Catalogo Crime City Comics - Dylan Dog Blackstage Anteprima web 16pag

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DYLAN DOG BLACKSTAGE Viaggio dietro le quinte di una testata da incubo

Crime City Comics: DYLAN DOG serie limitata numerata

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DYLAN DOG BL ACKSTAGE

Prodotto da:

ASS.NE CULTURALE OFFICINA>15 A cura di:

MARCO NUCCI Illustrazione di copertina:

NICOLA MARI Progetto grafico:

FRANCESCO BUFFOLINO

SI RINGRAZIA: Carlo Ambrosini, Paolo Bacilieri, Paola Barbato, Alessandro Bilotta, Bruno Brindisi, Franco Busatta, Giampiero Casertano, Gigi Cavenago, Nanni Cobretti, Coconino Press, Piero Dall'Agnol, Lorenzo De Felici, Fabrizio De Tommaso, Adriano Ercolani, Luca Genovese, Ernesto Grassani, La Settimana Enigmistica, Nicola Mari, Stefano Marzorati, Michele Medda, Giuseppe Montanari, Ratigher, Roberto Recchioni, Gigi Simeoni, Angelo Stano, Antonio Vianovi.

Si ringrazia per il patrocinio:

SERGIO BONELLI EDITORE

ASS.NE CULTURALE OFFICINA>15 via G.Pepoli, 18 - 40035 Castiglione dei Pepoli (Bologna) info@ofcn15.com www.ofcn15.com

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Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in nessuna forma e con nessun mezzo (elettronico o meccanico, inclusi la fotocopia od ogni altro mezzo di ripresa delle informazioni) senza il permesso scritto dell'editore.

Questa pubblicazione è stata realizzata su carta ecologica certificata FSC® di Fedrigoni Cartiere Spa Cover: Arcoprint EW 300 gr Interno: Oikos EW 115 gr Sketchbook: Arcoprint Avorio 85 gr

Dylan Dog è un personaggio creato da Tiziano Sclavi

© — Copyright 2015 Sergio Bonelli Editore e ass.ne Culturale OFFICINA>15

Stampato in Italia da A4 Servizi Grafici snc Luglio 2015

CRIME CITY COMICS DYLAN DOG info@crimecitycomics.com www.crimecitycomics.com


CRIME CITY COMICS

ALLA FINE DELL’ADOLESCENZA di Franco Busatta Parecchie sono state le testate Bonelli che hanno adottato elementi di continuity, contribuendo a far evolvere nel tempo, con le modalità più diversificate, il linguaggio delle pubblicazioni di Via Buonarroti 38. Fra le più innovative citiamo Storia del West, Ken Parker e Nathan Never. Pur muovendosi in senso opposto, Dylan Dog si è immediatamente rivelato come un prodotto ancor più sperimentale per quel suo osare in tutte le direzioni, sia sul piano delle trame che su quello visivo. Il character ideato da Tiziano Sclavi è sempre stato una figura immemore, all’interno di un contesto immutabile, ma calato in un ambito narrativo destinato a venire sistematicamente sovvertito. Così il personaggio può affrontare le esperienze più imprevedibili, le sue storie possono assumere la forma più bizzarra possibile, il protagonista può attraversare i più dilanianti traumi esistenziali senza che tutto ciò influenzi minimamente l’episodio successivo. Il percorso dell’immaginario inquilino di Craven Road (non a caso disseminato da frequenti riferimenti metalinguistici a disvelarne la natura fittizia e a minarne i presupposti realistici) non viene minimamente influenzato dagli eventi pur traumatici che sistematicamente ne sconvolgono la vita editoriale, quasi fosse chiamato a rappresentare l’archetipo dell’eterno adolescente, la cui quotidianità è sistematicamente sconvolta dalle nuove esperienze in cui incappa, senza che egli sia in grado di metabolizzarle e di farne tesoro per maturare.

ANIME DI PIETRA

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Dylan Dog numero 350 — Testi e disegni di Carlo Ambrosini

La discontinuità intesa come incapacità di collegare i vari aspetti della propria identità per poter accedere all’età adulta. Nemmeno un momento chiave come il finale del n. 242, con l’inserimento stabile di Cagliostro a Craven Road 7, è riuscito a lasciare traccia nelle storie pubblicate in seguito. Tutto ciò tende ad accomunare Dylan più ai bidimensionali eroi dei cartoon (da Paperino ai Simpson a Tintin) che a quelli a tutto tondo del classico fumetto avventuroso. Fra le innumerevoli variazioni e tutti i possibili sconvolgimenti ai quali Dylan è stato sottoposto mancava quello della continuity, con la quale il Nostro si ritrova alle pre-


Dylan Dog: BLACKSTAGE

BENVENUTI A WICKEDFORD

Prefazione

se dall’avvio del nuovo ciclo, iniziato con il numero 337 della serie regolare. Uno degli elementi cardine della svolta è stato il cambiamento di ruolo subito dall’ispettore Bloch, mandato in pensione e tolto dal centro della serie in veste di comprimario per diventare protagonista di una scena collaterale. Bloch si è spostato a vivere a Wickedford, un paese della campagna inglese a metà strada tra Twin Peaks e Cabot Cove - teatro delle avventure della Signora in giallo -, presentato per la prima volta da Michele Medda nella storia “Benvenuti a Wickedford”. È su queste tavole che lo vediamo muoversi per la prima volta autonomamente, forte di un inedito cast di comprimari, fra cui risalta una nuova fidanzata, con lo svelamento, perfino, del vero nome di Bloch, scelto da Sclavi stesso, ovvero Sherlock Holmes. Le vicende di Bloch a Wickedford tengono banco, regolarmente, su Dylan Dog Magazine, sancendone l’affrancamento dalla figura di Dylan.

