Olio Officina Almanacco 2016

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Scala preferisco le donne agli uomini i bambini alle donne le bestie ai bambini gli alberi alle bestie â‚Ź 12,00 ISBN 978-88-940201-7-5

Scala, Lucio Passerini per Camillo Sbarbaro

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LE OLIVE SONO LE PAROLE, L’OLIO I ROMANZI Marco Vichi


Sommario olioofficina / anticamera

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> Luigi Caricato: Avanguardia, retroguardia

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> Antonio Pascale: E’ necessario piantare olivi

10-23 > Rosalia Cavalieri: Come si è evoluta l’arte dei sapori. Dalla cucina del cotto alle avanguardie culinarie 24-29 > Alfonso Pascale: Il gusto rivolto al futuro 30-33 > Luigi Caricato: Un atto di libertà e implicita ribellione 34-46 > Antonio Monte: Le antiche officine olearie 48-51 > Domenico Fazio: Come una volta mai. Riflessioni sulla filiera olearia 52-58 > Eddo Rugini: Gli olivi non graditi allo Stato italiano. Perché è necessario sviluppare la ricerca sulle piante transgeniche di olivo? 60-70 > Primo Proietti, Giuseppe Campisi, Luca Regni, Luigi Nasini e Tiziano Caruso: Modelli per l’olivicoltura italiana. Il necessario rinnovamento di un comparto olivicolo che appare vetusto

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72-78 > Salvatore Camposeo, Maria Lisa Clodoveo: Costruire il claim salutistico di un olio. I polifenoli dell’olio da olive dal campo alla bottiglia 80-81 > BOBOEEM - Elisabetta Bosisio e Maria Teresa Bolis: L’olivo tabernacolo. Mini installazione per Olio Officina Festival 2016 83-84 > Giovanni Valentini: Quando l’universo era più giovane. L’olio da olive è da inquadrare nella “scala periodica degli elementi”. Il discorso dell’olio fotonico viene da molto lontano... 86-87 > Maria Carla Squeo: L’olio nel timbro postale 89-95 > Antonio Monte: L’arte della saponeria. Storia di archeologia industriale. Tutto ebbe inizio a partire dall’olio

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olioofficina / luigicaricato

Avanguardia, retroguardia di Luigi Caricato

Non siamo più capaci di generare futuro, ecco la nuda e cruda verità. Non siamo più in grado di guardare avanti ed essere pionieri, come lo siamo stati in passato, in tempi in cui le condizioni economiche e sociali non erano certo migliori di quelle attuali. Avevamo sete e fame. Volevamo raggiungere grandi obiettivi. Avevamo ambizioni che coltivavamo con ogni cura, insieme ai nostri sogni. Con ciò non intendo dare corso al coro delle continue lamentazioni, ma occorre pur prendere atto dello stato in cui ci si trova. L’Italia si è fermata. O forse è più corretto dire che si muove a forze contrapposte, e proprio per questo non si va avanti. C’è da una parte una spinta propulsiva, che spinge come avanguardia verso il nuovo, o comunque verso la riformulazione e riattualizzazione del passato, e, dall’altra, c’è chi si oppone per contro fermamente, negando ogni spinta in avanti, agendo anche scientemente, in maniera cattiva e ostinata, con orgoglio e determinazione. In questo scontro inconcludente e sterile, ci si sta trascinando progressivamente verso le retrovie. La parola avanguardia – in un contesto così conflittuale, nemmeno dialettico, ma devastante e distruggente – sembra paradossalmente inappropriata e fuori luogo. Non si è fermi del tutto, in Italia. Ci si muove, certo che ci si muove. Ci si agita anche fin troppo. La sensazione però è di restare come imprigionati in un movimento vorticoso dal quale non si intende più volontariamente uscirne. Avete presente il criceto che ruota senza sosta come un ossesso? Ecco, lo stato dell’Italia oggi è

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Precorrerli è possibile solo a pochi, a quanti riescono a intuire in anticipo la realtà futura. Il nuovo lo si vive ogni giorno, talvolta senza redersene conto, e non è soltanto complicato pensarlo, o solo intravederlo. È anche una strada difficile da percorrere, una volta che in qualche modo si è riusciti a immaginare cosa sia davvero considerabile nuovo e cosa invece non lo è. Tentare di rendere pubblica e fruibile a tutti una novità diventa altrettanto complicato, oltre che problematico, perché non tutti accolgono di buon grado ogni dirompente novità. Il nuovo fa paura, e ci vogliono evidentemente coraggio e tanta determinazione, ma questo atto di decisione e fermezza va indirizzato nella direzione giusta: sempre guardando avanti.

questo: ci muoviamo girando in tondo senza interruzione, senza voler mai andare avanti. Ci si muove con l’illusione di essere comunque attivi e di fare la propria parte, ma senza che nulla di fatto cambi, in noi e negli altri. Essere all’avanguardia significa riconoscere la capacità di precorrere i tempi dimostrando di avere nuove idee e di pensare nel contempo a nuove formule e a nuovi stili, e adottando, di conseguenza, nuovi approcci, in grado di creare discontinuità e di presentare, anche ai nostri occhi, una visione diversa e alternativa rispetto a quella già conosciuta e ampiamente sperimentata. Dire avanguardia equivale oggi, per alcuni, a detestare tale parola, e collocarsi in difesa, in attesa di qualcosa. Ma non è così: perché avanguardia è rischio, è contaminazione, è arditezza, è audacia. Essere all’avanguardia significa dimostrare di avere il coraggio delle proprie azioni ed esprimere un pensiero anche controverso, se necessario, senza timore di affrontare la corrente avversa. Essere all’avanguardia equivale a osare e a superare ogni paura, anche perché non si può avere paura del futuro e arroccarsi sempre sulla difensiva, vedendo nemici e ostacoli ovunque, denunciando perfino complotti, pur di rinunciare a soddisfare la naturale sete e fame di futuro che ciascuno di noi possiede.

Purtroppo, quando si è troppo avanti, almeno in Italia, non si viene compresi e accolti a braccia aperte, ma osteggiati. In molti casi, si assiste pure a un duro scontro con chi per natura è portato a frenare ogni sano entusiasmo, proprio perché non si accetta un ribaltamento della realtà e dello status quo. Occorre mettere in conto un grande sacrificio, anche perché non si può affrontare il nuovo con un atteggiamento mesto e dimesso. Ci vuole uno sforzo notevole, anche per farsi accettare, esistendo il rischio concreto di non essere compresi fino in fondo. Sì, perché, non illudetevi: è più facile seguire il già noto e abbracciare il consueto, che essere per davvero all’avanguardia.

Dire avanguardia implica l’assunzione di una responsabilità. Non è un compito facile riuscire a guardare avanti e anticipare i tempi. 5


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È necessario olioofficina / visioni

piantare di Antonio Pascale

olivi

Una volta, in macchina, ho incrociato un camion con rimorchio. Il mezzo non trasportava animali, no, il rimorchio portava una grande pianta di ulivo, lunga una decina di metri, con le radici e la chioma protette da un cappuccio di juta. Gli ulivi trasportati dal Sud al Nord. Si usa, da un po’ di tempo. Si usa perché in alcune zone del Sud, la Puglia, la Calabria, gli uliveti sono abbandonati. Costa troppo tenere in vita un impianto. Per anni il paesaggio mediterraneo è stato modellato dall’ulivo. Quante colline in cui nessuno credeva, tanto erano brulle e impervie, sono state coltivate Per anni, paesaggio a ulivi. Quanti terrazzamenti sono stati creati (con mediterraneo e ulivo hanno quei muretti a secco a fare da sponda) per poter ospitare stretto un patto di mutuo queste piante. Per quanti secoli le radisoccorso. ci dell’ulivo hanno trattenuto la terra, offerto protezione dai dilavamenti del terreno, dalle erosioni superficiali e profonde, quelle crepe del terreno che piano piano, ora dopo ora, causano frane improvvise da lasciare tutti con la bocca aperta. Perfino a Pantelleria dove il vento è forte, fastidioso, insopportabile, ci sono ulivi ma sono striscianti, bassi, quasi delle siepi che non risentono dell’impatto meccanico con il vento. Per anni, paesaggio mediterraneo e ulivo hanno stretto un patto di mutuo soccorso. E adesso, alberi di cento, centocinquanta anni, spesso anomali, perché non piantati in sesto regolare, selvaggi, cresciuti in altezza, come quelli della piana di Reggio, splendidi esemplari di ulivo, alti come un pino,

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con queste chiome da bambino scapigliato – al e i consumi, se tutto questo venisse spiegato di sotto delle quali si prova una sensazione di sotto gli ulivi secolari, di sicuro capiremmo fiassoluto benessere – ebbene, questi alberi ora nalmente dove diavolo sta questa mezzaluna rischiano la distruzione. Costano troppo. È fertile, amena località tra l’Anatolia e il mare, necessario piantare nuovi la cui posizione geografica ulivi, disporre di impianti La storia non è solo il passato, mi sfugge da tempo immepiù produttivi e più modermorabile. Capiremmo, poi, ma anche quello che qui e ora la differenza culturale tra ni, ridurre i costi e tornare si mette a coltura, affinché i greci e i romani senza dosul mercato. La storia non possa fruttificare domani, vere per forza confrontare i è solo il passato, ma anche quello che qui e ora si metfilosofi neoplatonici con gli l’olivo non fa eccezione. te a coltura, affinché possa storici romani, ci basterebfruttificare domani, l’olivo be sapere che i greci racnon fa eccezione. E tuttavia, sarebbe bello se coglievano le olive quando erano già molli e i lo Stato acquistasse e trasformasse alcuni romani invece molto prima. Sostanziale diffeimpianti secolari di ulivi in riserve naturali. renza, che definisce fondamentali abiti antroNoi così desiderosi di posti incontaminati, che pologici: sarebbe bello. No? sfogliamo con lussuria le riviste di viaggi per capire come fuggire dalla pazza folla, noi stanchi, potremmo benissimo visitare di tanto in tanto questi appezzamenti collinari. Sì, bisognerebbe portare in gita le scolaresche, Gli ulivi si devono toccare, fare vedere ai ragazzi cos’è un pollone, come seguire con lo sguardo o quest’organo riproduttivo riesca a ricacciare con il tatto le nodosità del prima un ramo, poi da questo una pianta intronco, derivato, appunto, tera. Gli ulivi si devono toccare, seguire con lo sguardo o con il tatto le nodosità del trondai successivi ricacci, è co, derivato, appunto, dai successivi ricacci, è un’ottima base di partenza un’ottima base di partenza per capire l’archiper capire l’architettura tettura organica di Wright o le teoria astroorganica di Wright o le teoria nomiche di ultima generazione. E la storia, la astronomiche di ultima geografia, l’antropologia? Diciamoci la verità,

generazione.

Sarebbe bello se lo Stato acquistasse e trasformasse alcuni impianti secolari di ulivi in riserve naturali.

Antonio Pascale è scrittore e agronomo. Ha pubblicato molti volumi, tra i quali, per la narrativa, editi da Einaudi: Le attenuanti sentimentali (2013), Passa la bellezza

materie noiose da studiare in un’aula. Ma se le studiassimo sotto gli ulivi secolari? Se un bravo insegnante, uno scrittore, un contadino, spiegasse come l’ulivo sia stato utilizzato nei secoli, come è stata trattata la drupa, gli usi

(2005), Ritorno alla città distratta (2009), La manutenzione degli affetti (2003), La città distratta (2001) e, per Minimum Fax, S’è fatta ora (2006); tra i saggi, Scienza e sentimento (Einaudi, 2008).

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olioofficina / saperi

Come si è evoluta l’arte dei sapori.

Dalla cucina del cotto alle avanguardie culinarie di Rosalia Cavalieri

1. L’arte di mangiare: un “saper fare” della necessità un piacere In che modo gli esseri umani hanno trasformato il bisogno naturale di sfamarsi, comune a tutte le specie animali, nell’arte del palato, ovvero nell’arte di saper mangiare e di elaborare nuovi sapori? E cosa distingue l’atto di cuocere un cibo dal cucinare? Consapevole che non esiste una risposta univoca o un metodo infallibile per stabilire cosa sia e cosa non sia l’arte (una nozione, come si sa, assai Siamo le uniche scimmie vergono una plucomplessa in cui conabili a cucinare il cibo e ralità di significati), accepirò il termine a produrlo in maniera arte con il suo antico valore di téchne o di ars, ovvero di “proce- sistematica, anche attraverso dimento razionale in vista di un fine”: la creazione di tecnologie un procedimento che implica dunque il “saper fare” proprio via via più complesse, della tecnica e dell’artigianato, in quanto attività produttive ti- finalizzate alla preparazione piche dell’uomo e intese alla costrudegli alimenti, a gustarlo zione di oggetti strutturalmente co- convivialmente e a celebrarlo erenti, sorrette da conoscenze, senza tuttavia escludere attraverso il linguaggio. il significato moderno del termine riferito alla capacità di immaginare e di creare opere originali. Frutto di un lungo percorso di rielaborazione della natura, l’arte dei sapori è l’esito perciò di tutti quei processi attraverso cui abbiamo trasformato un gesto tra i più naturali, cioè il gesto di mangiare, in un’attività artificiale, culturale e intellettuale, applicando una conoscenza, un sapere pratico e un’abi-

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sibilità personale e all’educazione. lità manuale, per concepire, per immaginare e L’uomo è un animale creativo anche nel suo per elaborare nuovi oggetti alimentari, nuove rapporto con il cibo: pur potendo mangiare sensazioni per il palato (i sapori), nuove postutto ciò che è commestibile, come i pochissimi sibilità d’interazione sociale (convivialità), apaltri onnivori esistenti, l’uomo sceglie il propagando un piacere più raffinato e ricercato prio cibo sulla base di criteri qualitativi, ecoche oltrepassa il bisogno primario di nutrirsi. nomici, culturali, nutrizionali, dietetici, etici, L’arte dei sapori ha origine, a mio avviso, da filosofici, religiosi, salutistici, ecc., sulla base, quel nesso tra bisogno e piacere che ci ha insomma, di preferenze culturali e individuali spinti alla ricerca di gratificazioni del palato cariche di significati. Questo spiega l’eccezioalternative a quelle offerte dalla natura, dal nale flessibilità dei comportamenti alimentari desiderio, mai completamente appagato, di e dei gusti esibita dalle diverse società umane prolungare i piaceri del gusto e di rendere (che vanno dall’alimentazione iperproteica e sempre più godibile l’atto alimentare. Un deipercalorica tipicamente ocsiderio che ha stimolato cidentale fino agli stili aliil nostro ingegno creativo Il consumo di cibi cotti ha mentari alternativi come la fino all’elaborazione del prodotto effetti sull’intelligenza dieta crudista, passando per cibo, alla sua produzione, e sulla socialità: ha favorito l’alimentazione vegetariaalla socializzazione del l’accrescimento del cervello na, vegana o macrobiotica), suo consumo, all’acquiunitamente agli innumesizione della consapevoattraverso la riduzione dei lezza del valore del cibo costi digestivi e dei tempi di revoli modi di preparare i cibi che abbiamo inventato, che scegliamo, al suo apmasticazione e ha socializzato variabili anche in funzione prezzamento e alla sua condivisione linguistica, il gusto, trasformando il pasto delle influenze socio-cultue poi anche alla crea- in un’occasione di incontro, di rali (cosicché il gusto finisce zione di nuovi modi di relazione, di circolazione delle con l’essere una rappresentazione e un’espressione mangiare, di nuovi stili idee e condivisione. della cultura e dell’ambienalimentari, al punto da te naturale che lo genera: farne un’esperienza culinsomma, un fattore identitario), e poi ancora turale a tutto tondo: multisensoriale (perché alle modalità di consumo, di procacciamento cibi e bevande si assaporano con tutti i sensi, e di elaborazione del cibo. Muovendo dal bicon il naso e con il palato specialmente), edosogno primario di mangiare, abbiamo fatto, nistica, estetica, cognitiva e persino linguistilentamente e progressivamente, di una neca. Diversamente dagli altri animali, gli anicessità un piacere consapevole e un sapere mali umani non mangiano solo per sfamarsi, materiale, quello che Giorgio Agamben con cercano bensì nel cibo e nel gusto connesso un’espressione che ben sintetizza l’equilibrio al suo consumo un’emozione, un piacere che tra piacere e sapere ha definito: “Un sapere non è puramente sensoriale e corporeo (non che gode e un piacere che conosce” (1979): e credo peraltro che esista un piacere estetico d’altra parte avere consapevolezza di cosa si svincolato dal corpo e dai sensi), e poi scelgono mangia, conoscere la produzione alimentare, il cibo che può accendere emozioni molteplici e avere un minimo di cognizione dell’ambiente, variabili da individuo a individuo, in relazione della territorialità, della provenienza e della all’ambiente, alla cultura, al vissuto, alla sen12


brarlo attraverso il linguaggio: ragion per cui stagionalità del cibo rafforza il piacere di gul’uomo può rivendicare a pieno titolo l’invenstare e lo rende più vissuto. zione dei sapori, un’attività complessa ricca di Diversamente dal mangiare (un atto fondato implicazioni estetiche e artistiche. sul bisogno e sulla necessità), la capacità di gustare e di discernere i sapori implica anche 2. Le origini del fuoco di cucina un sapere e un piacere disinteressati perché Cucinare è attività umana per eccellenza, è il svincolati dalla logica del bisogno, da finalità gesto che trasforma il prodotto di natura in utilitaristiche (eccezion fatta per i contesti qualcosa di profondaprofessionali in cui la risposta estetica è Anche il mondo animale ci offre qualche mente diverso: le modificazioni chimiche connessa a questioni pratiche: per es. le de- esempio significativo di proto-cucina. indotte dalla cottura I macachi giapponesi dell’isola di e dalla combinazione gustazioni finalizzate alla compilazione di Koshima hanno imparato in modo del degli ingredienti conguide enologiche e/o tutto casuale a immergere nell’acqua sentono di portare gastronomiche). Se di mare i tuberi di cui si cibano per alla bocca un cibo, se non totalmente “articosì non fosse, non sainsaporirli, apprezzandone il gusto, ficiale”, sicuramente remmo gli unici anicomportamento poi trasmesso alle “costruito” (Montamali a mangiare annari 2004, p. 37) . che senza avere fame generazioni successive. Se volessimo provare e a bere anche senza a stabilire indicativamente le origini primoravere sete e ad accedere alle delizie della tadiali dell’arte di elaborare il cibo attraverso vola solo per il desiderio di prolungare il gocui abbiamo cominciato a prendere le distanze dimento del gusto: un lusso puramente estedalla natura dovremmo risalire al momento tico concesso solo agli animali umani. Questo in cui i nostri antenati protoumani iniziarono, spiega peraltro la passione tutta umana per verosimilmente per caso, a usare il fuoco per bevande tutt’altro che naturali come il vino, scopi alimentari. Momento di svolta nella stola birra, i distillati o il caffè, create non già per ria del processo di umanizzazione, il passagla necessità di dissetarsi ma per il puro piacegio dal crudo al cotto (cfr. Lévi-Strauss 1964) re che sanno dare e prodotte da un saper fare si realizzò, stando a una serie di studi più reconcreto, da un ingegno tecnico e da tecnologie centi (cfr. Wrangham et al. 1999; Wrangham complesse riconducibili all’ordine del “cotto” e 2009), all’incirca un milione e mezzo di anni quindi della cultura. fa con homo ergaster/erectus. Prove dirette Partendo da questa premessa proverò a spieprovenienti dall’archeologia (il recente rinvegare il significato della formula “arte dei sanimento in Sud Africa di focolari risalenti a pori”, concentrandomi su quegli aspetti della un milione di anni fa – cfr. Berna et al. 2012 e nostra storia evoluzionistica – una storia naRowlett 2000) e specialmente prove indirette turale e culturale insieme – che hanno fatto di fornite dalla biologia relativamente ai mutanoi le uniche scimmie abili a cucinare il cibo e menti del nostro regime alimentare – in para produrlo in maniera sistematica, anche atticolare, la riduzione dell’apparato masticatotraverso la creazione di tecnologie via via più rio e del tessuto intestinale – attesterebbero complesse finalizzate alla preparazione degli che questa specie di ominide è stata il primo alimenti, a gustarlo convivialmente e a cele13


e di una dieta qualitativamente migliore) e ha socializzato il gusto, trasformando il pasto in un’occasione di incontro, di relazione, di circolazione delle idee e di condivisione, introducendo la prassi di mangiare insieme in un luogo e in un momento stabiliti. Così la cottura ha modificato l’intera organizzazione delle società umane e ha stimolato lo sviluppo delle abilità comunicative prima e linguistiche più tardi. Pertanto è ragionevole supporre che prima dell’invenzione della cottura – ovvero della forma più primitiva di cucina – la pratica di consumare i pasti insieme fosse poco diffusa: il “fuoco di cucina” diventa necessariamente un fattore di aggregazione, dando origine alla convivialità e al piacere della condivisione del cibo. Siamo, infatti, i soli animali ad aver tramutato un gesto intimo e privato come il consumo del cibo in un’esperienza sociale e in particolare in un’esperienza linguistica (da qui la stretta connessione tra gustare e parlare – cfr. Cavalieri 2012a, 2012b), con qualche eccezione per alcune specie animali come gli scimpanzé e i macachi (cfr. Hladik-Picq 2001, pp. 127-69): riunirsi attorno a un fuoco per preparare e per condividere il pasto avrebbe stimolato l’interazione sociale, la cooperazione e la comunicazione. Se cuocere il cibo ci avrebbe reso già più intelligenti, la “scalata” dell’arte del palato ha raggiunto un’altra tappa significativa all’incirca diecimila anni fa, nel Neolitico, quando cioè ci siamo trasformati da raccoglitori-cacciatori in produttori del nostro proprio cibo, attraverso il passaggio dall’economia di predazione all’economia di produzione: una “rivoluzione” economica, culturale e gastronomica. Se gli altri animali utilizzano solo ciò che trovano in natura, noi siamo l’unica specie incline a “fabbricare” sistematicamente il cibo e a costruire sapori sempre nuovi, per necessità e soprattutto per accrescere il nostro piacere. Con la creazione del cibo, oltre ad avere acquisito

esemplare di “cuoco” nella storia dei nostri antenati (in grado di mantenere il fuoco generato spontaneamente in natura se non ancora di produrlo). Praticata stabilmente, e in maniera più efficace, dalle successive specie di ominidi, anche grazie al progresso delle tecniche di cottura, l’attitudine a cuocere il cibo, oltre a trasformarne la qualità – rendendo gli alimenti più sicuri, più digeribili, più calorici e più appetibili, modificandone la consistenza, il suono e il colore, e ampliando il ventaglio degli aromi, dei sapori e delle consistenze dei cibi commestibili, senza contare poi che il cibo cotto e per di più caldo è in genere più saporito, più profumato e perciò più appetibile di quello crudo –, ha avuto sorprendenti ricadute anche sulla nostra biologia e sui nostri comportamenti.

