Premessa all’edizione 2013
«Which Side Are You On?»
La crisi economica mondiale che stiamo vivendo, con i suoi alti e bassi, le illusorie “ripresine” e i tonfi improvvisi e devastanti, e i tassi di disoccupazione che crescono ovunque, ha indotto a riavvolgere la pellicola della nostra storia di quasi un secolo, fino agli anni Trenta del Novecento: alla Grande Depressione statunitense. Con essa, sono tornati ad affiorare non solo i crudi dati economici e sociali, ma anche quei riflessi culturali che, in modo drammatico e al tempo stesso appassionato, l’hanno resa celebre: i romanzi di John Steinbeck, John Dos Passos, Erskine Caldwell, le fotografie di Walker Evans e Dorothea Lange, i film di John Ford, le canzoni di Woody Guthrie… un ricco repertorio di parole, immagini, trame, personaggi, scenari, vicende personali e collettive, che ci parlano ancora con forza inaspettata e straordinaria, man mano che i grafici dell’oggi (quelle eloquenti linee “a denti di sega” orientate sempre più verso l’abisso) si sovrappongono a quelli di ieri. Da oggi a ieri, e di nuovo a oggi, dunque, in un’incessante e inevitabile rincorsa attraverso il tempo. Non è un caso che, tanto per fare due esempi, molto di quegli stati d’animo, di quelle tensioni e di quegli aneliti (come dire: la versione “emotiva”, “esistenziale”, dei crudi dati economici e sociali), filtrino – rivisitati, ma vissuti con altrettanto pathos – in tanti album di Bruce Springsteen (da The Ghost Of Tom Joad a The Seeger Sessions, fino al recentissimo Wrecking Ball) o che cantanti da sempre impegnati come le statunitensi Nathalie Merchant e Ani DiFranco e l’inglese Billy Bragg reinterpretino, attualizzandolo, uno degli inni di quel decennio convulso,
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la celebre e sempre viva Which Side Are You On?, scritta da Florence Reese nel 1931, durante un aspro sciopero di minatori delle regioni carbonifere del Kentucky: «Non fate i crumiri per i padroni / Non date retta alle loro menzogne / I poveracci non hanno scelta / Se non si organizzano / Da che parte state, ragazzi? / Da che parte state?». Una domanda che torna a risuonare oggi – e che continuerà a farlo con sempre maggiore urgenza, accompagnando l’inabissarsi di quei grafici. Ma la cultura d’opposizione degli anni Trenta, della Grande Depressione, non usciva dal nulla. Dietro di sé, come aveva anni altrettanto ribollenti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, densi di strappi e fratture, di grandi lotte di classe e di convulsi tentativi di organizzazione operaia sia sul piano economico che sul piano politico, così aveva anche i tentativi diversi di dar voce (o, a seconda dei casi, di far argine) a quel fermento, a quel ribollire: una cultura varia e complessa, voci contrastanti che si accavallavano o intrecciavano, a volte trascinanti e a volte stonate, sommesse o intense. Fu una sorta di laboratorio primigenio, che coinvolse tanti settori diversi della cultura statunitense, dalla letteratura alla pittura, dalla fotografia al cinema nascente, e che per molti versi pose le basi di quanto seguì. Al centro di questo libro, pubblicato più di trent’anni fa, stanno dunque la condizione proletaria negli Stati Uniti in quei decenni (nei suoi vari aspetti: il rapporto capitale-lavoro, le organizzazioni e le battaglie operaie, l’impatto delle trasformazioni economico-sociali e delle crisi economiche e sociali, la vita nelle metropoli e, al loro interno, nei grandi quartieri immigrati) e l’aperto (o fluido e incerto) schierarsi di scrittori di vario talento e impegno da una parte o dall’altra della barricata sociale, le modalità con cui essi seppero (o non seppero) restituire tensioni e contraddizioni, facendosi portavoce convinti o contraddittori antagonisti di uno scontro che toccò punte acutissime – un tema ampiamente discusso per quanto riguarda gli anni della Grande Depressione (un titolo fra i tanti: Barbara Foley, Radical Representations. Politics and Form in u.s. Proletarian Fiction, 19291941, 1993), ma ancora troppo trascurato per quanto riguarda il periodo precedente, se possibile ancor più gravido di sconvolgimenti potenziali e reali del decennio della Grande Depressione: in quest’ultima, il crollo verticale dell’economia dopo l’ubriacatura dei “ruggenti anni Venti” (essi pure
Premessa