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Dylan Dog numero 340 Testi di Michele Medda Disegni di Marco Nizzoli

A questo punto dovrebbero esserci tutte le premesse perché l’Old Boy possa misurarsi con la maggiore età, data la separazione da quella figura paterna che Bloch incarnava, all’ombra della quale Dylan poteva agilmente sconfinare, quando necessario, al di fuori della legge. Certo, si è trattato di un cambiamento di segno rilevante per un personaggio che aveva stabilito una forte sintonia con i ragazzi, probabilmente anche per la sindrome di Peter Pan che incarnava. Senza dimenticare che quello dylandoghiano più che un universo univoco costituisce un multiverso dai molteplici volti e dagli infiniti riflessi, è innegabile che sulle pagine della serie regolare la creatura sclaviana sia oggi chiamata a verificare la sua capacità di maturare e di confrontarsi con i cambiamenti della contemporaneità, lontano dai binari di quella discontinuità sui quali si era sempre rigorosamente mantenuta fino allo scorso ottobre, fuori da una dimensione atemporale ferma, in buona sostanza, a quegli anni Ottanta che ne avevano visto l’esordio in edicola.


SERIE REGOLARE Cadenza: mensile Pagine: 98, b/n


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Serie regolare

intervista a Roberto Recchioni

AL SERVIZIO DEL CAOS

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COLLANE E MECCANISMI NARRATIVI M — MARCO NUCCI R — ROBERTO RECCHIONI

M — Salve, Roberto. Nell’ultimo anno le collane della testata sono state tutte rinnovate e razionalizzate per contenuti, periodicità e offerta. Tra l’altro, per grafica, copertina e formato, adesso ogni uscita si diversifica dall’altra in un modo che in edicola appare lampante e intuitivo. Trovo questa nuova struttura editoriale molto riuscita e funzionale. L’osservare lo spettro della rinnovata offerta dylaniata, tra l’altro, mi ha portato a notare un’evidenza: ognuna delle collane dell’attuale Dylan Dog va a coprire un meccanismo narrativo differente, o perlomeno una poetica netta e non fraintendibile. Abbiamo le storie dedicate all’ex ispettore Bloch sul Magazine, che sono uno spin off, le avventure nel futuro distopico dello Speciale, inequivocabilmente un What if, le sperimentazioni e la forma racconto breve per il Color Fest, la tradizione dell’Old Boy, il leggero reboot dell’albo mensile. Sembra che Dylan Dog possa andare a ricoprire con efficacia qualsiasi impostazione narrativa per immagini. Pensi che questa varietà nelle possibilità di approccio sia una fisiologica conseguenza delle infinite sfaccettature (e contraddizioni) che stanno alla base del personaggio di Sclavi? In che modo vi siete mossi per ottenere questa nuova razionalizzazione, che definirei quasi teorica?


CRIME CITY COMICS

R — La verità è che ho pianificato tutto sin dall’inizio. Quando si prende in mano una famiglia di testate come quelle legate all’Indagatore dell’Incubo, la prima cosa da fare è chiedersi qual è il senso di ogni pubblicazione. E, se non c’è, trovarglielo. Non ho mai amato lo sfruttamento sconsiderato dei personaggi solo perché di successo. Mi sta benissimo che ci siano più pubblicazioni sul personaggio, non mi sta bene che quelle pubblicazioni non abbiano una propria autonomia e un loro essere compiute in quanto tali e che non siano coordinate con il resto. Sin dal primo momento il mio progetto ha previsto un rilancio completo di ogni pubblicazione in questo senso. È un’operazione intimamente progettuale e teorica.

se e che noi autori venuti dopo Tiziano abbiamo cercato di rappresentare, facendo tutti del nostro meglio, ma restituendo sempre delle sfaccettature di quel quadro complessivo irriproducibile. In conclusione, la storia finisce per dire che “il nuovo Dylan” non sarà e non potrà mai essere il Dylan di Tiziano, il modello originale da cui tutti gli altri sono stati clonati. Il nostro Numero 5 farà del suo meglio per essere qualcosa che ne rispetti profondamente lo spirito. Lo spirito. Non la superficie.

AL SERVIZIO DEL CAOS

SPAZIO PROFONDO

AL SERVIZIO DEL CAOS - John Ghost

M — Reputo la tua citazione a Solaris di Tarkovskij in Spazio profondo, oltre che assai raffinata e resa visivamente straordinaria da Nicola Mari, del tutto calzante col sottotesto del racconto. Il pianeta magmatico del film di Tarkovskij rappresenta infatti il ritorno del rimosso. Nel tuo albo il rimosso si palesa metatestualmente col ritorno di Dylan alle sue origini, rappresentate dai vari cloni che incontra sull’astronave e dalle creature che ne infestano le stanze. E poi c’è il finale, dove l’indagatore non si risveglia dall’incubo, bensì nell'incubo. Si risveglia su Solaris, si potrebbe dire. Come nasce l’idea per l’albo? E quali sono state le fasi della sua lavorazione, che so essere durata diversi anni? Come si è arrivati allo Spazio profondo? R — La storia nasce da un disagio. Il disagio che provavo nello scrivere Dylan Dog alcuni anni fa. Tutta la storia è una metafora fumettistica e metafumettistica sulla natura del personaggio e sulle condizioni in cui si trovava, artisticamente e editorialmente. Inizialmente doveva essere una storia critica con cui salutare il Dylan che amavo, per passare a lavorare su qualcosa di completamente differente (Orfani). Nel corso della scrittura però, qualcosa è cambiato. Sono tornato ad appassionarmi a Dylan, sono tornato ad amarlo nella sua natura più intima. Dylan mi ha fatto di nuovo innamorare di lui e questa cosa ha influenzato lo svolgimento dell’intera vicenda. A conti fatti quello che dice Spazio Profondo è che il Dylan di Tiziano Sclavi era un personaggio bellissimo, ricco di mille sfaccettature diver-