Distinguendosi sia dalla cucina casalinga, sia dalla cucina tradizionale, l’avanguardia culinaria ha raggiunto il massimo livello di elaborazione razionale con la nascita della gastronomia molecolare. Considerata come l’ultima frontiera della “scienza nel piatto”, quest’insolita disciplina è una razionalizzazione estrema del sapere utilizzabile in cucina con l’intento di perfezionarla. Il consumo di cibi cotti ha infatti prodotto effetti sull’intelligenza e sulla socialità: ha favorito l’accrescimento del cervello attraverso la riduzione dei costi digestivi e dei tempi di masticazione (e questo – lo dico tra parentesi – significa che l’uomo ha pagato il vantaggio di possedere un cervello più voluminoso al prezzo della riduzione del tessuto intestinale 14



Senza l’invenzione della pentola prima (uno una fonte alimentare costante e certa, abbiaspecifico contenitore capace di trattenere gli mo indubbiamente arricchito le nostre tavole alimenti) e del coperchio (accessorio in grado di una vasta gamma di nuovi sapori: dai ceredi ridurre l’evaporazione dei liquidi e l’eccesali, ai legumi, a una grande varietà di ortaggi, siva riduzione dei condimenti, dei sughi e dei al latte animale e ai suoi derivati caseari e ai fondi di cottura) e di altri utensili da cucina e primi alimenti preparati a partire dall’elaboda tavola, e senza la scoperta graduale dei serazione di questi ingredienti (pani, gallette, greti del fuoco e della cucinatura – ovvero delfocacce, polente, farinate, biscotti, zuppe, ma la preparazione degli alimenti e del modo di anche nuove bevande come il vino e la birra cucinare – (cfr. Medagliani, Valli 2004) non si ottenute dalla fermentazione dei cereali) per sarebbe verificata quella “elaborazione lenta la delizia dei nostri palati, nel frattempo divedel cibo” che ha permesso il progresso dell’arnuti sempre più esigenti. te culinaria (e della cultura gastronomica) e Al Neolitico risale peraltro un’innovazione ha aperto la strada agli innumerevoli modi di che, oltre a rendere commestibili legumi e prepararlo, sottraendolo al suo “destino natucereali, sì da farne a tutt’oggi alimenti basirale” per inglobarlo in un sistema sofisticato lari dell’alimentazione della specie umana, e tale da assumere in ha permesso un proGuardata inizialmente con diffidenza ogni società umana gresso senza il quale non saremmo potuti e timore, e da alcuni additata come una precisa impronta “cucina non salutare”, anche per socioculturale. Pignatpassare dalla cottura alla cucina e quindi la sua distanza da quella di tutti te e utensili da cucina e all’arte culinaria in i giorni, la cucina d’avanguardia poi da tavola hanno determinato e continuasenso stretto: ovvepiù che cambiare gli ingredienti ha no a determinare cosa ro l’uso consolidato dell’argilla per costru- modificato le loro tecniche di utilizzo, mangiamo, il modo in ire i primi recipienti i metodi di cottura (meno invasivi) e cui lo mangiamo e andi cottura resistenti gli abbinamenti dei cibi, non di rado che il nostro pensiero alla fiamma. Così sia- insoliti, per creare piatti innovativi su ciò che mangiamo. Benché spesso lo diamo mo passati dal fuoco e bizzarri che conservano il sapore per scontato quando diretto del barbecue interrato e della cot- originario della materia prima e ne cuciniamo, non possiatura allo spiedo, alla esaltano le proprietà organolettiche. mo ignorare che dietro a ogni piatto preparato, cottura in un mezzo che si tratti di un sugo, di un timballo, di una liquido resa possibile dall’invenzione del vagelatina, di un brodo o di una frittura, ci sono sellame e dei primi attrezzi da cucina. Ciò sempre almeno una pentola e un cucchiaio di vuol dire che lo sviluppo dell’arte dei sapori e legno (cfr. Wilson 2012, p. 12). Né va dimentidel piacere alimentare è legato anche alla crecato che il fuoco ha contribuito all’evoluzione azione di alcuni manufatti, benché la loro imdella cucina in duplice modo: permettendo la portanza sia stata trascurata nelle storie del cottura degli alimenti e consentendo ai vasai cibo: separando il cibo dal fuoco diretto, l’ape ai fabbri di plasmare le pentole e i recipienti porto energetico migliora enormemente, così per la conservazione dei cibi ricavati dalle dicome anche il sapore, e in questo processo di verse materie. elaborazione anche il cucchiaio fa la sua parte. 16


3. La trasformazione del cibo: la “cucina in senso lato” e la “cucina in senso stretto” Se è difficile stabilire il momento preciso in cui abbiamo cominciato a “fare cucina”, può tuttavia esserci d’aiuto fare una distinzione tra la “cucina in senso lato” e la “cucina in senso stretto”. La prima include tutte le tecniche progettate dagli umani per trasformare la materia prima cruda e naturale in pietanze appetibili e in bevande create non già per dissetare, e perciò tutti quei processi di elaborazione anche minima del cibo atti a modificarne la forma e le caratteristiche naturali: per es. l’essiccazione, la salagione, l’affumicatura di carni e pesci, il lavaggio prolungato, tutte le forme di fermentazione controllata con cui si ottengono prodotti a lunga conservazione (aceto, birra, vino, ecc.), ma anche la steak tartare (un classico della cucina occidentale a base di carne cruda), il sashimi (un piatto della cucina giapponese a base di pesce crudo molto apprezzato anche dagli occidentali, dove la scelta della materia prima, l’abilità dei cuochi nella sfilettatura e nella tranciatura e la stessa affilatura del coltello sono per l’appunto espressione di un’arte molto raffinata) o il semplice gesto di spremere un limone su un’ostrica, modificandone il sapore e la consistenza, o gesti simili come lavare, asciugare, tagliare e condire un’insalata. Tutti quei cibi, insomma, che, pur non prevedendo alcuna cottura, richiedono comunque una preparazione che li distanzia decisamente dai cibi crudi divorati in fretta dagli altri animali. Anche il mondo animale ci offre tuttavia qualche esempio significativo di proto-cucina, cioè di abbozzo primordiale di elaborazione del cibo anteriore all’ominizzazione. Il più noto è quello dei macachi giapponesi dell’isola di Koshima (che è anche il primo chiaro esempio di “cultura” nel mondo animale), che in modo del tutto casuale hanno imparato a

immergere nell’acqua di mare i tuberi di cui si cibano per insaporirli, apprezzandone il gusto, un comportamento trasmesso poi alle generazioni successive (cfr. Bisconti 2008, pp. 82-3). Tuttavia, nonostante la natura ci offra alcuni esempi di continuità con il mondo animale (cfr. Cavalieri 2014, pp. 112-6), l’arte di modificare e di reinventare i sapori in cucina resta un “saper fare” proprio dell’uomo, che è per definizione “la scimmia che cucina”. Quanto invece alla “cucina in senso stretto”, le sue origini, almeno nella sua forma più esplicita ancorché primitiva, si fanno risalire in genere all’uso del fuoco. Nondimeno, come giustamente osserva lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, “definire l’atto culinario semplicemente con la trasformazione degli alimenti per mezzo del fuoco appare riduttivo” (2004, p. 37). Solo l’invenzione della pentola – un’invenzione che ha avuto comunque qualche antecedente in natura: valve di molluschi, carapaci di tartarughe, canne di bambù, manufatti realizzati con fibre vegetali intrecciate, pelli di animali, interiora di animali utilizzate come bollitori, insomma la preistoria della tecnologia culinaria – apre, infatti, la strada allo sviluppo della cucina nella sua forma più compiuta, come “arte di mangiar bene e di preparare gli alimenti” e alle sue infinite possibilità di sperimentazione, gettando le fondamenta della cucina moderna. Senza l’uso di recipienti resistenti alla fiamma, via via sempre più evoluti, difficilmente gli uomini della preistoria avrebbero potuto assaporare i brodi, le zuppe, gli stufati e più tardi anche le fritture. In quanto insieme di tecniche ideate dagli umani per la preparazione degli alimenti, la cucina ha consentito l’elaborazione del cibo e la trasformazione della materia prima grezza attraverso le modificazioni fisico-chimiche indotte dal calore e dalla cottura, dal trattamento e dalla combinazione degli ingredien17


originali degli alimenti. E poi ancora attraverso l’accuratezza dei dettagli nella creazione di piatti originali e leggeri, nella presentazione delle pietanze e non ultimo nella cura dell’ambiente e dell’atmosfera del ristorante, accoglienza dei commensali inclusa. Distinguendosi sia dalla cucina casalinga, sia dalla cucina tradizionale, l’avanguardia culinaria ha raggiunto il massimo livello di elaborazione razionale con la nascita della gastronomia molecolare. Considerata come l’ultima frontiera della “scienza nel piatto”, quest’insolita disciplina è una razionalizzazione estrema del sapere utilizzabile in cucina con l’intento di perfezionarla, spesso però confusa con la sua applicazione, cioè con la cucina molecolare. La prima è praticata da scienziati, fisicochimici in particolare, per comprendere quei meccanismi molecolari sottostanti a fenomeni noti ai cuochi da millenni – proprio perché connaturati alla trasformazione culinaria che è sempre e comunque alterazione della struttura molecolare delle sostanze – e a gesti abituali in cucina come mescolare tagliare, filtrare, portare a ebollizione, conservare in frigo, ma mai effettivamente compresi, per esempio: perché il carapace del gambero o dell’aragosta bollendo diventa rosso, quale mistero si cela dietro alla meringa che si gonfia o al fiore di carciofo che aggiunto al latte ha l’effetto del caglio, e per introdurre sapori mai sperimentati prima attraverso la modificazione molecolare degli ingredienti (cfr. This 2007). La seconda è invece una sua applicazione culinaria ad opera dei cosiddetti chef molecolari, capaci di creare raffinate leccornie tali da stupire persino i palati più esigenti, utilizzando appunto la scienza e la sperimentazione per raggiungere traguardi estetici e edonistici in cucina, attraverso il ricorso a tecniche e a processi innovativi per la trasformazione del cibo come, per esempio, la frittura nello zucchero, il congelamento attraverso l’azoto liquido o le

ti, dal loro equilibrio, dall’uso di condimenti (sale, olii, grassi, salse, zuccheri, aceti, brodi), di spezie e di erbe aromatiche e dall’impiego di un’ampia gamma di strumenti, di metodi e di tecniche di cottura diversi e di tecnologie via via più raffinate. Questi e altri fattori nel corso di un lungo e complesso processo evolutivo in tempi più recenti hanno determinato la spinta propulsiva allo sviluppo del sapere gastronomico: l’espressione più sofisticata della cultura del gusto. Configurandosi come un’elaborazione consapevole di ciò che si mangia, la cucina è perciò, insieme alla gastronomia, una delle massime espressioni della cultura del gusto (e del processo di umanizzazione), perché sottraendo gli alimenti alla loro destinazione naturale li modifica, tramutando la materia prima in pietanze saporite e gradevoli che procurano piacere a tutti i nostri sensi e ci restituiscono un cibo “lavorato” e per certi versi “innaturale”: con l’arte culinaria il gusto diventa un’esperienza estetica e sinestetica – nel senso dell’etimo – oltre che culturale, un’esperienza che impegna i sensi e l’intelligenza nell’apprezzamento di quella qualità complessa che è il sapore del cibo e quindi la sua bontà. 4. L’avanguardia in cucina Nella contemporaneità il processo di “denaturalizzazione” del cibo, parallelo in un certo senso all’evoluzione del gusto, ha raggiunto le vette più alte attraverso l’elaborazione di nuovi stili, di nuovi linguaggi, di nuove forme di espressione che hanno dato vita all’“avanguardia culinaria”, quell’instancabile sperimentazione creativa che in cucina deve essere il punto principale di partenza più che di arrivo: attraverso una ricerca sempre più attenta della qualità della materia prima, delle proporzioni, della quantità e della dimensione di un piatto, e di processi di elaborazione che preservino le proprietà organolettiche 18


ne”) (cfr. Cassi, Bocchia 2005). Il pioniere dell’avanguardia culinaria, il catalano Ferran Adrià, il cuoco-artista più creativo ed eclettico degli ultimi cinquant’anni, quello che “ha ridisegnato i confini del rapporto tra arte e cucina” e ha globalizzato la cucina creativa (Perullo 2013, pp. 39-40), preferisce l’espressione “cucina tecno-emozionale”, inventando con essa un nuovo linguaggio culinario incentrato sulla libertà, sulla sperimentazione e sulla precisione, e non ultimo sulla ricerca multisensoriale, e finalizzato alla creazione di nuovi piatti, di nuovi sapori, di nuove strutture e di sensazioni altrettanto inedite. E chi mangia questi piatti, afferma lo stesso Adrià, “dal canto suo, deve avere la voglia di impegnarsi per capire questo linguaggio” (Andrews 2011, p. 37), benché non tutti siano disposti a fare questo sforzo: ecco perché, continua sempre Adrià, “la cucina d’avanguardia sarà sempre per pochi, ma non è necessariamente un male. Anche il jazz non è per tutti, eppure è meraviglioso” (ibidem). Il suo contributo più innovativo alla cucina contemporanea è la trasformazione di qualsiasi cibo, vegetale o animale, in “spume” e persino in “arie”, cioè in spume ancora più volatili la cui consistenza ricorda quella delle bolle di sapone: insomma, “la quintessenza di un ingrediente, ossigenato al punto da farsi quasi astratto – è sapore allo stato puro” (Andrews 2011, p. 237). Costruendo nuove sensazioni per il palato, per una gastronomia sempre più marcata dall’inesauribile creatività umana, questa cucina intellettuale – distante tanto dalla cucina della quotidianità praticata nelle case tanto da quella dei ristoranti tradizionali, anche ove fossero aperti alle rivisitazioni – destruttura i piatti per poi riscostruirli secondo nuovi schemi con obiettivo di emozionare, provocare e stupire stimolando tutti i nostri dispositivi sensoriali forse ancora più del palato. Qualche esempio: basti pensare all’insolito cavia-

cotture lunghe a bassa temperatura e sottovuoto, l’impiego di ingredienti insoliti quali appunto l’azoto liquido o la lecitina di soia e l’uso di sonde a ultrasuoni, di disidratatori, di sifoni e di utensili altrettanto curiosi impiegati, per esempio, per la creazione di cibi fragili ed evanescenti come le spume e le arie. A proposito di questi ultimi, “il mio piacere – afferma Massimo Bottura, lo chef più celebrato d’Italia e tra i primissimi del mondo – sta, per esempio, nel ridurre un’erba aromatica o una crosta di parmigiano in una nuvola d’aria” (Corsini 2011, p. 87), un cibo così leggero da svanire nello stesso istante in cui si assapora. Guardata inizialmente con diffidenza e con timore, e da alcuni additata pregiudizialmente come “cucina non salutare”, anche per la sua distanza da quella di tutti i giorni, questa cucina d’avanguardia o “modernista” (perché capace di realizzare forme di espressione inedite, rompendo con gli schemi della tradizione – cfr. Myhrvold 2011) più che cambiare gli ingredienti ha modificato le loro tecniche di utilizzo, i metodi di cottura (meno invasivi) e gli abbinamenti dei cibi, non di rado insoliti, per creare piatti innovativi e bizzarri che conservano il sapore originario della materia prima e ne esaltano le proprietà organolettiche, risultando particolarmente interessanti sia dal punto di vista dietetico, sia dal punto di vista degli abbinamenti: ne sono esempi l’uso degli zuccheri fusi al posto dell’olio o del burro per ottenere fritture di pesce leggere in cui la materia prima conserva intatto il sapore del mare, o la lavorazione della pasta fresca con la lecitina di soia al posto dell’uovo per ottenere una consistenza più leggera riducendo al contempo l’apporto di grassi, o ancora l’uso della lecitina per creare spume di parmigiano, di caffè o di barbabietole, o l’alginato di sodio (un sale naturale gelificante, estratto da alghe brune) usato per trasformare una preparazione liquida in sfere (la cosiddetta “sferificazio19


estrema dove l’innovazione e la sperimentazione si coniugano con l’uso di materie prime naturali legate al territorio nordeuropeo, rigorosamente stagionali e totalmente inusuali come muschi, alghe, erbe spontanee, fiori, radici, licheni, bacche, linfa di betulla, carne di bue muschiato e di renna, germogli di felce, aghi di pino o cavoli di mare, e con una tecnica d’avanguardia attenta a preservare sapori e consistenze nella loro originale purezza creando piatti “stellari”. Il tutto condito da una raffinata sensibilità orientata alla semplificazione e all’essenzialità dei piatti, valorizzando le eccellenze nordiche. Una cucina naturali-

le di melone composto da tante piccole sfere con l’interno morbido e liquido servite in una scatoletta di metallo, al papel de flores, fiori veri in un foglio di carta ricostruito sfidando le leggi della fisica, o al raviolo sferico ai ricci di mare di Adrià; al ricordo di un panino alla mortadella, il tradizionale panino con la mortadella trasformato da Bottura in una sofisticata spuma di mortadella accompagnata al classico gnocco fritto; e sempre di Bottura, il bollito non bollito, un piatto della tradizione cotto senza acqua, a bassa temperatura (63 °C), sottovuoto, dalle diciotto alle ventiquattro ore (per preservarne vitamine, proteine e proprietà organolettiche e ottenere una carne viva e succosa), servito con aria di prezzemolo, marmellata di cipolle e mostarda di mele; e ancora, il più recente immagina una mucca al pascolo, una cagliata di reggiano su una clorofilla di verdure di stagione, asparagi selvatici, pisellini e fave: una vera esplosione della primavera nella bocca, o il croccante di foie gras, un “magnum” di foie gras (da gustare con il suo bastoncino) con cuore di aceto balsamico e copertura di nocciole e mandorle. E ancora, spostandosi in Inghilterra, alla mousse di tè verde e lime all’azoto liquido di Heston Blumenthal, una miscela di bianco d’uovo condita con polvere di tè verde, il cui sapore è completato da uno spruzzo di aroma di lime vaporizzato sopra al commensale: “Un’esperienza multisensoriale semplice, ma autentica – osserva John Prescott – […], quanto il sentire un sapore senza un cibo” (2012, p. 199). E a cambiare ancora le sorti dell’alta cucina, lanciando una nuova sfida al modo tradizionale di mangiare e di concepire il cibo, nell’ultimo decennio la rivoluzione culinaria ha assunto un sapore nordico con René Redzepi, lo chef danese ispiratore di una nuovissima generazione di cuochi, già allievo di Adrià, inventore della Nuova cucina nordica, tutt’altro che una moda passeggera: un’avanguardia

Costruendo nuove sensazioni per il palato, la cucina intellettuale destruttura i piatti per riscostruirli secondo nuovi schemi con l’obiettivo di emozionare, provocare e stupire stimolando tutti i nostri dispositivi sensoriali forse ancora più del palato. stica, perché negli intenti del suo creatore ne reclama il ritorno alle origini e all’uso di materie prima fresche e naturali (pochi ingredienti coltivati o allevati) e il rispetto per l’ambiente (per es. per il benessere degli animali), ma in realtà molto elaborata intellettualmente, “al servizio di un territorio […] e di una cultura di cui vuole essere allo stesso tempo interprete e strumento di riscatto” (Mangiapane 2013). Una cucina dove le antiche tradizioni nordiche si fondono con le tradizioni culinarie internazionali per creare in modo totalmente artigianale piatti emozionanti che racchiudono l’anima dell’ambiente e dei paesaggi nordici anche dal punto di vista visivo: una vera sfida se pensiamo alla ridotta varietà della materia prima rinvenibile nell’ambiente ge20



mente ed economicamente, destinata a un’élite del palato dalla mente aperta e disposta a lasciarsi coinvolgere in una nuova avventura senza precedenti, è anche vero che l’arte dei sapori, nel senso classico in cui l’abbiamo qui intesa, trova la piena realizzazione anche quando viene per così dire del basso: una buona cucina casalinga, “un esempio di rielaborazione creativa del quotidiano” (Perullo 2013, p. 106) può essere sensualmente appagante e indimenticabile, pur senza essere un’arte rivoluzionaria, emozionando il nostro palato di scimmie gourmet quanto un menu di alta cucina innovativa, seppure in modo diverso. Per finire, un buon esempio dell’arte di mangiare, di un saper fare semplice, quotidiano e non privo di ingegno, realizzato da non professionisti l’ho tratto da Ti mangio con gli occhi (2013, pp. 197-8) del fotografo siciliano Ferdinando Scianna quando racconta della mangiata di sarde con cui suo padre festeggiava la conclusione della raccolta stagionale dei limoni, evocando una scena che ha anche il sapore e l’odore dei miei ricordi: Aveva fatto costruire apposta dal fabbro una graticola enorme. Ci si poteva allineare cinque chili di sarde. Occorrevano due uomini per collocarla e ritirarla dalla carbonella ardente, e molta arte per girare le sardine e andarle bagnando durante la cottura con il salmoriglio preparato con olio, aglio, limone sparso sui pesci con uno scopettone di origano fresco. Quel fumo oleoso di legna di limone e sarmenti di vite e di ulivo spandeva un aroma appetitoso che sembrava avere virtù esilaranti, tanto suscitava allegria. Zu Rosario, decano

ografico in cui nasce, con un clima tra i più rigidi del mondo. Configurandosi come “un caso veramente originale di re-invenzione della tradizione” (ibidem), la cucina di Redzepi ha introdotto nel linguaggio culinario locale ampi spunti innovativi, che non si limitano all’uso di nuovi ingredienti e di nuovi piatti, ma includono nuovi modi di stare a tavola e di servire i commensali (in genere al Noma di Redzepi i piatti sono serviti e raccontati direttamente dagli chef che li cucinano). Così, “da indecifrabile amalgama di ingredienti, il piatto si trasforma in segno di se stesso, ‘sinfonia di sapori’ che sollecita interpretazione e discussione” (ibidem): come, per esempio, la focaccina al malto e ginepro, un antipasto mimetizzato nel vaso di fiori che decora il tavolo, da sgranocchiare intinto nella panna acida che la accompagna; un cespuglietto di licheni in tempura ricoperto da una spolverata di polvere di funghi porcini e servito su una striscia di autentico prato; le cozze da mangiare con tutta la valva, ricreata per metà con nero di seppia, acqua e farina; il sandwich di pelle di pollo e segale farcito di uova di lompo e crema al formaggio; il luccioperca, grigliato e avvolto in una foglia di cavolo cotta al vapore, con foglioline di aneto, scortato da una salsa alla verbena e da una spuma ottenuta dalle lische; o l’albero di pere, una mezza pera grigliata accompagnata da un parfait al pino. Piatti, come racconta chi ha avuto la possibilità di degustati, che “non assomigliano a nulla di già mangiato” ma che “sono radicalmente altri: non offrono appigli per la memoria, non si confrontano con precedenti” (Porro 2012), un’avventura divertente e un piacere per la mente oltre che per tutti i sensi (cfr. anche Colombo 2010; Curti 2012; Redzepi 2011). Se apprezzare le bizzarre preparazioni delle avanguardie culinarie, delle gastronomie di chi fa ricerca, non è proprio un’arte popolare, ma una passione impegnativa, intellettual-

Rosalia Cavalieri, professore di Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Messina, è autrice di numerosi saggi, tra i quali E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto (Il Mulino, 2014) e, per Laterza, Gusto. L’intelligenza del palato (2011) e Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori (2009).

