Olio Officina Almanacco 2013

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Calendario 2013

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olioofficina / anticamera

Sommario 7. Luigi Caricato: I sogni ci obbligano a realizzarli 8. – 11. Alfonso Pascale: Per un’economia civile e non autarchica dell’olio di oliva 12. – 16. Guido Conti: L’agricoltura, non l’arcadia 18. – 19. Nicola Dal Falco: Conversare con Gualtiero Marchesi 20. – 21. Nicola Dal Falco: Il Codice Marchesi, summa di un cuoco 22. – 24. Nicola Dal Falco: Sono un barocco d’avanguardia. Intervista a Ciccio Sultano 26. – 37. Josè Carlos Bellantuono: Flusso vegetale. Trasformazione fluida 38. – 40. Paola Cerana: I saggi assaggi di Montaigne 42. Gaetano “Tano” Simonato: Oro in frutto 43. Gaetano “Tano” Simonato: Tortino al cioccolato in crema inglese al profumo d’arancia 44. Maria Carla Squeo: No oil, no salad! Intervista a Jeanne Perego 45. Jeanne Perego: Insalata dolce amara con formaggio di capra e noci caramellate 46. Angelo Ruta: L’olio profuma di giovinezza 48. – 49. Nicola Dal Falco: L’Armadio delle essenze 50. Alessandra Paolini: Ama quell’ulivo che si staglia la cielo 51. Approfondimenti 52. – 55. Giovanni Lercker: Perché le sostanze grassi sono impopolari? 4

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56. – 59. Tullia Gallina Toschi: Mi piace, non mi piace. La personalizzazione del gusto 60. – 68. Maria Chiara Zerbi: Paesaggi e prodotti del territorio come componenti del territorio rurale 70. – 72. Viviana Varese: Il pesce e l’olio, due mondi aperti a una relazione perfetta 74. Davide Zunino: La mia non ricetta 75. Giuseppe Capano: Un condimento duttile e plasmabile 76. – 77. Arte da Mangiare: Tributo all’olio 78. Angelo Ruta: La donna olivo. Illustrazione 80. – 81. Guido Oldani: La sirena. Inedito 82. Emozioni 83. Valerio Marini: Coloroliva. Vignetta 84. 86. Emozioni 87. Valerio Marini: Boccaoliva. Vignetta 89. – 91. Luigi Caricato: Vista, olfatto, gusto 92. Valerio Marini: Taj Mahal. Vignetta 93. Valerio Marini: Indianoil. Vignetta

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Condimenti per il palato&per la mente IDEATO E DIRETTO DA LUIGI CARICATO

MILANO

Palazzo Giureconsulti 28-29 GENNAIO 2012

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olioofficina / luigicaricato

I sogni ci obbligano a realizzarli di Luigi Caricato

Ciascuno di noi, in gran segreto o apertamente, coltiva sogni. Io sono un coltivatore attento e prolifico, ma anche alquanto determinato, di sogni, aspirazioni e aneliti. Le attese, nel corso degli anni, sono state tante, e per mia grande fortuna le ho potute realizzare tutte. Nessuna è rimasta fuori inevasa, eppure i miei propositi sono davvero grandi, e a volte appaiono pure oggettivamente impossibili da realizzare, ma poi volta per volta si concretizzano, con mia intima gioia e soddisfazione. Nulla è impossibile. Per questo olioofficinaalmanacco vuole essere un incubatore di sogni: per tutti, senza distinzione. Una finestra aperta sul futuro che verrà e sull’universo mondo, senza alcun timore verso chi non sentiamo prossimo. Leggete quanto scrive Alfonso Pascale. Nel suo testo di apertura c’è anche il mio pensiero. Pascale lo ha espresso con la profondità di analisi che appartiene a chi dimostra indipendenza e lucidità. Si scopre che rinchiudersi nel proprio guscio non ha alcun senso. Aprirsi alle sfide del mondo e al confronto è l’unica strada da percorrere. Per questo si sogna: per realizzare e portare a compimento i propri desideri. Per mia natura, non conosco altro linguaggio, se non quello dettato dalla determinazione e dalla tenacia. Nessuno può illudersi che i sogni si realizzino da sé, attendendone l’arrivo. È una speranza mal riposta. Ci sono anche sogni frutto di circostanze fortunose, è vero. Per carità, si accolgono tutti i sogni, quando arrivano, ma quelli non guadagnati sulla propria pelle, a partire dal proprio impegno, sono sogni senza consistenza, di cui non si è orgogliosi. E così, in questa logica di impegno personale, uno dei miei prossimi propositi – dopo il progetto Olio Officina, confluito nel grande happening Olio Officina Food Festival, e adesso, hic et nunc, nel devoto omaggio alla forma cartacea dell’almanacco – è di dare vita e corpo a un filone di narrativa rurale. Nulla può nascere dal caso: leggete, con la dovuta attenzione, quanto scrive il narratore Guido Conti. Resterete commossi perché vi trovate la vita e una sete di giustizia che pulsa in modo dirompente. Rifletteteci: il cibo che ci ritroviamo ogni giorno in tavola, è la diretta conseguenza di un percorso culturale, ma prima ancora di un impegno che esige fatica e dedizione. Per restituire il valore perduto a un alimento come l’olio da olive, ho pensato di tradurre il sogno in queste pagine. Per me, è il sogno che si realizza e che non vive di se stesso ma si dona a tutti. C’è tanto spazio ancora per agire. Coloro che coltivano grandi sogni non si tirano indietro. Accolgono tale sfida e sostengono con grande convinzione il progetto Olio Officina, alimentandolo con sempre nuovi apporti di pensiero e azioni concrete. I sogni – ricordatelo – ci obbligano a realizzarli. Altrimenti, è meglio non sognare. 9

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olioofficina / orizzonti

Per un’economia civile e non autarchica dell’olio d’oliva di Alfonso Pascale

Nel 2011 abbiamo consumato in Italia 730 mila tonnellate di olio d’oliva per un valore di 3 miliardi di euro e ne abbiamo esportato 400 mila tonnellate per un miliardo e duecento milioni di euro soprattutto negli Stati Uniti, in Germania e in Francia. Ma la produzione si è attestata solo intorno a 500 mila tonnellate per un valore di un miliardo e trecento milioni. Il tasso di autoapprovvigionamento è pari al 70 per cento. È per questo motivo che importiamo molto olio, soprattutto dalla Spagna: le importazioni riguardano 640 mila tonnellate di prodotto pari a un miliardo e duecento milioni di euro. Nei prossimi anni, nuovi consumatori di olio d’oliva si affacceranno sulla scena mondiale. Saranno soprattutto cinesi, brasiliani e nord-americani ad aggiungere questo condimento sulle vivande delle loro tavole. Coi numeri che ho ricordato e con le prospettive nuove di mercato che si aprono, è dunque una follia la guerra che si è ingaggiata ultimamente contro l’olio straniero e le sue patrie. Potremo, infatti, in futuro accrescere notevolmente le esportazioni ma difficilmente si aumenterà in modo significativo la produzione di olive. Perché allora provocare un’insensata avversione verso i prodotti provenienti da altri paesi quando abbiamo l’impellente necessità di importare olive e olio per poter mantenere e migliorare le nostre performance? Se malauguratamente gli italiani dovessero davvero farsi convincere che è buono soltanto l’olio tricolore mentre è da scartare quello prodotto in altri paesi oppure fabbricato in Italia con olive raccolte in Marocco o in Tunisia, dovremmo ben presto abituarci all’idea che questo condimento venga sostituito da altri prodotti. E ci troveremmo così in presenza di una brutta mutazione delle nostre abitudini alimentari È penoso e ignobile e di una ferita insanabile inferta alla cultura culinaria italiana. In sostanza, anche volendo affrontare il tema con un approccio che s’insinui un odioso prettamente utilitaristico, la parola d’ordine “olio tutto italiano”

pregiudizio: l’idea che l’olio e le olive degli altri paesi che s’affacciano sul Mediterraneo siano di per sé scadenti.

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appare una sorta di istigazione al suicidio collettivo.

tario così forte da essere utilizzato per definire un confine invalicabile tra sé e i “barbari” che ci minacciano. La questione riveste, tuttavia, un’importanza sia ecoSe guardiamo alle nostre tradizioni culinarie si trova nomica che culturale e andrebbe affrontata con un sempre un atteggiamento di grande apertura e curioapproccio al mercato da cui emergano anche i profili sità nei confronti di qualsiasi specie esotica. E questo etici e civili. non solo nelle mense dei ricchi ma anche in quelle dei Trovo, innanzitutto, penoso e ignobile che s’insinui sopoveri. Osserva, infatti, lo storico Jean-Louis Flandrin prattutto nei nostri ragazzi – così come sta accadendo che se i processi di adozione di alcuni alimenti arrivati mediante programmi di comunicazione e promozione in Italia da altre parti del mondo appaiono abbastanimpropriamente finanziati dal pubblico – un odioso za lunghi, non lo si deve necessariamente al fatto che pregiudizio: l’idea che l’olio e le persone del popolo siano le olive degli altri paesi che meno aperte delle élites sos’affacciano sul Mediterraciali ai nuovi cibi: si dà semConoscere le culture alimentari plicemente il caso che le fonti neo siano di per sé scadenti. E che lo stigma sia inculdi un gruppo e scambiare i cibi documentarie sono meno atcato magari in presenza di tente al cibo dei poveri che a può costituire una pratica che ragazzi i cui genitori sono quello dei ricchi. E il mediefavorisce l’integrazione. originari proprio di quei paevalista Massimo Montanari si. Un’umiliazione inflitta a aggiunge che il concetto di questi nostri nuovi concit“tipicità” solo recentemente tadini senza una qualche plausibile giustificazione, ha acquisito l’importanza che oggi gli viene attribuita: specie ora che l’Italia diventa sempre più multietnica. in passato, il luogo d’origine di un alimento ha sempre contato pochissimo. L’atto del mangiare ha, infatti, costituito da sempre un veicolo di pratiche e dispositivi culturali, capaci La nostra alimentazione – come afferma l’antropologo di fornire una rappresentazione dei mondi altri. Più Vito Teti – presenta stratificazioni e sedimentazioni ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culoriginatesi in epoche storiche e in spazi geografici lonture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta tani; è riflesso e testimonianza di arrivi, passaggi, indi invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contamicontri, commistioni, fluttuazioni, intensi dialoghi con il nazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo mondo mediterraneo, l’Oriente, l’Europa continentale e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica e le Americhe. Insomma, le radici della nostra identità che favorisce l’integrazione. Senza sminuire l’imporalimentare si diramano molto lontano da noi. tanza delle tradizioni locali e delle pratiche ricostruttive di radici più o meno inventate – essenziali per il Con l’avvento della globalizzazione ci è sembrato che nostro equilibrio biologico e psicologico –, sono convinil cibo potesse subire un processo di appiattimento. to che educare a un’alimentazione autarchica e chiusa La cucina di McDonald’s ha interpretato l’emblema agli scambi con altre culture, significa negare in radice alimentare del villaggio globale: la grande M uguale l’assunto di fondo della nostra cultura del cibo. dappertutto, rassicurante, materna, rotonda come un seno. E saggiamente abbiamo reagito a questo fenoL’idea che una specie alimentare del mio giardino sia meno valorizzando le diversità. La normativa europea più buona di un ortaggio che arrivi da terre lontane sulle denominazioni d’origine ci ha voluto rammentare non appartiene alla nostra storia alimentare. Non era che le identità possono essere molteplici. Il cittadino di mai accaduto che il cibo costituisse un elemento identiMatera (che si riconosce nel cibo della sua città e delle 12

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sue campagne) non è solo un membro del villaggio globale ma è anche cittadino di Basilicata, d’Italia, d’Europa. E ciascuna di queste identità – tutte mutevoli e in costruzione – vuole i suoi simboli alimentari. Ma queste multiformi identità hanno tutte pari dignità. Nessuna possiede, sul piano simbolico, uno spessore culturale che sovrasta l’altra. Anzi convivono pacificamente e vanno sempre più a integrarsi e completarsi a vicenda. Basti pensare alla messa in rete e allo scambio delle biodiversità a livello globale, alla creazione dell’hamburger vegetariano o del panino McItaly firmato da Gualtiero Marchesi, oppure ancora dell’olio extra vergine d’oliva Primissimo prodotto da Monini in Australia.

L’innovazione, infatti, non si fonda sullo scambio di prodotti autarchicamente pronti e finiti, ma sullo scambio di idee. È per questo che oggi si tende a definirla come innovazione sociale. Solo mettendo insieme le idee, partecipando culturalmente a un processo e integrando apporti scientifici multidisciplinari, riusciamo a realizzare un prodotto di uso collettivo. Si tratta di mettere in piedi progetti commerciali per l’olio d’oliva che vedano la partecipazione di produttori e operatori italiani e di altri paesi del Mediterraneo, accomunati dalla volontà di aggiungere allo scambio economico anche un livello di negoziazione aggiuntiva, fondata sulla dimensione civile. L’obiettivo dovrebbe essere quello di riconoscere una quota di valore agli olivicoltori, specie quelli dei paesi più poveri del nostro, che sia remunerativa e di assicurare risorse per investimenti che permettano una loro maggiore inclusione nei mercati, affrontando gli aspetti igienico-sanitari, ambientali e di sicurezza del lavoro relativi alla produzione delle olive e dell’olio.

Solo da noi la cultura della tipicità, da strumento di affermazione del pluralismo delle identità, viene esasperata fino al punto di trasformarla in arma con cui tentare di difendersi nella competizione globale. Da strumento per far convivere identità diverse, la tipicità è diventata elemento scatenante di conflitti tra chi ritiene di affermare l’identità e chi viene accusato di Progetti innovativi di questo tipo riscuoterebbero volerla annientare, tra chi presenz’altro l’interesse dei citsume di tutelare la vera ed unica tadini, che potrebbero così identità e chi viene tacciato come Le multiformi identità hanno farsi parte attiva e responil paladino della non-identità. sabile nella realizzazione tutte pari dignità. Nessuna Si è venuto, in sostanza, a delipossiede, sul piano simbolico, dell’obiettivo, diventando neare un neonazionalismo auacquirenti consapevoli di un uno spessore culturale che tarchico che pretende di tutelare olio d’oliva garantito innansovrasta l’altra. una malintesa italianità, frutto zitutto dalla qualità delle redel raggrumarsi di subculture lazioni tra tutti i partecipanche rispondono impaurite e rabti allo scambio economico: biose alla globalizzazione e ai nuovi equilibri mondiali, produttori, trasformatori, distributori e consumatori in cui emergono paesi con un tasso di crescita prima che collaborano indipendentemente dal paese in cui si inimmaginabile. Un neonazionalismo autarchico che trovano. È in tal modo che i processi economici divenesclude ogni collaborazione con le agricolture di altri tano economia civile. Stati, considerate come nemiche da combattere, e preme ostinatamente sulle istituzioni perché si riprendano quella sovranità nazionale che un tempo si era disposti a sacrificare per l’obiettivo di un ideale collettivo europeo. Il tutto condito di una diffusa avversione alla scienza, dettata spesso da timori egoistici e paure millenaristiche; avversione che impedisce l’innovazione. 13

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olioofficina / amarcord

L’agricoltura, non l’arcadia di Guido Conti

Che il lavoro della terra non fosse l’Arcadia l’ho scoperto molto giovane. A quattordici anni ho cominciato a lavorare in campagna. Allora si poteva cominciare a lavorare anche a quattordici anni compiuti con tanto di libretto di lavoro. Si raccoglievano i pomodori a mano. Io svuotavo i cesti e aiutavo chi restava indietro o era più lento nel lavoro o aveva delle file dove i pomodori maturi erano pochi. Un lavoro che oggi fanno gli extracomunitari, un lavoro faticoso, che aveva degli aspetti anche molto divertenti come per esempio lavorare con quindici, venti donne e io ero l’unico ragazzo che ogni volta veniva preso in mezzo da quelle contadine talvolta terribili. Non farò alcun accenno alle storie e ai racconti che facevano per mettermi in imbarazzo e le domande che mi facevano per ridere e far passare il tempo. Il lavoro era bello, sotto il sole ci si abbronzava senza andare al mare, ma era davvero faticoso. Oggi non saprei più farlo e quelle donne che lavoravano nei campi quando tornavano a casa, avevano da rigovernare, da cucinare e da tenere in ordine una casa e una famiglia. Otto, dieci ore di un lavoro sempre chinati o avanti e indietro con i secchi pieni e vuoti e un lavoro che oggi non vuol fare più nessuno, solo i disperati. Due anni dopo sono stato assunto in una famiglia dove lavoravo tutto il giorno e durante l’estate, per pagarmi gli studi, stavo mattina e sera a lavorare, a mangiare con loro. L’ho fatto per quasi dieci anni, dai venti fino ai trent’anni, fino ai primi anni novanta, quando anche la raccolta dei pomodori si è evoluta con le macchine. Racconto questo perché in quei quattordici anni in campagna ho capito che cos’era lavorare la terra, grandi fatiche, lavoro continuo e poco guadagno. Un minimo. Ti deve piacere Ti deve piacere la terra, la terra, lavorarla e vedere crescere ciò che semini perché altrimenti è meglio cambiare lavoro. Io in famiglia facevo tutlavorarla e vedere crescere to, raccoglievo pomodori, patate, uva; pulivo la stalla e avevo

ciò che semini perché altrimenti è meglio cambiare lavoro.

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anche imparato a potare e ad arare. Facevo tutto. Il pomeriggio, dopo mangiato, ci si riposava per un’ora e mezza sotto il portico, nel silenzio delle mosche che ronzavano continuamente, o sotto una pianta, al fresco dell’ombra.

Una volta mi ricordo che lavoravamo dentro la golena del torrente. Era piovuto molto e i pomodori rossi galleggiavano in un’ansa del fiume dove non c’era corrente. Allora siamo scesi con le casse e cercavamo di raccogliere il più possibile. Con l’acqua alla pancia abbiamo raccolto i pomodori con il mio padrone in testa prima che il torrente si portasse via tutto.