M — John Ghost è la nemesi di Dylan Dog, ne è il negativo fotografico: paradossalmente i due potrebbero essere visti come la stessa persona cambiata di segno. Dylan è Jekyll, Ghost è Hyde. O forse il contrario, non è importante. Credo che la tua volontà fosse quella di inserire una voce nella diegesi che mettesse in discussione la visione netta (e talvolta ingenua) che l’indagatore ha del mondo, una voce che dicesse cose poco rassicuranti ma non necessariamente non condivisibili. In Ghost abitano Gordon Gekko, Patrick Bateman, e innegabilmente anche Roberto Recchioni. Come è nato il personaggio? Quali saranno i suoi sviluppi? Poi, curiosità personale, da cosa deriva la scelta di quel nome? R — Non scordarti John Doe. La tua analisi di Ghost è piuttosto precisa. Parlando con Cristina (Sclavi) ho espresso subito la necessità di creare un personaggio attraverso cui dare voce a un pensiero alternativo (e spesso antagonista) a quello di Dylan. Un pensiero più vicino alla mia sensibilità che a quella di Tiziano. Perché Tiziano aveva Dylan per esprimere la sua visione del mondo e io, attraverso Dylan, potevo solo condividere le idee che mi vedevano concorde, ma non la totalità del suo pensiero perché io e Tiziano abbiamo sensibilità molto diverse. Quindi, ecco John Ghost: una voce che sento “mia” e che trova un piccolo spazio all’interno del vasto affresco di personaggi che popolano le pagine di Dylan Dog. Del resto, ho chiesto a tutti gli autori della testata di creare nuovi personaggi per esprimere la propria visione sul mondo. A questo servono i buoni fumetti, a raccontarci visioni. Quanto al nome: mi è parso così sciocco e diretto che mi sembrava impossibile che nessuno lo avesse mai usato.

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SPAZIO PROFONDO - Benvenuti su Solaris


Dylan Dog: BLACKSTAGE

Serie regolare

IL CUORE DEGLI UOMINI

IL CUORE DEGLI UOMINI - Piero Dall’Agnol e l’inverno

M — Se c’è una cosa che mi infastidiva di alcune passate derive della testata, era l’aver perso totalmente fiducia nelle immagini come mezzo narrativo. La messa in scena si era fatta didascalica. Ricordo nitidamente un episodio in cui Dylan saliva le scale e compariva un baloon che gli faceva pensare: “Salgo le scale…”. Trovo questa pedanteria, oltre che poco riguardosa nei confronti dell’intelligenza del lettore, del tutto inadeguata a un media come il fumetto, che è “letteratura disegnata”, come lo definì con illuminata semplicità Hugo Pratt. In un tuo recente episodio, Il cuore degli uomini, ho invece contato almeno quaranta pagine mute, che si affidano ai soli disegni per dare informazioni a chi legge. Se si considera come questo “silenzio” sia affidato ai pennelli di Piero Dall’Agnol, del cui stile dirompente si può dire tutto tranne che sia conciliante con gli stilemi classici della Bonelli, direi che il passo avanti fatto è enorme. Come è stato impostato il lavoro con Dall’Agnol? Quanto in futuro sarà valorizzato il silenzio? E quanto sarà osato in termini di soluzioni grafiche, che vadano ad assecondare questa rinnovata fiducia nelle immagini attraverso disegni che, orfani dei baloon, urlino? R — Io tendo a scrivere la sceneggiatura tenendo ben presente le qualità del disegnatore con cui collaborerò. Scrivendo questa storia speravo di spingere Dall’Agnol a tornare a un certo tipo di figure femminili e di forma canonica. A fare un passo indietro rispetto a dove era arrivato. Fortunatamente, ho fallito. Dall’Agnol ha proseguito per il suo percorso di ricerca, rendendolo forse anche più estremo. Quanto al silenzio, per me il discorso è molto semplice. Il fumetto sono immagini e parole. Le parole servono a raccontare quello che non si può raccontare attraverso le sole immagini. Se le immagini bastano, le parole - mie o degli altri - devono essere eliminate. Una parola di troppo è solo ego o insicurezza.

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FONDAMENTA E FUTURO M — Le novità apportate all’impianto narrativo sono state numerose e il loro inserimento non ha soffocato la possibilità degli autori di raccontare la storia del mese. Sono novità di struttura, che vanno a modificare sensibilmente la base su cui gli albi verranno costruiti: un Bloch in pensione, un Groucho che adesso non è più una spalla generica ma si relaziona con oggetti determinati e cessa di essere un puro gioco retorico, un nuovo ispettore, una poliziotta, una Londra maggiormente “reale”, un Dylan meno ottusamente vintage ma non per questo snaturato, un cattivo come John Ghost, che promette scintille. È stato costruito un nuovo impianto narrativo, insomma, e si è scelto saggiamente di evitare svolte sensazionalistiche affidandosi


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R — Sì, ci sarà uno sviluppo della continuity interna. Piccoli cicli e trame più ampie, che magari partiranno da piccole cose per poi svilupparsi ed esplodere con il corso delle storie. Molti elementi sono già stati disseminati e sarà bello, nei prossimi mesi, vederli crescere. Il problema di questo approccio è quello di non dimenticarsi mai che, alla fine, ogni storia di Dylan deve essere fruibile anche da sola. Perché in questa maniera è stato concepito il personaggio.