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dei contadini […], era il maestro di cerimonia di queste sardinate. Con la sua roncola lucente staccava dalla siepe che saliva alta contro il muro di cinta del campo alcune grosse pale di fico d’India, le foglie più larghe e carnose, scegliendo quelle un po’ concave, le liberava dalle spine, le sciacquava, ed ecco pronto un verde servizio di piatti. Con il coltello arcuato da innesto, tagliava in alto alcuni grossi limoni, li svuotava del succo e della polpa che andava ad arricchire il salmoriglio, tagliando il cocuzzolo in modo che stessero in piedi, ed ecco pronto un servizio di profumati bicchieri. Con mezze cannette aperte a metà e dentellate in cima faceva eleganti ed efficacissime forchette. Mangiare le sardine roventi e l’insalata di pomodori e cipolle fresche nel piatto di fico d’India, infilzarle con le forchette di canna, bere l’acqua, o quel tremendo vino di casa a diciotto gradi, nel bicchiere di limone, che a tutto aggiungeva dolcezza e profumo speciali. Ecco una memoria di giubilo personale e collettivo che mai mi ha abbandonato negli anni.

domenica, 19 settembre 2010. R. Corsini, Spiriti bollenti. Ritratti terrestri di 21 chef “stellari”, Guido Tommasi Editore, Milano 2011. R. Curti, Copenhagen, ristorante Noma di René Redzepi: il migliore del mondo secondo S. Pellegrino World’s 50 Best, in “Luciano Pignataro WineBlog”, 30 marzo 2012 (http://www.lucianopignataro.it/a/copenhagenristorante-noma-di-rene-redzepi-il-migliore-del-mondosecondo-s-pellegrino-worlds-50-best/40006/). C.M. Hladik, P. Picq, “Au bon goût de singes”, in Aux origines de l’humanité, II (Le propre de l’homme), P. Picq, Y. Coppens (éds.), Fayard, Paris 2001, pp. 127-69. C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, 1964, trad. it. Il Saggiatore, Milano (1966) 2008. F. Mangiapane, Il mio nome è Noma, in “Doppiozero”, aprile 2013 (http://www.doppiozero.com/materiali/reneredzepi/cibo-nord). N. Mayhrvold, The art in gastronomy: a modernist perspective, in “Gastronomia: the Journal of Food and Culture”, XI, n. 1, 2011, pp. 13-23. E. Medagliani, C.G. Valli, Storia della pentola. Il fuoco, i segni e le forme del calore, Bibliotheca Culinaria, Lodi 2004. M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2004. N. Perullo, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci Editore, Roma 2013. S. Porro, Ho pranzato al Noma di Copenhagen, ora posso morire felice, in “Dissapore”, 13 giugno 2012 (http:// www.dissapore.com/mangiare-fuori/pranzo-nomacopenhagen-rene-redzepi/). J. Prescott, Questione di gusto. Perché ci piace quello che mangiamo, 2012, trad. it. Sironi Editore, Milano 2013. R. Redzepi, Noma. Tempi e luoghi della cucina nordica, trad. it. Phaidon Press, London-New York 2011. R.M. Rowlett, Fire control by “Homo erectus” in east Africa and Asia, in “Acta Anthropologica Sinica”, 19, 2000, pp. 198-208. F. Scianna, Ti mangio con gli occhi, Contrasto, Roma 2013. H. This, La scienza in cucina. Piccolo trattato di gastronomia molecolare, 2007, trad. it. Dedalo Edizioni, Bari 2010. B. Wilson, In punta di forchetta. Storie di invenzione in cucina, 2012, trad. it. Rizzoli, Milano 2013. R.W. Wrangham, L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo, 2009, trad it. Bollati Boringhieri, Torino 2011. R.W. Wrangham, J.H. Jones, G. Laden, D. Pilbeam, N.L. Conklin-Brittain, The raw and the stolen: cooking and the ecology of human origins, in “Current Anthropology”, 40, 1999, pp. 567-94.

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Il gustorivolto al olioofficina / visioni

futuro

di Alfonso Pascale

Tutte le precedenti culture, ad esempio le prime grandi civiltà del mondo, come Roma o la Cina antica, vivevano essenzialmente rivolte al passato. Per gli antichi tutto accade secondo necessità. “Per i Greci – scrive Michel Foucault – quel che abbiamo dinanzi agli occhi non è il nostro avvenire, bensì il nostro passato, vale a dire che si entra nell’avvenire con lo sguardo rivolto al passato.” Per spiegare la prosperità o la caduta in disgrazia di una persona o di un popolo ci si serviva delle idee di fato, fortuna o volontà degli dèi. Indistintamente, benedizioni e maledizioni erano invocate con preghiere rivolte alle divinità. L’antropologo Vito Teti sostiene che l’indistinzione sia rimasta vitale nella cultura contadina del nostro paese, dove i santi sono invocati anche per maledire una o più persone, o intere comunità. In caso di piogge eccessive e rovinose, con frane e smottamenti distruttivi, la preghiera si trasforma in maledizione-imprecazione. Scene di questo tipo si trovano, ad esempio, in Padre padrone di Gavino Ledda e nelle immagini del film omonimo dei fratelli Taviani. In caso di siccità, le statue dei santi, prima invocate per la pioggia, quando le preghiere non sortiscono l’effetto sperato sono portate in processione e punite con una sarda salata posta nella bocca, immerse nei fiumi o in riva al mare fino a quando non abbia piovuto. Nella civiltà contadina paesi, case, santuari, chiese, edicole votive hanno una fondazione mitica, un’origine leggendaria più o meno gloriosa, un rinvenimento miracoloso di un quadro o di una statua, l’apparizione in sogno di un santo o di una Madonna. Anche la fine dei paesi, il loro spopolamento e la loro scomparsa trovano una spiegazione mitica. Alle origini di ogni abbandono c’è sempre una maledizione o una terribile bestemmia. Il drammatico sisma del 1908 a Messina è attribuito alla

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Non è il caso, tuttavia, di assumere un atteggiamento negativo verso queste nuove forme di rischio ma di disciplinarle, perché un’attiva assunzione del rischio sta al centro di un’economia dinamica e di una società innovativa. È Il rischio costruito meglio mostrare coraggio anziché cautela nel La modernità si caratterizza, invece, per il prosostenere l’innovazione scientifica e altre forprio atteggiamento rivolto al futuro nel tentame di cambiamento. Dopotutto, nella sua activo di determinarlo. Le filosofie del progresso cezione originale “rischiare” significa “osare”. hanno animato le speranze e la fiducia in un E bisogna continuare a osare anche nel fronfuturo dalle “magnifiche sorti e progressive”. teggiare i rischi determinati da noi stessi per Il calcolo del rischio è diventato sempre più il ridurli, tenerli continuamente sotto controllo, dinamismo che muove una società legata allo con la ricerca e la sperimentazione. scambio; e il welfare state è tuttora, essenzial mente, un sistema di gestione del rischio (riLe tradizioni inventate ferito alla malattia, agli infortuni, alla perdita Oggi non solo il concetto di “rischio” ha acdel lavoro e alla vecchiaia) mediante l’assicuquisito un nuovo significato. Anche l’idea di razione. Oggi, con la globalizzazione, l’idea di “tradizione” non è più rischio assume un’imIl ritorno all’invenzione quella degli inizi della portanza inedita e pemodernità. Gli illumiculiare anche rispetto delle tradizioni porta con sé una alla modernità. trasformazione del gusto da intendere nisti la identificavano con il dogma e l’ignoIl sociologo Anthony come la dimensione corporea, ranza al fine di giuGiddens distingue fra due tipi di rischio: il sensoriale e cognitiva dell’individuo stificare la loro attra“rischio esterno”, che capace di scegliere modalità, luoghi e zione per il nuovo. Un proviene dagli ele- prodotti di consumo nella mutevolezza pregiudizio avvilente, menti fissi della natu- dell’agire quotidiano; di associare le i cui danni fortunatamente non sono stati ra e della tradizione, sensazioni concesse dall’esperienza irrimediabili. Portane il “rischio costruito”, della relazione con un alimento o do alle estreme consericonducibile all’impatto della nostra co- una bevanda alle motivazioni ideali guenze la nota tesi di Eric J. Hobsbawm e noscenza manipolatoche possono indurre a sostenere ria sul mondo. Questa determinati progetti imprenditoriali Terence Ranger sulle tradizioni inventate, nuova tipologia di risocialmente responsabili. si potrebbe sostenere schio non ha a che veche nessuna società dere con i cattivi ractradizionale sia mai stata del tutto tradiziocolti, le inondazioni, le pestilenze e le carestie. nale e che tradizioni e costumi siano sempre Esso riguarda quei pericoli e quelle minacce stati creati per una molteplicità di ragioni. che derivano dalle attività dell’uomo stesso e Con l’avvento della società di massa, tuttavia, dall’impatto delle tecnologie sulla nostra vita l’invenzione delle tradizioni si è fatta partie sull’ecosistema. E sono ben pochi i rischi di colarmente assidua. Inizialmente, nell’Italia nuovo genere che riguardino solo singole naliberale, è utilizzata per fondare il senso della zioni. I “rischi costruiti” sono per lo più globali. bestemmia di un ubriaco che, alzando l’ultimo calice di vino, ebbe a esclamare: “O Gesù Bambino, se sei vero Dio, mandaci un terremoto”.

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tempo e bisogna continuamente inventarle e reinventarle. Si è convinti che le tradizioni diano continuità e forma alla vita. È un’idea da condividere e coltivare perché in fondo è così. C’è un nesso stretto fra tradizione e cambiamento. Per evitare, però, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare. Del resto, le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradere, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”. E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica bensì creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima. Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, capaci di non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antico di ogni frontiera. Il gusto riflessivo E così arriviamo al dunque. I nuovi concetti di “rischio”, “tradizione” e “identità” che si vanno

nazione su una concezione unilaterale: quella espressa solo dai sovrani. Una concezione parziale che taglia fuori cattolici e socialisti, considerati sovversivi rispetto ai valori nazionali. S’intensificano infatti, in quel periodo, le iniziative legislative con cui si limitano le ricorrenze religiose e si moltiplicano quelle civili. E in tale ambito si dà luogo a una serie di cerimonie in cui protagonisti del Risorgimento, come Mazzini e Garibaldi, sono celebrati esaltando gli elementi di patriottismo e oscurando, invece, quelli che riconducono ai loro ideali rivoluzionari, democratici e repubblicani. Al che cattolici e socialisti controbattono accentuando, i primi, la partecipazione agli eventi religiosi in funzione antisistema e organizzando, i secondi, eventi alternativi, come la ricorrenza del primo maggio. Anche il fascismo percorre la strada dell’invenzione delle tradizioni quando, intorno al tema della ruralità, tenta di dotarsi di una sorta di identità ideologico-culturale per ottenere un consenso di massa. Servendosi in modo accorto e spregiudicato del cinema e della radio il regime strumentalizza le campagne, che diventano così lo scenario entro cui disegnare un’Italietta autarchica, nazionalista, orgogliosa dei propri assetti passatisti, con qualche sporadica ambizione espansionista in Etiopia, in lotta con il resto del mondo che va in direzioni non gradite e con cui ci si rifiuta di confrontarsi. Il lessico bellicista (battaglia del grano, assalto al latifondo, grano per la vittoria, liberare l’Italia dalla schiavitù del pane straniero, l’aratro segna il solco ma è la spada che lo difende, il vomere e la spada sono entrambi d’acciaio, ecc.) vuole evocare un progetto totalitario al servizio di una visione utopica di rigenerazione interna e di conquista internazionale. Con la globalizzazione c’è una ripresa delle tradizioni inventate. La spinta non è data solo dall’idea che le tradizioni evolvono nel 27


animali non c’è un’anima diversa da quella degli esseri umani. Del “cibo pitagorico ovvero erbaceo” si fa cultore il grande cuoco benedettino Vincenzo Corrado, che elabora alla fine del Settecento un vero e proprio ricettario vegetale segnando un’altra grande svolta “salutista”. Fin dal Seicento l’esaltazione dell’equilibrio dell’alimentazione mediterranea è discorso ricorrente – quasi un vero topos – in tutti i dizionari geografici dell’Italia meridionale ed è ripreso dai racconti dei viaggiatori dell’Europa settentrionale che raggiungono le rive del Mare Nostrum. Naturalmente lo squilibrio di cui si parla in tali testi non è riferito al consumo eccessivo di alcuni cibi considerati oggi pericolosi per la salute, bensì alla loro carenza e alla estrema variabilità della produzione di cereali che forniscono fino al 7075 per cento delle calorie quotidiane. Il concetto di equilibrio alimentare oggi assume nuove valenze. È il filologo e antropologo Piero Camporesi a spiegare come questa cultura gastronomica si traduce nella nostra quotidianità: “La cosa potrà sorprendere, ma, sostanzialmente, molti dei nostri piatti fondamentali sono vecchi di secoli, anche se ritoccati dall’inevitabile trascorrere del tempo. Ciò avviene perché la struttura intima dell’uomo difficilmente coincide con le macroscopiche strutture economiche, produttive, sociali e politiche, in cui non si identifica mai completamente e che, almeno in parte, inconsciamente rigetta, rifugiandosi in una endocucina privata e tradizionalista, larvatamente sacrale, le cui manipolazioni acquistano il sapore magico del rifiuto della esocucina anonima, standardizzata, reclamizzata, dell’industria alimentare. Dalla dissacrazione e dall’alienazione del mondo contemporaneo l’uomo cerca di salvaguardarsi anche attraverso manipolazioni rituali e totemiche che hanno in cucina i loro idoli, dove, permettendone lo spazio, ultimo templum vestale, il fumo e il sapore degli

forgiando con la globalizzazione hanno un’incidenza notevole nell’alimentazione. Il comportamento dell’individuo e i suoi stili di vita (cioè l’insieme di comportamenti e abitudini connessi in uno schema più o meno ordinato e che riguardano anche il regime alimentare) sono, infatti, elementi centrali per il progetto riflessivo del sé. Tali scelte variano al variare di ambienti e luoghi in quanto riflessivamente aperte al cambiamento in virtù della natura mutevole dell’identità. A questo punto anche il concetto di “gusto” – cioè la capacità del nostro corpo di assaporare i cibi e le bevande e di distinguerli mediante la funzione sensoriale specifica e le emozioni connesse (il plaisir alimentaire dei francesi) – assume oggi un rilievo mai riscontrato in passato e un significato più pregnante. L’“enciclopedismo” con cui Jean Anthelme Brillat-Savarin riscopre il tema del gusto nella prima metà dell’Ottocento si racchiude nella sua definizione di gastronomia come disciplina scientifica trasversale che chiama a raccolta molteplici ambiti d’indagine. Sbaglieremmo però a considerare questa concezione olistica della gastronomia un’invenzione dell’Illuminismo; risale invece al mondo antico. Il Mediterraneo greco-romano che incrocia la cultura araba è la culla della medicina moderna. La relazione tra assunzione di alimenti, salute fisica e disposizione morale degli individui risale a Ippocrate, vissuto nel IV secolo a.C., mentre Galeno stabilisce più tardi (II secolo d.C.) i principi di una medicina umorale in voga fino al XVII secolo. Un’antica tradizione, testimoniata dalle Metamorfosi di Ovidio, considera il filosofo e matematico Pitagora, vissuto nel VI secolo a.C., l’iniziatore del vegetarianismo in Occidente e dunque di una cultura alimentare che fa leva sulla ricca varietà di erbe, radici, fiori, frutta, semi e tutti i prodotti della terra e si collega all’idea di metempsicosi, secondo cui negli 28


intingoli acquistano valore sacrale e lustrale e ripropongono il simbolismo trinitario di istinto, natura e cultura a tutela della vera dimensione dell’uomo; come se nell’alchimia cucinaria l’uomo cuisinier reinventasse il laboratorio dell’‘io’ e andasse alla ricerca della sua sempre più labile identità”. Da qui il ritorno all’invenzione di tradizioni alimentari locali che assumono oggi diverso valore dietetico, simbolico e rituale e portano con sé una trasformazione del gusto che – per essere arricchente – dovrebbe avvenire in modo consapevole con il coinvolgimento delle comunità interessate e non sulla loro testa. Un gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea; un gusto rivolto al futuro, potremmo anche dire; un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o di rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano; di interagire con il “rischio costruito”, esprimendo con la propria scelta la fiducia (o la sfiducia) in un’azienda produttrice; di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili. Insomma, salvaguardare il futuro del pianeta, espandere le libertà umane per le generazioni future, esercitare il gusto rivolto al futuro significa anticipare il futuro per mettercene al riparo. Dobbiamo imparare a immaginare il possibile ed elaborare allo scopo modelli cognitivi sempre più sofisticati. La libertà non è soltanto un processo di emancipazione individuale, ma anche collettivo: tanto più cresce se cresce per tutti.

Alfonso Pascale, storico dell’agricoltura, è tra i pionieri dell’agricoltura sociale. È autore di diversi volumi, tra i quali Partire dal territorio. Agricoltura, rappresentanza e politica nell’Italia che cambia (2002), Il ’68 delle campagne (2004), Pasquale Moscarelli nella storia delle campagne lucane (2005), Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi (2013).

