dove ancor oggi i nomi delle strade e delle piazze ricordano quell’antica presenza: Fossés-Saint-Jacques, Estrapade, Contrescarpe. Le mura discendevano quindi verso la Senna in linea retta lungo rue des Fossés-Saint-Victor [oggi Cardinal-Lemoine] e rue des Fossés-Saint-Bernard, fino a raggiungere il fiume dove si ergeva la tour de la Tournelle.6 Anche se la cortina muraria non esiste più, dopo otto secoli, il ricordo dell’antico tracciato serve ancor’oggi a definire i confini del quartiere Latino. All’interno di questa semi-ellisse – nei pressi del refettorio dei Cordeliers, del cimitero di Saint-Séverin (conosciuto come charnier, carnaio), della robinia di Saint-Julien-le-Pauvre intorno a rue de la Harpe, di place Maubert, dietro
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il Collège de France – sulla riva sinistra si è conservata l’antica disposizione medievale: lotti stretti, tessuto molto denso e senza pause, strade vorticose in tutti i sensi. Per convincersene, è sufficiente uscire dalla vecchia Università, passando dall’altro lato delle mura, e risalire lungo rue Saint-Jacques verso rue des Ursulines, rue des Feuillantines, cara a Victor Hugo, rue Lhomond, rue de l’Abbé-de-l’Epée. Qui, i muri alti, gli alberi, i giardini che si intravedono attraverso le grate, la griglia urbana che si allarga e diviene più regolare, tutto rende evidente che si è passati in un territorio extramoenia, in uno spazio con maggior respiro, sui terreni di antichi conventi, lungo le strade che portavano verso Orléans e verso l’Italia. Dall’estate del 1789, quando la Bastiglia fu distrutta e le sue pietre trasformate in souvenir – vendute come, due secoli più tardi, accadrà per i frammenti di cemento del muro di Berlino – non resta più traccia della muraglia eretta da Carlo V, dei suoi camminamenti di ronda, delle sue porte fortificate, dei suoi bastioni dove si passeggiava di sera, dei suoi fossati dove si andava con la canna da pesca. Come dicevamo non resta niente di tangibile, ma lo sviluppo delle mura lungo l’antico braccio morto della Senna rappresenta una delle tracce fondaL’antica cinta daziaria di Parigi in una mappa del 1550.
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mentali di Parigi, consentendo il completamento ad arco di cerchio della forma a croce ereditata dai Romani.7 Tra Bastille e porte Saint-Denis, il nobile andamento curvilineo dei boulevard che oggi si chiamano Beaumarchais, des Filles-du-Calvaire, du Temple e Saint-Martin, non è altro che il ricordo della vecchia muraglia. La linea dei Grands boulevards era già stata prefigurata. Questa cortina muraria era servita a lungo. Rinforzata con grossi bastioni sotto Enrico II, raddoppiata qua e là per fronteggiare la minaccia dell’artiglieria spagnola, la difesa della Parigi della Lega deve molto alla presenza della muraglia che fronteggiò le truppe di Enrico III e poi di Enrico IV. Mezzo secolo dopo, le mura difenderanno per un’ultima volta il potere reale: in quello che sarà ricordato come il magnifico episodio della Fronda, la “Grande Mademoiselle” – AnneMarie-Louise d’Orléans – farà sparare col cannone della Bastiglia sull’armata di Turenne per coprire la ritirata delle truppe di Condé verso porte Saint-Antoine. Luigi XIV era stato costretto da piccolo a lasciare la Parigi della Fronda. Intorno al 1670 ordinò di radere al suolo le vecchie mura e di rimpiazzarle con dei viali alberati, una sorta di passeggiata larga più di trenta metri tutt’intorno alla città. I responsabili di questo progetto senza precedenti, François Blondel e Pierre Bullet, organizzarono un tracciato che riprendeva quello difensivo, dall’Arsenale e dalla Bastiglia fino a porte Saint-Denis, e che si prolungava, lungo gli attuali boulevard, fino alla chiesa della Madeleine. I viali raggiungono quindi la Senna seguendo rue des Fossés-des-Tuileries e fiancheggiando il giardino delle Tuileries, come succede con l’attuale rue Royale. Si tratta di un viale alberato diviso in tre fasce di cui quella centrale è larga sedici metri […] ad opera dei capi della municipalità di Parigi [prévôts des marchands] che si occupano anche della gestione di tutte le mura e dei viali utilizzati per le passeggiate pubbliche. È stato ordinato che vengano lasciati dei fossati di dodici metri nei quali passeranno le fogne della città […] e all’interno delle mura sarà lasciata una via lastricata di tre o quattro metri di larghezza.8