IL CUORE DEGLI UOMINI - l’incubo dell’indagatore

M — So che sono in lavorazione i remake di alcune storie storiche del passato. Le rielaborazioni avranno una durata di trentadue pagine, se non erro. Tra le storie sicure, una nuova alba dei morti viventi scritta da te e un secondo lungo addio di Paola Barbato. Su quale testata e in quali tempi vedranno la luce queste storie? Da quale esigenza nasce l’idea dei remake? La trovo un’idea interessante, che oltre a regalare storie avvincenti potrà portare a interpretazioni metatestuali inedite. R — Sarà un Color Fest tematico (a tema remake, appunto) e vedrà la partecipazione sicura anche di Fabrizio Accatino, Carmine Giandomenico e Maurizio Di Vincenzo. Tutta l’operazione nasce dalla necessità editoriale di scrivere una storia che introducesse Dylan Dog a un pubblico che magari non lo aveva letto prima per una nuova iniziativa editoriale di cui non posso parlare. Piuttosto che creare una storia nuova, ho preferito affidarmi alla sua storia originale, solo inquadrata da un punto di vista diverso, magari andando a spigolare in alcuni aspetti poco chiari (mi affascinava molto tutta la questione legata alla bomba nella custodia del clarinetto). Una volta stabilito cosa sarebbe stata questa storia e che forma avrebbe avuto, abbiamo pensato: e se ne facessimo altre e le raccogliessimo in un albo unico? M — Cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro dal Roberto Recchioni sceneggiatore di Dylan Dog? Ci sono argomenti che avresti particolarmente a cuore di trattare? Quali sono le tue storie già in lavorazione?

R — Sulla testata, come sceneggiatore, sono al lavoro su un numero estremamente limitato di storie. C’è la storia del trentennale, che vedrà il ritorno di un personaggio storico come Morgana e quello di un personaggio meno storico, Mater Morbi. Due madri che lotteranno per l’anima e il cuore di Dylan Dog. Poi ci sarà la prima parte del crossover con Dampyr, il ritorno di John Ghost, e un paio di storie di quella che, internamente definiamo come “fase tre”.

BLACKSTAGE M — Il catalogo che ospita questa intervista si intitola BLACKSTAGE, gioco di parole tra il colore nero dell’horror e il concetto di dietro le quinte. Raccontaci dunque un aneddoto, magari divertente magari inquietante, che si nasconde dietro la lavorazione della serie o di un tuo albo. Se non ce l’hai, sei liberissimo di inventartelo! R — La lavorazione degli albi di Dall’Agnol è sempre molto movimentata. Per ogni pagina, anzi, per ogni vignetta, Dall’Agnol ci manda sempre soluzioni diverse e lascia poi a noi il compito di decidere quale selezionare. È quasi una prassi e non ci stupiamo più. Per Il cuore degli uomini però ci ha mandato delle tavole o delle vignette a colori che proprio ci hanno spiazzato. Per un momento abbiamo pensato di pubblicare l’albo con quegli inserti meravigliosamente colorati. IL CUORE DEGLI UOMINI - riflessioni urbane

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alla buona scrittura. Adesso che le nuova fondamenta sono state gettate, avremo uno sviluppo anche nella trama orizzontale? Più in generale, con quali problemi fa a pugni un fumetto come Dylan Dog quando si cerca di immetterlo sui binari di una continuity, anche se leggera?


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Intervista a Gigi Simeoni

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NEL FUMO DELLA BATTAGLIA M — Salve, Gigi. Partiamo dal personaggio di Joy, il bambino protagonista della storia. Ho notato un tuo accorgimento narrativo che ho apprezzato molto, ovvero il non perderti in descrizioni eccessive della personalità del ragazzo. Il caratterizzarlo troppo, a mio parere, avrebbe smorzato la forza drammaturgica del racconto e privato il personaggio della sua universalità, inibendo quello che reputo uno degli obbiettivi che solo le belle storie riescono a conseguire: stimolare il lettore ad avere un ruolo attivo nella narrazione. Penso che l’aver lasciato pudicamente Joy poco descritto regalando al lettore la possibilità di colmare il personaggio con la propria personale idea di purezza sia una delle scelte che ha reso il tuo racconto tanto riuscito e raccolto. Una scelta che è tipica delle fiabe, che semplificano la diegesi per universalizzarne il senso. Low is better, come dicono gli Yankee. Come hai progettato il personaggio? Cosa pensi del rapporto di stimolo e interazione che un racconto deve instaurare col lettore? E per chiudere: qual è la tua idea di purezza narrativa?

G — In generale, riguardo al personaggio di Joy, c’era l’intenzione di non descriverlo e non entrarci troppo a fondo proprio perché è esattamente ciò che fa un autistico. Gli Asperger hanno caratteristiche borderline, con una gamma molto ampia di autismo (che in alcuni casi è difficilissimo diagnosticare proprio per la sfuggevolezza dei tratti caratteristici). Joy è tutto proiettato in due direzioni fondamentali: la madre e la sua passione per l’Aldilà (il cui rappresentante più “fulgido” è, ai suoi occhi, proprio Dylan). Il mio modo di scrivere, come giustamente indichi, è quello della fiaba moderna: elementi simbolici e tendenzialmente “fissi” in modo da non offrire interpretazioni alternative. In più, qualche elemento appositamente variegato, sfaccettato, la cui ampia gamma psicologica diventa personaggio essa stessa (vedi Gli occhi e il buio, dove solo Simonetti è ampiamente sezionato e analizzato, mentre a tutti gli altri personaggi è riservato un ruolo meramente funzionale per creare un corridoio, una sorta di tubatura rigida, che permette alla figura di Simonetti

di aumentare la sua pressione man mano che procede verso il finale per, infine, deflagrare). Non ho assolutamente idea se questo sia un metodo narrativo valido. So solo che è il mio metodo. L’interazione autore-lettore avviene in genere quando non la si studia a tavolino. Quella che avviene con uno studio pregresso, in genere, può fare schiuma, essere “vistosa”… ma poi si dissolve. Credo che Nel fumo della battaglia possa essere una di quelle storie che alcuni lettori capiranno col tempo, poco alla volta. Io stesso, a volte, capisco più a fondo le cose che ho scritto solo un po’ di tempo dopo. La purezza narrativa è ciò che sgorga da una persona che scrive come se sognasse. Subconscio in nero su bianco. Avere il coraggio di affrontare le parti più nascoste di noi, tirandole fuori e mettendole sulla carta, manipolandole il meno possibile.