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Un atto di libertà e implicita

olioofficina /flutti

ribellione

di Luigi Caricato

L’olio non è dato tal quale in natura. È il frutto dell’ingegno dell’uomo. Anche se si tratta di un’operazione semplice, e perfino banale – consistente nello spremere le olive –, l’aver avuto una simile intuizione ha reso di fatto l’olio un’invenzione tecnologica impareggiabile. Chi poteva immaginare che un minuscolo frutto – peraltro amarissimo e immangiabile se non preventivamente lavorato con accortezza e pazienza – potesse dare un succo gustoso e gradevole, capace di conferire sapidità e palatabilità ad altre materie prime bisognose di essere rese più appetibili? Le proprietà connettive e plastificanti, congiuntive, antiaderenti e lubrificanti degli oli da olive hanno permesso di far compiere un significativo passo in avanti nella elaborazione e presentazione dei cibi. Così, questa pur apparentemente ordinaria invenzione ha potuto, nel tempo, imporsi sempre più all’attenzione generale, proprio perché è stato l’uomo a cogliervi ogni volta tali e tanti elementi di novità, da lasciare segni indelebili nei costumi alimentari dei diversi popoli. Segni evidenti soprattutto ora che, a distanza di almeno sei millenni, è possibile scorgere nettamente l’imprinting delle varie comunità d’anime che si sono via via succedute, lasciando per certi versi una immaginaria quanto reale impronta genetica, che si è espressa e manifestata anche attraverso l’arte. Non l’arte olearia in senso stretto. Quella – per essere più espliciti, a scanso di equivoci – di chi riesce addirittura a interagire con le olive, fino a parlare la loro stessa lingua, e capirle e interpretarle di volta in volta, facendo in modo da trarne il miglior olio possibile in frantoio. E nemmeno si intende per arte la capacità di coloro che sanno miscelare sapientemente gli oli ottenuti, o, nondimeno, l’attitudine di quanti, trovandosi dinanzi a un’ampia scelta di oli disponibile sul mercato, sono in grado di farne un’opportuna selezione (per qualità, origine e tipologia),

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mercio – che in genere appaiono inespressivi riuscendo a utilizzarli nel modo migliore, vae castigati, inutilmente austeri e comunque lorizzandoli alla perfezione, a crudo come in imprigionati da troppe (e pletoriche) diciture cottura. imposte da un legislatore bulimico che sottrae Non l’arte olearia in senso stretto, dunque, spazio alla creatima l’arte che trascenvità – e quelli che de la materia prima invece non sono e la eleva a simbolo L’arte ci apre a un nuovo approccio con soggetti ad alcun ponendola su un ali contenitori dell’olio, andando oltre la vincolo. tro piano. L’arte che, solo sfogliando le pa- consuetudine e invogliando a creare felici e L’olio, prodotto gine del catalogo che imprevedibili commistioni tra i contenitori antico e millenario, ha bisogno accompagna una modestinati comunemente al commercio di una ventata stra originale quanto – che in genere appaiono inespressivi e d’aria nuova e di divertente nei suoi sviluppi, “Olio d’Ar- castigati, inutilmente austeri e comunque entrare, il prima imprigionati da troppe (e pletoriche) possibile, in una tista”, egregiamente ideata e curata da diciture imposte da un legislatore bulimico dimensione altra, alternativa ai Francesco Sannicanche sottrae spazio alla creatività – canoni ufficiali, dro, con esposizione e quelli che invece non sono soggetti in modo da svecalla quinta edizioad alcun vincolo. chiare la propria ne di Olio Officina immagine, anFestival 2016, ci fa dando incontro a comprendere quanto nuove epifanie. Le creazioni degli artisti non sia utile (per chi lo produce, chi lo vende, chi trovano oggi impedimenti di alcun genere, ma ne fruisce) che l’olio possa essere ogni volta possono in compenso trovare un pubblico più reinterpretato in modo differente, rimoduaperto e incline ai cambiamenti, potendo così landone l’immagine, e decontestualizzandola. procedere con rappresentazioni perfino dissaCon una brillante operazione che ha coinvolcratorie e di forte rottura con il passato, fino a to centinaia di artisti, l’olio da olive non è più trascendere il contenuto presente nei conteniuna materia grassa tra le tante disponibili in tori, ed evocando le mille e mille forme diffecommercio, ma diventa simbolo di una civiltà renti e immaginabili. decodificata e consegnata libera dalle maglie La materia prima “olio da olive”, vista da sola, imposte da un legislatore che penalizza le pur pregiatissima e nobile, sapida, profumata aziende confezionatrici nell’abbigliaggio dei e funzionale nei molteplici impieghi cui è afficontenitori dell’olio. data, non è in grado di consegnare alla storia “Olio d’Artista” risulta così un atto di liberla parte di sé non visibile, quel tesoro nascotà e di implicita ribellione al sistema, imposto che pur le appartiene ma pochi conoscono. nendo, non nel consueto canale delle vendite, L’alto valore simbolico assegnato nel corso dei bensì negli spazi dell’arte, un nuovo approccio millenni all’olio da olive è in realtà il frutto di con i contenitori d’olio, andando oltre la conuna mediazione culturale, senza la quale l’osuetudine, e invogliando, di qui in avanti, a lio sarebbe un banalissimo grasso alimentare, creare felici e imprevedibili commistioni tra sicuramente il più sano e gradevole, ma solo i contenitori destinati comunemente al com32


una sostanza grassa e nulla più. Senza il contributo dell’arte, ma anche della letteratura, l’olio non avrebbe avuto quell’impulso che lo ha reso oggi così popolare, e ieri così celebrato da miti e religioni. L’olio da olive oggi è vissuto come una sorta di prolungamento e quasi un’estensione della propria esistenza. Non è più un normale condimento, ma è esso stesso alimento e ingrediente di primo piano. Non più alimento

possono ammirare in tutta la loro originalità, anche laddove si sconfinava nel puro e selvaggio kitsch. Il grande momento, con la massima e più elevata rappresentazione che si potesse avere per i contenitori dell’olio, ma anche per le altre forme espressive di comunicazione, è dovuto ad artisti come Plinio Nomellini e Giorgio Kiernek – a suo tempo mobilitati da imprenditori illuminati come i Novaro – per proseguire, fino ad oggi, con altri artisti, e in molti casi designer, che hanno avuto la capacità di vedere nell’olio ciò che non si vede o che altri non vedono, quel quid di impercettibile capace di rendere l’olio da olive diverso e sempre attuale, contemporaneo. “Olio d’Artista”, una mostra singolare e quanto mai efficace negli esiti, si colloca proprio in questa lunghezza d’onda, e mi auguro vivamente che alcuni tra gli imprenditori più illuminati possano scommettere e investire su queste rappresentazioni artistiche, facendole uscire dal guscio protettivo delle sale espositive.

L’alto valore simbolico assegnato nel corso dei millenni all’olio da olive è il frutto di una mediazione culturale, senza la quale l’olio sarebbe un banalissimo grasso alimentare, sicuramente il più sano e gradevole, ma solo una sostanza grassa e nulla più. Senza il contributo dell’arte, ma anche della letteratura, l’olio non avrebbe avuto quell’impulso che lo ha reso oggi così popolare, e ieri così celebrato da miti e religioni. generico, ma “cibo funzionale”, functional food dall’alto valore salutistico e nutrizionale, tanto che per molti è ormai considerato a pieno titolo un nutraceutico, per metà nutrimento e per l’altra metà farmaco. Così – a parte le grandi opere, tra dipinti e sculture, che riprendono i segni fondanti, e fondativi, quali sono appunto l’olivo, le olive o l’olio – è sufficiente volgere la propria attenzione a quanto è avvenuto nell’epoca a noi più vicina, già dalla fine dell’Ottocento, con le brillanti intuizioni di quanti hanno saputo vestire, reinterpretare e dialogare con la materia prima olio, presentandola in forme e abbigliaggi nuovi, con lattine in banda stagnata che in alcuni musei si 33


antiche

olioofficina / retrospettive

Le

officine Olearie

Le macchine in uso nei processi storici di produzione dell’olio di Antonio Monte

La coltivazione dell’olivo è diffusa in tutte le regioni d’Italia, comprendendo solo in minima parte Valle d’Aosta e Piemonte. Le maggiori estensioni olivetate sono presenti prevalentemente nell’Italia meridionale, poi in quella centrale, nelle isole e infine nell’Italia settentrionale. La regione che maggiormente produce olio (quasi la metà della produzione nazionale) è la Puglia, a seguire la Calabria, la Sicilia, la Campania, il Lazio, l’Abruzzo, la Toscana e altre regioni.1 Anticamente le olive erano portate nel trappeto, oggi meglio noto come frantoio: un’“officina olearia”2 o laboratorio delle olive, cioè un grande ambiente dove erano posizionate le macchine per la frangitura e la spremitura che permettevano l’estrazione dell’olio (fig. 1). Gli ordigni oleari (una grossa mola che frange le olive posta su una conca o bacino di forma circolare e i torchi per spremere la pasta delle olive schiacciate) utilizzati nel processo produttivo si sono tramandati per secoli senza mai subire innovazioni tecnologiche, perché lo sviluppo della tecnologia dipendeva da una crescita esponenziale di domanda e questa si collegava alla

1 P. Antolini, Il grande manuale dell’ulivo e dell’olio. Storia, coltivazione, lavorazione, produzione, itinerari e ricette gastronomiche, Editoriale Giorgio Mondadori, Milano 1997, pp. 17-21, 103-33. 2 Voce Olii, Enciclopedia delle Arti e Industrie, compilata da R. Pareto e G. Sacheri, VI, Unione TipograficoEditrice, Torino 1889, pp. 242-387.

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“alla calabrese”, presenti nell’Italia centromeridionale (in modo particolare in Calabria, Puglia e Sicilia), e quelli “alla genovese” (fig. 4bis), prevalentemente in Toscana, Veneto e in particolare in Liguria, “dove la manifattura di questo liquore è la meglio praticata di tutta l’Italia”.4 Entrambi erano costituiti da due principali macchine: la prima serviva per schiacciare le olive (vasca per la molitura), la seconda (i vari tipi di torchi) per spremere la pasta schiacciata e ricavare l’olio. Un’interessante testimonianza di trappeto “alla calabrese” è resa da una preziosa miniatura di un codice quattrocentesco del De re rustica di Columella, il primo trattato di agricoltura dell’antichità. Nel capitolo LII, dedicato alla fabbricazione dell’olio, il capolettera X è una miniatura decorata con oro zecchino. In uno spazio diviso in due campi si può osserva-

possibilità di soddisfarla.3 Qualche piccola modifica apportata nel tempo è servita solo ad accelerare i tempi di lavorazione e quindi di produzione dell’olio. All’interno del frantoio durante il processo di trasformazione (frangitura e spremitura) si svolgeva un lavoro mas-

Trappeto “a sangue”. Tavola tratta da: Domenico Grimaldi, Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nel Regno di Napoli dal Marchese Domenico Grimaldi di Messimeri, Napoli, Vincenzo Orsino 1777 (Biblioteca Casanatense, Roma).

sacrante e disumano; per questo in più parti sono chiamati o riportati nella letteratura specifica come trappeti “a sangue”. Più precisamente i trappeti erano definiti “a sangue” quando la pietra molare era messa in movimento dalla forza animale (da un cavallo, da un asino o da un mulo) (figg. 2-3), ad acqua quando si utilizzava il moto dell’acqua (fig. 4) oppure a vapore. Quello “a sangue” era il più diffuso perché richiedeva meno impegno e aveva un costo inferiore per la realizzazione. Nelle zone olivicole dove si produceva olio esistevano due tipologie di trappeti: quelli

Presicce (LE). Trappeto semipogeo “a sangue alla calabrese”; in primo piano i torchi a due viti del tipo “alla calabrese” e sullo sfondo la vasca con una mola verticale (proprietà Giulio Seracca-Guerrieri; foto A. Monte, 2003).

re il processo produttivo: nella parte superiore un cavallo bianco fa girare la pietra molare

3 R. Covino, “Il patrimonio industriale del Salento: evoluzione, specificità e occasione di sviluppo locale”, in I

4 D. Grimaldi, Istruzioni sulla nuova manifattura

monumenti dell’industria a San Cesario di Lecce, a cura

dell’olio introdotta nel Regno di Napoli dal Marchese

di R. Covino, R. De Giuseppe, A. Monte, A.M. Stagira,

Domenico Grimaldi di Messimeri, seconda edizione,

Manni Editori, San Cesario di Lecce 2003, pp. XI-XX.

Vincenzo Orsino, Napoli 1777, p. 4.

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Presicce LE). Trappeto semipogeo “a sangue alla calabrese”; vasca per la molitura con una pietra molare verticale (proprietà Seracca-Guerrieri; foto A. Monte, 2003).

Il processo produttivo Le fasi del processo produttivo erano eseguite con perfetta sincronia dai trappetaj o trappetari. Si iniziava con l’arrivo dei carretti o dei sacchi colmi di olive, che venivano scaricate direttamente nei depositi o ammucchiate a terra in attesa di essere distribuite nella grande “conca” o bacino (che costituiva la vasca o pila), pronte per essere frante da una grossa macina verticale, meglio nota come “macello” (o pietra molare, in calcare o granito), posta su una pietra dura, di forma circolare, messa orizzontalmente. La macina era fatta girare da un cavallo, un asino oppure un mulo, con gli occhi coperti da una benda e una campanella al collo per segnalare il movimento (fig. 7).

nella vasca per la frangitura, piena di olive; in quella inferiore due uomini azionano un torchio, a due viti, che spreme i fiscoli pieni di pasta, mentre l’olio gocciola nel tino sottostante (fig. 5). L’Italia meridionale dell’ultimo quarto del XVIII secolo conobbe una svolta tecnologica importante: si passò, con tante difficoltà e diffidenza da parte dei proprietari dei trappeti, alla costruzione di “trappeti a sangue alla genovese”5 e all’introduzione dello “strettojo genovese” per la prima spremitura, che conviveva con il torchio a due vite “alla calabrese” utilizzato solo per la terza ed eventuale quarta spremitura (fig. 6). 5 D. Grimaldi, Istruzioni cit., p. 75.

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scarsissima qualità perciò esportato in diverse nazioni dell’Europa settentrionale e usato “per le fabbriche de’ panni di Lana, e del Sapone”6 e per l’illuminazione. Infatti, dal XVI sino alla seconda metà del XIX secolo, Gallipoli – che aveva il secondo porto più importante del Regno di Napoli – fu la più rilevante piazza commerciale europea per l’esportazione

Dopo la frangitura le olive triturate erano ridotte in una pasta omogenea che veniva stesa su una madia in legno per essere poi spalmata nei fiscoli di giunco o di corda intrecciata. I fiscoli o bruscola (di foggia circolare a forma di borsa o sacca con foro centrale e involucro bivalve), pieni di pasta di olive, erano incolonnati sotto i torchi a due viti del tipo “alla calabrese” o a una vite del tipo “alla genovese”; la prima spremitura avveniva sotto uno di questi torchi, chiamato in gergo “mamma” (se il torchio era molto grande) oppure “mammareddra” (se il torchio era più piccolo) perché dava il primo olio ed era quello più limpido, l’“olio fino”. Dopo circa un’ora il torchio era liberato dai fiscoli con la pasta della prima spremitura; successivamente i fiscoli erano riempiti nuovamente con la stessa pasta e sottoposti a una seconda, terza ed eventuale quarta spremitura sotto altri torchi. I torchi “alla calabrese” erano azionati direttamente “a braccia di uomo” dai trappetari: solitamente erano almeno cinque o sei addetti a stringere i dadi delle viti laterali. Il torchio “alla genovese” era azionato da una sola persona (sempre “a braccia di uomo”) che iniziava con una stanga robusta a far girare il torchio; poi, con l’aiuto di un argano verticale a cui era legata una grossa fune, il torchio (con i fiscoli incolonnati) era ulteriormente messo sotto pressione (figg. 8-9). Nel corso della spremitura l’olio gocciolava nei pozzetti di decantazione o nei recipienti di legno posti sotto i torchi e, dopo circa un’ora, veniva raccolto con un piattino di terracotta o di rame in un recipiente (oriolo), il quale veniva poi svuotato in grandi pile (“postura dell’olio”, solitamente monolitiche e realizzate in pietra locale), in giare di terracotta invetriata o in cisterne, non consigliabili per conservare l’olio fino. L’olio prodotto nelle regioni meridionali, in particolare quello calabrese e pugliese, era di

Bisceglie (BA). Frantoio Cosmai; vasca per la molitura con quattro pietre molari (proprietà Famiglia Cosmai; foto A. Monte, 2007).

dell’olio a uso industriale. Cosimo De Giorgi, noto umanista e scrittore salentino, nei Bozzetti di viaggio lo conferma: “La ricchezza di Gallipoli sta tutta nel commercio dell’olio: e la sua piazza va tra le prime e più importanti del regno. I lanifici inglesi, russi, olandesi, belgi e tedeschi mandano qui tutti gli anni nei mesi autunnali e primaverili le loro navi per caricare quell’oro liquido”7(fig. 10).

6 D. Grimaldi, Istruzioni cit., p. 2. 7 C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, I, ristampa anastatica, Congedo Editore, Galatina 1975, p. 61.

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Ugento (LE). Stabilimento oleario di Casa Colosso; vasca in ferro con movimento “di sotto” (proprietà Giovanna Colosso; foto A. Monte, 2007).

Le macchine in uso nei frantoi per la lavorazione delle olive e per l’estrazione dell’olio Le macchine, gli arredi interni di questi particolari luoghi di produzione, erano i mezzi con cui si svolgeva il processo industriale. D’altro canto non si può leggere o indagare un frantoio senza considerare la presenza degli “oggetti” del lavoro, i “congegni” che ogni giorno entravano in funzione orchestrati magistralmente dalla mano dell’uomo. Leonardo Sinisgalli ha scritto: “Io non amo le macchine come oggetti, le amo come congegni; intendo per congegni il prodotto genuino e nobile dell’intelletto umano”.8

Innanzitutto le vasche per la molitura con una, poi con due o tre pietre molari, azionate da forza animale, poi da forza idraulica e successivamente elettrica, quindi inanimata. Il torchio in legno a due viti del tipo “alla calabrese”; i torchi in legno e le batterie (in legno, pietra, ferro) a una vite del tipo “alla genovese”; la pressa a leva e a vite in legno; gli “strettoj” o torchi a vite in ferro (con movimento a leva semplice o con la stanga, con movimento a cricco, a leva multipla o a leva multipla con ingranaggio acceleratore);9 i torchi idraulici o presse. Questi ordigni oleari, in parte ritrovati all’interno di vecchi trappeti e documentati graficamente e fotograficamente, sono

8 L. Sinisgalli, Ritratti di macchine, Edizioni di via

9 R.F. Simari, Olivicoltura e industria moderna dell’olio

Letizia, Milano 1982.

di oliva, Ulrico Hoepli, Milano 1912, pp. 141-85.

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olive. La grande pietra molare era collegata a una solida trave (albero o colonnetta) in legno di ulivo, castagno o leccio che, a sua volta, era imperniata con un verricello a un’altra trave lignea orizzontale fissata nelle pareti laterali oppure, nel caso dei frantoi ipogei, nel banco roccioso. Al centro della grande pietra si scorge un foro dove era posizionata una stanga (sempre di legno) che, legata al dorso del mulo, faceva girare la mola. Molti frantoi conservano ancora le vasche con una grossa pietra molare (fig. 11), mentre poche sono le strutture che conservano vasche con due o tre mole. Le pietre molari in alcuni frantoi hanno la circonferenza che varia da 5,50 a 6 metri, un diametro tra 1,6 e 1,8 e in alcuni casi anche 2 metri e uno spessore medio di 0,55-0,7

di seguito descritti con dovizia di particolari tecnici perché sono testimonianza viva di una “catena di montaggio” semplice ma ingegnosa. Attraverso la presenza delle macchine si è potuto ricostruire fedelmente il processo industriale, studiato nella sua evoluzione e nel suo perfezionamento. In realtà, la vera vita nei frantoi è stata scandita dalla relazione uomomacchina-animale; l’automatismo industriale è subentranto solo in un secondo momento, tra la metà del XIX e i primi lustri del XX secolo. Le macchine per la lavorazione delle olive: le vasche per la molitura con una, due, tre e quattro pietre molari Le vasche per la molitura presenti nei trappeti sono di grandi dimensioni e hanno una grossa pietra molare, posta in senso verticale, meglio nota come macina. Dai rilevamenti (fotografici e metrici) effettuati durante la ricerca e dalla ricca documentazione grafica prodotta sui tipi di vasche utilizzate per la molitura, si evidenzia la presenza di un grande bacino su cui è posta una grossa mola. Il bacino (diametro di circa 3 metri) si compone di un nucleo centrale (diametro di circa 1,10 metri) costituito da una pietra dormiente; esternamente alla parte centrale del bacino era accostato, per tutta la sua circonferenza, un altro corpo in muratura o in mattoni di laterizio, successivamente rivestito (nella parte superiore) da lastre in pietra locale a forma di “petali” oppure lasciato grezzo. Quello in muratura era intonacato con cocciopesto grezzo o con intonaco semplice, nella zona basamentale. La vasca è costituita da una piattaforma circolare su cui sono poste due pietre, anch’esse di forma circolare di calcare compatto; una più piccola, collocata alla base, in senso orizzontale, detta mola di sotto (o pietra dormiente), e un’altra, più grande, posta verticalmente, detta macina (o mola) che serviva per la frangitura delle

Castrì di Lecce. Frantoio ipogeo Barbano; torchio a due viti del tipo “alla calabrese” e sullo sfondo vasca con mola verticale (proprietà Alessandro Barbano; foto A. Monte, 1997).

metri.10 Le vasche più piccole, composte da due o tre e in alcuni casi anche da quattro macelli o 10 A. Monte, Frantoi ipogei del Salento, Edizioni del Grifo, Lecce 1995, pp. 15-25; Id., Le miniere dell’oro liquido. Archeologia industriale in Terra d’Otranto, Edizioni del Grifo, Lecce 2000, pp. 20-6; Id., L’antica industria dell’olio. Itinerari di archeologia industriale nel Salento, Edizioni del Grifo, Lecce 2003, pp. 50-1.