I nuovi viali voluti da Luigi XIV, nati sulle fondamenta delle vecchie fortificazioni, ripresero il nome militare di boulevard, che avrà in seguito un grande successo e sarà utilizzato per diverse cerchie murarie di Parigi, con slittamenti che possono oggi creare qualche confusione. Nel XIX secolo, il boulevard che sorge laddove un tempo c’era la cinta daziaria venne detto boulevard extérieur (dal Diario dei Goncourt, subito dopo la distruzione del muro: «Passeggio sul
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boulevard extérieur allargato in seguito alla soppressione del camminamento di ronda. L’aspetto è completamente cambiato. Le guinguettes [balere] si trasferiscono altrove»). L’espressione extérieur, esterno, venne usata per distinguerlo dal boulevard intérieur, interno, ovvero quello voluto da Luigi XIV che, nel suo segmento compreso tra Château-d’Eau e la Madeleine, prenderà il nome di Grands boulevards, o semplicemente di Boulevards («Si possono comparare i boulevard a due emisferi: gli antipodi sono la Madeleine e la Bastiglia, l’equatore è invece boulevard Montmartre, dove si svolge pienamente la vita»9). In seguito, intorno al 1920, quando le fortificazioni di Thiers vennero abbattute, il termine extérieur finì per essere applicato ai boulevard che ne presero il posto (Francis Carco: «Nei bar in disparte rispetto ai boulevard extérieurs e alle strade in salita che qui convergono, entrava e aveva l’aria di aspettare qualcuno, ma non si sa chi».10). Da allora il boulevard des Fermiers généraux perse il suo rango di extérieur, senza più ritrovare una precisa denominazione nel vocabolario parigino. Negli anni Sessanta, dopo la costruzione della tangenziale, o boulevard periphérique – senza dubbio per evitare di confondere i boulevard esterni con questa tangenziale sempre “esterna”, distinzione tanto cara alle signore che danno gli aggiornamenti alla radio sulla situazione del traffico –, appare una nuova espressione, ovvero quella di boulevard des maréchaux, che va a identificare i viali che rimpiazzano le fortificazioni. Per meglio comprenderci, chiamerò Vecchia Parigi quella compresa all’interno dei boulevard di Luigi XIV e Nuova Parigi quella che si svilupperà al di fuori. Questa città più recente sarà a sua volta divisa in due anelli concentrici. Quella parte di città compresa tra il boulevard di Luigi XIV e l’antica cinta daziaria è l’anello dei faubourg. Mentre al di là delle mura, fino ai boulevard des maréchaux, si estende l’area dei villaggi che, un tempo, disposti a raggiera, gravitavano intorno alla città. Non stiamo riducendo la città a una variante del gioco dell’oca. In realtà quando Parigi si sviluppa al di là dei propri limiti, si tratta sempre di un passaggio d’epoca che porta con sé mutamenti tecnici, sociali e politici. È come se l’alba di ogni nuova epoca rendesse all’improvviso obsoleto il precedente recinto murario e creasse scompiglio nella vita del centro storico. Consideriamo il caso dell’illuminazione pubblica e del mantenimento dell’ordine pubblico, così importanti sia per consentire lo svago che per attuare un programma repressivo. Nel Medioevo, nelle notti parigine erano soltanto tre i luoghi illuminati in permanenza: la porta del tribunale di Châtelet, dove Filippo il Bello aveva fatto
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Hyacinthe Rigaud, Luigi XIV, Re di Francia e di Navarra, olio su tela, 1701 (Parigi, MusĂŠe du Louvre).