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ne. La mancanza di regole sarebbe un grave problema logistico, per mandare avanti la coesistenza di miliardi d’individui. Eppure, da sempre il “matto del villaggio”, o il “buffone di corte”, o comunque tu lo voglia chiamare, rappresentano quella libertà cui chiunque aspira e che però, in qualche modo, allontana e mette all’indice. Non per paura della follia in sé, ma perché teme il giudizio degli altri “normali”.

IL PICCOLO JOY SCONFIGGE I SUOI DEMONI

G — Io so di non essere del tutto a posto, o “normale” (per usare il tuo stesso linguaggio). Per mia fortuna. Ho un approccio con la realtà sempre e comunque attraverso una sorta di pensiero laterale che, a volte, mi fa deragliare e perdere momentaneamente di vista il modus operandi più diretto. Rispetto a tante persone, mi rendo conto di difettare in alcune abilità pratiche, come quella di non capire quando qualcuno mi sta manipolando per ottenere vantaggi. È una cosa che mi ha fatto molto soffrire in passato, e che oggi mi ha reso un po’ più diffidente. Mi affascina da sempre il tema della mente/psiche umana, del suo proiettarsi nelle scelte quotidiane, nel suo tendere a infrangere le regole o a farle proprie come una corazza, o a usarle come un’arma. Sono tutte follie, credo. Nessuno è davvero normale. La persona che tende a essere etichettata come “troppo normale” molto spesso esplode in gesti di una violenza inaudita. Questo, forse, perché non siamo stati fatti per essere normali (già come animali, siamo eccezionali …). Pensa a quando usiamo l’espressione “pazzo scatenato”. Cosa significa? Semplicemente che il pazzo è colui che rompe le catene, che si libera, che trova sfogo allontanando da sé il gioco della normalità, delle convenzioni. Le regole, le leggi, la moralità, gli usi che sin da piccoli ci vengono somministrati poco alla volta per raccontarci quale sia il modo giusto per vivere la società. Ogni compromesso è una forzatura di questo desiderio di libertà. Certo, l’anarchia può facilmente portare alla distruzione e all’autodistruzio-

IL DISEGNO DEL MOSTRO

M — La tua non è una storia prettamente post-moderna o citazionista, tuttavia nel tuo racconto ho notato alcuni riferimenti: tra gli altri, Amabili resti di Alice Sebold, per il modo in cui l’elaborazione di un lutto passa dalla descrizione di un mondo di passaggio tra il nostro e quello della morte, e The Babadook, esplosiva pellicola horror australiana che il disegno con cui Joy rappresenta il signor Harp mi ha riportato alla mente. Ma a sovrastare questi elementi c’è la tua, di poetica: ho notato, leggendo i tuoi ultimi lavori, come spesso nelle tue storie sia proposta la visione di un aldilà in continua comunicazione col mondo dei vivi. Ne Gli occhi e il buio il messaggio è una macchia nell’occhio, in Stria si fa incubo, mentre in Nel fumo della battaglia si palesa tramite messaggi di un social network (forse la manifestazione più inquietante, quest’ultima). Raccontaci della tua concezione, in termini narrativi, del rapporto che lega i vivi ai morti, dei riferimenti da cui ti sei mosso per confezionare la tua storia e della tua poetica in generale. Com’è lo stile di Gigi Simeoni visto da Gigi Simeoni? G — Le mie storie non nascono con l’intenzione di citare. Solo in alcune scene, se ne sento la necessità per “semplificare” situazioni che altrimenti richiederebbero il doppio delle pagine, allora ricorro a una scena “ispiratrice” già vista in qualche film. Volutamente, prendo in considerazione solo il cinema. Riguardo a The Babadook, però, non l’ho visto. La vicinanza è sen’altro una coincidenza (non sei il primo che cita questo film parlando di Nel fumo della battaglia, in effetti…).

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M — Un amico psicologo mi diceva: “Quando sarai pazzo la pazzia sarà l’ultimo dei tuoi problemi”. Ovviamente la sua era una simpatica boutade, una semplificazione tipica degli aforismi. La verità è che esiste un’ampia zona “grigia” che divide il bianco della lucidità dal nero della follia. Una zona incerta, che non è ancora patologia ma che sottende processi neuronali altri rispetto a quelli che formano la base intellettiva di quello che per convenzione definirò tristemente l’uomo normale. In questo caso abbiamo un bambino affetto dalla sindrome di Asperger che si trova a fare i conti coi demoni (metaforici e letterali) della sua condizione di diverso (topòs sclaviano per eccellenza). Hai trattato il tema della follia con ammirevole pudore. Come hai impostato il tuo lavoro di scrittura su un tema tanto delicato? Più generalmente, qual è la tua posizione nei confronti del tema del disturbo mentale? Raccontaci della tua zona grigia.