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ruote, sostituiscono la grossa mola verticale e vanno ricordate: Veraci di Firenze, Lindeiniziano a essere utilizzate a partire dalla fine mann di Bari,12 Mure di Torino, Calzoni di del XVIII secolo e i primi lustri del secolo sucBologna13 (fig. 14). cessivo. La vasca è composta da un bacino (del Due interessanti testimonianze di frantoi diametro di 2,5 metri circa) in pietra locale o con movimento “inanimato” sono conservate in mattoni (fig. 12), con un bordo di protezione, in due strutture olearie salentine: uno, con dove all’interno sono poste quattro o cinque movimento di sotto, all’interno del moderno pietre: una orizzontale (mola di sotto o pietra stabilimento industriale di Adolfo Colosso a dormiente di calcare molto duro e compatto) Ugento (Lecce);14 l’altro, con movimento di sopra, e tre o quattro verticali (macine o macelli nel frantoio ipogeo dell’oleificio dei Fratelli Turi di anch’esse di calcaMartano (Lecce). re duro). La pietra Il frantoio dello staLe macchine per la frangitura e la orizzontale serviva spremitura delle olive si sono tramandate bilimento oleario di da base d’appoggio per secoli senza mai subire innovazioni Casa Colosso si trova dell’albero, mentre nel vano al piantertecnologiche, perché lo sviluppo di una reno dove avveniva in alto l’albero è tecnologia dipendeva da una crescita collegato, tramite la macinazione e la un verricello di lepressatura delle olive. esponenziale di domanda e questa si gno con rinforzo di collegava alla possibilità di soddisfarla. La macchina è costiferro, a una robusta tuita da una vasca in Qualche piccola modifica apportata nel ferro, retta da quattro trave orizzontale tempo è servita solo per permettere di incastrata nella pilastri, sulla quale vi muratura. All’al- accelerare i tempi di lavorazione e quindi è un’asse a cui sono bero o colonnetta collegate le due mole di produzione dell’olio. sono collegate, train granito poste in pomite assi di ferro, tre mole (diametro medio sizione verticale. All’esterno la vasca presenta un’adi 1,2 metri) e una stanga in legno da legare sul dorso del mulo. La grande pietra molare o 12 A. Monte, Lo stabilimento meccanico e la fonderia le pietre (macelli) erano maneggiate e messe Lindemann a Bari, in “Arredo & Città”, 1, Longiano in movimento “di sotto” dalla forza animale, (FC) 2007, pp. 45-6. quasi sempre un mulo11 (fig. 13). A partire dall’ultimo quarto del XIX seco13 Voce Olii, Enciclopedia cit., pp. 244-5; R.F. Simari, lo i frantoi iniziarono a essere messi in moOlivicoltura cit., pp. 144-54. vimento da altre forze motrici: prima quella idraulica e successivamente quella elettrica. 14 Lo stabilimento industriale del Barone Adolfo Colosso Si assiste quindi alla sostituzione della forcomprendeva un grande enopolio per la lavorazione za animale con un’altra forza, passando dal delle uve e la produzione di vino; un modernissimo movimento a “bestia” o “a sangue” a quello a e all’avanguardia stabilimento per la produzione motore “inanimato” con movimento di sopra o dell’olio; un mulino; un sansificio e un saponificio che di sotto mediante forza motrice. Tra le diverutilizzavano gli scarti della produzione olearia. Per una se ditte italiane che hanno costruito i frantoi più approfondita trattazione ved. A. Monte, I. Montillo, Il sito industriale di Adolfo Colosso a Ugento tra storia e patrimonio, Crace, Perugia 2009.

11 A. Monte, L’antica industria cit., pp. 51-3.

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pertura laterale e due pulegge: una nella parte sottostante e un’altra laterale. Un tubo di ferro, verticale, parte dal soffitto e arriva alla vasca. Il frantoio è del tipo Veraci e probabilmente di fabbricazione della so-

la quale è montato l’albero di trasmissione in ferro. A quest’ultimo, tramite assi in ferro, sono collegate le tre mole verticali. All’estremità superiore dell’albero è unita una prima ruota a quattro raggi collegata a un motore elettrico tramite nastro e una seconda ruota. Il motore è sistemato su un pilastro in pietra all’altezza di circa 2,5 metri, posto vicino alla vasca16 (fig. 16). Le macchine per l’estrazione dell’olio: il torchio a due viti “alla calabrese”, i torchi e le batterie a una vite “alla genovese”, i torchi idraulici Oltre alle pietre molari nei trappeti sono ancora conservati altri interessanti ordigni oleari: i torchi a due viti del tipo “alla calabrese”, i torchi a una vite del tipo “alla genovese”, le batterie di torchi a una vite “alla genovese”, vari tipi di torchi (o presse) composti da legno e pietra, o legno, pietra e ferro, infine i torchi idraulici o presse per fiscoli. In Abruzzo, nella provincia di Chieti, si conservano due preziose testimonianze di pressa a leva e a vite costituita da una lunga e grossa trave lignea. Il torchio a due viti del tipo “alla calabrese”, che probabilmente deriva dal modello della pressa a due viti descritta da Erone nel I

Martignano (LE). Frantoio di Palazzo Palmieri; torchio a una vite del tipo “alla genovese” incastrato tra due pilastri in pietra (proprietà Comune di Martignano; foto A. Monte, 1998).

cietà fiorentina, come le presse idrauliche e le pompe idrauliche acquistate in origine da Adolfo Colosso. Questo tipo di frantoio era reperibile nella versione azionata da movimento animale e, più diffusamente, in questa versione azionata da movimento meccanico. Prima della macinazione le olive erano pulite nel lavatore al primo piano dello stabilimento. Successivamente giungevano al piano inferiore da un foro nel pavimento nella vasca del frantoio attraverso il tubo verticale. La macchina entrava in funzione con il movimento delle macine che riducevano le olive in pasta. Terminata la macinazione, si sollevava l’apertura laterale, da cui fuoriusciva la pasta che era poi messa sotto le presse15 (fig. 15). Il secondo frantoio, all’interno dell’ipogeo, è costituito da una vasca in pietra che in origine era azionata dalla forza animale. Interessante testimonianza perché si conserva la vasca con bacino, tre pietre molari e pietra dormiente orizzontale (o mola di sotto) sopra

16 I. Montillo, Le macchine per la produzione olearia nei frantoi Seracca-Guerrieri, Turi ed ex Ma rulli: analisi e catalogazione, Progetto formativo e di orientamento del Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale, Università degli Studi di Padova e Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali di Lecce, a.a. 2002-2003, Tutor Arch. Antonio Monte e Prof. Ing. Gino Papuli; I. Montillo, A.M. Stagira, Le macchine dell’industria agroalimentare: l’olio e l’alcol, in Atti delle Giornate di Studi “Il patrimonio industriale della Puglia: ricerche, progetti e realizzazioni”, a cura di A. Monte, Crace, Perugia 2008, pp. 21-30.

15 A. Monte, I. Montillo, Il sito cit., pp. 124-53, 204-10.

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secolo d.C.,17 è composto da una grossa trave 19bis). Il torchio si compone di una madrevite orizzontale (pancone) attraversata da due viti fissa posta in alto; il centro della madrevite è filettate verticali, incassate su plinti di calcare trapassato da una vite mobile alla quale è induro e in alto contro il banco roccioso. Questa corporato uno zoccolo di forma troncoconica nel robusta trave orizzontale, lunga 2,6 metri cirquale, a sua volta, sono praticati fori circolari ca, alta 0,45 metri e profonda 30 che servono a infilare una stanga centimetri, era resa mobile da per stringere il torchio. Sotto lo due dadi stretti alle viti verticali; zoccolo una robusta asse di legno cinque o sei trappetari facevano (pancone o tavolaccio) esercitava ruotare questi dadi, li avvitavauna pressione sui fiscoli incolonno e consentivano alla trave di nati sotto. Durante le operazioni premere sui fiscoli incolonnati e di spremitura, il tavolaccio saliva ripieni di pasta d’olive (fig. 17). e scendeva verticalmente dalle Alcuni pezzi del torchio presendue canalette incassate nelle factano delle cerchiature di ferro ce interne delle colonne-guida. I che servivano per rinforzare le pezzi del torchio presentano alparti più soggette agli sforzi. tresì cerchiature di ferro che serDopo la seconda metà del XVIII vivano per rinforzare le parti più secolo il torchio a due viti o soggette agli sforzi. Non a caso “alla calabrese” fu sostituito dal Giovanni Presta scriveva: “Deotorchio o pressa del tipo “alla no li torchi essere ferrati, perché genovese”,18 che, avendo una sola altrimenti non resisterebbero alla gagliardia delle strette”.19 Il vite, garantiva una più perfetta e funzionale spremitura della torchio “alla genovese” era molto Martignano (LE). Frantoio di Papasta delle olive. Il torchio “alla lazzo Palmieri; torchio a una vite diffuso a Genova e in tutta la Ligenovese” era incastrato tra del tipo “alla genovese” incastrato guria, in Toscana e in altre città tra due pilastri in pietra due pilastri costruiti con con- (proprietà Comune di Martigna- dell’Italia settentrionale. Esso fu ci di pietra locale e reso mobile no; foto A. Monte, 1998). introdotto nell’Italia meridionale da due canalette incassate nelnel 1768 da Domenico Grimaldi le colonne-guida di legno inserite nei pilastri che mandò “nella provincia di Calabria Ulte(fig. 18); oppure era realizzato tutto in legno e riore, e propriamente nella Città di Seminara, incastrato nel piano di calpestio del trappeto dove la mia Casa possiede non pochi oliveti”20 o su un’imponente trave sottostante (fig. 19 e un trappetaio e produttore di olio della Riviera di Ponente, il quale portò con sé un modello di “strettojo genovese” che fece realizzare dai 17 C. Singer, E.J. Holmyard, A.R. Hall, T.I. Williams, falegnami locali. Iniziò così lentamente a difStoria della tecnologia, I, Bollati Boringhieri Editore, fondersi e fu introdotto definitivamente tra la Torino 1993, pp. 114-21. Per una più approfondita trattazione ved. W. Pellegrini, Antiche industrie di farina, olio e vino, Polis, Atri 2003, pp. 234-344.

19 G. Presta, Degli ulivi delle ulive, e della maniera di cavar l’olio, parte III, capo V, “Della costruzion del

18 Anche il torchio “alla genovese” con ogni probabilità

Fattojo”, Napoli 1794, p. 253.

deriva dalla “pressa portatile a vite unica” descritta da Erone; cfr. W. Pellegrini, Antiche industrie cit., pp. 328-9.

20 D. Grimaldi, Istruzioni cit., p. 4.

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fine del secolo XVIII e primi lustri del secolo successivo. A proposito dei limiti e dei difetti del torchio “alla calabrese” il Tupputi scrive: “Il funzionamento del torchio è pieno di difetti dal momento che esso non agisce perpendicolarmente sui canestri che contengono la pasta […]. Mi sembra che il torchio adottato a Genova e Marsiglia meriti di essere preferito a quello usato nel Regno di Napoli”.21 Il torchio era azionato solitamente da una sola persona che iniziava, a mezzo di una robusta stanga di legno, a far girare lo strettoio. Appena iniziata la torchiatura con l’aiuto di un argano verticale, al quale era legata una grossa fune, il torchio era ulteriormente messo sotto pressione e dai fiscoli incolonnati iniziava a gocciolare l’olio che veniva raccolto nei sottostanti recipienti o pozzetti di decantazione. Interessanti testimonianze per lo sviluppo tecnologico delle macchine olearie sono due batterie di torchi a una vite “alla genovese”. La prima è composta da sei torchi in legno di olivo con testata in pietra calcarea messi uno accanto all’altro e tenuti uniti dalle colonneguida, da una trave in legno posta sulla testata e da fasce di ferro che, oltre a rinforzarli, conteneva la pressione durante la spremitura (fig. 20). La seconda batteria invece è composta da otto torchi contigui dove la testata è di calcare compatto, la madrevite, la vite e lo zoccolo di ferro, il tavolaccio di legno di olivo. La batteria è unita a mezzo delle colonne-guida fatte di legno e sulla parte superiore da una trave, sempre in legno, passante per la testata di calcare. Tutta la batteria è rinforzata da fasce di ferro che oltre a tenere unite tutte le parti che la compongono servivano anche a contenere gli sforzi quando era sottoposta a

pressione durante la spremitura (fig. 21). Verso i primi anni del secolo XIX, a seguito dell’evoluzione delle tecnologie di trasformazione, compaiono i primi torchi composti da una base di calcare duro e testata, madrevite, vite, zoccolo di legno; oppure, con base e testata sempre di pietra calcarea e il resto di legno. Tutti i pezzi dei torchi sono uniti da due fa-

Ugento (LE). Stabilimento oleario di Casa Colosso; presse per la spremitura della Ditta Veraci di Firenze: sette a torre libera da 6 pollici per la prima spremitura e sei a gabbia da 12 pollici per la seconda spremitura (proprietà Giovanna Colosso; foto A. Monte, 2007).

sce di legno e da fasce di ferro che servivano a contenere la pressione durante lo sforzo della spremitura. Prima di passare alla descrizione dei torchi in ferro, merita di essere ricordato un altro importante ordigno oleario utilizzato nei processi ma poco diffuso per la sua complessità nella fase di realizzazione e di reperimento della materia prima: la pressa a leva e a vite in legno. Essa è descritta con minuzia di particolari da Vittorio Zonca nel trattato Novo teatro di machine et edificii.22 Le presse qui presentate sono conservate a Bucchianico (CH) e a Cisano di Bardolino (VR). La prima è all’interno di

21 D. Tupputi, Réflexions succintes sur l’état de l’Agricolture et de quelques autres parties de l’Administration, dans le Royaume de Naples, sous Ferdinand IV, Parigi 1807,

22 V. Zonca, Novo teatro di machine et edificii, Pietro

p. 64.

Bertelli, Padova 1607, pp. 50-2.

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un frantoio del secolo XVII oggi recuperato e adibito a Museo dell’olio di CantinArte a Bucchianico. Essa è costituita da: una trave sottostante per l’ancoraggio dei quattro pilastri (su cui poggia la grande trave o pancone) e per l’appoggio dei fiscoli incolonnati; quattro pilastri, per l’appoggio del pancone, ancorati alla sottostante trave; una grande e lunga trave o pancone (che misura in lunghezza metri 7,44 e da un’estremità si biforca in due bracci per accogliere la vite e madrevite) sotto la quale erano incolonnati i fiscoli pieni di pasta delle olive, per essere schiacciati; una madrevite; una vite; la stanga che serviva per far girare la vite e, infine, una base circolare in pietra calcare dove è ancorata la vite della pressa (figg. 22-3). La seconda è visibile presso il Museo dell’olio d’oliva a Cisano di Bardolino (sul Lago di Garda) che conserva un’interessante collezione di macchine illustranti il passaggio e l’evoluzione tecnologica tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del successivo. La pressa, realizzata nel XVIII secolo, presenta le stesse caratteristiche costruttive della precedente (fig. 23bis).23 Agli inizi dell’Ottocento compaiono i primi torchi o “strettoj a vite” di ferro che affiancano, e in parte sostituiscono, quelli tradizionali di legno. Cosimo De Giorgi scriveva: “I torchi in legno sono sostituiti da quelli in ferro, […] ed in Casarano si è intrapresa di già la frangitura a cilindri spirali nel nuovo oleificio del signor

Giuseppe Oronzo Pio”.24 Infatti, all’interno dei moderni oleifici sono utilizzati per il processo produttivo solo torchi a vite di ferro costruiti dalle ditte Oomens di Napoli25 (fig. 24), Mure di Torino, Veraci di Firenze, dalle Officine Luigi Riccardi di Galatone (Lecce), Luigi Oliva di Trepuzzi (Lecce) e da altre note ditte. I torchi erano con movimento a leva semplice (a stanga), a cricco o a leva multipla ed erano costituiti da tre o quattro colonne. Erano composti da una base per la spremitura su cui poggiavano i fiscoli; una madrevite; una vite, con annesso alloggiamento per inserire la stanca per la spremitura; un pancone sotto il quale erano incolonnati i fiscoli. Dai torchi a vite si passa ai torchi idraulici o presse per fiscoli di potenzialità diverse, azionati da pompe a mano o a motore. Costruiti in metallo e alimentati da energia idraulica ed elettrica, permettevano di ottenere pressioni elevate con piccolo sforzo. Tra il 1820 e il 1830 la lavorazione delle olive nell’Italia meridionale (in modo particolare in Puglia) iniziò a registrare un lento progresso 24 C. De Giorgi, La Provincia cit., p. 234. 25 Stabilimento Fonderia di ferro e Opificio meccanico Luigi Oomens. Discendente da una famiglia francese (originaria di Lione) di costruttori meccanici, Luigi Oomens arriva a Napoli intorno al 1834. Impianta uno stabilimento che dava lavoro a circa cento operai: esso era dotato di una piccola fonderia per la realizzazione di macchine a vapore per l’agricoltura, ma soprattutto piccole macchine per tagliare i cenci delle cartiere e i

23 Il Museo aziendale fu ideato e realizzato da Umberto

telai Jacquard in ferro. Estremamente specializzato,

Turri nel 1988; attualmente se ne occupano Flavio

l’opificio non riuscì a sollevarsi dalla crisi in cui la

Turri e Liliana Martino. All’interno si conservano

“rivoluzione” doganale post-unitaria aveva precipitato

interessanti ordigni oleari tra cui un frantoio completo

l’industria tessile napoletana; per tirare avanti era

“alla genovese” azionato da forza animale; uno azionato

costretto a produrre un’enorme varietà di modelli che,

con forza idraulica completamente funzionante; torchi

ovviamente, rendevano minimi i profitti. R. Parisi, Lo

in legno a una vite del tipo “alla genovese”; torchi in

spazio della Produzione. Napoli: la periferia orientale,

legno e ferro; pressa in ferro e tre pompe idrauliche.

Edizioni Athena, Napoli 1998, p. 103.

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che camminavano su binari fissi sul pavimento ed erano costituiti da una base circolare e un’asse cilindrica centrale sulla quale erano disposti i fiscoli, per incolonnarli sotto la pressa. Successivamente un motore elettrico azionava la pompa idraulica che sollevava i pistoni delle presse. Si apriva così una valvola, che permetteva all’acqua di introdursi dal serbatoio nel cuore della pompa. I pistoni poi si abbassavano, si chiudeva la valvola e se ne apriva un’altra che faceva passare l’acqua per il tubo di comunicazione che collegava la pompa con le presse. L’acqua, portata a ogni singola pressa tramite il tubo, s’introduceva nel cilindro sottostante e spingeva il pistone per esercitare la pressione. Il liquido usciva dai fiscoli, nei quali era trattenuta la sansa (residuo della spremitura). Le presse in metallo erano alimentate da energia idraulica ed elettrica, generando pressioni elevate con piccolo sforzo. Tutto ciò è stato possibile sfruttando principi fisici diversi, tra cui quello di Pascal (1650),28 secondo il quale la pressione esercitata esternamente sulla superficie dei liquidi si trasmette uguale in tutte le direzioni e in proporzione al rapporto tra la superficie su cui si esercita la pressione e la superficie a cui questa si trasmette. I modelli di presse idrauliche realizzati a torre libera (aperta), o chiusa, a tre o quattro colonne, sono stati prodotti da varie fabbriche locali come la Lindemann, la Biallo, la G. Lopez & C., la De Blasio e la Vitone di Bari, o come la Veraci (fig. 25), antica fabbrica di macchine olearie di Firenze, acquisita da Gennaro Pieralisi, dalla Ditta A. Calzoni di Bologna, dalla ditta “Premiate Officine Meccaniche – Fonderia in ghisa e bronzo” F.lli Mari di Lanciano e Camplone di Pescara. Esse permettevano di impiegare una quantità di pasta superiore rispetto alle presse a piatto fisso, ottimizzando i tempi di lavorazione. Di notevole interesse è l’ex stabilimento oleario di Casa Colosso che conserva tutte le presse per la spremitura, delle quali sette a torre libera da 6 pollici Veraci per la prima spremitura e sei a gabbia (sempre Veraci) da 12 pollici per la seconda spremitura (fig.

grazie ai miglioramenti tecnici e all’operato di un intraprendente e lungimirante francese: Pietro Ravanas.26 Secondo Ravanas il metodo utilizzato in Puglia, in Abruzzo e in altre regione meridionali era alquanto primitivo, inadatto a ottenere un olio “fino”, ossia commestibile. Egli fece costruire in diversi comuni di “Terra di Bari” (la denominazione originaria delle attuali province di Bari e BAT) frantoi costituiti da doppie macine, torchi di legno a vite per la prima spremitura e torchi idraulici per l’ultima spremitura, essendo già stati sperimentati in Francia soprattutto per la spremitura di oli di semi. Di queste innovazioni però, solo l’utilizzo delle doppie macine fu accolto favorevolmente; la diffusione dei torchi idraulici incontrò non poche difficoltà: “L’ignoranza di non pochi proprietari di Oliveti non ha fatto loro riconoscere la superiorità dei torchi idraulici sui torchi di legno: perché veggono uscire dai primi la pasta di ulive, benché premuta, ancora umida esternamente; secca poi, almeno in apparenza, dai secondi”.27 Le presse idrauliche sono composte in basso da una base, costituita dal pistone che svolge un movimento ascensionale quando riceve la spinta, retto nella parte sottostante da un cilindro. In alto si trova la testata. Le estremità superiore e inferiore della pressa sono collegate mediante colonne. Queste macchine erano presenti di solito in batteria, cioè in numero minimo di tre. Con un manometro gli addetti vigilavano sul livello di pressione raggiunta dalle macchine. Le presse erano collegate a una pompa idraulica tramite un tubo, detto “di comunicazione”. Gli addetti, dopo aver riempito i fiscoli con la pasta di olive sulla madia, li sistemavano alla base delle presse. Alcuni modelli erano muniti di speciali carrelli a quattro ruote, 26 P. Ravanas, Memoria sulle innovazioni introdotte nel mondo di macinar le ulive in provincia di Bari, Tipografia Sante Cannone e Figli, Bari 1845, p. 3-12; H. Schafer-Schuchardt, L’oliva: la grande storia di un piccolo frutto, Arti Grafiche Favia, Bari 1988, p. 156. 27 Ibidem, p. 4.