È stata una scuola di vita che rifarei ancora. Lì, lungo le rive del torrente Parma, ho ascoltato storie, ho visto personaggi incredibili, e fatto esperienze che poi Un’altra volta era piovuto talmente tanto che nelho raccontato e ho riscritto in molti dei miei racconti. la terra smossa vicino alle viti una delle signore che Era un mondo contadino, quello che ho visto io, al raccoglieva l’uva è sprofondata fino alla cintola nel tramonto. Finiva un’epoca. I fango. Era una vera matrona campi si spopolavano perché della bassa, corpulenta. Era le macchine facevano tutto, talmente sprofondata nel fanbene e con più velocità. Sono go che non riusciva più a muoI vecchi che t’insegnavano il spariti i giovani che lavoraversi. Allora il mio padrone ha lavoro, a potare e a coltivare vano in campagna, anche preso una corda, l’ha legata l’orto e la terra, poco alla nella raccolta dell’uva e sono sotto la pancia della signora e volta sono morti. È mancata arrivati gli extracomunitari. con il trattore l’abbiamo tirata una generazione che passasse su da quella specie di sabbia I vecchi che t’insegnavano il lavoro, a potare e a coltivare mobile da cui non riusciva più le conoscenze a quella più l’orto e la terra, poco alla vola venir via. Fu un pomeriggio giovane. ta sono morti. È mancata una memorabile di cui si continuò generazione che passasse le a raccontare per anni. conoscenze a quella più giovane. C’è stata una frattura La vita vicino all’argine del dopo la mia esperienza. Gli italiani non vogliono più torrente Parma, nella prima periferia della città, era fare quei lavori che erano dentro la nostra cultura mildifficile. Ho imparato per esempio che le mucche sono lenaria. molto curiose e quando lavori vicino a loro, ti vengono A lavorare nella stalla e nel formaggio oggi ci sono gli a vedere e ti fanno compagnia. Ti leccano appena le indiani e nella terra ci sono marocchini e giovani di avvicini con la loro lingua che gratta. Quando le mucaltre etnie che fanno questi umili lavori che, in veriche si piantano e non vogliono più andare avanti, mi tà, oggi rendono e anche bene in quanto non padroni hanno insegnato che basta tirargli la coda con forza ma assunti con tanto di paga. Insomma è cambiato il e loro ripartono. Accadeva anche che durante le piene mondo in vent’anni. C’è stata una vera e propria rivodovevamo portare fuori trenta mucche da una stalla luzione. in golena. Non volevano saperne di andar via. Così bastava che gli tirassi la coda e con una corda al collo le Il mio padrone lavorava tutto il giorno, dopo mangiato guidavi dove volevi. si coricava dieci minuti, si alzava stravolto (e sottolineo dieci minuti) e poi ripartiva. Delle notti si addormentaHo lavorato vicino a decine di alveari e non sono mai va sul trattore acceso, chino sul volante, perché crollastato attaccato anche se circondato da mille api. Loro va, poi, dopo un po’, ripartiva perché la sua volontà era sapevano che io non ero un pericolo per i loro favi. Mi più forte e più potente della stanchezza. studiavano ma sapevano che non ero una minaccia. Ho 16

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scoperto così che gli animali hanno una loro sensibilità, che a mezzogiorno c’è sempre una brezza in campagna che tira sempre in mezzo ai campi anche quando non c’è un filo di vento. “È la Madonna che mette la tovaglia!” dicevano le donne nei campi. È ora di andare a far da mangiare. E poi i riti con l’ulivo per far piovere ed evitare che grandini, le croci sulle viti contro le malattie, i riti tra scaramanzia e fede prima e dopo i lavori pericolosi. In campagna insomma ho scoperto una conoscenza tra fede e magia che poi avrei ritrovato nei libri di antropologia di De Martino, per esempio. E anche quel mondo ormai è scomparso. Ho fatto appena in tempo a vederlo ma pare non sia stato più trasmesso dopo centinaia di anni. È la fine di un mondo, è la rivoluzione finita di quel cambiamento antropologico degli italiani che avevano denunciato nel primo dopoguerra prima Guareschi e poi Pasolini.

natura, la fragilità delle nostre ricchezze e soprattutto certe pagine bibliche e catastrofiche di Isaia, cosa che non mi è mai più capitato vivendo in città e facendo altri mestieri, ma solo in catastrofi naturali che vedi in televisione. Una parte di quell’esperienza è finita nei miei racconti de Il coccodrillo sull’altare e nei racconti de Un medico all’opera e nel mio primo romanzo Il tramonto sulla pianura, che mi hanno portato tanta fortuna.

Ho ritrovato quel clima in due romanzi che sono stati per me due modelli di scrittura, La malora di Beppe Fenoglio e Zebio Cotal di Guido Cavani. Due modelli di scrittura e di racconto che danno una chiave di lettura importante sul ruolo della realtà contadina nel Novecento. Lo dico perché la campagna, la vita dei campi, il mondo del lavoro contadino non esiste più nella nostra letteratura. Se i giovani parlano di lavoro Ho visto anche il mio padrone piangere. Un’estate, verlo fanno dal punto di vista dell’industria e della sua so fine agosto, c’erano pronte intere biolche di pomodocrisi, com’è capitato con gli ultimi tre premi Strega. I ri da raccogliere e l’uva matura. contadini, come sono spariti nella Aveva fatto un anno come non nostra realtà, così sono spariti nel si ricordava a memoria d’uomo nostro immaginario e nella nostra per la ricchezza e la bellezza letteratura, oppure vengono recuIl mio padrone lavorava dei frutti. Un pomeriggio, un tutto il giorno. Delle notti perati se non come memoria della maledetto pomeriggio, verso mamma o della nonna. Oppure il si addormentava sul le due, il cielo è diventato nero mondo contadino recupera certi trattore acceso, chino sul come catrame e ha cominciato tratti ancestrali come in Salvatovolante, perché crollava, a piovere e a grandinare. Cadere Niffoi. Ma sostanzialmente non vano chicchi grandi come mele poi, dopo un po’, ripartiva esiste più un taglio del bosco di e avevano spaccato tegole, vetri Cassola. O almeno nella pletora perché la sua volontà era e macchine, pelando completadelle uscite e delle novità non mi più forte e più potente mente i campi e le viti. In poco sembra di averne visti, ma posso della stanchezza. meno di due ore la grandine e il sempre sbagliarmi. temporale si è portato via tutto, con una furia che non avevo mai Il tema è complesso e andrebbe vista. E allora non c’erano le assicurazioni. Il mio paapprofondito autore per autore. In scrittori come Ridrone allora è andato in camera e non è sceso dal letto goni Stern, dove la Natura è oltraggiata dall’uomo, o per tre giorni. Quel giorno piangeva come non l’avevo il poeta Bacchini, dove la Natura diventa un paesagmai visto piangere. Si vergognava di piangere. Non l’ho gio ultraumano dove sono spariti gli uomini, nella sua visto piangere nemmeno dopo la morte di suo padre. ultima raccolta Canti territoriali (Mondadori, 2010), Non ha mai maledetto nessuno. Non ha mai bestemla natura ricopre ancora un ruolo importante ma enmiato, però quel pomeriggio ho capito la violenza della trambi segnano quel confine come rotto. 17

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Le grandi case coloniche abbandonate e che stanno crollando, di cui è piena tutta la pianura padana, è il simbolo e la rovina di un mondo finito che ritrovava in quella casa un modello non solo di vita ma di organizzazione della vita e del lavoro sostituite dalle villette a schiera e dai prefabbricati in cemento.

altri settori dove l’immaginario nella modernità conta ancora moltissimo. L’Arcadia non è più nella letteratura ma nei giornali di progettazione, di arredamento. Oggi la campagna è un modello dell’immaginario abitativo dei giornali di moda e di architettura. Case arredate e perfettamente inserite in un giardino e in una natura che fanno sognare chi vive in appartamenti piccoli dentro condomini asfittici a contatto e in armonia con la natura. Ma non sono case di contadini, sono case di ricchi che si trasferiscono o traslocano in campagna. Gli ultimi respiri della vita contadina dentro la letteratura contemporanea è finita proprio mentre nascevano, con successo, i primi agriturismi che hanno avuto un vero e proprio boom, agli inizi degli anni Novanta. L’agriturismo ti porta nella natura dove puoi vivere a contatto con gli animali della fattoria, con i prodotti della terra, con la buona cucina, ma vissuta da turista. Si ritorna nell’agriturismo dove funziona lo stesso immaginario dei giornali di moda e di arredamento. Luoghi in armonia con la natura ma dove non vivi come contadino. Luoghi di pace, di serenità, di vacanza, lontano dai problemi del quotidiano. Un luogo, l’agriturismo, come le delizie estensi nate come realizzazione concreta del mito dell’Arcadia. Tutto si muove per essere sempre uguale. È una arcadia turistica e immaginaria dove la natura non sporca e dove la terra non appiccica alle suole delle scarpe. E soprattutto non si fatica e ci si riposa.

La devastazione e il problema dell’ecologia non è molto distante da questa separazione uomo natura. L’uomo non è più un vero e proprio contadino. Usa le macchine per coltivare la terra. Non ha più un rapporto diretto ma indiretto. Così la terra è qualcosa da sfruttare fino in fondo, non parte integrante della vita dell’uomo. Dunque dov’è finita l’Arcadia? Agricoltura e non arcadia, si diceva. L’agricoltura è cambiata moltissimo, si è industrializzata e per molti aspetti disumanizzata. Il mito dell’Arcadia e della fuga nei campi come luogo edenico in un rapporto armonio-

In campagna ho scoperto una conoscenza tra fede e magia. I riti con l’ulivo per far piovere ed evitare che grandini, le croci sulle viti contro le malattie, i riti tra scaramanzia e fede prima e dopo i lavori pericolosi.

so tra uomo e natura è durato fino alla Rivoluzione Francese. La ghigliottina ha ucciso anche le ultime arcadie settecentesche dove pastorelli, ninfe e satiri cantori sono i protagonisti di un’ultima stagione stanca ma non certo meno vera di un mito che ha attraversato tutta la letteratura dell’Occidente a partire da Virgilio. Forse la letteratura ha perduto questo elemento ma credo che si sia spostato e ritorni a vivere oggi in una metamorfosi molto più ammaliante e avvolgente in 18

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olioofficina / visioni

Conversare con Gualtiero Marchesi di Nicola Dal Falco

Con Gualtiero Marchesi la conversazione è continua, perché non è mai salottiera e perché riesce ad essere coerente, a dire le stesse cose senza ripetersi. Questa perpetua variazione su alcuni temi: il rapporto tra bello e buono; il culto, ma non la tirannia della tecnica; la dedizione nei confronti della materia in cui riconoscere la filosofia delle forme; il cammino verso la purezza; l’eleganza contrapposta al lusso; le sue radici terragne e al tempo stesso acquatiche; uno sguardo sempre puntato ad Oriente, alle possibili novità… finisce col delineare un modo di pensare concreto e proprio per questo capace di effetti musicali. Non di puri abbellimenti, di mode o ghiribizzi, ma di strutture melodiche. Forme narrative aperte con una spiccata tendenza a farsi simboliche. Inaugurando il primo Olio Officina Food Festival, ideato da Luigi Caricato, la pubblica conversazione con Marchesi ha offerto molti spunti. Citando a memoria, eccone alcuni:

«Nella materia, e così in ogni cibo, è celata una fiammella di verità o più genericamente la poesia delle cose. Tutto è là o potrebbe esserci se sappiamo vedere, meglio ancora se possiamo sentire». «La ricetta, fatta e letta a dovere, è, senza mezzi termini, una voce d’enciclopedia in cui puoi trovare tutto: geografia, clima, storia, tradizione oltre e soprattutto all’estro collettivo e individuale». «Nei piatti preparati per stupire, debordanti di ingredienti, montati come ingranaggi farraginosi, si nasconde quasi sempre un’insicurezza e in fondo il tradimento della materia». «Un pollo è un pollo, ma la sua materia era vita, forse musica? Sì, proprio musica. Questa per me è la chiave di tutto. Coltivandola insieme all’arte e alla letteratura, mi ha permesso di cucinare meglio, di capire cosa si poteva fare, evitando il gesto superfluo, la paura di non dire abbastanza».

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olioofficina / libri

Il Codice Marchesi, summa di un cuoco di Nicola Dal Falco

L’aver solo immaginato e stampato un codice culinario che attraverso tredici piatti ed altrettanti concetti: armonia, bellezza, civiltà, colore, genio, gusto, invenzione, leggerezza, mito, territorio, tradizione, verità, semplicità, passi dalla ricetta, dalla cosiddetta cultura materiale, alla meditazione e viceversa, dà un’idea di chi abbiamo di fronte.

Per questo, fin dal principio, il cuoco Marchesi è stato anche designer di piatti, posate e bicchieri. Sembrerebbe frutto di un eccesso di ego e, invece, scaturisce da una considerazione di rara potenza: «la forma è materia». È così per la materia prima che attraverso l’aspetto e la consistenza già suggerisce i modi e i tempi con cui trasformarsi in cibo e vale altrettanto per i piatti, i bicchieri e le posate dove non può dominare l’ornamento, ma la funzione. La frequente dimenticanza di quest’ultima è tra le cause che hanno determinato in questa come in altre attività umane una cesura tra bello e buono, tra estetica ed etica, anteponendo allo spettacolo il divertimento, all’esperienza l’evento, alla curiosità la novità, all’appetito lo stupore.

Gualtiero Marchesi è un cuoco (guai a usare il francesismo tecnico di chef) che considera il proprio lavoro dal basso, sottolineandone la quotidiana fatica e dall’alto, equiparandolo ad una forma di linguaggio che corteggia e sconfina nell’arte. Una, sopra tutte, la musica con cui la cucina condivide spesso due aspetti: la notte in senso terreno e poetico e la grazia momentanea dell’ascolto e dell’assaggio. Azioni periture? No, al contrario, azioni indefinitamente rinnovabili finché durino gli esecutori preparati – i bravi musicisti, i buoni cuochi – gli strumenti e le partiture/ricette.

A volte, basta scegliere il colore di una fondina per far esplodere il contenuto e cambiare il numero e la lunghezza dei rebbi della forchetta a seconda che sia da spaghetti, da carne o serva per raccogliere. Con il Codice Marchesi, composto da tredici piatti classici abbinati ad altrettanti concetti, il cuoco si è messo a nudo. Ha accettato il giudizio della storia attraverso quelle ricette che dimostrano di superare i fatti della vita, le piccole o grandi mode. Chiunque, voglia conoscere Gualtiero Marchesi può andare nei suoi due ristoranti prima o dopo aver letto il Codice.

Secondo Marchesi, basta un’occhiata per sapere se un piatto è buono cioè vero, equilibrato negli ingredienti ed eseguito alla perfezione. Nel piatto come su un pentagramma stanno gli ingredienti, le note leggibili una ad una e tutte insieme, dando vita al canto. La parola chiave è, quindi, composizione, la capacità di organizzare in funzione di un pensiero, ma anche di un’emozione, i segni e lo spazio che li contiene: forme, pause, distanze, colori, refrain.

Gualtiero Marchesi, Il Codice Marchesi, La Marchesiana, Milano, 2006

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Sono un barocco d’avanguardia Intervista a Ciccio Sultano di Nicola Dal Falco

“Sono un barocco d’avanguardia” dice di se stesso, intendendo due cose: la scelta di aggiungere piuttosto che di togliere e l’idea che l’avanguardia coincida con la personalità. Fare fino in fondo il proprio mestiere di uomo. “Solo chi trova il suo stile è moderno. Il resto è emulazione, accademia, forse paura” aggiunge.

Tra vanità e narcisismo, a me basta vanità.

Parli di jazz, di una tradizione mobile, che ricomincia ogni giorno. Come? Parlo di jazz, perché ogni brano non è mai uguale a se stesso. Impossibile ripetersi con gente del calibro di Parker, Coltrane o Coleman. L’umore, il cuore e anche la tecnica cambiano. Nel jazz, conta il gesto, dove, in quel preciso momento, ti sta portando un’idea, un’emozione o tutte e due. Da noi, succede spesso così: in cucina come facendo il jazz. Il tuo menu degustazione inizia con un piatto che hai chiamato Movimento, subito incalzato da Basileus Hyblon, poi c’è Siquila e, infine, Vento e passione. Sembrano titoli di film. Una provocazione o uno spunto di verità? Movimento o anche Caleidoscopio che in greco significa “veQuando un cuoco si dere il bello” e in un certo senso dargli forma. La forma è beltrasforma il piccolo lezza, è forza e la mia forza sta nel movimento. Ogni menu esprime il massimo della forza, del movimento e della bellezza Mosè è veramente di cui sono capace. troppo. Nella bellezza c’è anche molto di giustizia, di utopia e per questo il secondo piatto è dedicato al Basileus Hyblon, un re comunista, vissuto agli albori della storia siciliana. Siquilia è, invece, il nome che gli arabi dettero all’isola, durante la loro conquista. L’ho scelto, perché la mia cucina è ricca di contaminazioni arabe. Tra tutte le dominazioni, questa è stata quella che più ha arricchito la scena gastronomica siciliana, imprimendole un’immensa

Le paste le faccio io: spaghetti Ciccio, Ciccio Sultano; in cucina adotto un linguaggio chiaro sia al cliente comune sia a quello sensibile. 25

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vitalità con cui mi confronto quotidianamente. Vera e I siciliani, a volte, sembrano schiacciati dalla stopropria musa ispiratrice. ria, dalla cultura che entra in contatto con l’isola. Vento e passione, infine, significa evocare la sfera dei Sicani dall’Iberia, Siculi di origine osco-umbra sensi. Sono i due elementi che determinano la mia nadalla Calabria, greci, fenici, romani, vandali, tura di cuoco. goti, bizantini, arabi, norIl vento è dinamismo, scompiglio, manni, svevi, angioini, araTre cose: sale, olio e inquietudine, caratteri distintivi gonesi, spagnoli, napoletaformaggio ragusano. dell’artista. E poi la passione, senza ni, piemontesi… la quale un cuoco non è un cuoco, la Ce n’è talmente da avere il vera risorsa che, nei momenti difficili, non mi fa perdesiderio di restare immobili. dere la fiducia. Come si fa a reagire e a vivere il proprio presenHo dato un nome ad ognuno dei piatti del menu dete personale e culinario? gustazione, perché nessuno fosse sminuito. Tutti pari La Sicilia e i siciliani li capisci solo quando ci vivi e come i paladini di Francia. Il prezzo è dato dal costo, li conosci… parlo di chi sgobba e non dei film di ganma il costo è dato dall’uomo, dalle sue capacità. Quegster. La Sicilia è tutta un’altra cosa. La stratificazione stione d’onore. di storie, di razze, di bellezza, Inoltre, non a tutti piace la parola sordi tesori e di fallimenti fanno Io mangio ovunque, presa e noi siamo qua per raccontare. il carattere siciliano. Sciascia il giudizio dipende l’ha raccontato bene: privazioTi definisci «intimamente barocni e sofferenza, accoppiate ad dal posto. co». Uno stile estroverso, teatrauna finezza di pensiero, a culle, che trionfa nel secolo in cui nasce la scienza tura, fanno scaturire l’amore del bello e un desiderio moderna. Sguardo e gesto insieme. È così la tua profondo, spesso irraggiungibile, di bontà. cucina? Mi definisco barocco per provocazione e con orgoglio, Grande cucina, erede e ribelle del proprio indato che, negli ultimi dieci anni, era di moda fare una gombrante e sontuoso passato, da Sultano apcucina moderna, ma omologata, tutta gelatine. Guarda punto. Ma, poi, come nelle Mille e una notte, lache l’aspic fa parte della cucina siciliasci il palazzo e vai in giro, na da secoli! Mare, sale, vento; mi sento innamorato della cucina di Non mi sono messo al passo, bandiera strada? pulito come il sale. e fanfara in testa, rispetto l’avanguarLa cucina è il mondo, quando dia, ma spesso funziona per far fuori dico mangiare in dialetto è più la creatività, per fare nuova accademia. giusto che parlare, genericamente, di territorio. Solo chi trova il proprio stile è moderno. Il resto è emulazione, forse paura. Tre cose: sale, olio e formaggio ragusano. ConGrazie a dio, l’Italia vanta un gruppo di cuochi, i Cavafermi? lieri della Cucina, dove senti la voglia e l’indipendenza Il sale, alimento primo, è simbolo di purezza, l’olio per di fare. trasportare i sapori e il formaggio ragusano, perché Dunque, io sono un barocco d’avanguardia. Quando non riesco a pensare a qualcos’altro che identifichi la parlano della materia prima, del sapere, di una certa vena, il punto critico da cui iniziare un discorso sull’anstranezza che mi viene attribuita… mi domando: ma tica contea di Modica. gli altri che comprano?