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Ho un’idea dell’Aldilà, ma anche una sorta d’ideale empireo-mistico, formatasi per sedimentazione. Mi sono allontanato dalla matrice cattolica assorbita negli anni dell’infanzia-adolescenza, trovandola spesso molto mal rappresentata. Ma non sono ateo (credo si sia capito). Forse, agnostico. Sono certo che qualcosa di senziente sovrintende tutti i perché, e che le cose che accadono fanno tutte parte di un disegno la cui logica, però, gioca a sfidare la nostra il più delle volte. Sono appassionato, così come il Joy della storia, di tutti gli argomenti inerenti la sopravvivenza della psiche oltre il limite della morte fisica e anche di tutti gli stratagemmi e le problematiche relative ai tentativi dell’uomo di mantenere in qualche modo un contatto con il mondo dei morti. Le storie di fantasmi sono uno dei metodi più antichi. Oggi la tecnologia viene utilizzata e “interrogata” anche per questo motivo (ad esempio la psicofonia, cioè la registrazione su nastro magnetico dei cosiddetti white noise, cioè i presunti messaggi vocali che arrivano dall’Aldilà). È affascinante, per me, soprattutto l’aspetto della ricerca. Cosa spinge l’uomo a cercare questi contatti? Cosa succede nella sua mente quando da un coacervo di suoni inarticolati si convince senza alcun dubbio di sentire la voce di un congiunto trapassato che gli sta dicendo frasi di senso compiuto? È di questi giorni la notizia che una sensitiva ha condotto la polizia sui resti di una donna scomparsa molti mesi fa. Resti che sono stati recuperati, in effetti, e che raccontano di un cadavere di sesso femminile, dato alle fiamme e fatto a pezzi per poi essere nascosto in una cappella privata, in un cimitero di periferia, a 10 kilometri dal punto in cui, secondo gli inquirenti, la donna sarebbe stata uccisa. Ci crediamo, o non ci crediamo? È un caso? Se la polizia si rivolge ai sensitivi e ai medium o ai mentalisti, quando non ha più altre strade da seguire, vuole semplicemente dire che il nostro cervello rifiuta per paura di scoprire cose che sconvolgerebbero il nostro modo di pensare, ma che evidentemente è una via “possibile”, e che qualcosa di vero deve esserci per forza. Personalmente, sono totalmente aperto a qualsiasi rivelazione: un giorno sapremo se tutto ciò ha un senso. Nel frattempo, mi attardo a contemplare la ricerca delle risposte, di per sé altrettanto misteriosa e affascinante.

DYLAN AFFRONTA IL PROFESSOR HARP

M — La scena in cui Dylan, dopo essersi allontanato dall’istituto di igiene mentale per l’infanzia, si rende conto che il professor Harp non proiettava l’ombra dei propri piedi mi ha fatto scorrere un genuino brivido lungo la schiena. Devo ammettere che non mi capitava da tempo di spaventarmi leggendo qualcosa. Trovo Harp un personaggio splendidamente costruito: lo descrivi in poche pagine, concisamente, e ciononostante il lettore non lo dimenticherà mai. Raccontaci come hai ideato il personaggio e, se puoi, fai luce sulla terribile faccenda dei piedi. Sono terrorizzato, necessito di una spiegazione razionale. G — Harp rappresenta la cecità della psichiatria di vecchio stampo, quella che curava con l’elettroshock e le benzodiazepine. Non a caso è calato in un contesto vetusto, cadente, si rade con strumenti d’altri tempi, ecc… Questo tipo di psichiatria è dura a morire, ancora oggi. In America gli psichiatri tendono a far somministrare farmaci pericolosissimi a bambini cosiddetti “iperattivi”, per controllarne l’emotività e i movimenti. Rendendoli piccoli automi senza espressione, credono che basti per poter dire di aver reso migliore la loro vita e quella dei loro congiunti. È una mostruosità. Nella “sua” Roseville, non ci sono giocattoli, non ci sono ambienti adatti a dei bambini. È una sorta di lager. Lui è la Strega Cattiva di Hansel e Gretel, ed è cattivo senza un perché. È una rappresentazione del Male, contrapposta al candore e alla tenerezza di bambini (oltretutto, sofferenti) ormai abituati al tran-tran quotidiano della loro prigionia, convinti che il momento di gioia da attendere con trepidazione sia il pudding per colazione, una volta la settimana. Quei bambini potremmo essere noi, che viviamo prigionieri in un sistema che ci rifila il mercoledì di coppa e tutti stanno tranquilli. Sul fatto che Harp non abbia i piedi, è una scelta legata all’immagine del demoniaco molto antica, che sin dalla notte dei tempi (parliamo ad esempio di Pan) riferisce alle figure mitologiche o fiabesche problemi legati alla deambulazione o in generale agli arti inferiori. Le famose gambe di capra che si assegnano al Diavolo derivano da lì. Ci sono poi alcuni riferimenti anche in ambito alchemico, e non solo. L’uomo che non può o non sa camminare, figurativamente, è negato alla Conoscenza (quindi al percorso che lo condurrebbe alla Salvezza). Infine, è una figura che ho sognato. E io ascolto sempre le suggestioni che mi arrivano durante i sogni, quando scrivo. È come se cercassi di esorcizzare qualcosa, mettendola nero su bianco, per comprenderla e in qualche modo risolverla. M — Trovo perfetto l’utilizzo che hai fatto di Groucho in questo numero. L’ho trovato molto dinamico e mi ha fatto ridere genuinamente. Oltre a sfruttare la sua funzione di spalla comica, sei anche riuscito a introdurre nel personaggio delle novità: abbiamo un Groucho che flirta in modo spigliato con la tecnologia, iscrivendo Dylan a Facebook con estrema disinvoltura. Credo che una cosa, qualsiasi cosa, e il suo contrario combacino.