28 R.F. Simari, Olivicoltura cit., pp. 169-80.

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26). Inoltre all’interno dell’opificio si conservano ancora le pulegge e le cinghie di trasmissione; due pompe idrauliche delle “Fonderie Officine Biallo Eredi” di Bari, una a sei pistoni e un’altra a sette; un separatore meccanico; una filtropressa della Ditta Giannazza; una motopompa a carrello.29 La presenza di macchine in molti trappeti e stabilimenti oleari, anche se vecchie e arrugginite, è considerata oggi un patrimonio da conservare. Vero è che tale “ricchezza” giace in silenzio in attesa di essere eliminata o, in casi più fortunati, recuperata. La rimozione comporta, come è già successo, la cancellazione di un pezzo di storia e di tecnica industriale che ha dato al territorio italiano un posto degno di nota in tema di produzione olearia. In collaborazione con la Cattedra di Archeologia industriale della Facoltà dei Beni Culturali dell’Università del Salento, l’Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali di Lecce, l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale-Sezione regionale della Puglia e il Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale con sede presso il Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Padova, a partire dal 2003 è stata avviata una compagna di rilevamento scientifico30

(rilievo fotografico, in alcuni casi anche grafico e documentario) delle macchine olearie. È un passo importante per delineare un quadro quanto più possibile esaustivo della consistenza di tale patrimonio, al fine di programmare interventi di recupero e di conservazione, e soprattutto per tenere in vita lo studio dell’evoluzione tecnologica.31 Lo studio di Antonio Monte, Le macchine in uso nei processi storici di produzione dell’olio, è apparso in “Patrimonio Industriale” (Crace, Terni 2009), Notiziario semestrale a cura dell’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale, anno III, n. 4, ottobre 2009, Crace, Perugia.

31 Si ringraziano tutti gli enti e i proprietari dei trappeti e degli stabilimenti oleari che hanno permesso di svolgere i sopralluoghi sui siti, la documentazione iconografica e fotografica. Lorena Sambati e Chiara Caputo per la collaborazione durante le operazioni di rilievo metrico e la restituzione grafica dei siti e delle macchine rilevate; Francesco Gabellone per le ricostruzioni virtuali. Flavio Turri per la gentile accoglienza durante la visita al Museo dell’olio d’oliva a Cisano di Bardolino (VR).

Antonio Monte è architetto e ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali, con esperienze di docenza in architettura del paesaggio e patrimonio industriale; lavora a una serie di progetti di recupero di spazi e opifici comunemente definiti “archeologia industriale”. Tra le tante pubblicazioni

29 A. Monte, I. Montillo, Il sito cit., pp. 124-53, 211-24.

all’attivo, segnaliamo, per le Edizioni del Grifo, Frantoi 30 Il modello di scheda utilizzata per la catalogazione

ipogei del Salento (1995), Le miniere dell’oro liquido. Ar-

scientifica è quello messo a punto da Prof. Ing. Gino

cheologia Industriale in Terra d’Otranto: i frantoi ipogei

Papuli, a cui va un caro ricordo per i suoi insegnamenti,

(2000) e L’antica industria dell’olio. Itinerari di archeolo-

e pubblicato in Le acciaierie di Terni (a cura di R.

gia industriale nel Salento (2003).

Covino e G. Papuli), Electa Editori Umbri Associati, Milano 1998, pp. 107-35.

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Come una voltaMai olioofficina / orizzonti

di Domenico Fazio

Dopo l’anno orribile per la produzione olearia del mondo e, in modo particolare, dell’Italia, l’olivagione 2015 è iniziata con una forte voglia di riscatto. Le valutazioni che ho sentito più spesso sono “quantità media” (che nel mondo contadino è traducibile in “più che buona”) e “qualità eccezionale”, giudizio che nasconde approssimazioni, ma in senso inverso. È proprio questa positività e questa energia che ho avvertito negli olivicoltori più impegnati, nella speranza che facciano da enzima e da collante, affinché questo settore trovi in Italia energie nuove per cambiare e far riprendere all’Italia il ruolo di paese leader che gli compete. Se ormai è imIl sistema di coltivazione super possibile pareggiare sul fronte della quantità la intensivo non è nemico della Spagna, la quale si colloca in una natura, basta semplicemente posizione irraggiungibile e, oseusarlo con i giusti criteri. Non no troppo interei dire, nemmeressante; è invece possiamo permetterci di essere sulla qualità, sulla ricerca, sul- l’unica grande nazione produttrice la sperimentazione di prodotti nuovi e – perché di olio a vedere la propria no ? – anche su usi diversi del produzione in continuo calo. nobilissimo prodotto oliva che si devono investire le forze. Perché tutto ciò possa anche solo iniziare, occorre che la spinta verso il cambiamento prenda il sopravvento sui legami con il passato. È necessario che la curiosità per il nuovo faccia sembrare vecchie e pesanti le abitudini che ci tramandiamo da generazioni. Forse è ora di guardare con obiettività al passato e non giudicarlo

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distruggiamo in un bacino ossidativo e contapositivo solo perché corrisponde a un nostro minato come una molazza? rincuorante stato mentale. Un posto analogo nell’evoluzione industriale Mi piacerebbe vedere una filiera priva di preormai la meritano le gramole. È anacronistigiudizi e ideologie, a partire dalla campagna co parlare di fase di gramolazione, intendendove la biodiversità italiana, con centinaia di do un mix indistinto e incontrollato di fasi cultivar riconosciute, può essere terreno di colreologiche che vanno gestite separatamente. tura per ogni ricercatore, con il chiaro obiettiLa pasta di olive vo di scegliere la va spesso riscaldavarietà giusta per la Non vale appellarsi a esperienze del zona e rendere rea- passato, quando le acque di vegetazione ta, ma sempre più frequentemente, a lizzabile il prodotto erano scaricate nei fiumi che ribollivano causa della raccololio che abbiamo di trote. Si dimentica che la quantità ta anticipata e non in mente. Non ha di olive che un frantoio di un tempo per il riscaldamensenso insistere solo su piante come le processava in un anno è ora materia di to globale, va ancultivar Frantoio, pochi giorni. Dobbiamo accettare il fatto che raffreddata, e il tutto deve avvenire Leccino e Moraiolo, che si stia lavorando in un’industria in pochi secondi, se della grandissima alimentare che produce la più alta vogliamo ottenere il tradizione toscana, che tuttavia, ricor- quantità di sottoprodotti/scarti/rifiuti. massimo degli aromi dalle nostre olidiamolo, non ha mai ve. Una gramola tradizionale con camicia terprodotto più del 6 per cento dell’olio italiano, mica non potrà mai farlo. La sosta in gramola e meno dell’1 per cento della produzione mondeve avvenire per il tempo minimo necessario, diale. da far variare a seconda della varietà e maIl sistema di coltivazione super intensivo non turazione dei frutti e, assolutamente, con un è nemico della natura, basta semplicemente limitato scambio di ossigeno. Spero che l’anausarlo con i giusti criteri economici e pedoclicronistica definizione di gramola come “male matici. È chiaro che non rappresenterà mai necessario” sparisca presto insieme al suo “l’opportunità” nelle colline del Chianti, ma uso scorretto, che nella migliore delle ipotesi potrebbe essere forse una delle migliori risorprevedeva un tempo di 45 minuti e l’acqua di se per alcune aree del Sud. riscaldamento a 38 °C. Sarebbe bello che non importassimo però il Anche la centrifugazione, per quanto ormai lavoro di selezione fatto per altre nazioni: posmatura, merita attenzioni critiche legate siamo e dobbiamo sviluppare un nostro profiall’uso che intendiamo fare dei sottoprodotti, lo. Non possiamo permetterci di essere l’unica avendo bene in mente che lo scarico combinagrande nazione produttrice di olio a vedere la to o separato di acqua e sansa non costituipropria produzione in continuo calo. sce di per sé un vantaggio ecologico. Non vale Nel frantoio, dovrebbe ormai essere associata appellarsi a esperienze del passato, quando le alla storia della elaiotecnica qualsiasi immaacque di vegetazione erano scaricate nei fiumi gine che riproduca una macina in pietra, una che ribollivano di trote. Si dimentica il fatto pressa o un decantatore statico. Come possiache la quantità di olive che un frantoio di un mo cercare la maturazione ottimale al fine di tempo processava in un anno è ora materia di ottenere il miglior profumo dell’olio, se poi lo 50


pochi giorni. Dobbiamo accettare il fatto che si stia lavorando in una industria alimentare che produce la più alta quantità di sottoprodotti/scarti/rifiuti (la terminologia più appropriata la lascio scegliere agli esperti burocrati in funzione della norma più conveniente da applicare). Tra acqua e sanse per ogni 100 kg di olive, a fronte dei 14-16 kg di olio ricavati si producono ben 95-150 kg di sostanze da trattare. I sistemi per un uso rispettoso dell’ambiente esistono e i costi sono compatibili con lo scarico legale attualmente in uso, mentre altri confronti non si pongono. Infine, in nome di un trattamento gentile dell’olio, evitare la centrifugazione finale, conservando olio sporco, costituisce un crimine assoluto: basti pensare agli spagnoli, che per ridurre i costi di produzione avevano “rivoluzionato” il ciclo produttivo con i decantatori statici, trovandosi poi gran parte degli oli declassati.

generale delle quote di mercato, attingendo al restante 97 per cento degli altri grassi consumati nel mondo. Mi piacerebbe vedere pubblicità non più legate alla famiglia seduta a tavola (che esiste ancora!), ma che propongano abbinamenti con cibi e ambientazioni che attirino i giovani. Ho visto con interesse e ammirazione quanto proposto dall’associazione interprofessionale spagnola (che promuove l’intero comparto) con la realizzazione di una serie di spot con solo giovani che consumano pasti veloci in bei locali, sempre abbinati a un ottimo olio rigorosamente spagnolo. In conclusione, spero che guardando alla nostra tradizione sapremo rendere onore proprio allo spirito di innovazione che hanno avuto in passato coloro che in questo settore hanno lavorato, donandoci una posizione di prestigio universalmente riconosciuta. Troviamo il coraggio di fare nostro quello spirito, cosa che fino ad ora abbiamo fatto fin troppo poco. Vi invito a visitare il museo di Leonardo a Vinci: vedrete un frantoio del 1400. Non è molto diverso da quello che è stato usato sino a pochi anni fa.

Trovo necessario smettere di competere tra oli extra vergini di oliva per bandiere, in favore di una competizione per qualità oggettive, riconosciute e riconoscibili. Fra gli obiettivi che ritengo si debbano raggiungere, c’è il lavoro per rendere riconoscibile a tutti (anche al consumatore meno evoluto) un extra vergine di eccellenza, che forse è ancora troppo simile a uno medio, e per avere un olio di oliva globalmente diverso da uno di semi. Trovo necessario, inoltre, smettere di competere tra oli extra vergini di oliva per bandiere, in favore di una competizione per qualità oggettive, riconosciute e riconoscibili. L’olio da olive rappresenta solo il 3 per cento dei grassi edibili: sarebbe molto più proficuo lottare tutti insieme per conseguire un incremento

Domenico Fazio, Business Unit Manager Alfa Laval Spa, è anche olivicoltore in proprio, con un’azienda agricola a Vinci, alle porte di Firenze, dove con Carlo Bianchi e Giampaolo Lupi ha creato il marchio “Da Vinci – Desire Collection”.

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Glinon Olivi graditi

olioofficina / orizzonti

di Eddo Rugini

allo Stato italiano

Perché è necessario sviluppare la ricerca sulle piante transgeniche di olivo? Il consumo di olio extra vergine da olive nel mondo è in costante crescita da diversi anni: non è più possibile rimandare un programma di rinnovamento degli impianti olivicoli in quei paesi, tra cui l’Italia, che hanno impianti obsoleti e scarsamente produttivi, per aumentare la quantità e la qualità dell’olio prodotto. È imprescindibile pertanto l’adozione di tutte le migliori tecnologie agronomiche e di trasformazione che la scienza ha significativamente contribuito a perfezionare negli ultimi anni. È altresì importante adeguare la piattaforma varietale alle nuove esigenze degli imprenditori agricoli, in particolare in un momento in cui anche i cambiamenti climatici hanno iniziato a far sentire la loro influenza, spesso negativa, favorendo in certe annate gli attacchi parassitari, nonché la riduzione del prodotto causata da sempre più improvvisi e inaspettati stress di varia natura abiotica. È necessario rafforzare la ricerca sul miglioramento genetico dell’olivo che, rispetto ad altre specie da frutto, ha avuto in questi anni un progresso molto lento. Le cause di tale lentezza sono da imputare prevalentemente all’estrema longevità della specie e al lungo periodo di giovanilità delle discendenze derivanti da seme, nonché alla deferenza che l’uomo ha sempre avuto sin dall’antichità per questa pianta. Recentemente, a frenare il miglioramento genetico si è aggiunta la diffidenza del pubblico ad accettare le potenziali nuove varietà che potrebbero scaturire dall’applicazione delle tecnologie del Dna ricombinante, tecnologie alle quali la scienza ha fatto ricorso per accelerare i tempi di realizzazione di nuove varietà. Attraverso questa tecnologia si è cercato di correggere alcuni difetti delle migliori cultivar tradizionali praticando una sorta di “terapia genica” e nel contempo di mantenere inalterati i pregi. Questa diffidenza ha comportato come conseguenza non solo il

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vari tipi di stress, inclusi la tolleranza a malattie fungine, al freddo e soprattutto a siccità. Aveva anche prodotto piante modificate nell’architettura facendo sovra-esprimere i geni rol, anch’essi presenti come il precedente in alcune piante coltivate, con lo scopo di ridurre la mole delle piante, carattere molto richiesto per progettare impianti intensivi. Purtroppo non è stato possibile realizzare un esame completo della performance di queste piante a causa dell’interruzione forzata della sperimentazione di campo da parte del Ministero dell’Ambiente, che alla scadenza del periodo di autorizzazione di dieci anni non ha concesso una proroga necessaria a completare le ricerche programmate. La proroga non è stata concessa per le inadempienze delle Regioni e del Ministero delle Politiche Agricole che non avevano applicato le direttive UE in materia di sperimentazione di campo degli OGM. Queste “volute” inadempienze da parte degli stessi Enti pubblici che in precedenza l’avevano finanziata hanno fortemente penalizzato la ricerca sulle PGI. Sebbene non esaustivi, i risultati ottenuti in campo fino al momento dell’espianto coatto delle piante erano molto chiari nell’indicare la possibilità di applicare queste tecniche con successo anche all’olivo. La proteina sovraespressa in questi olivi transgenici era una proteina appartenente al gruppo delle proteine di difesa (PR = Pathogenesis Related), le stesse studiate e fortificate con trattamenti chimici esterni per migliorare le difese delle piante, inclusa la vite, per difenderla dalla Xilella fastidiosa (ved. Coqueiro et al. 2011, 57° Congresso Brasileiro de Genetica). Questa proteina è studiata dai medici in quanto ha proprietà antinfiammatorie e si è rivelata un omologo dell’ormone umano adiponectina, coinvolto nel metabolismo del glucosio. Pertanto, si ritiene essere una proteina promettente per nuove terapie, in particolare per la

rallentamento dello sviluppo delle tecnologie necessarie per il progresso delle PGI (Piante Geneticamente Ingegnerizzate), ma anche per quello delle tecniche tradizionali, alcune delle quali sono comuni sia per la realizzazione delle PGI sia per il miglioramento genetico tradizionale. In questo momento storico il miglioramento genetico (MG) è orientato a selezionare varietà adatte alla coltivazione ad alta densità, alla meccanizzazione integrale

La ricerca è trascurata a causa della diffidenza nei confronti dei prodotti derivati da piante transgeniche, influenzata da una propaganda indirizzata a valorizzare tutto ciò che fa riferimento alla genuinità perduta e alla lavorazione artigianale dei prodotti, facendo percepire come “cattivo” tutto ciò che è nuovo. di tutte le operazioni colturali, e in grado di produrre elevati quantitativi di olio di buona qualità per unità di superficie, ricorrendo per il momento a incroci inter-varietali senza escludere la possibilità di quelli inter-specifici allo scopo di aumentare la resistenza ad alcune malattie e conferire all’olio caratteristiche aromatiche non riscontrabili in Olea europaea sativa. Riunire tutte le caratteristiche di pregio in un solo individuo in breve tempo, usando solo le tecniche tradizionali, è un’impresa assai ardua. L’Università della Tuscia, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, si era fortemente impegnata nel settore biotecnologico, con innegabili successi. Aveva infatti prodotto piante transgeniche della cultivar Canino sovraesprimenti il gene dell’osmotina, presente in tutte le piante e la cui proteina è coinvolta in 54


Lo stop alla ricerca su questo tipo di MG ha cura di diverse patologie tra cui il diabete, il provocato, soprattutto in Italia, un rallentacancro e alcune malattie del sistema nervoso mento nel progresso biotecnologico in generacentrale (Naseer et al. 2014). La stessa prole. Molti laboratori strateina era in grado di ridurre la suscettibiliIn Italia un razionale dibattito nieri, i cui governi non tà all’occhio di pavone sull’importanza delle biotecnologie hanno posto così strette limitazioni come in Itadell’olivo, contro il quale sono necessari almeno non è mai nato, né sul metodo né lia, hanno proseguito sul merito. Si è dato spazio nella ricerca e ora sono due trattamenti all’anin grado di sostituire no a base di rame per solo alle voci più sconvenienti. una singola sub-unità contenere l’infestazione all’interno di un singolo gene in alcune specie fungina. Inoltre la sovra-espressione di quevegetali, un passo in avanti nella tecnologia sta proteina conferiva alle piante di olivo una di trasformazione genetica tradizionale. Un straordinaria resistenza a stress idrici e al risultato non propriamente positivo, in quanfreddo. Queste piante in vitro, insieme a quelto è venuta meno la dovuta attenzione alla le di Actinidia (Kiwi) transgeniche per questa trasformazione genetica classica che ancora proteina, “non gradite allo Stato italiano”, potrebbe esprimere tanto del suo potenziasono state affidate, previa convenzione, a una le. Questa nuova tecnologia, chiamata “gene importante Università negli Stati Uniti. Graediting”, per alcune situazioni è sicuramente zie a questa collaborazione sarà possibile appiù precisa della tradizionale trasformazione profondire gli studi, con l’obiettivo di riuscire genetica, ed è vista come la soluzione di tutti a commercializzare queste piante in un prosi problemi, ma in realtà ha già iniziato a mosimo futuro. È al di sopra di ogni assennatezstrare alcune caratteristiche non propriamenza che solo per motivi ideologici si distruggano te positive. Di sicuro le piante modificate con decenni di lavoro, tra l’altro pionieristico, e poi questa tecnica dovranno beneficiare di una lechissà tra qualche anno, quando gli animi del gislazione ad hoc per sottrarsi alle leggi vigendissenso si saranno calmati o meglio quando ti sulle PGI, in quanto si tratta comunque di sarà fatta una corretta comunicazione da paruna modifica del genoma. Purtroppo, per insete dei media, le stesse piante potrebbero ritorguire le mode, si lasciano incompiute le altre nare in Italia per essere coltivate, magari antecnologie, pur nella consapevolezza che anche in biologico, se nel frattempo i sostenitori che quelle più avanzate non saranno mai scedelle “organic plants”, piante ingegnerizzate vre da difetti e non potranno essere applicate da usare in coltivazione in biologico, avranno convenientemente a tutte le piante. È necesfatto valere le loro ragioni. sario disporre di più tecniche, che andrebbero Oggi, nei paesi sviluppati ci si costantemente migliorate con finanziamenti preoccupa tanto, legittimamente, adeguati, pronte per essere utilizzate all’ocdel “cibo sprecato” per motivi legati correnza a discrezione di genetisti e agronomi, in base alla convenienza tecnico-scientifica ed alla sicurezza alimentare o alle abitudini radicate nelle popolazioni, economica per quella determinata pianta in quel particolare momento. ma troppo poco ci si preoccupa In una specie come l’olivo l’abbinamento di del “cibo perso”. tecniche moderne e tradizionali è quasi ob55


di alcune organizzazioni degli stessi produttori, che tutto ciò che è nuovo è “cattivo”. Le imprese hanno dovuto pertanto adeguare le proprie strategie di comunicazione e quindi di commercializzazione. L’informazione pubblica in materia ha contribuito fortemente a ostacolare l’accettabilità dei cibi derivati da piante trans-geniche, perché spesso scorretta, confusa, di parte e demagogica. L’UE cerca di scaricare sugli Stati membri le decisioni più importanti relative alle PGI, spostando i conflitti dal piano politico e legislativo a quello amministrativo e infine a quello giudiziario (ved. Decreto Consiglio dei Ministri Italiano “Campolibero”, Piano di azioni per semplificazioni, lavoro, competitività e sicurezza nell’agroalimentare GU del 28 giugno 2014, che prevede sanzioni per chi coltiva OGM in Italia), col risultato che si è finito per rendere le biotecnologie finanziariamente accessibili quasi unicamente a una élite di imprese private, spesso anche produttrici di fitofarmaci, le quali non hanno alcun interesse a sviluppare le ricerche per le piante arboree, sia per l’esigua quantità di piante che potrebbero vendere, sia per il conseguente minor profitto derivante dalla vendita dei fitofarmaci. Al

bligatorio se si vogliono abbreviare i tempi di realizzazione di piante migliorate. Una via da perseguire consisterebbe nella produzione di piante madri transgeniche per precocità di fioritura, cioè con ridotta o assente giovanili-

Lasciare tutto nelle mani delle multinazionali è un grave errore, come sarebbe un errore estrometterle; è necessario trovare un giusto equilibrio, non fosse altro che per esercitare un reciproco controllo. tà, i cui geni già disponibili se sovra-espressi inducono le piante a fiorire dopo due o tre anni invece dei dieci anni e oltre attualmente necessari. Queste piante transgeniche sarebbero usate solo come “fattrici”, cioè capaci di produrre a ogni incrocio metà piante transgeniche per questo carattere e metà normali. La selezione di piante migliorate da usare per la coltivazione verrebbe operata solamente tra quelle non trans-geniche, mentre quelle con il trans-gene verrebbero impiegate solo per essere incrociate con qualsivoglia varietà portatrice di caratteri interessanti da trasferire nelle progenie. In questo modo si possono ottenere nuove ricombinazioni geniche, per alcuni caratteri e in modo molto rapido, senza ricorrere alla coltivazione con piante transgeniche per produrre olive da cui estrarre l’olio o da usare per il consumo diretto. La ricerca in questo settore innovativo è trascurata a causa della diffidenza di una parte della popolazione nei confronti di prodotti derivati da piante transgeniche, influenzata pesantemente da una propaganda indirizzata a valorizzare tutto ciò che fa riferimento ai territori e alle loro tipicità, alla genuinità perduta e alla lavorazione artigianale dei prodotti, facendo percepire, anche con l’avallo

Tutti parlano di innovazioni in agricoltura ignorando che “senza la ricerca non ci potranno essere innovazioni”. Riuscire a far coesistere agricoltura integrata, biologica e biotech sarebbe un segnale di civiltà e di lungimiranza.