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Flusso vegetale. Trasformazione fluida di Josè Carlos Bellantuono

Flusso vegetale, prodotto dalla trasformazione fluida della materia, generato attraverso il processo di stratificazione e sedimentazione del sapere, originato dalla dialettica in divenire tra uomo e natura. Attraverso la manipolazione degli elementi, la natura umana desiderante crea il prodotto della sua idea, materia funzionale in trasformazione naturale.

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Josè Carlos Bellantuono. Nato a San Paolo del Brasile il 7 ottobre 1969, ha sviluppato la sua vena artistica creativa sin da piccolo, nello studio fotografico di famiglia. Il suo lavoro è frutto di una esperienza maturata in diversi settori della comunicazione visiva e dell’intrattenimento, attraverso lo sviluppo di numerosi progetti multimediali di forte impatto visivo. Le sue opere nascono dalla volontà di esaminare il modo in cui le trasformazioni sociali, tecnologiche ed economiche, possono modellare la nostra percezione del mondo. La sua ricerca artistica si sviluppa attraverso l’utilizzo di una serie di piattaforme mediatiche differenziate.

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olioofficina / effervescenze

I saggi assaggi di Montaigne di Paola Cerana

Se Montaigne, geniale filosofo e appassionato scrittore francese del Cinquecento, fosse in vita oggi, sarebbe sicuramente un perfetto “supertaster”. Apparterrebbe, cioè, a quel venticinque per cento di popolazione in grado di percepire odori, aromi e sapori più intensamente della media, distinguendoli in sfumature inafferrabili ai più. Di conseguenza, sarebbe conteso, ammirato e forse anche temuto da chi produce, commercia e consuma olio, vino e prelibatezze affini, come gli analisti sensoriali possono ben immaginare. Non intendo limitare la grandezza di Montaigne a questa virtù istintuale, perché il suo fermento intellettuale spazia ovunque e lambisce sia la concretezza fisica e scientifica, sia la profondità filosofica e psicologica. Tuttavia, vorrei soffermarmi su questo razionalismo sensualista, perché è quello che guida il filosofo durante tutta la sua esistenza, un’esistenza sempre golosa e mai sazia di avventure e conoscenza. Montaigne ama la vita, in tutti i sensi e con tutti i sensi. Mangia spesso con ingordigia, si morde la lingua dal piacere, adora il buon vino, odia essere interrotto mentre è in bagno, riconosce il profumo di violette nella sua urina, apprezza l’odore neutro della sua pelle e spera che la morte lo sorprenda mentre sarà intento a piantare degli odorosi cavoli nel suo orto.

La persona umana è un’unità in cui convivono armoniosamente i piaceri sensuali e spirituali. Affidarsi al proprio naso è il modo più preciso per cercare di afferrare l’essenza di una persona, così come la qualità di un cibo o di una bevanda.

Nelle sue eccentricità, una cosa è per lui certa: la conoscenza di sé, che passa innanzitutto attraverso i sensi, accresce la consapevolezza dell’altro e l’apprezzamento del diverso da sé. Durante i suoi continui viaggi, Montaigne annota e spesso detta al suo fedele servitore, ogni minimo dettaglio circa le esperienze vissute a contatto con le persone, gli animali e i cibi. Tutto è importante per lui e aristotelicamente sostiene che nulla è inutile in natura. Lo ribadisce spesso nei Saggi, dove emerge

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con evidenza quanto amasse mangiare, bere, annusare e assaggiare, non con l’arida dissolutezza dell’ingordo ma con la fine sensibilità di colui che vuole imparare. E nonostante i seri problemi renali, probabilmente ereditati dal padre, che gli procurano spesso feroci sofferenze, Montaigne non rinuncia mai ai piaceri della vita, compresi appunto quelli della tavola.

Ma la sensibilità olfattiva e gustativa di Montaigne spicca soprattutto nel suo Viaggio in Italia, un saggio che viene tuttora considerato un vera e propria guida ai vini dell’epoca. Il filosofo fiuta, assaggia, beve ed espettora con acuta attenzione i vini che gli vengono offerti durante gli spostamenti in Europa, annotando con minuzia ogni sensazione e senza risparmiare severe critiche. A Plombières il vino non è per niente buono, così come non lo è il pane; a Schongau ci si deve accontentare di vino novello da consumarsi appena imbottigliato; ad Augusta, i vini buoni sono per lo più bianchi, come a Vipiteno, perché i rossi deludono; in Germania i vini vengono aromatizzati con varie erbe o spezie, tra cui la salvia, di cui i germanici son ghiotti; a Basilea sono tutti troppo delicati, per non dire blandamente annacquati. Ma è in Italia, e specialmente a Lucca, che Montaigne assaggia un “vino bonissimo”, regalatogli da un ministro dei frati francescani con dell’ottimo marzapane che, insieme, allietano una delle sue tante soste ai bagni termali. Anche quando è costretto a curare i dolori renali, infatti, Montaigne non rinuncia alle cose buone, consolandosi così dei propri acciacchi e sperimentando su di sé possibili cure alternative, certamente più piacevoli di clisteri e salassi.

Non a caso, il filosofo inventa l’espressione “science de gueule”, scienza della gola, proprio negli anni in cui la cucina francese sboccia verso un rigoglioso e promettente fiorire. In quest’epoca, infatti, la ricerca della perfezione nell’arte culinaria è d’obbligo, tanto che Montaigne racconta di un famoso chef, Vatel, che alla vigilia di un banchetto reale si suicida, essendosi accorto di aver clamorosamente terminato il pesce ordinatogli dal suo sovrano. È in questo contesto storico pregno di sperimentazioni gastronomiche, che Montaigne arricchisce il proprio bagaglio culturale aprendosi a esotici e speziati orizzonti, grazie al senso del gusto ma anche al senso dell’olfatto. Dedica un intero saggio a questo senso primordiale eppur prezioso, intitolato “Degli odori”, in cui precisa: “mi piace molto sentire i buoni odori e odio straordinariamente i cattivi, che sento da lontano più di ogni altro.” È lui stesso a definire il suo naso “straordinario” per la sua non comune sensibilità, una sensibilità che non distingue tra anima e corpo perché, come Montaigne afferma, la persona umana è un’unità in cui convivono armoniosamente i piaceri sensuali e quelli spirituali. Affidarsi al proprio naso è, dunque, per Montaigne il modo più preciso per cercare di afferrare l’essenza di una persona, così come la qualità di un cibo o di una bevanda. L’odore rivela molto più di quel che l’occhio può vedere, in ogni situazione. Così, Montaigne si diverte a descrivere con minuzia la dolcezza dell’alito dei bambini sani; racconta come l’odore dei guanti gli resti addosso per tutto il giorno; critica ripetutamente la bellezza di città come Venezia e Parigi per via dell’odore paludoso dell’aria; mentre esalta le strade austriache per i fumi aromatici emanati dalle stufe delle case.

Qualche storico sostiene che il rapporto viscerale tra il filosofo e il vino dipenda dal fatto che quest’ultimo entra nel sangue, scaldando i pensieri e sciogliendo la scrittura. A me, invece, piace pensare che l’amore di Montaigne per il vino nasca prima, cioè dalla terra e dalle vigne, che lui stesso quando può cura con passione. Il filosofo è, infatti, anche un esperto e ricco vigneron e dalla finestra del suo studio ama osservare il gelo pizzicare le viti intirizzite, la potatura e la legatura dei tralicci d’inverno, il sole estivo che riscalda i grappoli e l’allegria della vendemmia settembrina. “Quando gelano le vigne del mio villaggio, il mio prete argomenta che è l’ira di Dio sulla razza umana”, scrive. Ecco, forse solo dopo questo profondo significato simbolicamente legato alla vita e alla giovinezza arriva per Montaigne il piacere più strettamente legato al gusto, così pregnante nei suoi scritti.

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Alcuni sostengono che il titolo stesso dei suoi manoscritti Essais non vada tradotto come Saggi bensì come Assaggi. È possibile, visto che l’origine arcaica del termine “assai” è presumibilmente legata al cibo e al vino. Letto in questa chiave, l’intero manoscritto di Montaigne (il cui titolo originale era Essais de Messire Michel de Montaigne) sarebbe coerente con la premessa che il filosofo dedica al lettore, in cui presenta i suoi racconti come un mezzo per alimentare il proprio ricordo presso amici e parenti. Il titolo potrebbe dunque essere tradotto come Assaggi di Michel de Montaigne.

ti, come quelli che usavano le ragazze di Scizia. Esse, infatti, “dopo essersi lavate, spargevano e ricoprivano tutto il corpo con una certa droga odorosa che nasce nel loro paese; e al momento di avvicinare gli uomini, la toglievano per essere lisce e profumate.” Con l’età, forse, il sapore tumido dei baci e le sensuali fragranze femminili cambiano per Montaigne ma altri effluvi verranno da lui assorbiti e studiati con altrettanta meticolosa passione. Per esempio, egli nota come l’utilizzo dell’incenso durante i riti religiosi sia fondamentale per purificare i sensi e indurre alla contemplazione. Allo stesso modo, rimpiange di non possedere l’arte di aromatizzare i cibi di cui certi cuochi son mirabilmente dotati. Insomma, “annusare il più possibile” sempre e ovunque, per esplorare tutto ciò che appartiene alla vita: questa sembra essere la missione umanista sottesa alla saggezza di Montaigne, il quale fa del proprio naso e del proprio palato un unico prezioso strumento di conoscenza e di profondo godimento.

Tuttavia Montaigne estende le sue riflessioni sensoriali oltre al vino e al cibo e arriva a toccare il corpo umano. Ed è qui che va ricondotta la sua saggezza.

I suoi folti baffi non lo tradiscono mai. Scrive infatti che “gli appassionati baci della gioventù, saporosi, ghiotti e appiccicaticci, un tempo vi s’incollavano e vi restavano per molte ore”

Il filosofo assaggerà la vita fino all’ultimo respiro quando, ironia della sorte, un ascesso alla lingua gli impedirà di parlare per tre sofferti giorni. “Non mi fa piacere essere malato ma se lo sono, voglio saperlo, voglio sentirlo” scrive, mentre, disteso nel letto della sua casa, gli amici più cari gli rendono le ultime commosse visite. Si dice che abbia affrontato la morte con una serenità naturale, non piantando cavoli come avrebbe desiderato, ma scrivendo in conclusione dei Saggi che era semplicemente giunto il momento di raccogliere le sue cose e far fagotto.

Attraverso le impressioni olfattive, Montaigne arriva a leggere dentro le persone, intuendo temperamento, abitudini e umori. Per esempio, disapprova l’abuso di profumi artificiali, perché mascherano la verità e sono sintomo di mancanza di pulizia, quindi chi profuma troppo, in realtà, puzza. I suoi folti baffi, oltretutto, non lo tradiscono mai e gli sono complici nell’imprimere sensazioni gustative e olfattive essenziali, soprattutto in amore. Scrive, infatti, che “gli appassionati baci della gioventù, saporosi, ghiotti e appiccicaticci, un tempo vi s’incollavano e vi restavano per molte ore.” Inoltre, Montaigne sottolinea come “il più squisito profumo di donna è non avere alcun odore, così come il miglior odore delle sue azioni è che esse siano impercettibili e tacite.” Se da un punto di vista ideale la donna dev’essere inodore, Montaigne apprezza certi aromi delica-

È il 13 settembre del 1592, il giorno in cui Montaigne deve aver annusato l’unico profumo a lui ancora sconosciuto, quello della morte, che come un ultimo bacio s’è posato morbidamente sui suoi baffi stanchi, senza concedergli il tempo di ricambiare, né di poterlo raccontare.

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Oro in frutto di Gaetano “Tano” Simonato Chef “Tano passami l’olio”

L’olio da olive? Per me è oro in frutto. C’è molta oggettività nella mia visione dell’olio. Di elemento personale c’è pochissimo, anche se poi è chiaro che ne sono molto innamorato. Fortunatamente il continuo evolversi dell’olio extra vergine di oliva ha portato nel tempo a un sensibile miglioramento delle produzioni. Tant’è che tutti ormai fanno a gara per giungere all’eccellenza, e questo va a vantaggio di chi come me lavora in cucina. Assaggio in media quattrocento extra vergini l’anno, per intenderci. Rispetto al passato ho senza dubbio maturato più esperienza. Lo stesso vale per chi produce. Spesso m’imbatto in produttori giovani che mi chiedono consigli. Vedo in loro una gran voglia di fare, di dare il meglio di sé. Il mio rapporto personale con l’olio? Resta quello di sempre. Semmai oggi sono alla ricerca della particolarità. La cerco nel prodotto come nel piatto. Nulla è mai dato per certo. Ogni anno l’olio è soggetto a variabili. Non viene mai uguale. Per questo preferisco assaggiarlo prima, pur conoscendolo da anni. Per me resta un continuo sperimentare. La parola esperimento la dice lunga sulla buona riuscita di un piatto, così, ogni volta, mi diverto sempre di più. Ho trasformato molte ricette che prima facevo con il burro. La frolla, la lingua di gatto, e anche la sfoglia, e molto altro ancora. Posso assicurare che la leggerezza e la palpabilità, oltre che la digeribilità, sono ora completamente differenti.

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olioofficina / ricettaoliocentrica di Gaetano “Tano” Simonato

Tortino al cioccolato in crema inglese al profumo d’arancia

Ingredienti per quattro persone 200 g di cioccolato al 60 per cento di cacao 150 ml di olio extra vergine di oliva fruttato medio 5 uova intere 80 g di zucchero

Preparazione Montare i tuorli con lo zucchero. Aggiungere il latte. Mettere su fuoco moderato, raggiungendo al massimo i 90 °C. Aggiungere la maizena tenendo il tutto sul fuoco, sempre a 90 °C, e non oltre. Grattare la scorza di mezza arancia dentro al composto, in modo da insaporire. Riporre in frigorifero per un’ora. Passare a setaccio per togliere le scorzette di arancia.

Preparazione Sciogliere il cioccolato a bagnomaria. Aggiungere l’olio extra vergine di oliva al cioccolato ancora tiepido. Battere i tuorli con lo zucchero e aggiungerli al composto di cioccolato e olio. Montare gli albumi a neve e aggiungerli al composto. Rimestare molto lentamente, sino a ottenere un composto omogeneo. Riporre in frigo per almeno tre ore.

Cottura tortino Mettere il composto in stampini medi, ben oliati sulle pareti. Infornare a 200 °C, per 8/9 minuti. Impiattamento Porre nel piatto di portata (fondina media) la crema inglese al profumo di arancia. Estrarre il tortino dallo stampino e riporlo al centro del piatto.

Crema inglese per quattro persone, ingredienti 3 tuorli d’uovo 150 ml di latte 1 arancia 60 g di zucchero 3 g di maizena 45

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No oil, no salad! Intervista a Jeanne Perego di Maria Carla Squeo

Cosa è per te l’olio ricavato dalle olive? Hai una tua personale visione dell’olio? L’olio è il respiro dell’insalata. Sembra una sciocchezza, ma non lo è. Parafrasando un celebre claim pubblicitario potrei dire “No oil, no salad!”. Non c’è insalata se non c’è olio, insalate di frutta a parte, ovviamente. Perché le insalate non hanno vita, né ragione di esistere, senza l’olio. Da qui il mio immenso amore per questo dono di Dio che viene dalle olive, un amore che non teme confronti né tradimenti, e che mi regala conferme ogni volta che preparo un’insalata. Oggi la qualità degli oli da olive è mutata. Ci sono oli più stabili, più fini ed eleganti, più profumati e sapidi, e perfino più versatili. Rispetto al passato, alle conoscenze che si avevano del prodotto, hai assunto un rapporto diverso con tale materia prima? Come ti relazioni con un olio che richiede ogni volta di essere interpretato? Certo. Oggi non c’è più “l’olio”, ma “gli oli”, nella mia vita in cucina e a tavola. Oli che tratto come tratto i vari tipi di pepe, di aceto o di foglie: cercando di capirli e di valorizzarli, cercando di coglierne la personalità per poterne fare dei protagonisti nella preparazione di un piatto. Ti piace sperimentare con l’olio extra vergine di oliva? Moltissimo. Mi piace abbinarlo in maniera sempre nuova ad aceti e succhi di agrumi, mescolarlo ad altri oli pregiati, ammorbidirlo o esaltarlo con mieli, senapi, salse… È un gioco senza fine. Con tutta sincerità, hai mai provato difficoltà nell’impiego? Riesci a governare la complessità degli oli da olive? Ti crea qualche problema utilizzandolo con altre materie prime? Ma certo che ho avuto difficoltà! Ho messo ko delle insalatine delicate con oli troppo intensi e dal gusto marcato. Ne ho rese insipide altre, corpose, avendo utilizzato oli poco sapidi. Trovare l’abbinamento corretto tra oli e acidi non è sempre così facile. Ma sbagliando si impara, come recita il proverbio, e ora di errori ne faccio meno (ma c’è ancora tanto da imparare!).