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Un bicchiere vuoto è vuoto, ma anche “pieno di vuoto”: le misure intermedie non permetterebbero un simile ragionamento. Penso quindi che facendo crescere esponenzialmente le capacità informatiche di Groucho si potrebbe paradossalmente raggiungere lo stesso stato di surrealtà di quando il baffuto nemmeno sapeva cosa fosse un telefono cellulare, ricongiungendolo all’assurdo passando dal reale. Come ti sei approcciato col personaggio per imbastire questa storia e le altre che stai raccontando? Più in generale, come vedi in poetica l’irrompere della contingenza tecnologica nell’esistenza dell’indagatore dell’incubo e che visione hai del mondo dei social network? Perché se è vero che “Il sonno della ragione genera mostri”, anche una connessione internet non scherza.

M — Il rapporto tra Dylan e Susy, la madre di Joy, è del tutto convincente. Abbiamo un indagatore molto umano, la scena in cui la donna lo bacia e lui, fradicio di pioggia, accoglie il gesto con un'espressione quasi triste la trovo esemplificativa di questa umanità. Anche il passaggio in cui i due finiscono per fare l’amore, ellittico, disinvolto e privo di baloon, lo trovo del tutto riuscito e adeguato al tono del racconto. Come vedi il rapporto tra Dylan e le donne? E, al netto delle ragazze, chi è il TUO indagatore dell’incubo? Quali parti di te gli hai regalato, quali caratteristiche del personaggio di Sclavi hai a cuore di far emergere? G — Per una volta, ho fatto vedere una donna che cerca un gesto consolatorio, che si appropria dei momenti per ottenerlo. Una donna che ha già dato tanto, alla quale la Morte ha risucchiato quasi tutta la vita, e che rivendica questo diritto con un gesto semplice (un bacio) e infine prenden-

DYLAN E GROUCHO VISITANO MADAME TRELKOVSKI

DYLAN, SUSY E IL PUDORE DI UN BACIO

L’ANGELO IN CATENE

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G — Verissimo. Mi sto rendendo conto soltanto ora (io sono un “tardivo” dei social network, e li ho assunti solo per mero utilizzo professionale) che internet è un megafono messo a disposizione di chiunque voglia dire la sua. Fa male e fa bene allo stesso tempo. È assolutamente democratico, ma in questa totale libertà si amplifica tutto: si rivela l’estro creativo di un potenziale cineasta, si svela la grandiosità di uno scrittore altrimenti destinato all’oblìo e deflagra la coglioneria di tanti poveretti cui la tecnologia rende, in questo caso, un pessimo servizio. Scrivere Groucho è la cosa che preferisco in assoluto. In ognuna delle mie storie, ci saranno sempre frequenti siparietti tra lui e Dylan. Ho intenzione di mostrare la parte di vita che quasi nessun autore ha mai raccontato, dei due: le spese, le faccende domestiche, le cose pratiche come le bollette o l’affitto da pagare. Non c’è niente di meglio che farli interagire, e far dire cose ad hoc a Groucho, in modo da mostrarlo sempre presente, alla sua maniera. Sarà sempre allucinato, disassato, squinternato e folle. Ma il mio modo di fargli dire le sue battute non sarà mai quello del “C’è un tizio che entra in un bar…” quando invece, lui e Dylan stanno correndo in auto sotto un temporale. La tecnologia, attraverso Groucho, verrà narrativamente ridotta a quello che è: uno strumento e non un fine. So bene che c’è qualcuno che storce il naso per questa scelta. Ma probabilmente si tratta proprio di quelle persone che non hanno ancora chiaramente definito il ruolo che la tecnologia deve avere nella loro vita. La vivono male per primi, la subiscono, e di conseguenza non la vogliono come ingrediente in una cosa che pensano di amare ma che osteggiano violentemente con la loro stessa bigotta rigidità. È tutta questa “folle libertà” che noi autori stiamo concedendo a Dylan Dog, che li ossessiona e li spaventa. Passano il loro tempo a lustrare le sbarre della loro cella, dalla quale comunicano col mondo per “interposta tecnologia”. Si mascherano, usano nomi finti, foto e citazioni di personaggi famosi… creano un universo alternativo in cui si allontanano da se stessi. Si ripudiano da soli, convincendosi che è meglio un “eccezionale falso” della loro “banale realtà”. Un fenomeno affascinante, certo, ma… qui torniamo alla domanda sulla pazzia…


Dylan Dog: BLACKSTAGE

Serie regolare

do per mano, in silenzio, un uomo che lei “userà” per sentirsi ancora viva. L’espressione di Dylan è quella di chi si sente fuori luogo. Preso in contropiede. Dylan non vede in Susy un oggetto sessuale, non potrebbe riuscirci nemmeno sforzandosi. Una madre, una donna gravida di un fantasma, impregnata di orrore e disperazione. Quando ho scritto questa scena ho ripensato a una scena di Il nemico è alle porte, dove il protagonista e una ragazza rubano un amplesso veloce e disperato in mezzo a un dormitorio di fortuna, tra i corpi distesi dei compagni addormentati. È una scena che mi ha molto colpito: personaggi in guerra, in mezzo alla morte e ai fischi delle granate, che riacciuffano la vita per i capelli e le gridano in faccia: io sono ancora vivo! In Dylan, nel mio modo di intenderlo, ci sono parecchi aspetti che rispecchiano il mio modo di essere e pensare. È tendenzialmente pigro e riflessivo, come me. E come me, rifugge le mode e i pensieri che “vanno per la maggiore”, trovandosi un po’ ritagliato fuori dalle correnti generali. Ha un rapporto tendenzialmente possibilista, nei confronti del soprannaturale, ma antepone sempre soluzioni logiche e pratiche. Cosa che faccio anche io. E anche la tendenza a rivolgersi con maggior fiducia a un polveroso manuale dalle pagine gonfie di umidità che non a Wikipedia, o preferire una vecchia auto priva di climatizzatore e dotata di frequenti problemi meccanici è qualcosa che me lo fa sentire molto vicino. Lui, però, con le ragazze è molto meno timido di me. Maledetto… M — Nel fumo della battaglia, oltre a essere il titolo della storia è anche una frase che trova spazio all’interno dell’albo. La trovo molto poetica, se riferita alla contingenza narrativa in cui viene inserita, e allo stesso tempo permeata di una sorta di epicità che la rende difficile da dimenticare. Spiegacene la genesi.