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L’immobilismo, la distruzione delle conoscenze e il porre veti ovunque impediscono di trovare una via di crescita e nel contempo accelerano il declino culturale ed economico. Rinunciare a un’innovazione è spesso più rischioso che adottarla.

potrebbero essere migliorate utilizzando, con la dovuta cautela, tecnologie più avanzate. L’Italia purtroppo oramai è tagliata fuori anche da questa straordinaria tecnologia che avrebbe contribuito a produrre innovazioni a vantaggio di tutti, inclusi i numerosi giovani scienziati costretti a emigrare per andare a rafforzare la ricerca privata. Lasciare tutto nelle mani delle multinazionali è un grave errore, come sarebbe un errore estrometterle; è contrario, dovrebbe essere la ricerca pubblica, necessario, piuttosto, trovare un giusto equilicol sostegno incondizionato dello Stato, a ocbrio, non fosse altro che per esercitare un recicuparsene, per il beneficio economico del noproco controllo. Impedire la sperimentazione stro Paese e per la tutela della salute di tutti di campo crea confusione nella valutazione i cittadini, attraverso programmi a lungo terdelle piante transgeniche; spesso ciò che si mine, nel caso delle piante arboree di almeno verifica in condizioni protette non è un indidieci anni. catore affidabile di ciò che potrebbe accadere In Italia un razionale dibattito sull’importanall’esterno, come dimostrato a livello scientifiza delle biotecnologie non è mai nato, né sul co da oltre dieci anni. metodo né sul merito. Si è dato spazio solo Accordare il permesso di sperimentare a cielo alle voci più sconvenienti, ovvero quelle conaperto potrebbe essere un primo segnale di trarie alle PGI, quando gli attuali oppositori, fiducia verso la scienza, oltre che un atto di inclusi i fautori delle “coltivazioni in biologirispetto dovuto alle direttive europee. Tutti co” dovrebbero essere i primi a sostenere le parlano di innovazioni in agricoltura ignoranbiotecnologie per rafforzare i loro obiettivi do che “senza la ricerca non ci potranno essere nel ridurre l’impatto delle pratiche agricole innovazioni”. Riuscire a far coesistere tre realsull’ambiente. tà (agricoltura integrata, biologica e biotech) Oggi, nei paesi sviluppati ci si preoccupa tano meglio far “convivere con chi coesistere non to, legittimamente, del cibo sprecato per motivuole” sarebbe un segnale di civiltà e di lunvi legati alla sicurezza alimentare o alle abitudini radicate nelle È errato anteporre la legge alla scienza, gimiranza. Il tanto deplorato trasferipopolazioni, ma tropsenza discuterne prima in maniera mento accidentale di po poco ci si preoccuapprofondita. Dalla discussione polline appartenente pa del cibo perso. La a una coltivazione perdita, che avviene tra scienza e politica scaturisce biotech alla vicina soprattutto nei luol’elaborazione di buone leggi. coltura tradizionale ghi di produzione, è potrebbe valere, in certi casi, anche per il condovuta da un lato all’arretratezza di una agritrario! In una discussione aperta, se voluta, coltura poco più che di sussistenza, ma tanto si può trovare una via condivisa per procecara a certe lobbies dell’agroalimentare o deldere. L’immobilismo, la distruzione delle cola ristorazione dei paesi ricchi, dall’altro alla noscenze e il porre veti ovunque impediscono presenza di varietà vegetali non più adeguate di trovare una via di crescita e nel contempo a una coltivazione sostenibile perché troppo accelerano il declino culturale ed economico. suscettibili a stress di varia natura, ma che 57


Rinunciare a un’innovazione è spesso più rischioso che adottarla. È importante esaminare le PGI caso per caso prima di prendere qualsiasi decisione. È errato anteporre la legge alla scienza, senza discuterne prima in maniera approfondita. Dalla discussione tra scienza e politica scaturisce l’elaborazione di buone leggi. Purtroppo quelle poche discussioni che sporadicamente hanno luogo avvengono in un clima non politico, nel senso più alto di questa parola, ma solo ideologico, oltretutto aggravato da un pesante oscurantismo mediatico e soprattutto in assenza degli scienziati, ignorando in tal modo le verità complesse. Estratto dalla review dello stesso autore Piante da frutto transgeniche e considerazioni sulle conseguenze dei divieti imposti alla ricerca in Italia, in “Italus Hortus”, 22 (1) 2015, pp. 31-57; e dall’articolo di E. Rugini, C. Silvestri, Ricerca, luce e ombre. E l’Italia resta al palo, in “Olivo e Olio”, 4, 2015, pp. 40-4.

Eddo Rugini, professore presso il Dipartimento di Scienze agrarie e forestali dell’Università della Tuscia, opera nel settore delle coltivazioni delle piante arboree, della propagazione con metodi tradizionali e innovativi, della fisiologia della radicazione, del miglioramento genetico con tecniche biotecnologiche e del controllo del differenziamento fiorale e dell’allegagione.

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passione per l’aceto balsamico di modena I.G.P.

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www.giuseppecremonini.com


Modelli per

olioofficina / orizzonti

l'olivicoltura italiana

Il necessario rinnovamento di un comparto olivicolo che appare vetusto di Primo Proietti, Giuseppe Campisi, Luca Regni, Luigi Nasini e Tiziano Caruso

Secondo il Consiglio Oleicolo Internazionale (COI), la produzione mondiale di olio d’oliva negli ultimi anni è aumentata di pari passo con i consumi, attestandosi nel 2013 su circa 3,2 milioni di tonnellate. In particolare, è molto cresciuto il potenziale produttivo della Spagna (circa 1,77 milioni di t), come quello di altri paesi del bacino del Mediterraneo (Tunisia, Siria, Turchia e Marocco) e di alcuni paesi “emergenti” (Cile, Australia, Argentina, ecc.), mentre si è assistito a un progressivo arretramento dell’Italia (circa 0,46 milioni di t). L’assetto strutturale di gran parte dell’olivicoltura italiana, caratterizzato da una forte polverizzazione aziendale e dalla prevalenza di impianti olivicoli tradizionali spesso collocati in aree con condizioni pedoclimatiche e orografiche inadatte alle esigenze di un’olivicoltura intensiva, impedisce sostanziali riduzioni dei costi di produzione e aumenti di produttività, con conseguente progressiva perdita di competitività sulla base del prezzo. Considerato che i quantitativi di olio annualmente prodotti in Italia sono largamente inferiori ai consumi nazionali (circa 600.000 t/anno) e che il nostro Paese è il primo importatore mondiale di olio di oliva (481.000 t/anno), sussistono i presupposti per investire in questo comparto, puntando a un progressivo rinnovamento di impianti esistenti e all’ampliamento delle superfici investite. Nell’ottica di rilanciare la competitività della nostra olivicoltura, per i nuovi impianti sono essenzialmente due i sistemi attualmente proposti: l’“intensivo” e il “superintensivo”, progettati per garantire maggiori produzioni unitarie e minori costi di produzione, soprattutto attraverso la meccanizzazione della raccolta. Indipendentemente dal modello olivicolo prescelto, obiettivo prioritario delle aziende olivicole è anche l’ottenimento di un adeguato livello qualitativo del prodotto,

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ziato, sono ovviamente destinate a consumi e a consumatori diversificati. L’olio standard è rivolto a un’ampia fascia di consumatori più attenti al prezzo di vendita che alle peculiari caratteristiche sensoriali; questi consumatori identificano la qualità essenzialmente con la rispondenza ai parametri chimico-analitici stabiliti dalle normative e in genere preferiscono prodotti con caratteristiche sensoriali non impegnative (il fruttato, l’amaro e il piccante medio-leggeri meglio si adattano al gusto medio della popolazione). Presupposto indispensabile per la produzione di un olio extra vergine standard è il basso costo di produzione, che può essere raggiunto solo adottando modelli d’impianto che consentano di ottenere alte produttività e meccanizzazione spinta delle operazioni colturali, con particolare riferimento alla raccolta. Per perseguire tali obiettivi sono necessari: appezzamenti ampi, omogenei e pianeggianti che facilitino la meccanizzazione, impianti ad alta densità, possibilmente irrigui, che consentano di ottenere precoci e abbondanti produzioni, la coltivazione di un numero limitato di cultivar resistenti alle avversità ambientali e parassitarie, produttive, poco alternanti e forme di allevamento adattabili alla meccanizzazione. Attualmente, il modello d’impianto che a livello internazionale sembra soddisfare più di ogni altro tali esigenze è quello superintensivo, che consente la pressoché completa meccanizzazione e la standardizzazione dell’impianto e delle tecniche colturali; tuttavia appare ancora prematuro esprimere un giudizio definitivo poiché sperimentazioni e valutazioni agronomiche ed economiche sono ancora in corso nei vari paesi olivicoli. In ogni caso, questo modello, imponendo l’impiego delle poche cultivar ad esso adattabili, non consente di sfruttare la ricca biodiversità della specie (sono oltre 500 le cultivar di olivo coltivate in Italia) cui è connessa la possibilità

nella consapevolezza che per l’olivo la produttività e la qualità non sono correlate negativamente. Due modi di competere: olio extra vergine “standard” e olio extra vergine “differenziato” Nell’ambito della produzione di olio extra vergine d’oliva, la scelta del modello di impianto dell’oliveto non può prescindere dalla strategia di marketing che si intende perseguire per competere nei mercati nazionali e internazionali: competitività sulla base del prezzo, proponendo ai consumatori un olio extra vergine di oliva di qualità standard (“produzione di massa”), conforme alle normative e con un prezzo contenuto; l’olio standard può essere inteso come “commodity”; competitività sulla base della qualità sensoriale, offrendo ai consumatori una varietà di oli con elevati standard qualitativi e caratterizzati da specifiche peculiarità sensoriali, ossia un olio differenziato (“produzione artigianale”); l’olio differenziato è da intendere come una “specialità alimentare”. Da un punto di vista etico, l’olio standard ha una missione sociale: rendere l’olio di oliva extra vergine accessibile al consumo di massa grazie a un prezzo contenuto. L’olio differenziato, invece, ha una missione culturale, ossia preservare la biodiversità dell’olivo e lo straordinario patrimonio di tradizioni alimentari legate al bacino mediterraneo e all’uso di differenti oli extra vergini di oliva nelle diverse preparazioni culinarie. Rivendicare la specificità di questi prodotti significa quindi esaltare i valori unici e inimitabili alla base della loro produzione, di conseguenza l’olio differenziato può contribuire a difendere le valenze paesaggistiche, sociali, storiche e culturali associate ai relativi territori di origine. Le due tipologie di olio, standard e differen61


distanze di impianto variabili da 5-6 × 4-5 m, con le varietà meno vigorose e/o nelle condizioni ambientali e colturali meno favorevoli all’attività vegetativa dell’albero, a 7-8 × 6-7 m, con le cultivar più vigorose e nelle situazioni che favoriscono un elevato vigore vegetativo; forma di allevamento che consenta buona illuminazione della chioma, longevità dell’albero e facile esecuzione delle operazioni colturali, con particolare riferimento alla meccanizzazione della raccolta, effettuata con vibratori di tronco muniti di ombrello intercettatore; la forma di allevamento più utilizzata è il “vaso policonico” costituito da un tronco singolo sul quale si articolano tre-quattro branche principali, impalcate a 100-120 cm di altezza, ben spaziate e che formano un angolo di 30-35° rispetto all’asse verticale; per favorire la regolare illuminazione anche delle branchette fruttifere inserite nelle parti inferiori e più interne della chioma, alla vegetazione inserita sulle branche principali deve essere impressa una conformazione semiconica, con branche secondarie inserite lateralmente e all’esterno delle branche primarie; l’altezza totale della pianta non deve superare i 4-4,5 m e il volume complessivo della chioma dovrebbe oscillare tra 40 e 60 m3 in funzione sia del vigore e del portamento della cultivar sia delle condizioni ambientali. Altre forme di allevamento impiegate sono il globo, il monocono, ecc. Il modello superintensivo, che da qualche anno si sta progressivamente diffondendo in Spagna e in altri paesi (Tunisia, Marocco, California, Australia, Portogallo, Francia, Cile, Argentina, Italia, ecc.), è invece caratterizzato da: densità di impianto di 1.600-2000 piante/ha; sesto rettangolare, con distanze di impianto di 3,5-4 x 1,3-1,6 m (le più utilizzate sono di 4 × 1,5 m); piante allevate ad asse centrale a formare

di produrre oli differenziati (tipici). L’olio differenziato è destinato a consumatori esigenti e selettivi, in genere di cultura e reddito medio-alti, che valutano il prodotto in base alla sua capacità di soddisfare specifiche esigenze edonistiche e/o nutrizionali-salutistiche, per le quali sono disposti a riconoscere un premio sul prezzo. Pur con una certa variabilità determinata dall’andamento climatico, il produttore ogni anno, attraverso la scelta dell’epoca di raccolta, l’opportuna mescolanza delle diverse varietà e il sapiente uso delle tecnologie di trasformazione, dovrebbe essere capace di riproporre lo specifico profilo sensoriale che caratterizza il suo prodotto, così da fidelizzare la propria clientela. Non si deve inoltre sottovalutare che il consumatore apprezza nel prodotto differenziato anche suggestioni culturali e il legame con il territorio di origine e con il produttore. Nell’ottica della differenziazione di prodotto, un presupposto fondamentale è l’impiego di cultivar (in genere autoctone) che, assieme alle particolari condizioni ambientali e colturali dei diversi distretti olivicoli, consentono di tipicizzare l’olio. La gestione colturale, ovviamente, deve essere finalizzata a potenziare gli specifici caratteri che differenziano il prodotto, anche a svantaggio, se necessario, della quantità di olio prodotta. La produzione di olio differenziato nella nuova olivicoltura va indirizzandosi verso impianti intensivi, con medio-alto livello di meccanizzazione, che essendo adatti a tutte le cultivar consentono di valorizzare il rilevante germoplasma olivicolo. Peculiarità del modello di impianto intensivo e superintensivo Il modello intensivo, affermato sia nei paesi produttori tradizionali sia in quelli emergenti, è caratterizzato da (tabella 1): densità di impianto di 200-400 piante/ha; 62


ferenziati deve essere privilegiata la presenza di cultivar, in genere autoctone, in grado di tipicizzare/differenziare il prodotto, mentre l’olivicoltura superintensiva è attuabile solo con quelle poche cultivar con habitus vegetativo idoneo alla raccolta meccanizzata tramite macchine scavallatrici. Oltre agli irrinunciabili caratteri di bassa vigoria e portamento compatto della chioma, altre favorevoli caratteristiche che dovrebbero avere le cultivar da utilizzare negli impianti superintensivi sono il basso costo (propagate

pareti di vegetazione per attuare la raccolta meccanica in “continuo” con le macchine scavallatrici, già ampiamente utilizzate in viticoltura, che impiegano 3-4 ore/ha con due soli operatori; requisito fondamentale è che il volume dell’albero, e quindi della parete di vegetazione, rimanga entro le dimensioni della camera di raccolta della macchina scavallatrice che, di solito, misura 1,5 m di larghezza e 3 m di altezza; Tabella 1 – Principali caratteristiche degli im-

Caratteristiche

Modello intensivo

Modello superintensivo

Densità di impianto

200-400 piante/ha

oltre 1.500 piante/ha

Cultivar

Tutte le cultivar idonee nell’ambiente di riferimento

Solo cultivar con basso vigore e portamento compatto

Produttività

6-12 t/ha

9-12 e oltre t/ha

Principali vantaggi

Specifico profilo sensoriale, conservazione della biodiversità

Bassa richiesta di manodopera, precoce entrata in produzione

Economia

Idoneo anche per piccole aziende, necessita di capacità di promuovere la specificità sensoriale

Idoneo per grandi superfici, necessita di elevati investimenti

quindi per talea), l’autofertilità, l’entrata in produzione precoce (2°-3° anno), la stabilizzazione della produzione a partire dal 5° anno, l’elevata produttività, l’alta resa in olio, la non eccessiva scalarità della maturazione dei frutti, la resistenza all’occhio di pavone e alla rogna, la resistenza dei frutti all’impatto con i battitori della macchina raccoglitrice, la buona qualità dell’olio.

pianti intensivi e superintensivi (rielaborata da Ilarioni e Proietti 2014). Scelta varietale in funzione del modello di impianto e riflessi sulla qualità dell’olio Un elemento che differenzia fortemente i due modelli di impianto intensivo e superintensivo è la cultivar, poiché si ribadisce che negli impianti finalizzati alla produzione di oli dif63


una relazione tra cultivar e qualità dell’olio può essere semplicistico e fuorviante, poiché la composizione e il profilo sensoriale di un olio extra vergine di oliva dipendono non solo dalla cultivar, ma anche dalle condizioni ambientali, dal grado di maturazione delle olive alla raccolta e dal processo di trasformazione. I risultati possono variare sensibilmente con il cambiamento di uno qualsiasi di questi fattori. A tale riguardo, occorre pure considerare che l’introduzione in un territorio di cultivar provenienti da altre aree geografiche può comportare significativi e imprevisti cambiamenti, non solo nel comportamento vegetoproduttivo dell’albero e nella resistenza alle avversità, ma anche nella qualità dell’olio. Ad esempio, la tabella 2 mostra come la composizione in acidi grassi della cultivar Arbequina possa variare ampiamente in funzione dell’ambiente di coltivazione.