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tutt’altro che lineari o all’insegna del “benessere diffuso”, come si vorrebbe invece far credere: il conflitto fra capitale e lavoro, specie al loro inizio, fu violentissimo e le regioni minerarie del Kentucky, della Pennsylvania e del West Virginia assistettero a episodi prolungati di “quasi guerra civile”) sconvolse nel profondo un paese ormai bene dentro la cosiddetta “modernità” e si risolse solo con l’entrata in guerra; fra Ottocento e Novecento, assistiamo invece al cambiar di pelle di tutta la società statunitense – la chiusura della frontiera, il passaggio da nazione agricola a industriale, l’affermarsi delle metropoli, la nascita di trusts e monopoli, il crescere e il diversificarsi dell’immigrazione, l’evolvere in senso imperialistico dell’economia e della politica, l’uscita da un isolazionismo durato un secolo e più… tutti fenomeni che si leggono per l’appunto in trasparenza nella letteratura e cultura dell’epoca, e nei confronti dei quali la lotta di classe, come contraltare all’ostinato e sempre rinascente “sogno americano”, funge da cartina di tornasole, portandoli in superficie, esasperandone le contraddizioni, a volte gonfiandole e facendole esplodere. Materia scottante per gli analisti e i politici, non meno che per gli artisti e gli scrittori. Eppure, come si diceva, tema troppo trascurato. Troppo trascurato all’epoca in cui questo libro uscì nel 1981, ma in buona misura anche oggi, e dunque, a mio parere, ancor più meritevole d’essere ripreso in considerazione. I segnali d’un rinnovato interesse per questa letteratura d’altronde non mancano: la ripubblicazione in anni recenti, per iniziativa di collane prestigiose come la Penguin Classics, di alcuni di questi testi, come La giungla e Petrolio! di Upton Sinclair o Il porto di Ernest Poole, e le innumerevoli riedizioni di opere come La strada di Jack London (o del suo Il popolo degli abissi, che non riguarda gli Stati Uniti bensì la Gran Bretagna, ma che si situa comunque all’interno di questo discorso), ne sono un esempio incoraggiante. In Italia, mentre si comincia a conoscere di più la storia sociale di quei decenni attraverso i lavori di studiosi come Bruno Cartosio, Alessandro Portelli, Ferdinando Fasce, molti altri, o grazie alla traduzione di lavori come la Storia del popolo americano, dal 1492 a oggi, di Howard Zinn, a parte il sempre presente (e a ragione!) Jack London e qualche isolata ma meritoria iniziativa editoriale (una nuova edizione de La giungla, di Upton Sinclair; una nuova raccolta degli scritti “americani” di John Reed), si tarda ancora a (ri)scoprire quest’importante produzione letteraria (va
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detto però che nemmeno la narrativa della Grande Depressione, al di là dei grandi nomi, risulta davvero conosciuta: e invece gli autentici capolavori, grandi e piccoli, non mancano e sarebbe davvero il caso di accorgersene). Trovo dunque importante che la casa editrice Odoya sia stata tanto coraggiosa da ripescare questo libro dopo trent’anni di oblio e spero che la sua ripubblicazione stimoli la riscoperta di alcuni dei testi di cui si parla nelle pagine che seguono. Forse, ci penseranno i crudi grafici “a denti di sega” a spingere verso quella riscoperta, insieme ai loro inevitabili riflessi sociali e dunque al risuonare di quella domanda: «Which Side Are You On?». Perché è vero: certe volte la primavera (invocata nei versi della poesia di Ralph Chaplin citati in apertura di volume: «Oh, compagno, come desidero la primavera!») par tardare: ma è inevitabile che poi giunga. *** Vorrei dedicare questa nuova edizione de La giungla e il grattacielo alla memoria dei minatori di Marikana (Sud Africa), massacrati dalla polizia nell’agosto 2012, durante uno sciopero selvaggio proclamato per richiedere migliori condizioni di vita e lavoro. Chi racconterà la loro storia, così simile a quella dei minatori (e delle loro famiglie) di Ludlow (Colorado), mitragliati e arsi vivi nel 1914 dalla guardia nazionale e dalla polizia privata della compagnia mineraria di proprietà di John D. Rockefeller durante un lungo sciopero – vicenda che fu narrata con appassionata maestria da John Reed in The Colorado War (1914) e a cui s’ispirò Upton Sinclair per il romanzo King Coal (1917)? Da oggi a ieri, e di nuovo a oggi… Mario Maffi Milano, agosto 2013 Se i trent’anni di oblio non cancellano – a mio parere – l’attualità di questo libro, essi hanno però reso necessari una sua attenta rilettura, l’ampliamento di alcune tematiche, l’aggiornamento (entro certi limiti) della bibliografia: un lavoro che certo non esclude omissioni, vuoti o errori, per i quali mi scuso in anticipo.