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G — Me la sono inventata io. Non mi andava di fare copia-incolla con qualche citazione dotta, e mi sono lasciato andare al mio immaginario. Amo usare le metafore, anche quando parlo normalmente. Mio figlio Marcello, ogni volta, se le memorizza o le segna da qualche parte con l’intento di “usarle”, prima o poi. Mi dice “Ehi, papy, questa ci sta!” (che significa “ci sta, è bella!”). Alla fine, significa semplicemente che anche in mezzo al casino e alla confusione… se vuoi, puoi. M — Tuoi sono i testi e tuoi i disegni. Come organizzi il tuo lavoro, completi tutta la sceneggiatura prima di iniziare a scrivere o alterni le due fasi? In sostanza, sei uno sceneggiatore con cui ti trovi bene? Parlaci del tuo metodo da autore completo. G — Prima scrivo tutto, come se dovesse essere destinato a un altro disegnatore (cosa che effettivamente capita: non so mai quale delle mie storie disegnerò e quali no). Come sceneggiatore, sono ridondante. Descrivo tutto, aggiungendo sensazioni e metafore espli-

cative per aiutare il disegnatore a entrare al meglio nel “mood” che cerco. Quando poi devo disegnare, spesso rivedo alcune cose. Potrei quindi dire che il disegnatore Sime e lo sceneggiatore Gigi non vanno troppo d’accordo, anzi… spesso si sfanculano a vicenda: “Ma perché ho scritto ‘sta cosa…!? Così è senz’altro meglio!” “Senti, se ho scritto così, FAI così! Non inventarti altre soluzioni, che poi sballi tutto!” M — Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro da Gigi Simeoni? Continuerai a essere una colonna portante della regolare oppure flirterai anche con le nuove collane della testata? Ci sono progetti extra-dylaniati in cantiere, argomenti particolari che vorresti affrontare? G — Sto provando scritture alternative, vorrei provare con romanzi in prosa e cinema. Tentare non nuoce, ed è sempre una bella palestra. Su Dylan, ormai, ci sono e intendo restarci sfruttando appieno tutto lo spazio che il curatore vorrà lasciarmi. Ho intenzione di scrivere a 360 gradi, per DD: thriller, gialli, horror, storie drammatiche e molta commedia. Se dovessi avere idee adatte ad altre testate, proverò a proporle. Ma in genere i miei piani non vanno più in là di quanto vadano le previsioni del tempo: massimo, due settimane/un mesetto. M — Il catalogo che ospita questa intervista si intitola Blackstage, gioco di parole tra il colore nero dell’horror e il concetto di dietro le quinte. Raccontaci dunque un aneddoto, magari divertente magari inquietante, che si nasconde dietro la lavorazione del tuo albo. Se non ce l’hai, sei liberissimo di inventartelo! G — I bambini ospiti di Roseville Mansion li ho incontrati realmente, in un reparto di psichiatria infantile dell’Ospedale Civile di Brescia. Li ho amati tutti subito, e li porto dentro di me. Avevo accompagnato mio figlio Marcello, che doveva restare in osservazione dopo aver ricevuto una sassata in testa. Non c’era un letto disponibile in Traumatologia, così venne ricoverato provvisoriamente in Psichiatria. Non fu per nulla colpito dalla “stranezza” dei suoi compagni di stanza, anzi. Marcello è affascinato, come me, dalle esperienze diverse e insolite. È stato un momento di profonda condivisione, e di consapevolezza. Per entrambi.


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LORO NON HANNO TAVOLA 43! Paola Barbato a proposito di “…E cenere tornerai”

o sempre avuto la fissa delle origini. Delle persone, ma anche delle cose. L’origine di …E cenere tornerai (che come titolo di lavorazione era Il re delle ceneri) si colloca nei mesi tra il settembre e l’ottobre del 2013. Era iniziata la convulsa lavorazione alla Fase 2, che allora Roberto pensava di far partire con una sequenza di soli sei albi. A me toccavano il primo e l’ultimo, ma c’era un problema concreto di tempi. Bruno Brindisi aveva disegnato “Mai più, ispettore Bloch” man mano che lo scrivevo e i fratelli Raul e Gianluca Cestaro avrebbero dovuto mettersi al lavoro il più presto possibile. Il tema era stabilito, si parlava della caduta di Dylan e di un suo rialzarsi (non si è mai pensato a una vera resurrezione) analogo a quella di Devil nell’albo Born again di Miller/Mazzucchelli che Roberto mi fece leggere per capire in linea di massima di cosa stessimo parlando. Doveva essere un albo simbolico nel quale Dylan rompeva i ceppi dell’immobilismo nel quale si era trovato sino ad allora, anche a costo di farsi male.

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Dylan Dog: BLACKSTAGE

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PAOLA BARBATO E LA DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA

MATTEO BUSSOLA VERSIONE OLD BOY

PAOLA BARBATO DISEGNA A MODO SUO

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GLI STORYBOARD DELL’ALBO PER I CESTARO


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