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Insalata dolce amara con formaggio di capra e noci caramellate di Jeanne Perego

Ingredienti per due persone Preparazione 100 g radicchio rosso di Treviso 80 gr lattuga 1 mela una manciata di cranberry disidratati una manciata di uvetta sultanina 80 g di formaggio fresco di capra 60 g gherigli di noce 60 g zucchero olio extra vergine di oliva 1 cucchiaio di scalogno fresco tritato aceto di vino rosso senape delicata miele di foresta sale e pepe nero macinato al momento

Prima di tutto caramellate le noci, tostandole leggermente in una padella antiaderente senza aggiungere grassi, unendo poi lo zucchero e mescolando continuamente finché le noci sono ricoperte da un sottile strato di caramello. Versatele poi su un foglio di carta da forno e lasciatele raffreddare. Mondate le insalate, lavatele, asciugatele e spezzettatele in un’insalatiera. Aggiungete i cranberry e l’uvetta (se necessario ammollata per un quarto d’ora in acqua tiepida), la mela sbucciata e tagliata a pezzetti, e le noci caramellate spezzettate grossolanamente. Preparate la vinaigrette emulsionando tre cucchiai di olio, un cucchiaio di aceto, un cucchiaino da tè di senape, un cucchiaino da tè di miele, una presa di sale e pepe macinato al momento. Condite l’insalata con la salsina ottenuta e sbriciolatevi sopra il formaggio di capra prima di portare in tavola. Se vi piace un’insalata ancor più saporita, potete aggiungere al condimento mezzo spicchio d’aglio tritato finemente.

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olioofficina / visioni

L’olio profuma di giovinezza di Angelo Ruta

L’olio mi fa venire in mente i primi anni del liceo, quando con la mia famiglia non ci si era ancora trasferiti dalla casa di campagna a quella di città, e lungo la strada per andare a scuola potevo vedere i campi in festa per la raccolta. Era davvero una festa, non so perché ma mi metteva una grande allegria. Quando poi ho provato (una volta, per gioco) a unirmi alla raccolta, ne ho compreso la fatica; e ho scoperto quel talento che hanno solo i contadini di combattere la fatica con l’allegria.

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Oli extra vergine d’oliva di categoria superiore. Prodotto esclusivamente con olive della Tenuta Formica Alta di Paolo Bulgari in Toscana, Podere dell’Ermellino di Giovanni Bulgari in Umbria e Tenuta di Carma di Giulio Gropello nell’alto Lazio.

IL TRIANGOLO DELL’OLIO

www.concarma.com

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Extra vergin olive oils of superior quality. Exclusively produced with olives coming from the estates of Formica Alta owned by Paolo Bulgari in Tuscany, Podere dell'Ermellino of Giovanni Bulgari in Umbria and the estate of Carma of Giulio Gropello in the Lazio region.

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olioofficina / esperienze

L’Armadio delle essenze di Nicola Dal Falco

Solo un armadio? Un armadio che profuma d’essenze? No, questo tipo d’armadio è anche una finestra socchiusa su due mani che coltivano e su due mani che massaggiano. Nel primo caso, la vista abbraccia un paesaggio collinare, tra Pomarance e Volterra, fermandosi sulla vecchia casa e il lungo pendio che Claudio Gaiaschi ha scelto per produrre oli essenziali ed acque aromatiche. Nel secondo caso, invece, si guarda e si pensa al mare del Cinquale, vicino a Massa, dove sono le mani di Ivana Sagramoni a toccare l’altra faccia delle terra, offrendo al corpo molto di più di un semplice ristoro. L’armadio, quanto di più raro ci sia, è di foggia robusta e semplice. Il suo tesoro, preziosissimo, sta tutto nei due unici scaffali: lo scaffale degli oli essenziali e lo scaffale delle acque aromatiche. Le mani che coltivano lo riempiono solo con il frutto della terra migliore, una terra dove non esiste chimica e quello che cresce segue il passo della luna, gli umori della stagione, la cura e la fatica quotidiane. Al tempo balsamico di ogni pianta corrisponde una distillazione lenta, da un minimo di quattro, cinque ore ad un massimo di tre giorni in modo che tutte le sostanze racchiuse possano passare dalla foglia o dal fiore all’olio e all’acqua. Questione, appunto, di essenza. Essenza di piante che per essere tale deve contenere l’enorme quantità di principi attivi presenti in natura. Ogni

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olio ed acqua, distillati al Podere Santa Bianca sono l’olio essenziale e l’acqua aromatica di un campo, colto e spremuto in tempo e per tempo. Ogni scelta, ogni gesto hanno un loro ritmo, nella coltivazione biodinamica e nel massaggio olistico. Muovere le proprie mani al ritmo del corpo, ritrovando l’accordo d’ogni singola parte con il resto, è il compito di Ivana Sagramoni. Tocco, ma anche profumo e colore, seguendo una mappa di corrispondenze che questi oli e queste acque custodiscono per il semplice fatto di condividere la stessa energia che regola tutti gli organismi, dai più semplici ai più complessi.

Il carattere d’ogni pianta, le sue proprietà specifiche, equivalgono a un racconto, a un pezzo di memoria su cui innestare la propria storia, trovando le frasi mancanti o eliminando quelle superflue. Perché tutto torni all’essenza, occorre indagarne la complessità.

Usare un olio o un’acqua per questo o quel trattamento, in un certo giorno o in un altro, non può, quindi, essere una scelta né sbadata né automatica. La loro ricchezza va commisurata con le esigenze che variano da persona a persona e da momento a momento. Il carattere d’ogni pianta, le sue proprietà specifiche, equivalgono a un racconto, a un pezzo di memoria, su cui innestare la propria storia, trovando le frasi mancanti o eliminando quelle superflue. Perché tutto torni all’essenza, occorre indagarne la complessità. Ciò che di buono e di bello esprime un massaggio dipenderà dal tocco, dalle virtù naturali della pianta che la pelle può assorbire più velocemente attraverso i capillari, dal suo profumo e dal colore associato, fonte a sua volta di altri accostamenti. La pressione della mano, gli stimoli olfattivi, le variazioni cromatiche o la pronuncia dei mantra, non sono che le note di uno stesso canto. Quel canto fa parte di un linguaggio, seminato di simboli, dove la concretezza ha sempre un suo risvolto sottile, dove lo spirito non abbandona a se stessa la materia.

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olioofficina / sguardi

Ama quell’ulivo che si staglia al cielo di Alessandra Paolini

Il tronco dell’ulivo nasce contorto. È la sua vocazione, la sua anima, il suo destino. Nulla potranno le tue mani per piegare la sua complessità. Nulla potrà il tuo sguardo, i tuoi pensieri, la tua storia. Avrai cura di quella nodosità come si serba nel cuore il nodo irrisolto che non sappiamo sciogliere in noi e nell’altro. Non ci sarà eco di tramonto o racconto d’alba che saprà disbrogliare l’intricata linea del suo divenire. Amalo per quello che è, per quel dirompente assertorio irruento dire al mondo che tutto è fatica, tutto è incedere lontano dal conforto. Ama quell’ulivo che si staglia al cielo e di esso conosce le rugosità l’anima che non conosce quiete. Accogli il fremito impresso dalla sue foglie puntute all’aria placida che non può abbracciarle, ma sappi che mai potrai accudire il suo manto argenteo e che l’inseguirsi del tempo non gli accollerà pace né saggezza. Ama quell’ulivo come si ama la storia che ritorna nelle tempeste delle parole che battono il cuore ed i pensieri. Amalo com’esso è riuscito ad amare la sua terra, servo folle invaghito di una zolla! Amalo quando sfida l’orizzonte, stagliandosi scultoreo contro i cieli cangianti. Amalo nell’abbondanza faticosa delle sue cariche insensate, senza misura, senza ritegno, senza considerazione né senno. E nelle sue sterilità più scandalose, più profonde più lugubri. Amalo nei suoi pianti disperati quando il vento batte i suoi rami nudi, amalo nei fiori covati con stupore, nelle radici aggrappate per non lasciarsi scivolare quando lo scuote la tormenta e lo schiaffeggia la tempesta, quando il nevischio lo insidia e il gelo gli danza la morte d’intorno, ma nulla lo addomestica. Amalo. Quando il sole lo brucia, la salsedine lo arde, la siccità lo strema. Porterà oro nei frutti dimentico d’ogni fatica.

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Approfondimenti

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olioofficina / scienze

Perché le sostanze grasse sono impopolari? di Giovanni Lercker

Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari Alma Mater Studiorum-Università di Bologna

Da diversi anni gli stili di vita sono mutati profondamente tanto da rendere incomprensibile il modo di dire “è grasso che cola”, che in passato aveva un significato positivo di disponibilità in abbondanza, e anche quello che dice “gallina vecchia fa buon brodo” per la presenza di grasso in maggiore quantità. La quantità di grasso nei prosciutti, oggi ma non in passato, nel nostro Paese è negativa e pertanto la maggior parte delle salumerie lo riducono o lo eliminano prima di affettare, anche se è noto che il maiale grasso darà buoni prosciutti. Se andiamo in altri paesi, meno evoluti e più poveri, la qualità delle carni di maiale e quella dei prosciutti è misurata dai centimetri di spessore del grasso, a partire da non meno di sei, sette centimetri. Le sostanze grasse nel passato hanno sempre avuto un grande pregio, perché fonte concentrata di energia e alimento di più difficile ottenimento dai sistemi naturali rispetto alle altre componenti nutrizionali, quale i carboidrati. Nei paesi ricchi, solo cinquanta anni fa i bambini venivano considerati più sani e robusti se erano in sovrappeso o addirittura grassi, attualmente c’è un allarme per l’intollerabile aumento di bambini obesi. Oggi la parola grasso ha assunto un significato negativo per tutti. Si controlla il proprio peso, si segue una dieta che mantenga o porti a condizioni fisiche asciutte e si frequentano le palestre allo scopo, sorte come funghi negli ultimi trenta anni. La pubblicità ha cavalcato questi cambiamenti negli stili di vita, proponendo prodotti che sono “light” sottintendendo una minore presenza di grassi, dicitura poi estesa anche di altri componenti non graditi, quali colesterolo, caffeina, eccetera. Le immagini di stili di vita e delle persone di riferimento (vip) sono sempre improntate a mostrare fisici particolarmente magri e snelli, mentre le pitture degli artisti più famosi del Rinascimento ritraevano come modelli estetici corpi opulenti e talvolta in sovrappeso. I giovanissimi sono molto influenzati da questi stereotipi e, spesso, per inevitabile spirito d’imitazione e in mancanza di spirito critico si incamminano in scelte dannose per la loro salute. Le percezioni delle persone in media è di dover eliminare i grassi dalla propria dieta e, in qualche caso, associare anche la riduzione dei carboidrati. Questo comportamento, naturalmente, si riflette solo nella valutazione del grasso visibile senza rendersi conto di quello cosiddetto “invisibile”. Infatti, ad esempio, il togliere alla fetta di prosciutto, alla fettina di carne o alla 54

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braciola il grasso ai bordi, fa sentir meglio il consumatore, che non sa dell’esistenza di altre componenti grasse presenti e non visibili nella matrice carnea. La frazione lipidica cellulare e quella di infiltrazione tissutale (marezzatura) sono sempre presenti variando di quantità in relazione al tipo di carne. Un altro esempio che si può produrre è il salame tipo Milano con piccoli puntini bianchi di grasso, come anche l’ungherese, in confronto a quello umbro e toscano che contengono lardelli larghi ben visibili: questi ultimi contengono circa il 27% di grasso e sono istintivamente considerati più grassi dei primi che contengono invece oltre il 31-34 % di grasso (Tabella 1). Analogamente la mortadella è considerata grassa, ma è al 28% e oggi è stata portata a 23-24%, molto meno del formaggio grana che è al 33-34% di grasso. Analoghe considerazioni possono essere rivolte alla categoria dei formaggi, veri e propri concentrati di latte (Tabella 2). Quindi, la verità su prodotti, ritenuti grassi e non, deve essere ancora scritta e quando accadrà si potranno osservare grandi sorprese (Tabella 3, ad esempio). L’impiego dei grassi e la storia dell’uomo I grassi e gli oli sono costituenti preziosi degli alimenti: sono trappole di aromi e riescono a condire molti alimenti altrimenti poco gustosi. Durante il contatto con determinati componenti dei sistemi alimentari, la sostanza grassa raccoglie e trattiene i costituenti più importanti dal punto di vista aromatico e per loro fa da trasportatore (carrier) nei prodotti cotti. Tabella 1. Composizione in nutrienti dei principali insaccati.

Prodotto

Acqua % Proteine % Lipidi % Carboidrati % Sodio %

Kcal 100 g

Salame Felino

35,2

30,5

27,9

1,0

1,7

375

Salame Milano

35,5

26,7

31,1

3,0

1,5

392

Salame Napoli

39,0

26,7

27,3

3,4

1,7

359

Salame ungherese

39,0

24,2

34,0

1,4

1,8

405

Mortadella

52,3

14,7

28,1

3,0

0,5

317

Pancetta magretta

47,8

21,7

25,3

0

1,7

315

Pancetta tesa

45,3

20,9

28,1

0

1,0

337

Prosciutto cotto

62,2

19,8

14,7

1,8

0,6

215

Prosciutto crudo

53,0

26,9

12,9

0

2,6

224

Gambuccio

43,6

26,2

22,4

0

--

306

Coppa Parma

36,9

23,6

33,5

1,2

1,5

398

Speck

44,7

28,3

20,9

1,0

1,5

303

Salsiccia cotta

46,3

22,2

26,1

0

1,3

324

Salsiccia passita

28,2

22,0

47,3

0

--

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Wurstel cotto

51,8

16,4

26,9

2,5

0,9

313

Zampone cotto

50,0

21,4

25,9

0

0,7

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La frittura Il sistema di cottura degli alimenti più gradito è la frittura. Per considerazione generale la frittura è quella che si conduce a bagno d’olio. In realtà la cottura a temperature più elevate di circa 150 °C è da considerare frittura, anche in assenza d’impiego di sostanze grasse. Infatti, le principali modificazione dei costituenti degli alimenti in seguito ai trattamenti termici a temperature elevate, sono le stesse in tutti i casi. Friggere, quindi, è il sistema di cottura più drastico, ma anche quello più efficace. In primo luogo questo tipo di cottura è stato impiegato fin dalla scoperta del fuoco da parte dell’uomo e associato a questa cottura sono anche tutti i sapori caratteristici per i vari alimenti, quali carni, pane, ecc., che ancora oggi noi consideriamo molto gradevoli. Forse, oltre al legame tradizionale con la cottura e i conseguenti sapori, vi era un legame con la possibilità di sopravvivenza umana in relazione al risanamento microbiologico dovuto al trattamento a temperatura elevata. A tale proposito, non è noto a tutti che la cottura con crescita lenta della temperatura, per questo anche più prolungata, nelle prime fasi fa ben sviluppare determinati microrganismi al contrario di una cottura rapida ad alta temperatura. L’impiego di un bagno di frittura comporta un residuo di olio sul prodotto alimentare cotto per un 6-8% circa. Per le patate tipo stick la quantità di olio del bagno raggiunge il 15% circa e per quelle tipo a “sfogliatine” arriva fino a circa 35% (30-40%). Per tali motivazioni, conviene poter scegliere il tipo di sostanza grassa in quanto in questi alimenti è diventata un costituente non trascurabile dell’alimento che consumeremo. Ricerche recenti hanno dimostrato la grande stabilità, negli impieghi a caldo, degli oli extravergini di oliva molto al di sopra di tutte le altre sostanze grasse, per cui più idonei a questo scopo. Recentemente, l’olio d’oliva ha avuto un riconoscimento non indifferente in relazione alla sua capacità di prevenire malattie cardiovascolari: (fonte: FDA, Food and Drug Administration) Documento P04 - 100 del 1 novembre 2004 “L’introduzione di 23 g di olio d’oliva al giorno può prevenire l’insorgere di malattie cardiovascolari, in relazione all’elevato contenuto di acidi grassi monoinsaturi.” Per quanto riguarda le indicazioni nutrizionali più recenti riguardo le sostanze grasse: (fonte: USDA, United States Department of Agriculture) La piramide nutrizionale Oli e grassi: - fa che la tua sorgente di sostanze grasse sia da pesci, noci e oli vegetali - limita i grassi solidi, le margarine, i grassi idrogenati e lo strutto

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Tabella 2. Composizione media in nutrienti dei principali formaggi. Formaggio

Acqua%

Proteine%

Grassi%

Carboidrati%

Camembert

51,0

19,7

25,2

0

Crema

53,0

7,1

36,9

2,0

Emmenthal

34,0

28,6

31,3

2,0

Limbourg

38,0

23,5

32,4

1,0

Grana

29,0

36,3

27,4

2,0

Roquefort

37,0

21,7

33,3

1,0

Bel Paese

38,9

26,3

12,3

1,7

Caciocavallo

30,0

37,7

31,1

tr

Caciotta

32,5

27,3

27,3

1,8

Fontina

41,1

24,5

26,9

0,8

Groviera

32,1

31,5

31,9

--

Mozzarella

58,5

22,2

17,9

tr

Pastorella

41,3

26,9

28,5

0

Provolone

39,6

26,3

28,8

0

Stracchino

53,5

18,5

25,1

tr

Tabella 3. Classificazione dei principali alimenti e delle materie prime alimentari, sulla base dei contenuti in sostanza grassa. Dal 2 al 5%