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piazzare una lanterna incorniciata nel legno e rivestita con la vescica di un suino per scoraggiare i malfattori che stazionavano finanche nella piazza centrale; la tour de Nesle, dove un faro segnalava ai marinai che risalivano la Senna che stavano ormai entrando in città; e il cimitero des Innocents, illuminato da una lanterna. Prima di avventurarsi nella notte, era prudente fornirsi di portatori di torce, poiché era meglio non fidarsi troppo della protezione delle ronde, borghesi o reali che fossero. All’epoca in cui Luigi XIV fece di Parigi una città aperta, promuovendo la costruzione dei nuovi viali, il re prese due decisioni che segnarono l’entrata nella modernità: fece installare per le strade circa tremila lanterne – con una sorta di gabbia in vetro che proteggeva le candele, e appese con delle corde all’altezza del primo piano delle case – e creò il posto di tenente generale di polizia, che aveva ai suoi ordini un’importante forza armata (il primo ad avere questo incarico, La Reynie, vuoterà le corti dei miracoli e sarà l’esecutore del grand enfermement, rinchiudendo mendicanti e malati di mente nei nuovi ospedali-prigioni di La Salpêtrière e di Bicêtre). Un secolo più tardi, parallelamente alla costruzione della cinta daziaria, i progressi tecnici dell’epoca dei Lumi avranno effetti anche sull’illuminazione delle strade: le vecchie lanterne con le loro candele saranno rimpiazzate da riverberi a olio con tanto di riflettori metallici che ne aumenteranno la portata. Sartine, responsabile della sicurezza dell’epoca, affermava: «La grande quantità di luce fornita dai nuovi lumi rende impossibile pensare che si possa fare meglio». Di altra opinione è Sebastien Mercier, il quale sosteneva: «i riverberi Il cimitero des Innocents in due stampe del XIX secolo.
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sono mal posizionati; da lontano la loro fiamma rossastra acceca, ma avvicinandosi la luce è scarsa, e se vi posizionate sotto siete nell’oscurità». Nel quarto decennio del XIX secolo, quando Parigi venne di nuovo rinchiusa dalla cortina delle fortificazioni di Thiers, in città l’illuminazione a gas era ormai generalizzata e i gendarmi giravano per le strade in uniforme. All’indomani della Grande guerra, le ultime fortificazioni vennero demolite e nello stesso tempo l’illuminazione elettrica rimpiazzò quella a gas. Negli anni Sessanta la costruzione della tangenziale, cronologicamente l’ultimo tra gli anelli parigini ma non per questo il meno efficace, fu accompagnata dalla sostituzione delle lampade a incandescenza con l’illuminazione al neon e dalla scomparsa dei gendarmi che facevano le ronde in bicicletta, detti hirondelles, in favore della proliferazione di pattuglie motorizzate, in attesa poi dei benefici del poliziotto di quartiere! Si potrebbe anche scrivere una storia di Parigi, politica o architettonica, artistica o tecnica, letteraria o sociale, in cui i capitoli non siano però i secoli – un frazionamento particolarmente inadatto a questo scopo – e neppure il susseguirsi di regni o di repubbliche, quanto invece le differenti cinte murarie che scandiscono il ritmo di un tempo discontinuo e sotterraneo. La quindicesima tesi contenuta in Sul concetto di storia di Walter Benjamin ricorda che «i calendari non misurano il tempo come orologi»: ecco, il ritmo delle cinte murarie assomiglia proprio al tempo misurato dai calendari.