Acciughe fresche, abbacchio, animelle, aragosta, baccalà, calamari, carpa, ceci, coratella, cuore, dentice, fave secche, fette biscottate, farina integrale, milza, ostriche, pane integrale, pasta alimentare, selvaggina a pelo, triglie, trote, yogurt di latte intero

Dal 5 al 10%

Biscotti secchi, cefalo, cervello, coniglio, farina d’avena, fegato, gallette, latte di bufala, maiale (carne magra), pollo in batteria, salmone conservato, selvaggina a penna, sgombri, tonno sott’olio

Dal 10 al 15%

Aringhe, carne di piccione, lingua di bue, manzo, olive, pollo, rigaglie, sardine sott’olio, sgombri, tacchino, uova

Dal 15 al 20%

Caviale, crema di latte, crescenza, formaggio di capra, mozzarella di vacca

Dal 20 al 25%

Anguilla, Bel Paese, cacao in polvere, Camembert, cappone, latte di cocco, gallina, formaggio italico, piccione, scamorza

Dal 25 al 30%

Anatra, mortadella, Asiago, cioccolato fondente, fontina, gruviera, latte intero di vacca in polvere, mozzarella di bufala, Olanda, pecorino sardo, provola, robiola, stracchino

Dal 30 al 40%

Caciocavallo, cocco, coppa, cotechino, maiale (carne grassa), pecorino, prosciutto cotto, salame, ricotta, Roquefort, formaggio grana, zampone

Oltre il 40%

Arachidi tostate, mascarpone, prosciutto crudo e salsicce secche (dal 40 al 50%), mandorla (51%), nocciole , noci e pancetta (dal 60 al 70%), burro, lardo e margarina (dall’80 all’85%), olio e strutto (99-100%)

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olioofficina / scienze

Mi piace, non mi piace. La personalizzazione del gusto ? di Tullia Gallina Toschi

Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

Nel 2010 il simbolo-pulsante “I like”, “Mi piace” compare sulle pagine di Facebook e, dal quel momento, viene utilizzato ogni giorno dagli ottocento milioni di iscritti al social network. Esprimere una preferenza equivale, per ogni utente, a scegliere, essere parte, elemento visibile e possibile contatto. Soggetto attivo, seppure remoto e “liquido”, di una valutazione, o, invece, oggetto del gradimento di qualcuno, destinatario di una preferenza. Si clicca “Mi piace”, su di una frase, un gioco, un’immagine, un alimento, si ottiene un “Mi piace” su un commento, una canzone, un film, uno scatto. Chiunque abbia mai aperto una pagina di Facebook sa cosa significa. Ogni giorno un’immensa comunità remota vota le esperienze, le frasi, le persone ed i prodotti più graditi. E ottiene una catena di preferenze, una classifica, gruppi di “preferenti” e gruppi di preferenze (Fig. 1). Come a dire: cluster di consumatori, cluster di prodotti. Nel farlo, l’individuo, specie se giovane, crede di compiere un atto spontaneo, libero, neutro, e invece si espone a essere studiato. Il mercato globale si nutre proprio di questi dati, per comprendere la relazione che esiste tra soggetti o gruppi che esprimono le preferenze e i prodotti graditi a ciascun gruppo.

Figura 1 Esprimere una preferenza. Cluster di consumatori, cluster di prodotti. 58

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Anche nello studio e nello sviluppo degli alimenti la conoscenza delle preferenze del consumatore è un passaggio fondamentale per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Si effettua, da molti anni, con varie tecniche, tra cui i test di preferenza, appunto, ai quali ciascuno di noi, almeno una volta, è stato sottoposto. Chi non ricorda le pubblicità della margarina, negli anni ’70, nelle quali un ignaro individuo veniva invitato a distinguere, con l’assaggio di due tipi di pasta, quella condita con il burro, da quella condita con la margarina? Si trattava di un “test discriminante sul consumatore”, usato, in questo caso, a scopi pubblicitari, per cercare di affermare la qualità sensoriale della margarina [ma questo tentativo non funzionò in Italia, ndr]. Lo studio di preferenza che intendo commentare è stato condotto, nel nord Italia, nel 2011, sull’olio extravergine di oliva (Barbieri et al., 2011) e prevedeva che sessanta consumatori esprimessero le proprie preferenze dopo aver assaggiato otto oli extra vergini diversi. Il risultato, o mappa di preferenza, è riportato in figura 2; si tratta di un sistema abbastanza intuitivo, che mette in relazione il gradimento espresso dai consumatori, gli oli selezionati e gli attributi di questi ultimi.

Figura 2 Mappa di preferenza. Gli oli extravergini esaminati sono indicati dalle lettere (S4, S5, S6, S9, S24, S26, S29 S33), mentre i gruppi di consumatori che hanno espresso una data preferenza (chiazze nella mappa) corrispondono alla percentuale riportata nella legenda. Nella mappa, come indicato dalla legenda, i colori rappresentano la percentuale di consumatori che sono collocabili 59

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in una specifica area di preferenza. Il giallo, ad esempio, indica una “zona di gradimento” condivisa dal 50-60% dei consumatori, l’azzurro quella espressa dal 20-30%. La superficie quadrata della mappa riporta, su ogni lato, le caratteristiche o attributi dominanti che avevano gli oli statisticamente collocati vicino a quella zona del piano. Le domande alle quali si è cercato di dare una risposta, con l’esecuzione di questo test, erano due. La prima era volta ad individuare il tipo di olio extravergine che piace a un campione statisticamente significativo di consumatori italiani e la seconda a verificare se questa preferenza fosse in linea con la qualità dell’olio. Entrambe le risposte sono molto rilevanti perché gli italiani posseggono e consumano, basti guardare alla numerosità delle Dop, molti alimenti di qualità. Rispetto ad altri Paesi, in Italia è diffusa una tradizione culinaria ed enogastronomica varia e trasversale a tutti gli strati sociali. In Italia, si consuma il 30% dell’extravergine prodotto nel mondo, mentre se ne produce il 15% (Figura 3).

Figura 3 Da “Market newsletter numero 52, settembre 2011”. Produzione mondiale di olio extravergine di oliva. Sulla base delle scelte dei consumatori, che possono essere estrapolate dalla mappa di preferenza, sono state ottenute le risposte alle due domande. Il campione di consumatori selezionati ha premiato gli oli più fruttati (S26 ed S29 in figura 2), dimostrando una cultura sufficiente in termini di qualità sensoriale dell’olio, tuttavia, il 40% non ha riconosciuto un olio difettato di bassa qualità (S24). Il 70-80% dei consumatori selezionati ha apprezzato, più di tutti, l’olio più dolce, mentre soltanto il 20% ha dimostrato di apprezzare l’olio più amaro. Il quadro che è emerso è senz’altro vario; in Italia alcuni consumatori apprezzano e conoscono gli oli extravergini di qualità (fruttati, amari, piccanti e/o dolci), ma ancora molti non riconoscono un olio difettato o non comprendono che gli attributi sensoriali di amaro e piccante sono attributi positivi, perché caratteristici del prodotto e dovuti alla presenza di sostanze dotate di proprietà salutistiche (biofenoli). Uno studio simile (Recchia et al., 2012) è stato realizzato su un campione di settantacinque finlandesi “subjective 60

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committed”, ossia che si dichiaravano esperti di scienze degli alimenti e che ritenevano di possedere una buona conoscenza in materia di olio extravergine di oliva. La maggior parte di questi consumatori non ha gradito oli verdi, che sono risultati più accettati se accompagnati dall’insalata, né gli oli amari e piccanti, che sono stati ancor meno accettati se accompagnati dall’insalata ed infine ha premiato un olio di qualità media, invece che un olio eccellente. Appare evidente, da questi e molti altri studi, che l’olio extravergine di oliva non sia noto, tranne in rari casi, a chi lo consuma. Si tratta di un prodotto che ha caratteristiche sensoriali definite e molto semplici, che possono essere così riassunte: “la mediana dei difetti non può essere superiore a zero e la mediana del fruttato deve essere superiore a zero” (Reg. CE 640/08). Inoltre l’amaro ed il piccante sono, per legge, attributi positivi. Semplificando, nell’olio extravergine, deve essere percepibile l’odore dell’oliva fresca (maggiore di zero, appunto), non devono esserci difetti e l’amaro ed il piccante, che possono avere intensità diverse (oli dolci, oli intensi), sono sempre qualità di pregio. Sono poche regole, non molto complesse, ma davvero note a pochi. Quindi, se la qualità non è conosciuta, se è un po’ più difficile del gusto abituale, cosa bisogna fare? La soluzione non è abbassarne il livello o screditare l’analisi sensoriale, la soluzione è l’insegnamento e la promozione del prodotto attraverso gli attributi positivi di qualità (che possono essere efficacemente descritti), al fine di ottenere l’unico legame indissolubile con il flavor. L’abitudine, l’uso quotidiano, magari parsimonioso, di un prodotto eccellente. La familiarità al “gusto” di qualità.

Bibliografia Barbieri S., Gallina Toschi T., Valli E., Gottardi F., Canavari M. e Bendini A., Bitter, Pungency and Phenol Composition of Extra Virgin Olive Oils: A Study on Consumer Acceptability, studio presentato al 9° Congresso dell’Euro Fed Lipid, 18-21 settembre 2011, Rotterdam, atti del convegno, summary a p. 291, in corso di pubblicazione. Recchia, A. Monteleone, E., Tuorila, H., Responses to extra virgin olive oils in consumers with varying commitment to oils, Food Quality and Preference, 24 (1), 2012, pp. 153-161.

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olioofficina / geografie

Paesaggio e prodotti del territorio come componenti del patrimonio rurale di Maria Chiara Zerbi

Università degli Studi di Milano

Una serie di articoli apparsi, all’inizio dello scorso decennio, sui principali quotidiani diffusi in Puglia denuncia il fenomeno di una “presunta tratta” di alberi di ulivo secolari che vengono estirpati e venduti nelle regioni del Nord Italia per abbellire parchi e giardini. Il fenomeno ha acquisito per la prima volta visibilità nell’Ostunense, quando nel 2001 vennero bloccati, grazie all’intervento delle forze dell’ordine, dei Tir carichi di ulivi diretti verso le regioni settentrionali. Ma non sarebbe stato un episodio isolato.

Presa di coscienza del valore degli ulivi pugliesi

La battaglia contro il traffico degli ulivi pugliesi è, infatti, proseguita senza sosta. A metà settembre del 2002 fu bloccato dai vigili urbani, sempre a Ostuni, un Tir diretto verso Padova. Gli ulivi recuperati furono piantati nei giardinetti di via Giovanni XXIII. A Monopoli, nel maggio del 2002, fu scoperto un vero mercato di piante di vecchi olivi, pronti ad essere venduti, nell’ambito di un comune vivaio, con quotazioni varianti da 1500 a 8000 euro. Numerosi altri casi furono denunciati in provincia di Taranto, Brindisi, Lecce1. L’avere richiamato l’attenzione su questo fenomeno accese il dibattito sulla necessità di tutelare meglio un patrimonio, come quello rappresentato dagli ulivi secolari, che costituisce una componente identificativa del paesaggio regionale, mediante una legge che definisse in modo più preciso le condizioni per l’espianto. Nel 2003 venne lanciata da La Gazzetta del Mezzogiorno (13 giugno 2003) una campagna sulla tutela degli ulivi secolari e nacque un Comitato di salvaguardia degli ulivi pugliesi, mentre si intraprendevano iniziative di sensibilizzazione popolare, anche attraverso mostre itineranti sul paesaggio degli ulivi. Il problema che apparve subito evidente era quello di trovare un compromesso tra tutela del paesaggio e interessi economici dei coltivatori, a motivo del fatto che gli uliveti di antico impianto possono essere improduttivi o scarsamente produttivi con conseguenze negative sui redditi agricoli. Come intervenire? Facendo appello alle misure ambientali della PAC?

1) Si vedano gli articoli apparsi sul Nuovo Quotidiano di Puglia il 27 agosto 2003, 27 agosto 2003 e su La Gazzetta del Mezzogiorno del 31 agosto 2003.

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Dal punto di vista normativo la tutela delle piante di ulivo ha le sue radici in un regio decreto d’inizio del secolo scorso, che subordinava lo sradicamento degli ulivi improduttivi a un’apposita autorizzazione e, nel secondo dopoguerra, nel decreto legislativo luogotenenziale n° 475 del 27/07/1945, che vietava l’espianto di questi alberi (anche se danneggiati da eventi bellici o altri eventi, purché recuperabili) e che ribadiva la necessità dell’autorizzazione. Al decreto fece seguito, nel 1951, una legge (l. 14 febbraio 1951, n° 144) che stabiliva con maggiore precisione, ma anche con un’innegabile estensione, i casi in cui poteva essere concessa l’autorizzazione allo sradicamento e veniva individuato nell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura l’ente competente al rilascio. L’applicazione di quest’ultima norma è risultata però scarsamente efficace dal punto di vista della tutela, per la semplicità della procedura da seguire e la facilità d’ottenere l’autorizzazione all’espianto anche in casi di interventi importanti per superficie o per numero di piante interessate2. Da questa scarsa efficacia nacque l’esigenza di una diversa normativa più attenta ai valori estetici, storici, simbolici oltre che ambientali e produttivi degli uliveti pugliesi.

La prima legge regionale in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi Nel 2007 la Regione Puglia decide di adottare specifiche misure di conservazione per gli ulivi secolari e plurisecolari dotati di valore paesaggistico (l.r. n. 14 del 4 giugno 2007, “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”). Viene in tal modo ad essere sottoposta a tutela la porzione più significativa della sua ricchezza arborea, mentre per la restante parte resta assoggettata alla normativa già in vigore. Senza entrare nel dettaglio dei 5 titoli e dei 19 articoli di cui si compone la legge, se ne possono richiamare qui alcuni capisaldi. La legge definisce, in primo luogo, i parametri con i quali valutare il carattere di monumentalità delle piante d’ulivo secolari. Di esse prevede una rilevazione sistematica, sotto il controllo di una “Commissione tecnica per la tutela degli alberi monumentali”, appositamente costituita, nell’intento di pervenire ad un “elenco degli ulivi ed uliveti monumentali” da assoggettare a tutela (tutela che, a regime, avverrà attraverso l’apposizione di vincolo paesaggistico). Alla tutela sono affiancate azioni di valorizzazione tramite la speciale menzione “Olio extravergine degli ulivi secolari di Puglia” utilizzabile dai produttori d’olio derivante da piante monumentali inserite nell’elenco, associabile ad altri marchi territoriali. Sono altresì previste azioni di promozione commerciale dei prodotti, dell’immagine degli uliveti secolari anche a scopi turistici, il sostegno alla produzione e, non ultimo, la priorità nei finanziamenti accordata a progetti di miglioramento qualitativo e di manutenzione paesaggistica. Per la concessione di eventuali deroghe ai divieti previsti (danneggiamento, abbattimento, espianto e commercio degli ulivi monumentali inseriti nell’elenco), un ruolo centrale è svolto dalla Commissione tecnica che è chiamata a esprimere parere vincolante. Al Corpo forestale dello Stato sono demandate le funzioni di controllo e di sorveglianza. Gli ultimi mesi dello scorso anno sono stati caratterizzati da una ripresa del dibattito, alimentato dalla proposta (avanzata il 30 ottobre 2011) di un emendamento alla legge 14/07 (di cui si rendevano rese necessarie alcune modifiche), inteso a decentrare a livello comunale le competenze autorizzative all’abbattimento e/o spostamento degli alberi secolari e a snellire le procedure di rilascio. Il movimento di opposizione alla prospettiva di un possibile depotenziamento della legge è apparso subito molto forte, fondandosi sul sostegno di numerose associazioni. La stampa locale l’ha qualificato con l’espressione “ondata di sdegno”. E su quest’onda si sono concretizzate iniziative che erano per così dire nell’aria. Quasi in risposta allo “scempio annunciato” i sindaci dei comuni di Ostuni, Fasano e Carovigno hanno deciso di presentare all’UNESCO la richiesta di inserimento degli ulivi monumentali pugliesi

2) Un’accorata denuncia è contenuta in La Gazzetta del Mezzogiorno del 31 agosto 2003: “Per spiantare basta presentare un modulo e qualche certificato”.

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nella Lista del patrimonio mondiale, firmando ad Ostuni – il 15 ottobre – un accordo per la presentazione della candidatura3. Non tanto le modifiche alla legge, quanto il movimento d’opinione creatosi risulta essere l’evento di maggiore rilievo. Le modifiche alla legge in realtà si sono rese necessarie per i ritardi nella redazione degli elenchi definitivi degli ulivi monumentali da tutelare e dallo scadere dei termini di validità dei divieti posti in essere per il periodo transitorio. Dopo l’approvazione degli elenchi definitivi, infatti, gli ulivi e uliveti monumentali saranno assoggettati a vincoli paesaggistici, che dovranno essere individuati negli strumenti urbanistici comunali. Con legge urgente, della fine del 2011 (L.R. 12 dicembre 2011, n. 36), la Regione Puglia è intervenuta apportando limitate modifiche alla legge vigente. Esse riguardano, in particolare: - la composizione della Commissione tecnica per la tutela degli alberi monumentali nelle modalità seguenti: eliminazione dei Dipartimenti di appartenenza (in corso di ridefinizione) per i rappresentanti delle Università di Bari e di Foggia; inserimento nella Commissione di un rappresentante dell’Amministrazione comunale sul cui territorio ricade l’intervento proposto. A ciò si aggiunge l’inserimento di un termine perentorio di 90 giorni, dalla data di presentazione della domanda di abbattimento e/o spostamento di alberi monumentali, per l’espressione del parere vincolante e obbligatorio da parte della Commissione; - l’eliminazione del limite massimo di vigenza del regime transitorio (presente nell’art. 5); - la precisazione che le opere di miglioramento fondiario nei terreni con notevole presenza di ulivi monumentali inseriti nell’elenco, devono essere eseguite senza arrecare danno alle piante già esistenti. Nel lasso di tempo di un decennio si è avviato ed è arrivato a compimento il processo di patrimonializzazione dell’ulivo pugliese e del suo paesaggio.

La trasformazione in patrimonio degli ulivi monumentali pugliesi e del loro paesaggio Gli ulivi monumentali costituiscono un esempio capace di illustrare con chiarezza come si costituiscono dei nuovi oggetti patrimoniali. È stato ricostruito il contesto in cui essi sono stati progressivamente “caricati” di valori che non derivano principalmente dalla loro capacità produttiva, quanto piuttosto dal riconoscimento che essi rappresentano un’eredità condivisa, dei marcatori territoriali, degli elementi storici divenuti il “simbolo” di una terra. Secondo le parole della legge regionale un patrimonio da tutelare per i “peculiari aspetti storici, rurali, sociali, ambientali e paesaggistici” che lo caratterizzano. A ben guardare vi si potrebbero riconoscere alcuni dei valori fondanti dei monumenti storici: il valore di vetustà e il valore estetico. È interessante guardare da vicino alle modalità con cui gli ulivi monumentali sono entrati nella catena patrimoniale. È facile constatare come il loro ingresso sia avvenuto attraverso il “lavoro dell’emozione”. Lo rivela il movimento d’opinione, “l’ondata di sdegno”, innescata dalla denuncia fatta da vari organi di stampa sostenuti dai “militanti”: in generale pochi individui, che agiscono singolarmente o in associazione, fortemente motivati e capaci di lanciare, animare sostenere il consenso attorno ad una causa. I militanti contano sulla “sensibilizzazione” della 3) L’iniziativa si colloca in un contesto di particolare sensibilità al tema della tutela del paesaggio olivicolo, non solo della Puglia, ma più in generale dell’intero Mediterraneo, ad un anno di distanza dal riconoscimento UNESCO della dieta mediterranea quale elemento rappresentativo del patrimonio immateriale dell’umanità.

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cittadinanza nei confronti dei valori patrimoniali (una sensibilizzazione che coinvolge ormai vari strati di popolazione) e che non si esprime più necessariamente attraverso proteste popolari, ma con raccolta di firme (“Anche lo scrittore cileno Luis Sepulveda ha firmato per la campagna sulla tutela dei nostri olivi secolari” recita la Gazzetta del Mezzogiorno del 31 agosto 2003) e con i mezzi della democrazia informatica (come le testimonianze via e-mail giunte ai giornali). S’impongono tuttavia alcune osservazioni. L’ingresso nella “catena patrimoniale” può rappresentare, in varia misura, un attentato alla proprietà privata di un bene, in quanto il bene – pur non divenendo pubblico – viene quanto meno sottratto alla piena disponibilità del suo proprietario. La trasformazione in patrimonio di un bene, infatti, fa sì che esso non appartenga più solamente al suo proprietario “giuridico”, ma anche alla Nazione nel suo complesso o perfino all’umanità intera. È quindi necessario, per equità, pensare a un bilanciamento tra “costi e benefici” per i proprietari, a riequilibrare gli svantaggi, quali la perdita di “sovranità” sul proprio bene, e i vantaggi sia di carattere immateriale (prestigio), sia di carattere materiale (sovvenzioni, vantaggi fiscali…). E non solo per motivi di equità, ma anche per evitare conflitti di proprietà che genererebbero inefficacia della tutela fino a ingenerare comportamenti radicali che alla distruzione del bene. Un secondo aspetto, su cui è necessario richiamare l’attenzione, è che il patrimonio verde non può essere assimilato ai monumenti storici. Gli alberi sono materia vivente, e non solo, i loro valori estetici (in primis i loro valori sensoriali) posseggono un intrinseco carattere effimero, variano con il tempo. Alla nozione stretta di “preservazione” applicabile al patrimonio tradizionale è necessario che vengano sostituite nozioni “più dinamiche” quali la nozione di “conservazione”, in quanto non si tratta di cristallizzare il passato, come in un museo, ma di gestire la naturale evoluzione degli ecosistemi, mantenendone i caratteri originali, distintivi. La sfida da affrontare è quella di mantenere in “buono stato” ulivi e uliveti ai quali sia stato riconosciuto la qualifica di patrimonio: una strada, in larga misura, ancora da percorrere (cfr. Progetto dell’Assoc. Libera terra e Istituto Agrario Pantanelli). Si impone, inoltre, una riflessione sulla nozione stessa di patrimonio. La nozione di patrimonio non è invariante, al contrario essa ha subito, negli ultimi decenni, progressive variazioni. Le sue trasformazioni hanno riguardato, in primo luogo, un ampliamento di significato che dai beni storico-artistici, impostisi all’attenzione dopo le distruzioni verificatesi nel corso della seconda guerra mondiale, si è dilatato in direzione della “natura”, dapprima la natura “straordinaria” che include parchi e giardini storici o peculiari fenomeni geologici o naturalistici, poi la natura “ordinaria” che comprende gli spazi aperti, le aree parco, gli ecosistemi naturali. Alla prima articolazione fra “patrimonio culturale” e “patrimonio naturale” (divenuta evidente, negli anni Settanta, con la Convenzione internazionale dell’UNESCO), si sono aggiunte ulteriori differenziazioni tipologiche, espresse attraverso il moltiplicarsi degli aggettivi qualificativi utilizzati, che hanno segnato la nascita di un patrimonio verde, di un patrimonio etnologico... aprendo la strada alla costituzione in patrimonio anche di beni immateriali (operazione non scevra da problemi giuridici per quanto riguarda l’individuazione dell’oggetto di tutela). Per molti aspetti si è assistito a una sorta d’inflazione della nozione di patrimonio.

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L’internazionalizzazione del patrimonio. Il riconoscimento della Dieta Mediterranea come elemento del patrimonio immateriale dell’umanità In tema di patrimonio sono presenti, a livello internazionale, due Convenzioni UNESCO e la Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa. Quest’ultima, nota anche come Convenzione di Firenze (2000), guarda al paesaggio come al quadro di vita della popolazione, facendo spazio ad una concezione ampia di “paesaggio”. “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” . Non sono, quindi, i “paesaggi straordinari” ad essere al centro della Convenzione del CoE, che mira piuttosto a garantire qualità paesaggistica all’intero territorio4, una qualità che è considerata capace di contribuire al benessere della popolazione. Diverso è il caso delle due Convenzioni UNESCO relative, rispettivamente, al patrimonio materiale e al patrimonio immateriale. La prima, adottata dalla Conferenza generale dell’UNESCO il 16 novembre 1972, “Convenzione riguardante la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale” ha lo scopo d’indentificare e tenere aggiornato l’elenco dei siti (WHL) che costituiscono “patrimonio dell’umanità”, per i loro caratteri di universalità ed eccezionalità. Ai beni “immateriali” è, invece, dedicata la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” approvata a Parigi dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 17 ottobre 2003 ed entrata in vigore il 20 aprile 2006 dopo le necessarie ratifiche5. Essa rappresenta un importante completamento al corpus normativo sviluppato dall’UNESCO nel 1972 per la protezione del patrimonio culturale mondiale6. Più in particolare la Convenzione si propone di salvaguardare cinque ambiti dell’attività umana: - tradizioni ed espressioni orali, compresa la lingua come veicolo del patrimonio culturale intangibile; - arti dello spettacolo; - pratiche sociali, rituali e eventi festivi; - conoscenze e le pratiche concernenti la natura e l’universo; - artigianato tradizionale (Cfr. art.2, § 2). Su istanza della Spagna, della Grecia, dell’Italia e del Marocco il Comitato intergovernativo dell’ UNESCO, ha valutato che la Dieta mediterranea risponde ai requisiti7 per l’iscrizione nella Lista rappresentativa del patrimonio 4) Al riguardo l’art. 2 introduce un’importante precisazione: “… la presente Convenzione si applica a tutto il territorio… e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani… Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati”. 5) L’entrata in vigore è avvenuta, come previsto, tre mesi dopo la ratifica da parte di trenta Stati. Si noti come la maggiore sensibilità nei confronti del patrimonio immateriale sembri essere appannaggio di alcuni Stati asiatici che risultano dotati di una legislazione che tutela e valorizza il patrimonio culturale immateriale. Tra di essi sono da menzionare il Giappone (1950), la Corea (1974), la Thailandia (1985), le Filippine (1973), la Mongolia (1999), il Vietnam (2001). Paradossalmente l’Europa, che rischia di veder sparire le proprie espressioni culturali sotto la spinta dei processi di standardizzazione in corso, vede presenti sistemi di tutela legislativa per il patrimonio immateriale solo in tre paesi scandinavi (Finlandia, Svezia e Norvegia). 6) Nell’art. 2 viene fornita la seguente definizione di Patrimonio culturale immateriale: “Si intendono per “patrimonio culturale immateriale” pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale. Tale patrimonio culturale intangibile, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. 7) I criteri invocati per il riconoscimento sono i seguenti: 1. La dieta mediterranea è un insieme di pratiche tradizionali, conoscenze e competenze trasmesse di generazione in generazione, che creano un sentimento di appartenenza e di continuità

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culturale immateriale dell’umanità, e ne ha deciso l’inserimento in occasione della V sessione svoltasi a Nairobi (Kenia) fra il 15 e il 19 novembre 20108. È interessante riprendere la descrizione fornita nel disposto della decisione (Décision 5.COM 6.41) in quanto illustra bene l’ampiezza di significato sotteso all’espressione Dieta mediterranea: non solo il cibo, ma tutto quanto sta dietro al cibo “un insieme di abilità, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla tavola, ivi comprese le colture, la raccolta o la mietitura, la pesca, la conservazione, la trasformazione, la preparazione e, in particolare, il consumo degli alimenti. La dieta mediterranea è caratterizzata da un modello nutrizionale che è rimasto costante nel tempo e nello spazio e di cui i principali ingredienti sono l’olio d’oliva, i cereali, la frutta e la verdura fresca o secca, una proporzione limitata di pesce, derivati del latte e carne, e numerosi condimenti e spezie, il tutto accompagnata da vino o infusioni, sempre nel rispetto delle credenze di ciascuna comunità”. E non è ancora tutto. L’espressione Dieta mediterranea va ben al di là del nutrimento, anche nella sua accezione più ampia, in quanto implica un “modo di vita”. 9“Essa favorisce i contatti sociali, i pasti collettivi, essendo la chiave di volta dei costumi sociali e degli avvenimenti festivi. Dà luogo a un formidabile corpus di saperi, canti, massime, storie e leggende. Si radica nel rispetto del territorio e della biodiversità, e assicura la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dell’artigianato legato alla pesca e all’agricoltura nelle comunità mediterranee di cui Soria in Spagna, Koroni in Grecia, Cilento in Italia e Chefchaouen in Marocco rappresentano degli esempi. Le donne giocano un ruolo particolarmente vitale nella trasmissione delle capacità, nella conoscenza dei rituali, della gestualità e delle celebrazioni tradizionali e infine nella salvaguardia delle tecniche.” La Dieta mediterranea è stata inclusa negli inventari del patrimonio immateriale dei quattro Stati interessati, mentre è in attesa di essere iscritta in una lista trasnazionale in corso di costituzione. La Dieta mediterranea costituisce il terzo elemento italiano che entra nella lista, dopo l’Opera dei Pupi siciliana e il Canto a tenore sardo. Si noti come le decisioni d’immissione nella lista – nella sessione di Nairobi – vedano, a fianco del riconoscimento per la Dieta mediterranea, anche un analogo riconoscimento per la cucina francese e per quella messicana. Già all’indomani del riconoscimento UNESCO si è assistito al fiorire di una varietà d’iniziative. In primo luogo in Puglia, ove va segnalata la nascita (il 30 novembre 2010 presso la sede della Provincia di Brindisi) della Fondazione Dieta Mediterranea Onlus, per la quale è stata scelta come sede il comune di Ostuni, fondazione che beneficia di un ampio supporto di associazioni, d’imprenditori privati oltre che della partecipazione di pubbliche amministrazioni10. Gli obiettivi sono la valorizzazione dei prodotti del territorio, la prevenzione delle malattie (cardiovascolari alle comunità interessate; 2. La sua iscrizione nella Lista rappresentativa potrebbe dare maggiore visibilità alla diversità del patrimonio culturale immateriale e favorire il dialogo interculturale ai livelli regionale e interregionale; 3. La candidatura descrive una serie di sforzi di salvaguardia intrapresi in ciascun paese, con un piano di misure transnazionali volte ad assicurare la trasmissione alle giovani generazioni e a promuovere la sensibilizzazione alla dieta mediterranea; 4. La candidatura è il frutto di una stretta collaborazione delle istituzioni ufficiali nei quattro Stati, sostenuta dalla partecipazione attiva delle comunità ed essa comprende degli elementi di prova del libero consenso, preliminare e chiaro di queste ultime; 5. La dieta mediterranea è stata inclusa negli inventari del patrimonio culturale immateriale nei quattro Stati interessati e sarà inclusa in un inventario transazionale del Mediterraneo in corso di elaborazione (ns. trad. Décision 5.COM 6.41) 8) Il percorso per ottenere tale riconoscimento, iniziato nel 2007, aveva ripreso vigore nel 2009 con la presentazione nel mese di maggio della candidatura. Ha goduto fin dall’inizio dell’incondizionato sostegno di Angelo Vassallo, sindaco di Mollica nel Cilento (ucciso in un agguato il 5 settembre del 2010) al quale la delegazione italiana ha dedicato l’importante riconoscimento. 9) Cfr. www.Unesco.org (ns. trad.). 10) Si sono subito manifestate controversie sulla scelta della sede della Fondazione, per la quale il comune di Ceglie Messapica, sede di un Istituto Alberghiero e noto per la ricchezza della sua struttura di ristorazione, aveva vantato dei diritti di primazia. La controversia ha determinato la mancata adesione del Comune. Figurano tra i comuni fondatori quelli di Ostuni e Mesagne, mentre altri comuni limitrofi stanno aderendo all’iniziativa. L’atteso coinvolgimento del territorio stenta però a manifestarsi.

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e oncologiche associate all’alimentazione), la ricerca sulle componenti della dieta, la promozione di un nuovo modello di marketing ispirato allo “stile di vita mediterraneo” e basato sulla creazione di un marchio territoriale per le imprese locali i cui prodotti fanno riferimento alla dieta stessa11. Anche la Sicilia si è dotata di una Fondazione della Dieta Mediterranea. Nasce a Palermo con lo scopo di tutelare e far conoscere questo regime alimentare, ponendosi obiettivi ambiziosi: l’organizzazione di una Fiera internazionale (biennale) dedicata alle materie prime che entrano nella dieta mediterranea, la creazione di una banca dati per tutti i prodotti tradizionali, la formazione (con master e corsi appositi) e la sensibilizzazione del più vasto pubblico mediante la pubblicazione di una rivista internazionale sul tema12. Nella Regione Liguria, e precisamente a Imperia (Savona), si è svolto nel 2011 il Forum Dieta mediterranea, organizzato in due sessioni (preparatoria il 6-7 maggio 2011 e conclusiva, in novembre, in coincidenza con il primo anniversario del riconoscimento UNESCO) con l’intento di identificare un “modello” condiviso di alimentazione mediterranea. Nella sessione conclusiva (17 e il 19 novembre 2011) si sono riuniti, oltre agli organismi economici e amministrativi italiani e liguri, rappresentanti della Commissione nazionale per UNESCO e delegati di 15 paesi affacciati sul bacino Mediterraneo per pervenire ad una definizione operativa del concetto di Dieta mediterranea e individuare delle strategie condivise di promozione e valorizzazione di un marchio UNESCO che sia esteso a “coprire” tutti i prodotti della dieta stessa. L’Associazione nazionale Città dell’Olio e la neo-nata Rete delle città dell’olio mediterranee (Recomed) hanno presentato una mozione condivisa per proporre l’inserimento del Paesaggio Olivicolo Mediterraneo tra i siti del patrimonio mondiale, secondo la Convenzione UNESCO del 1972, quale potenziamento del riconoscimento già ottenuto dalla Dieta mediterranea: “… non si tratta semplicemente di un paesaggio inteso in senso geografico – ha precisato il presidente dell’associazione – bensì di un repertorio da salvaguardare di cultura, di storia e di tradizione millenaria che accumuna tutto il Mediterraneo13”. L’olio di oliva riceve una duplice “sacralizzazione” per il concentrarsi su di esso di due differenti sguardi: il primo che lo vede come uno dei componenti centrali della Dieta Mediterranea e il principale condimento, il secondo che lo vede come il prodotto di un paesaggio identificativo del mondo mediterraneo. Il paesaggio degli ulivi, riconosciuto come patrimonio regionale, si appresta a un salto di scala appellandosi a un riconoscimento internazionale per diventare un patrimonio dell’umanità.

Il patrimonio rurale come fattore di sviluppo locale Il tema del patrimonio del mondo rurale è tornato in primo piano con l’adozione della Carta pan-europea per il patrimonio rurale: promuovere lo sviluppo spaziale sostenibile, avvenuta a Mosca l’8-9 luglio 2010, in occasione della 15° sessione della Conferenza della CEMAT14. La Carta ha come oggetto “Il patrimonio rurale come un fattore 11) Una presentazione è stata fatta a Milano in occasione del Convegno “La dieta mediterranea non è una dieta” (18 gennaio 2012), in cui il segretario della Fondazione (dott. Agostino Grassi) ha sintetizzato il messaggio dell’incontro nel modo seguente: “La dieta mediterranea non è una dieta perché è molto di più. È la cultura delle genti del Mediterraneo, fatta di tradizioni e stili di vita. Solo in questo modo una dieta diventa sostenibile, perché non delega altri a pensare a me. E la scienza è d’accordo: se vivo come vivevano i mediterranei e mangio anche come loro vivo meglio e più a lungo”. Cfr. Corriere della Sera, 16 gennaio 2012. Si veda anche S. G. Sukkar, “Mediterrranean diet? No, thanks: mediterranean lifestyle!”, Mediterr.J.Metab, 4, 2011, pp.79-81. 12) Data articolo 30-4-2011. 13) Cfr: www.rivistasitiUnesco.it. 14) CEMAT è la Conferenza Ministeriale permanente dei Ministri responsabili della pianificazione territoriale.

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di coesione territoriale” ed il presupposto da cui muove la risoluzione adottata dalla CEMAT è che “il patrimonio rurale è un bene effettivo ed una risorsa per i territori, un fattore ed una driving force nello sviluppo sostenibile del continente europeo, e gioca un ruolo decisivo nel rendere più attrattive le aree rurali e nel creare un equilibrio tra città e campagna”. Partendo da questo presupposto la Carta sottolinea come qualsiasi territorio rurale, anche il più svantaggiato, possegga un patrimonio materiale o immateriale che contribuisce alla qualità della vita dei suoi abitanti, alla qualità del paesaggio e alla sua capacità attrattiva, un patrimonio che, peraltro, è particolarmente vulnerabile a causa del complesso delle trasformazioni sociali ed economiche in atto. In questa luce indica le linee di azione da intraprendere. 1- In primo luogo la conoscenza e il riconoscimento del patrimonio (in quanto i suoi valori non sono sempre di immediata evidenza), che si fonda su un processo di crescente consapevolezza, come dire di “formazione al patrimonio”. Tale processo potrebbe avvalersi della redazione di Guide nazionali o regionali compilate sulla base della Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale-CEMAT, un documento portato all’attenzione dei Ministri responsabili della pianificazione del territorio, in occasione della Conferenza di Lubiana del 16-17 settembre del 2003, che ritorna ad essere di bruciante attualità. Il documento offre una traduzione operativa dei “Principi direttori per uno sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo”15 adattandoli al territorio rurale. In forma chiara e con una semplice articolazione essa fornisce un’introduzione a ciò che costituisce il patrimonio rurale (patrimonio che comprende il paesaggio) e strumenti metodologici e tecnici per conoscerlo e valorizzarlo16. 2- In secondo luogo la ricerca di un utilizzo idoneo del patrimonio che, a meno di essere sottoposto a un trattamento di carattere museale, è destinato ad evolvere. Diventa allora necessario un progetto entro cui inquadrare la nuova vita da restituire al patrimonio stesso. 3- In terzo luogo sviluppare le potenzialità del patrimonio per dare slancio allo sviluppo culturale ed economico. È allora necessario un duplice approccio, da una parte trovare un equilibrio tra i metodi tradizionali di produzione, alla piccola scale e metodi innovativi, dall’altra spingere ad un uso pratico dei prodotti di natura culturale, locale, artigianale, turistica. Al riguardo vi sono iniziative legislative sul fronte dei marchi territoriali per i prodotti enogastronomici che potrebbero essere estese. 4- La quarta linea d’azione spinge a collocare il patrimonio al centro delle dinamiche territoriali, in una visione che assegna un ruolo significativo all’emergente “economia del patrimonio”, un’economia che richiede professionalità e coinvolgimento degli stakeholders e delle comunità interessate. 5- L’ultima linea guida suggerita riguarda le occupazioni e le professioni a sostegno dell’“economia del patrimonio”. È noto come l’interessamento al patrimonio locale, nella forma sia della conservazione che della valorizzazione, parta molto spesso dalle associazioni, che agiscono attraverso “volontari”. Pur riconoscendone il ruolo chiave, appare indispensabile, per il pieno successo delle iniziative, il coinvolgimento nei progetti e nella loro gestione di 15) I Principi direttori per uno sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo sono stati adottati in occasione della Conferenza della CEMAT di Hannover del 2000 e sono stati presentati dal CoE, come proprio contributo, al programma delle Nazioni Unite “Azione 21” al Summit mondiale dell’ONU di Joannesburg nel 2002. 16) Più in particolare la Guida suggerisce di realizzare un lavoro di censimento delle componenti naturali, culturali e paesaggistiche delle aree rurali e di progettare possibili azioni di valorizzazione, arrivando a toccare le modalità con cui realizzarle e gestirle.

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persone aventi una specifica preparazione, il coinvolgimento di “esperti”. Nasce quindi un’esigenza di formazione di figure professionali adeguate, che richiede di partire da operazioni elementari quali l’individuazione delle singole attività da svolgere, delle competenze che esse richiedono, delle istituzioni che possono fornirle, dei finanziamenti che possono essere utilizzati. Emerge il ruolo cruciale delle comunità locali, ma anche quello che le istituzioni preposte alla formazione (e le Università dovrebbero essere capofila) potrebbero giocare.

Paesaggio e prodotti enogastronomici come componenti del patrimonio rurale La Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale17, prima ricordata, delinea una visione globale e operativa di patrimonio rurale, come “... l’insieme degli elementi materiali o immateriali che testimoniano le particolari relazioni che una comunità umana ha instaurato nel corso della sua storia con un territorio”. Vari aspetti di tale definizione appaiono di particolare interesse ai fini delle tematiche in discussione. Uno dei profili più rilevanti e attuali è rappresentato dalla compresenza, in questa idea di patrimonio, sia di elementi materiali che immateriali. Tra i primi vengono elencati: il paesaggio, i beni immobili (dimore rurali e costruzioni destinate ad usi artigianali, industriali, residenziali…), beni mobili (oggetti d’uso quotidiano, festivo, religiosi…), prodotti (la varietà di specie vegetali, animali, prodotti trasformati dall’uomo…). Tra i secondi vengono indicati: i saperi e le tecniche che sono alla base della costruzione dei paesaggi, delle architetture, dei manufatti, le parlate locali; le musiche, la letteratura orale oltre a forme particolari di socialità (feste, sagre...). A ben vedere viene suggerito un complesso insieme di elementi che sono in grado di riassumere tutto quanto potrebbe essere valorizzato attraverso la Dieta Mediterranea. Il connubio tra elementi materiali e immateriali si presta bene a sintetizzare tutto quanto di nuovo sta dietro le produzioni eno-gastronomiche locali. Paesaggio e alimentazione, nella sua accezione più ampia che comprende sia i prodotti regionali e del terroir, sia le abitudini alimentari tornano oggi a rappresentare, dopo lunghi periodi di noncuranza nei confronti degli aspetti percettivi dell’ambiente e l’infatuazione per i cibi standardizzati, un campo di ricerca e di intervento fecondo a fronte dell’omologazione dei luoghi, l’uniformarsi dei cibi di larga produzione e il diffondersi degli world food.

17) La Guida, che è stata presentata ai Ministri responsabili della pianificazione del territorio in occasione della 13° Sessione della CEMAT (Lubiana, 16-17 settembre 2003) mette in atto le disposizioni contenute nella Raccomandazione (Rec (2002) I) del Comitato dei Ministri sui Principi direttori per lo sviluppo sostenibile del territorio del continente europeo. Essa definisce una serie di orientamenti in materia di gestione del patrimonio rurale e, in modo correlato, di gestione del territorio che contribuiscono a definire uno sviluppo autonomo delle aree rurali, viste nelle loro molteplici sfaccettature, quali spazi di vita per la popolazione che vi risiede e luogo di sviluppo di attività economiche, come spazi naturali e di fruizione del tempo libero per i cittadini. Si veda Zerbi M.C. (a cura di), 2007, op. cit.

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Ph Francesca Brambilla e Serena Serrani

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olioofficina / ricetteoliocentriche

Il pesce e l’olio, due mondi aperti a una relazione perfetta di Viviana Varese - Chef

“Alice”

Risotto con estratto di peperone rosso arrostito, salsa di prezzemolo, salsa di acciuga, burrata, alice, capperi e olive Preparazione Arrostite su una graticola o su una piastra di ghisa i peperoni interi, poi metteteli in una ciotola e copriteli con la pellicola per mezz’ora. Pelate e pulite dai semi. Centrifugate i peperoni ripetendo l’operazione almeno tre volte per estrarre tutto il succo. Filtrate con un panno e conservate in frigorifero. Pulite le alici dalle teste e dalle interiora, eliminate la spina e la coda, lavatele abbondantemente sotto l’acqua fresca. Asciugatele, mettetele su una teglia forata e cospargetele con la marinata a secco ottenuta mescolando tutti gli ingredienti. Lasciate marinare almeno per un’ora. Risciacquatele abbondantemente eliminando completamente il sale, asciugatele e conservatele sott’olio. Dissalate i capperi e tagliateli a tartare. Preparate una tartare anche con le olive e con la burrata. Mettete in una pentola 10 grammi di olio extra vergine di oliva e tostate il riso aggiungendo un pizzico di sale. Una volta tostato sfumate con il brodo vegetale. Cuocete per 8 minuti e poi continuate la cottura aggiungendo l’estratto di peperone e l’amido di riso. Portate a cottura il risotto aggiustando di sale. Aggiungete in finale del prezzemolo riccio tritato.

Ingredienti per quattro persone Per l’estratto di peperone 4 peperoni rossi Per le alici 300 g alici Per la marinata a secco 500 g sale fino 650 g zucchero di canna 10 g pepe nero macinato Altri ingredienti 280 g riso Carnaroli 500 brodo vegetale 70 g burrata 20 g olive nere denocciolate sott’olio 10 g capperi piccoli sotto sale 40 g amido di riso 10 g olio extra vergine di oliva Salsa di prezzemolo qb Salsa d’acciughe qb Prezzemolo riccio qb Sale qb

Finitura Disponete nel piatto il risotto con l’aiuto di un coppapasta. Aggiungete i condimenti: le tartare di capperi, olive e burrata e le alici. Ultimate con la salsa di prezzemolo e quella di acciughe. 73

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L’O riginale filo che

ci lega. Un filo ricco d’amore e di gusto che ha visto crescere generazioni e continuerà a veder crescere tutti i loro figli.

Leggi con attenzione l’etichetta e verifica sempre la provenienza dell’olio che consumi. Garantisci il meglio a te e la tua famiglia.

100% olive italiane

150° anniversario Unità d’Italia

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olioofficina / amarcord

La mia non ricetta di Davide Zunino

Chef

In tutta confidenza, non amo pubblicare ricette e renderle accessibili a chiunque, a chi vuole presumere di sapere di alta cucina e tecniche moderne senza conoscere e valorizzare l’olio con la necessaria sensibilità che tale materia prima merita e richiede. È un rischio che non voglio correrre, perché si potrebbe rimanere delusi dal risultato, dal momento che le ricette, secondo la mia visione, servono per utilizzare al meglio l’olio e a risaltarne di conseguenza le qualità organolettiche. A tutti i miei collaboratori e alunni, dono le mie ricette spontaneamente, per compensarli del lavoro svolto. Lo faccio, tuttavia, dopo aver preso atto che le custodiscano con il dovuto rispetto e la dovuta morale, valorizzando l’impegno di chi come me ha studiato con il cuore e l’esperienza. Ogni ricetta è frutto, per me, di anni di lavoro e di un nuovo modo di introdurre l’olio nelle degustazioni d’avanguardia e nella cucina mondiale. Il mio legame con l’olio è radicato nell’infanzia. Da bambino raccoglievo con mio padre e mio fratello le 350 piante di olivi secolari presenti intorno alla nostra casa a Taggia. Si lavorava tutto il giorno e si ci fermava solo per un panino. L’esperienza di mio padre diceva che il pomeriggio non sarebbe stato produttivo, mangiando troppo. Si rideva, si stava insieme, e venivano alla mente vecchi ricordi, passeggiate, pic nic, senza mai smettere di disporre le reti sotto gli alberi e procedere con l’olivagione. Al calar della sera, si passavano le olive “alla chitarra”, dopo averle portate sulla schiena scendendo per le nostre campagne intrecciate da muri a secco. Più si era stanchi, più si rideva, sino a che non caricavamo tutte le ceste colme di olive su un’ape car 50 della Piaggio, in viaggio verso il frantoio. Io e mio fratello scommettevamo su chi avesse accompagnato mio padre, dato che c’erano solo due posti disponibili. L’altro, ci sarebbe andato comunque il giorno successivo.

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In frantoio l’unico pensiero era sperare che le olive rendessero in olio più dell’anno prima. Si parlava di quarte, sacchi, chili, acidità. Non capivo molto, ma con i miei scarponi sporchi di fango e le mani nere mi sentivo orgoglioso del mio lavoro. Mi ero abituato a quel forte odore di frantoio che si sprigionava nel corso della spremitura. Così abituato da sentirmelo addosso come fosse un odore familiare, di appartenenza. La prima volta, mio padre al ritorno dal frantoio mi dette un pezzo di pane inzuppato nel nostro olio, dicendomi: “Non ti dico una cazzata, perché l’abbiamo fatto noi, ma questo è l’olio più buono al mondo”. Pensavo esagerasse, e gli ho sorriso. Ho scoperto solo dopo quindici anni dietro ai fornelli, in giro per l’Europa, che aveva ragione! L’olio è un ingrediente straordinario. L’averlo scoperto con la piena convinzione e consapevolezza di oggi, è per me la diretta conseguenza di una serie di circostanze tra loro correlate: essere ligure, nascere in mezzo agli ulivi, fare l’olio, avere un padre come il mio, diventare chef, conoscere Franco Roi, e essere, non ultimo, un romantico.

Probabilmente se fossi nato a Parma, e sempre se fossi stato chef, avrei ripercorso le tappe di Ruliano con il suo prosciutto. Questo, per dire che non posso spiegare che cos’è l’olio extra vergine di oliva. Anche perché, per comprenderlo, occorre viverlo nella sua totalità. Sforzandomi, potrei in qualche modo provarci, anche in ragione del fatto che oggi, in fondo, tutti ne conoscono un po’ pregi e qualità gastronomiche e salutari, e per fortuna anche i bambini vi si accostano con curiosità. Perciò, sono sincero quando vi dico che non posso e non voglio descrivere l’olio, o convincervi di quanto sia un alimento straordinario. L’olio va semplicemente provato! Sono sicuro che questo sia il miglior consiglio di chef che io possa dare: sperimentare in prima persona, con il massimo rispetto per la materia prima.

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oliofficina / ricettaoliocentrica

Un condimento duttile e plasmabile di Giuseppe Capano

Maestro di cucina

Ravioli ripieni di asparagi solidi all’olio d’oliva con condimento alle erbe e pomodori Tempi di preparazione: 35’ Tempi di cottura: 20’ Difficoltà: media Senza latticini

soio squadrato in modo da mantenere uno spessore di circa un centimetro e lasciare raffreddare in frigorifero fino a consolidamento. Sbucciare l’aglio, pulire salvia e rosmarino e sfogliarli, tritarli finemente insieme all’aglio, rosolarli delicatamente a fuoco molto basso per pochi minuti insieme a tre cucchiai abbondanti di olio, spegnere, lasciare raffreddare e aggiungere i pomodorini puliti tagliati in dadini molto piccoli eliminando prima i semi.

Ingredienti per 4 persone 120 g di farina bianca 100 g farina di semola di grano duro 2 uova 300 g di asparagi freschi 1 cucchiaino circa di agaragar in polvere 1 spicchio d’aglio 1 rametto di salvia e rosmarino freschi 12 pomodorini a ciliegia Olio extra vergine di oliva Sale Preparazione Impastare le due farine disposte a fontana con un pizzico di sale, le uova e l’acqua tiepida necessaria a formare un composto sodo e omogeneo da lasciare riposare per almeno 30 minuti coperto da un panno umido. Mondare gli asparagi dalla parte finale dura, lavarli con cura e cuocerli a vapore per 10 minuti circa, frullarli con un poco della loro acqua di cottura fino a ottenere una crema da mettere in una piccola casseruola. Aggiungere l’agaragar e portare a ebollizione la crema cuocendola a fuoco basso per 3-4 minuti, spegnere e versare due cucchiai di olio, mettere in un piccolo vas-

Tagliare la crema di asparagi solida in cubetti, stendere la pasta fresca in sfoglie rettangolari sottili, porre a distanza regolare i cubetti solidi di asparagi, ricoprire con l’altra metà e aiutandosi con un tagliapasta rigato formare dei ravioli quadrati eliminando bene l’aria che naturalmente tendono trattenere. Lessarli subito per 3, 4 minuti in abbondante acqua bollente salata, adagiarli nei piatti, condirli con l’olio aromatico e decorarli a piacere.

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olioofficina / artedamangiare

Tributo all’olio Giuliana Bellini

Scivola, scivola e scappa via Serena Rossi

Nascono entrambe da frutti schiacciati di esseri sofferenti Franco Vertovez

BLU del mare ROSSO pigmento GIALLO dell’Olio antico alimento Carmen Boccu

Se Tu non oliare, non entrare Giosuina Pria Con l’OLIO di gomito si mettono gli alimenti sott’OLIO. A macchia d’OLIO si diffondono le essenze OLEOSE, resinose e profumate. Sul mare liscio come l’OLIO corrono le idee creative che si realizzano se non si getta l’OLIO sul fuoco. Con l’OLIO solare si ottengono le migliori abbronzature, e con l’OLIO Santo il Paradiso

Stefano Soddu

L’arte è il miglior condimento per l’intelletto, così come l’olio per il cibo 78

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Daniela Rancati ... solo due gocce per un’overture al piacere... Sergio Sansevrino

Si è fatto olio! Topylabrys

OLIO: materia d’Arte per l’Arte Paola Zan e Claudio Gasparini 1. SPREMIAMO L’ARTE! 2. CON-DIRE CON L’ARTE! 3. CON-DIAMO CON L’ARTE! sono frasi altamente esortative che noi intendiamo usare anche a ricaduta, ossia sperando che possano generare altre intuizioni

Elisabetta Oneto

“OLIO”...

Miscela magica che dona lucentezza e luminosità alle mille tonalità dei colori della pittura... Permettendo alla mano degli Artisti di scivolare abilmente sulla tela!

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olioofďŹ cina / arte

La donna olivo secondo Angelo Ruta

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olioofďŹ cina / inedito

LA SIRENA il burro proveniva dalla mucca che muggiva, sembrava una sirena. era il tempo di margherite e viole e l’olio nel versarlo era di luce, si dice lo spremessero dal sole.

Guido Oldani

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- Daniela Marcheschi, scrittrice e antropologa: “L’olio d’oliva è l’umore della terra, il segno del suo essere con noi come qualcosa su cui vigilare e da amare, vita di cui siamo parte” - Nicola Dal Falco, scrittore: “L’olio che nel tondo succoso dell’oliva ha sapore di femmina, appena molato, assume arie da filosofo. È certo curiosa questa doppia natura mediterranea, matronale e dialettica, ancestrale e peripatetica” - Alfonso Pascale, studioso di agricoltura: “L’olio d’oliva è un alimento che crea legami fraterni a tavola, donando tutto quello che possiede ai piatti e alle persone, senza conoscerne preventivamente identità e origine e senza aspettarsi nulla in cambio” Lorenzo Cerretani,oleologo e capo panel: “L’extravergine è la mia‘bussola’. Mi fa capire dove e con chi sono a tavola. Il più delle volte, all’estero, perdo l’orientamento” - Paola Cerana, scrittrice: “L’olio per me è femmina: dolce o piccante, amaro o fruttato, intenso o delicato, è sempre il complice ideale dell’arte culinaria. È l’afrodisiaco per eccellenza: stuzzica l’odore, eccita il sapore e prolunga il piacere d’ogni cibo che si rispetti” - Fausto Delegà, giornalista:”L’olio da olive è uno scrittore i cui testi fanno bella e buona mostra nella mia Biblioteca Vegetale. Libri liquidi che si leggono con la bocca e si assaggiano col cuore” - Massimo Occhinegro, esperto marketing: “Un buon olio extra vergine di oliva è il cuore e il cervello di ogni piatto, anche del più semplice. L’aspetto non conta, ciò che è essenziale è il sapore che riesce a trasmettere al cibo, rendendolo nobile” - Fabio Santoro, compratore Gdo: “Il prodotto più rappresentativo dellʼagricoltura italiana che solo pochi anni fa, in maniera inaspettata, mi ha imbrigliato tra le fitte maglie del suo fascino millenario. Amo lasciarmi sorprendere da questo mondo. Mi rallegra ancor più cogliere ogni volta la meraviglia che lʼolio scatena quando affonda nel cuore e nel palato delle persone” - Enzo Lo Scalzo, studioso di scienza e chimica dei materiali: “L’olio è essenza che profuma nella culla, linfa che si staglia su insalate e galleggia come isole coralline nei brodi, sogno dalle morbide sfumature e dolce energia per pensieri e carne, fuoco di sapori e eterni ricordi, giardino in cui ridiscendere come un Dio” - Monica Sommacampagna, giornalista: “Oggi occorre olio per la mente. A patto che sia extra vergine” - Cinzia Tosini, web writer: “Un filo d’olio d’oliva scende lentamente. Ne vedo i riflessi, ne annuso i profumi, la mente si inebria e viaggia nel tempo, nella Terra, e mi ricorda mio padre, mi da’ pace”

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olioofďŹ cina / arte

Coloroliva

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- Daniela Capogna, tecnologa alimentare: “L’olio da olive è vivo, come l’essere umano. È un’eterna scoperta e ha sempre qualcosa da insegnare. Mai avere l’illusione di averlo conosciuto completamente” - Antonella Bertagnin, progettista di moda: “L’olio d’oliva è rassicurante, un gancio con il passato e la tradizione che ci aiuta a riordinare il caos del quotidiano legando con un sapore genuino i fili della nostra fantasia, almeno in cucina” - Isabella Angrisani, educatrice e comunicatrice del BenEssere: “Per me è quell’elemento essenziale che sin dalla mia infanzia ha dato un sapore e un odore al cibo, superando l’amore che ogni essere umano ha nei confronti del primo nutrimento, il latte materno. C’est le fil vert qui lie mes expériences gourmandes...” - Irene Binaghi, sales manager: “Scorre dorato, sprigiona un aroma sinuoso, scoperchia un corpo rotondo. Si amalgama fino a confondersi, ma si riconosce sempre: l’olio d’oliva. Inevitabile” - Cristina Insaghi, pittrice, insegnante di raja yoga: “L’olio d’oliva è per me quel calore che abbraccia ogni piatto” - Francesco Caricato, olivicoltore e frantoiano: “L’olio per me è una immersione nella gioia e un ritorno alle origini” - Nicoletta Bortolotti, scrittrice: “Una buona storia è come una buona pietanza, il cui olio sono le parole. Se l’olio è scipito, la pietanza non avrà sapore. Se l’olio è aggressivo, lo perderà. Come un buon olio dovrebbe essere una buona parola: limpida, discreta, luminosa, trasparente, capace di esaltare il gusto di una storia senza che quasi ci si accorga di lei” - Irene Arquint, giornalista buongustaia: “È il profumo del pane condito che dopo la merenda aleggiava ancora tra i giochi; le giornate fredde con i guantini di lana ad aiutare la scelta dei frutti dall’uliveto di nonna; le grandi macine e i dischi grondanti. L’olio è, prima che bocca, naso. È condimento, è sapore, è l’inizio di un’avventura chiamata gusto. L’avventura che sto ancora raccontando”

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O LIO P ANTALEO. D I OGNI PIATTO FA UN CAPOLAVORO.

M E Z ZO G I O R N O

I N

TAV O L A

w w w. p a n t a l e o . i t

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olioofficina / emozioni

- Francesco Nacci, chef: “Datemi una boccetta di olio extra vergine di qualità e solleverò il mondo dei sapori” - Giuseppe Capano, chef e scrittore: “L’anima di un fluido dorato che scende ammanta il cibo, l’olio di olive è una magia, celebrarlo nei piatti una poesia” - Ilaria Santomanco, scrittrice: “Fu Atena, dea della sapienza e della saggezza, a donare all’umanità l’olivo, un regalo di inestimabile pregio, da proteggere con pari sapienza e saggezza, valorizzandone il prezioso nettare” - Marcello Scoccia, assaggiatore professionale d’olio: “Dagli anni Ottanta le mie giornate nascono e finiscono assaggiando olio extra vergine di oliva. Eppure ancora oggi, ogni assaggio mi regala sensazioni piacevoli, ogni olio riesce sempre ad affascinarmi e incuriosirmi” - Riccardo Ferrero Leone, medico: “Sapore, profumo, sentimento, amore per la terra, rispetto tra gli uomini: oleum, l’essenza che da’ vita in un continuo divenire” Carlotta Baltini Roversi, blogger: “Un tripudio di sapori” Angelo Marazia, tour operator del gusto: “L’olio d’oliva e il suo albero sono per me continuo richiamo alla mia storia; compagni ricchi di tradizioni, significati e gesti, che mi legano indissolubilmente al passato, al presente e al futuro” - Loretta Forner, cancelliere: “L’olio? Lo associo al benessere che provo dopo averlo spalmato su tutto il corpo sino al completo assorbimento. È la mia rinascita quotidiana” - Antonietta Caricato, insegnante: “L’apoteosi del gusto” - Adele Scirrotta, olivicoltore: “L’olio da olive è l’immagine del risultato dell’immortalità, oltre che essere specchio dell’animo!” - Barbara Ricca, assaggiatrice professionale d’olio: “L’olio di oliva è il mio pane. Mi sostiene da trent’anni. Mi ha conquistato da ragazza accompagnandomi nella crescita professionale e in tutti i traguardi della vita” - Mattia Vaccani, olivicoltore: “Per me l’olio è un succo di olive” - Roberta Maccioni, olivicoltore: “L’incontro con l’olio è avvenuto in un momento importante della mia vita. Mi ha aiutato a prendere per mano il destino e a trasformare la mia esistenza” - Verdiana Gordini, maestra di cucina: “L’olio è quella sublime onda verde che rende prezioso anche il più umile dei piatti” Maria Ciccirillo, olivicoltore e frantoiana: “Un solo aggettivo: sublime” - Luigi Caricato: “L’olio mi rende felice perché mi fa abbandonare ogni riserva, e così mi concedo una libertà che altrove non riesco a immaginare possibile” 88

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Vista, olfatto, gusto di Luigi Caricato

Zyt > monovarietale di Oliva nera di Colletorto, verde dai riflessi dorati, limpido alla vista; al naso ha profumi mediamente intensi, puliti e freschi, vegetali, con netti rimandi al carciofo; finemente sapido, al palato ha morbidezza ed equilibrio nelle note amare e piccanti; mandorla dolce in chiusura < azienda olearia Aloia, Colletorto, Molise

Primer > monovarietale Bosana, giallo oro dai riflessi verdolini, limpido; ha profumi mediamente intensi, freschi e floreali, dalle delicate connotazioni erbacee; al palato è armonico, morbido, di buona fluidità, con eleganti note vegetali e punte amare e piccanti in equilibrio, rimandi a mela e mandorla in chiusura < San Giuliano, Alghero, Sardegna

Il Frutto > monovarietale Nocellara del Belice, verde dai riflessi giallo oro, limpido; al naso ha note fruttate intense dalle nette connotazioni erbacee ed evidenti sentori di pomodoro; al palato è fine ed elegante, vegetale, di buona fluidità, con amaro e piccante armonici; mandorla e punta piccante in chiusura < Coppini Arte Olearia – L’Albero d’Argento, Castelvetrano, Sicilia

Dop Garda Orientale > da olive Casaliva, Raza, Trepp, Pendolino, è giallo oro dai riflessi verdolini, limpido; al naso ha profumi tenui e freschi, vegetali, dai sentori di mela e carciofo; elegante e delicato al gusto, è fine e rotondo, armonico, con sensazioni di morbidezza al palato, toni mandorlati e lieve punta piccante in chiusura < Fratelli Turri, Cavaion Veronese, Veneto

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Monovarietale Frantoio > da olive in coltivazione biologica; verde dai riflessi gialli; al naso i sentori di carciofo e mandorla, dalle connotazioni erbacee; al palato è morbido, vellutato, con sensazione di buona fluidità e freschezza, gusto vegetale di carciofo, toni amari e piccanti armonici, ben dosati; mandorla e punta piccante in chiusura < azienda agricola Buonamici, Fiesole, Toscana

Petrini Plus > arricchito con vitamina D3, K1 e B6; giallo dai lievi riflessi verdolini, limpido alla vista; al naso ha profumi mediamente intensi e vegetali, dai sentori puliti e freschi di erbe aromatiche; al palato ha gusto vegetale, sapidità e buona fluidità, con amaro e piccante in equilibrio; una lieve punta piccante e rimandi al carciofo in chiusura < Fattoria Petrini, Monte San Vito, Marche

Goccia di Sole, biologico, etichetta verde > giallo oro intenso, ha profumi di media intensità e rimandi all’erba di campo; da olive Ogliarola barese e Coratina, perfetto mix per un olio morbido e suadente, con personalità: note amare e piccanti marcate da Coratina, sensazione dolce e rotonda da Ogliarola; gusto vegetale e sapido, toni mandorlati in chiusura < Cooperativa Goccia di Sole, Molfetta, Puglia

Amabile, Dop Umbria, Colli Assisi-Spoleto > da olive Moraiolo, Frantoio e Leccino; al naso le note fruttate di media intensità, fresche, nettamente erbacee; al palato sapidità e armonia, gusto vegetale di carciofo, buona fluidità e finezza, toni amari e piccanti marcati ma ben dosati; toni speziati, sentori di cardo ed erbe di campo in chiusura < Monini, Spoleto, Umbria

Selezione oro > è un blend di oli ricavati da olive italiane; alla vista è limpido e di colore giallo dorato dai riflessi verdolini; al naso ha profumi di oliva fresca e sentori vegetali di carciofo; al palato è morbido ed equilibrato nelle note amare e piccanti, sapido e insieme delicato, piacevolmente fluido; lieve punta piccante e richiami alla mandorla in chiusura < Pantaleo, Fasano, Puglia

Dop Terra di Bari > da olive Ogliarola barese e Coratina, giallo oro dai riflessi verdolini; ha note fruttate di media intensità, con sentori di mandorla ed erbe di campo; dolce e morbido al primo impatto, ha gusto rotondo e vegetale, percezione al palato di media fluidità, con amaro e piccante armonici; mandorla, toni speziati e gradevole punta piccante in chiusura < Agridè, Bitonto, Puglia

And’Olio > da olive Leccino e Moraiolo, è verde dai riflessi dorati, limpido; al naso ha sentori freschi ed erbacei, di media intensità, con richiami al carciofo e al cardo; dal gusto vegetale, è dolce al primo impatto, fine, armonico, vellutato, con note amare e piccanti ben dosate; rimandi alle erbe di campo e lieve punta gradevole di piccante in chiusura < Tenuta La Badiola, Castiglione della Pescaia, Toscana

Essenza di Carma > da olive Leccino e Frantoio, in coltivazione biologica; di colore giallo oro dai riflessi verdi e limpido; al naso ha note fruttate di media intensità, con richiami al carciofo e connotazioni erbacee; al gusto è armonico, vegetale, delicato, ma dai tratti netti, con piccante e amaro equilibrati; sentori di cardo, erba fresca e toni mandorlati in chiusura < Tenuta di Carma, Civita di Bagnoregio, Lazio

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Masserie di Sant’Eramo, biologico > verde dai riflessi oro, è limpido; al naso le note fruttate di media intensità e i sentori di erba fresca; al gusto note vegetali con richiami di carciofo e mandorla; al palato morbidezza e armonia, con toni amari e piccanti netti ma ben dosati; erba fresca, toni di mandorla verde e una netta punta piccante in chiusura < Agroalimentari del Colle, Santeramo, Puglia

Tatanoso > da olive Nociara, Cellina di Nardò e Ogliarola di Lecce; verde dai riflessi oro, limpido; al naso note fruttate di media intensità, profumi floreali e sentori di erbe di campo; al gusto è sapido e vegetale, con note di mandorla e frutta bianca, buona fluidità, persistenti note amare e piccanti armoniche; richiami di cardo e mandorla in chiusura < azienda agricola Francesco Caricato, San Pietro in Lama, Puglia

Dop Valle del Belice > da olive Nocellara del Belice in purezza; verde dai riflessi dorati, limpido; al naso le note di pomodoro maturo e i richiami erbacei; al palato buona fluidità, morbidezza e armonia, gusto vegetale, amaro e piccante in ottimo equilibrio, persistenza; lieve punta piccante in chiusura < Sciavuru d’Aliva, Castelvetrano, Sicilia

Monocultivar Ogliarola > giallo dai riflessi verdolini, è limpido alla vista; al naso ha note fruttate di media intensità, dai profumi puliti e freschi di mandorla verde ed erbe di campo; al palato ha buona fluidità, sensazione iniziale dolce e note amare e piccanti armoniche; mandorla e lieve punta piccante tra le sensazioni retro-olfattive < Olitalia Gourmet, Forlì, Emilia Romagna

Dop Tuscia > da olive Canino, Leccino, Frantoio; è verde tenue dai riflessi oro, limpido; al naso ha profumi fruttati di media intensità dai sentori di carciofo ed erbe di campo; al palato è morbido e avvolgente, rotondo ed equilibrato, di struttura fine, con amaro e piccante ben dosati; mandorla in chiusura < azienda agricola Tuscanese di Marini Leandri, Viterbo, Lazio

Top, Dop Riviera Ligure - Riviera dei Fiori > da olive Taggiasca in purezza; giallo dai riflessi dorati, limpido; al naso i profumi fruttati leggeri e delicati, dai toni mandorlati; al palato buona fluidità e finezza: morbido, dolce al primo impatto, dal gusto vegetale; sensazione mandorlata e lieve quanto elegante nota piccante in chiusura < Esselunga, Chiusavecchia, Liguria

Masseria delle Sorgenti > da olive Frantoio, Leccino, Pendolino; giallo dai riflessi verdi; al naso profumi fruttati di media intensità e richiami di carciofo ed erbe officinali; al palato una buona fluidità e armonia, con sensazione dolce al primo impatto, morbida e avvolgente, e note amare e piccanti progressive, ben dosate; mandorla e lieve piccante in chiusura < Parco Fonti di Riardo, Caserta, Campania

Moraiolo > da olive Moraiolo in purezza; verde dai riflessi dorati, limpido; al naso ha profumi fruttati di media intensità, con sentori di carciofo ed erbe di campo e cardo; al gusto è sapido e vegetale, di buona fluidità, con sensazioni armoniche e rotonde al palato, con punte amare e piccanti nette, ben dosate e persistenti; toni mandorlati in chiusura < Farchioni, Giano dell’Umbria, Umbria

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olioofficinaalmanacco è una espressione di libero pensiero a supporto del grande happening Olio Officina Food Festival – Condimenti per il palato & per la mente. Prima edizione a Milano, nei giorni 27, 28 e 29 gennaio 2012, seconda edizione nei giorni 24, 25 e 26 gennaio 2013. Tutto nasce a partire da un’idea di Luigi Caricato, promotore, curatore e anima propulsiva. Olio Officina è un progetto culturale con cui si intende riformulare l’abituale approccio con la cultura materiale. L’obiettivo è soddisfare l’urgente necessità di volgere lo sguardo a nuovi percorsi esplorativi, attraverso l’adozione di linguaggi e stili interpretativi inediti e inusuali. Olio Officina non è soltanto cultura materiale, ma anche, e soprattutto, luogo di cultura alta e di confronto. Da qui l’impegno a non confinare l’attenzione ai soli condimenti che soddisfano il palato, ma di estendere equamente il medesimo interesse ai condimenti che nutrono e impreziosiscono la mente.

Copertina: Josè Carlos Bellantuono Quarta di copertina: Sossio Giametta

olioofficinaalmanacco è una realizzazione per Olio Officina Food Festival Direttore: Luigi Caricato Progettazione grafica: Alberto Martelli, Aerostato Stampa: Grafica GM Snc, Spino d’Adda (Cr) Si ringrazia per la gentile collaborazione Maria Carla Squeo Web > festival: olioofficina.com – blog: olioofficina.it – luigicaricato.net

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Calendario 2013

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olioofficina / libri

Ormai l’olio da olive è di moda. C’è olio per tutti, senza distinzione di popolo, religione o appartenenza ideologica o di classe. Ricchi e poveri possono far ricorso agli oli di oliva senza incontrare alcun limite, nemmeno di natura economica. La disponibilità dell’olio extra vergine di oliva a prezzi accessibili è solo una conquista recente. Tutti i produttori d’olio hanno però diritto a una equa remunerazione, senza essere sfruttati da avidi speculatori. È possibile allora conciliare l’idea di un olio democratico, disponibile per tutti, con il diritto dei lavoratori a vivere senza l’angoscia di non quadrare i conti? Con un mercato globalizzato che estende i consumi ad ogni angolo del Mondo ciò che appariva un tempo impossibile è realizzabile, con grande beneficio dei consumatori. Luigi Caricato, Libero olio in libero Stato, Zona Franca

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