Attualmente le cultivar che soddisfano tutti o gran parte di tali requisiti sono l’Arbequina (cultivar spagnola), l’Arbosana (cultivar spagnola) e la Koroneiki (cultivar greca) e i relativi cloni. Queste cultivar, e in particolare l’Arbequina (che è la più utilizzata negli impianti superintensivi), si stanno rapidamente diffondendo in tutto il mondo in combinazione agli impianti superintensivi, anche perché dal punto di vista vegeto-produttivo stanno mostrando buona capacità di adattamento ai diversi ambienti, anche se è emersa una certa sensibilità ad alcuni stress (idrico e da alte temperature, in particolare). Altre cultivar promettenti, ma ancora in fase di valutazione, sono l’Oliana (ottenuta incrociando Arbequina x Arbosana), le italiane Don Carlo, FS-17, Urano (che sembra la migliore) e Tosca (che è una selezione di Urano), l’israeliana Askal e la spagnola Sikitita. Ricerche sono in corso per selezionare portinnesti nanizzanti che, se riuscissero a controllare lo sviluppo della pianta innestata, consentirebbero di ampliare il panorama varietale utilizzabile negli impianti superintensivi. In relazione agli aspetti qualitativi, stabilire

Tabella 2 - Composizione in acidi grassi della cultivar Arbequina in diverse regioni di coltivazione (rielaborata da Ilarioni e Proietti 2014). In ricerche collegiali, condotte da tre Istituti

Regione

Acido palmitico

Acido oleico

Acido linoleico

La Rioja (Argentina)

20

52

21

Andalusia (Spagna)

16

65

13

Catalogna (Spagna)

13

72

10

Sicilia (Italia)

18

64

12

Puglia (Italia)

18

66

10

Umbria (Italia)

14

74

8

64


areali più caldi (Puglia e Sicilia), l’olio prodotto nel sito umbro è risultato leggermente più amaro e piccante e con un fruttato più intenso. In un’altra sperimentazione condotta in un impianto superintensivo in Puglia, Camposeo et al. (2009) hanno rilevato una buona qualità degli oli di Arbequina, Arbosana, Koroneiki e Urano. L’olio di Urano, in particolare, ha fornito i migliori risultati, seguito, in ordine decrescente, da Koroneiki, Arbosana e Arbequina. Nel complesso, gli oli sono risultati caratterizzati da un basso contenuto in fenoli, tanto da poter essere definiti “dolci”, come, ad esempio, quello della cultivar Ogliarola barese o della Cima di Bitonto.

universitari italiani in Sicilia, Puglia e Umbria, per valutare la risposta della cultivar Arbequina in impianti superintensivi realizzati in diversi contesti ambientali, in tutti i siti è stata ottenuta una buona qualità chimicosensoriale dell’olio e, in particolare, è stato rilevato un maggior contenuto di acido oleico negli oli prodotti in Umbria (76%), dove le temperature estive e la disponibilità di acqua nel suolo in genere non costituiscono fattori di stress. Il contenuto in acidi grassi saturi e polinsaturi e il rapporto acidi grassi insaturi/saturi sono risultati più elevati negli oli ottenuti in Puglia e Sicilia rispetto a quello umbro; nel 2011 in Puglia, presumibilmente per il particolare andamento stagionale, l’acido palmitico ha raggiunto il limite massimo (20%) previsto dal Reg. Cee 61/2011; tale aspetto merita attenzione poiché livelli superiori di acido palmitico determinerebbero l’esclusione dell’olio dalla categoria extra vergine. Negli oli prodotti in Sicilia e in Umbria è stato rilevato un contenuto totale di fenoli superiore (400-500 ppm) a quello degli oli della Puglia (ca 230 ppm). Per gli oli di tutti e tre i siti è stato riscontrato un buon equilibrio sensoriale e un fruttato medio; rispetto agli oli prodotti negli

Impianti superintensivi e intensivi a confronto In estrema sintesi, si può affermare che il modello superintensivo ha i due seguenti vantaggi principali rispetto al modello intensivo. Una produttività molto elevata sia come produzione nei primi anni dopo l’impianto (precoce entrata in produzione), sia come produzione di olive per ettaro nella fase adulta, sia come quantità di olive raccolte per ora per operatore (tabella 3). Gli impianti superinten-

Sistema di raccolta e intercettazione

Olive per operatore kg/h

Raccolta manuale e reti

10-20

Macchine agevolatrici e reti

40-50

Vibratore tronco e reti

100-150

Vibratore tronco e telaio intercettatore

200-400

Scavallatrice (impianto superintensivo)

1.000-1.500

65


riore a 1-1,5 g) e/o con forme di allevamento sivi quindi, fornendo quantità di olive elevadegli alberi non ottimizzate per tale tipo di te (2-4 t/ha) già dal 2°-3° anno dall’impianto, raccolta. consentono un veloce recupero dei capitali inIl secondo vantaggio consiste nella possibilità vestiti. Raggiungono poi la piena produzione di raccogliere grandi quantità di olive in un al 4°-5° anno (9-12 t/ha e oltre) che dovrebbe breve lasso di tempo (sono richieste solo 3-4 mantenersi costante per una quindicina di h/ha) poiché ciò consente di standardizzare anni. Tuttavia, spesso si hanno produzioni la qualità dell’olio e di concentrare la raccolta elevate fino al 7°-8° anno, dopodiché, a causa nel periodo ottimale di maturazione della culdei crescenti problemi di scarsa illuminazione tivar o delle poche cultivar utilizzate e quindi e aerazione delle chiome, si ha una riduzione di ottenere un’elevata qualità dell’olio, grazie delle produzioni a valori di 8-9 t/ha fino alla anche alla frangitura immediata e differenfine della vita economica dell’oliveto che, per ziata per cultivar. Alla buona qualità dell’olio gli stessi problemi, difficilmente si prolunga contribuisce anche la pulizia dei frutti operaoltre il 15°-16° anno di età (Tous et al. 2007; ta dalla scavallatrice durante la raccolta. Pastor et al. 2006). Negli impianti intensivi, invece, gli alberi iniTabella 3 – Produttività del lavoro di raccolta ziano a dare produzioni significative al 3°-4° con diversi metodi di distacco e intercettazioanno dall’impianto e impiegano 7-10 anni per ne dei frutti (rielaborata da Nasini e Proietti occupare tutto lo spazio a disposizione e rag2014). giungere la piena produzione, che può variare Un altro vantaggio ottenibile con il superinda 6 a 12 t/ha, in dipendenza dell’ambiente tensivo è la possibilità di e della tecnica colturale Da un punto di vista etico, meccanizzare integraladottata (in particolare, presenza o meno dell’irri- l’olio standard ha una missione mente (o quasi) anche le sociale: rendere l’olio di oliva altre operazioni colturali, gazione). con conseguente riduNel considerare la produtextra vergine accessibile al zione di quantità di matività va anche tenuto conconsumo di massa grazie a nodopera necessaria. In to che nel superintensivo un prezzo contenuto. L’olio particolare, per quanto la scavallatrice consente differenziato ha invece una riguarda la potatura, il di avere un’elevata resa di raccolta (percentuale missione culturale: preservare contenimento dell’altezza di frutti raccolti rispetto la biodiversità dell’olivo e lo della pianta è effettuato a quelli presenti sull’albestraordinario patrimonio di attraverso interventi di topping (taglio orizzontale ro), pari al 90-95%, anche tradizioni alimentari legate al attuato per riportare l’alquando i frutti sono piccoli e con elevata resistenza bacino Mediterraneo e all’uso tezza dell’albero a quella al distacco; negli impianti di differenti oli extra vergini di voluta) con potatrice a dischi, a coltelli o con barra intensivi, invece, le rese di oliva nelle diverse falciante, integrati da inraccolta ottenibili con i vipreparazioni culinarie. terventi manuali di rifinibratori del tronco variano tura; lo spessore della chioma è in genere condal 70 al 95%, con i valori più bassi quando la trollato con leggeri tagli di ritorno, effettuati raccolta è fatta precocemente e/o in cultivar manualmente con attrezzature pneumaticaratterizzate da frutti piccoli (con peso infe66


nell’intensivo si può arrivare al 20-25%), con una superficie minima per una conveniente olivicoltura di almeno 15 ha e con buona disponibilità di acqua (1.500-2.000 m3/ha) per l’irrigazione; pure gli impianti intensivi possono giovarsi dell’irrigazione, ma sono in grado di dare buoni risultati anche in asciutto; la dimensione aziendale richiesta per giustificare l’acquisto di un vibratore del tronco per gli impianti intensivi è di 5-7 ha, ma può scendere anche a valori più bassi (intorno a 3 ha) se la produzione per pianta è molto elevata (rispettivamente almeno 10-15 kg e 20-25 kg o più); la gestione colturale è più complessa e richiede elevata competenza tecnica; sono ancora incomplete le conoscenze e le esperienze relative all’adattabilità delle diverse cultivar in questa tipologia di impianti nei differenti areali olivicoli; il sistema intensivo, invece, è ben conosciuto, in termini di esigenze nella gestione, produttività e durata; i minori livelli di illuminazione e aerazione all’interno della parete di vegetazione rendono le piante più suscettibili ai parassiti, imponendo così una difesa complessa e onerosa che esclude la possibilità di adottare schemi di coltivazione a basso impatto ambientale e, quindi, anche la produzione di oli biologici; considerati i tempi di investimento piuttosto limitati (15 anni), il rischio d’impresa si colloca ai massimi livelli, soprattutto per eventuali interferenze ambientali avverse (peraltro prevedibilmente sempre più frequenti in considerazione dei cambiamenti climatici) che possono compromettere il risultato economico; in tal senso, l’olivicoltura intensiva, per il maggior grado di compatibilità ambientale, pone minori rischi.

che o elettriche. In alcune condizioni anche quest’operazione è meccanizzata (edging) per poi intervenire con una rifinitura manuale. La manodopera necessaria per la potatura non supera le 40 ore/ha. Il modello superintensivo ha due principali svantaggi rispetto ai sistemi tradizionali: L’impossibilità di valorizzare la biodiversità dell’olivo; quindi si perde la tipicità (e il relativo valore aggiunto), che può derivare da varietà, tradizione e territorio, e con essa la possibilità di fregiarsi di marchi collettivi di qualità riconosciuti in ambito UE (Denominazione di Origine Protetta – DOP; Indicazione Geografica Protetta – IGP). L’alto investimento necessario per l’impianto (elevato numero di piante, allestimento del sistema di sostegno e dell’indispensabile impianto d’irrigazione, ecc.) che, data la ridotta longevità del superintensivo, deve essere sostenuto a intervalli temporali ravvicinati rispetto all’impianto intensivo; i costi colturali annuali, esclusa la fase di allevamento, invece, nonostante il maggiore impiego di fattori della produzione (fertilizzanti e pesticidi), sono inferiori rispetto al modello intensivo per effetto dei minori costi di potatura e di raccolta; l’elevata intensità di coltivazione e l’obiettivo produttivo rendono adatto il modello superintensivo solo per le grandi aziende; questo aspetto diventa ancora più limitante in considerazione della necessità di frantoi di grande capacità che devono operare in grande sintonia con l’olivicoltore per evitare periodi prolungati di stoccaggio delle olive in attesa della trasformazione, con conseguenti scadimenti qualitativi dell’olio. Altri possibili svantaggi con il superintensivo sono: il modello può essere convenientemente realizzato solo in aree vocate alla coltivazione dell’olivo, con terreni relativamente pianeggianti (pendenza massima 10%, mentre

Modelli d’impianto ad alta densità: un nuovo modello in fase di sperimentazione Al fine di soddisfare l’esigenza di migliorare 67


adattate alle condizioni ambientali del sito di coltivazione. Gli interventi agronomici (ad es. difesa antiparassitaria, irrigazione, ecc.), infatti, possono consentire di evitare stress ambientali, ma comportano un incremento dell’impatto ambientale oltre che dei costi. Per questo, la limitata possibilità di scelta della cultivar nel modello superintensivo può ridurre la sostenibilità ambientale. Conseguentemente, gli impianti superintensivi, a differenza di quelli intensivi, in genere non consentono di ottenere certificazioni ambientali di prodotto (EPD – Environmental Product Declaration, ecc.) che possono comportare diversi vantaggi fra cui una positiva ricaduta sull’immagine aziendale e un accesso facilitato a finanziamenti pubblici che siano erogati in funzione della sostenibilità ambientale dell’azienda (condizionalità). Inoltre, gli oliveti intensivi, in relazione alla mitigazione dei cambiamenti climatici, grazie alla maggiore lunghezza del ciclo, ai minori input richiesti per impianto e coltivazione e alla maggior quantità di legno accumulato nella struttura scheletrica, possono sequestrare quantità di carbonio molto più alte rispetto agli impianti superintensivi, con indubbio beneficio per la collettività e probabilmente in futuro anche per l’olivicoltore, attraverso la vendita di “crediti di carbonio”.

la sostenibilità economica degli impianti pur mantenendo la tipicità degli oli, sono state avviate prove volte a individuare, nell’ambito del patrimonio varietale autoctono, cultivar adatte a un nuovo modello d’impianto ad alta densità (500-1000 alberi/ha). Si tratta di impianti basati su cultivar con produzione precoce e costante e habitus vegetativo che consente la buona fruttificazione delle piante allevate a parete. Le pareti di vegetazione sono costituite da chiome relativamente sottili (fino a 2,5 m di spessore) che arrivano a un’altezza massima di 4,5 metri. Buona è l’intercettazione della luce che, dato il modesto spessore della parete, raggiunge anche le sue parti più interne e basse, con positivi risvolti sull’entità della fruttificazione. La raccolta può essere effettuata con diversi tipi di macchine e in particolare con tipologie “canopy contact”, che operano in continuo, con avanzamento laterale rispetto al filare, bacchiando la chioma con lunghi flagelli montati su assi verticali, e “side by side”, con braccio scuotitore con telaio di intercettazione laterale cui è affiancato un altro telaio intercettatore nell’altro lato del filare. Questi tipi di macchine, ancora poco diffusi in Italia, avanzando lateralmente rispetto al filare, non pongono le limitazioni delle scavallatrici nelle dimensioni della chioma. La potatura può essere parzialmente meccanizzata. Gli ottimi risultati produttivi, ottenuti in una sperimentazione nei primi dieci anni d’impianto con alcune cultivar siciliane, lasciano ben sperare sulla possibilità di poter fare affidamento, in un prossimo futuro, anche su questo nuovo modello per continuare a immettere sul mercato oli tipici a costi sostenibili (Caruso et al., in stampa).

Sostenibilità economica del modello superintensivo e intensivo Dal punto di vista economico, un interessante approccio per la comparazione fra la redditività dell’investimento nel modello superintensivo e in quello intensivo può essere attuato mettendo a confronto i flussi dei costi e dei ricavi nel corso di un periodo di riferimento, pari all’intera vita economica dell’impianto di maggiore durata, ad esempio ipotizzando un ciclo di 48 anni per il modello intensivo, corrispondente a tre cicli per il modello superin-

Sostenibilità ambientale del modello superintensivo e intensivo Un’elevata sostenibilità ambientale è ottenibile quando le cultivar utilizzate sono ben 68


nuovi sistemi colturali in grado di conciliare sostenibilità ambientale ed economica. A tale contesto, va aggiunto che la Pac probabilmente elargirà fondi per il rinnovamento del settore olivicolo e anche che vi sono segnali di crescente interesse imprenditoriale a investire capitali provenienti da altri settori nell’olivicoltura. Sarà importante, allora, individuare le migliori strategie per il rinnovamento della nostra olivicoltura, tenendo conto che non esiste un unico modello olivicolo valido. Nel nostro Paese, infatti, la variabilità dei contesti olivicoli non consente di poter puntare su un solo modello: sistemi tradizionali, intensivi e superintensivi dovranno coesistere e rappresentare un punto di forza per la flessibilità che potranno conferire al settore produttivo, in relazione alle diversificate e mutevoli richieste dei consumatori. La scelta del modello d’impianto non potrà prescindere dal contesto ambientale e aziendale e dalla strategia commerciale perseguita. Variabili agronomiche e aziendali che possono condizionare la scelta sono l’estensione degli oliveti, la pendenza dei terreni, le risorse idriche, la disponibilità di capitali, l’eventuale necessità di un rapido turn-over degli stessi, ecc. Riguardo all’obiettivo produttivo/commerciale dell’azienda, tenendo conto che in Italia, grazie al ricco germoplasma olivicolo e alle variegate condizioni ambientali, sussiste un elevato grado di diversificazione degli oli prodotti, è possibile continuare a fare affidamento sugli impianti intensivi orientando una parte consistente della produzione verso i mercati di nicchia più remunerativi, adottando, dove possibile, sistemi di certificazione (“biologico”, “Carbon free”, “Environmental Product Declaration”, Dop, Igp, “Claims ESFA”) che possono ulteriormente valorizzare il prodotto. Si può quindi affermare che gli impianti intensivi possono consentire di raggiungere risultati economici positivi soprattutto quando sussi-

tensivo (Roselli, De Gennaro 2011). Tuttavia, ancora oggi, le analisi economiche effettuate da vari ricercatori non consentono di pervenire a un giudizio economico univoco, sebbene siano emersi alcuni importanti elementi da includere nella valutazione: il modello superintensivo, avendo una durata economica ridotta, consente una maggiore flessibilità temporale delle scelte aziendali; d’altro canto, a causa dei limitati tempi di investimento e del maggiore impiego di mezzi tecnici (fertilizzanti, pesticidi e input energetici), il rischio d’impresa nel superintensivo si colloca ai massimi livelli (es. eventuali interferenze ambientali avverse che possono compromettere il risultato economico); la sostanziale riduzione di manodopera nel superintensivo, in prospettiva, può divenire un fattore determinante; l’intensivo può consentire di ottenere olive con maggior valore unitario. Prospettive e conclusioni Nell’ultimo ventennio la Spagna, maggior produttore mondiale di olio, ha tratto impulso dalla politica comunitaria attuando efficaci strategie di marketing e di espansione della produzione, investendo in nuove piantagioni di olivo, mentre il comparto olivicolo in Italia è rimasto immutato in termini sia di superfici coltivate sia di modelli d’impianto. Il saldo negativo di circa 150 milioni di euro nella bilancia commerciale olivicola italiana emerso in questi ultimi anni ha sollecitato la Commissione Agricoltura della Camera a proporre e approvare una risoluzione per il rilancio, il rafforzamento e lo sviluppo dell’olivicoltura nazionale. Obiettivo prioritario di tale risoluzione, concertata con le diverse componenti della filiera olivicola, è l’incremento della produzione attraverso la razionalizzazione della coltivazione degli oliveti tradizionali, il rinnovamento degli impianti e lo sviluppo di 69


stono i presupposti ambientali e varietali per produrre un olio differenziato per caratteristiche qualitative sensoriali, nutrizionali e/o salutistiche. Per la produzione di oli extra vergini di oliva per il consumo di massa (olio standard), anche in considerazione della progressiva difficoltà nel reperire manodopera, il modello d’impianto superintensivo lascia intravvedere buone possibilità di pervenire a buoni risultati economici, nonostante gli elevati costi di impianto. Per quanto riguarda gli impianti tradizionali, che ancora rappresentano una buona parte dell’olivicoltura, è difficile ipotizzare interventi che possano ripristinare una sostenibilità economica in relazione alla sola funzione produttiva. Conseguentemente, nell’ambito di questi oliveti, quelli che forniscono significativi servizi eco sistemici andrebbero sostenuti, anche economicamente, al di là un’esclusiva logica di mercato. In ogni caso, al di là del risultato ottenibile nei diversi contesti con i differenti modelli olivicoli, l’evoluzione del settore olivicolo in Italia non potrà prescindere da un’intensa attività di ricerca e di trasferimento dei risultati al mondo produttivo al fine di migliorare le performance produttive (quantità e qualità) degli oliveti e ridurre i costi di produzione. A ciò dovranno aggiungersi azioni volte a favorire sia forme di maggiore integrazione orizzontale fra le aziende di piccole dimensioni sia lo sviluppo di strutture di servizio per il superamento delle problematiche di tipo strutturale/ organizzativo, sia l’educazione del consumatore sul valore dei diversi prodotti in relazione non solo alle peculiarità sensoriali e nutraceutiche, ma nel caso di oli differenziati anche ai legami con l’ambiente, il paesaggio, la cultura e la gastronomia dei territorio di origine.

Bibliografia S. Camposeo, G.A. Vivaldi, A. Gallotta, A. Godini, Valutazione chimica e sensoriale degli oli di alcune cultivar di olivo allevate in Puglia con il modello superintensivo, in “Acta Italus Hortus”, 1, 2009, pp. 295-8. T. Caruso, G. Campisi, L. Nasini, P. Proietti, “La nuova olivicoltura nel contesto italiano tra alta qualità e sostenibilità”, in I sistemi arborei da frutto di domani, Ed. Accademia dei Georgofili, (in stampa). L. Ilarioni, P. Proietti, “Olive tree cultivars”, in The Extra-Virgin Olive Oil Handbook, first edited by Claudio Peri, John Wiley & Sons, Ltd., cap. 5, 2014, pp. 59-67. L. Nasini, P. Proietti, “Olive harvesting”, in The Extra-Virgin Olive Oil Handbook, first edited by Claudio Peri, John Wiley & Sons, Ltd., cap 8, 2014, pp. 89-105. M. Pastor Muñoz-Cobo, J.C. Hidalgo Moya, V. Vega Macias, E. Fereres Castiel, Densidades de plantacion en olivar de regadio. El caso de las plantaciones superintensivas en Andalucia, in “Fruticultura Profesional”, 160, 2006, pp. 27-42. L. Roselli, B. De Gennaro, Modelli olivicoli innovativi: un’analisi comparativa, in “Agriregionieuropa”, 24, 2011, pp. 78-81. J. Tous, A. Romero, J.F. Hermoso, N. Mallén, Sistemas de producción del olivo en seto. Experiencias en Cataluña, “Agricultura. Revista agropecuaria”, 896, 2007, pp. 360-7.

Primo Proietti, Luca Regni e Luigi Nasini fanno parte del Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università di Perugia; Giuseppe Campisi e Tiziano Caruso, del Dipartimento di Scienze agrarie e forestali dell’Università di Palermo.

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Pietro Coricelli. La bellezza di un amore. Nudo e crudo. Un amore da raccontare. Amore per il nostro lavoro, per il valore di ciò che facciamo, per il fascino di uno dei prodotti più preziosi della terra. Amore nudo e crudo che non ha bisogno di altro, se non di se stesso. È questo l’olio che amiamo, in cui crediamo, a cui siamo fedeli. Perché ne siamo innamorati, dal 1939.

INNAMORATI DELL’OLIO.

Racconti di Famiglia. #innamoratidellolio Pietro Coricelli Spa - Loc. Madonna di Lugo, 44 - 06049 Spoleto - PG - Italy - www.coricelli.com


Costruire il claim olioofficina / scienza

salutistico di un olio I polifenoli dell’olio da olive dal campo alla bottiglia di Salvatore Camposeo e Maria Lisa Clodoveo

Il consumatore oggi sembra possedere maggiore cognizione del ruolo della dieta sulla salute. Questa consapevolezza favorisce la vendita di cibi e bevande appositamente elaborati per il benessere, come i functional food e gli alimenti nutraceutici. È accertato che più della metà dei consumatori sia disposta a pagare di più per un alimento che si presenti come benefico per la propria salute e per quella dei propri cari. Come si può riconoscere un alimento benefico per la salute? Il Regolamento (CE) 1924/2006 regola le indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite nell’etichetta dei prodotti alimentari, i cosiddetti claim. Il sostantivo inglese, che significa “richiesta”, è stato prestato all’italiano soprattutto per il linguaggio del marketing e della comunicazione. Si definisce claim la principale promessa fatta ai consumatori nel corso di una campagna pubblicitaria o di un accordo commerciale. Il termine indica anche la definizione di un prodotto e delle sue caratteristiche riportata sulle confezioni in commercio (ad esempio lo yogurt “ricco di fibre” o il dentifricio che “combatte la carie”). Si tratta di affermazioni a scopo propagandistico che, per essere autorizzate dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (l’EFSA), devono effettivamente rispettare determinati parametri quantitativi. Si intende per claim salutistico qualsiasi indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda l’esistenza di un rapporto tra una categoria di alimenti, un alimento o uno dei suoi componenti e la salute. Le indicazioni salutistiche, chiamate anche “funzionali”, si riferiscono alla funzione che un alimento o i suoi componenti svolgono nell’organismo umano. L’EFSA ha approvato il claim salutistico relativo ai fenoli dell’olio d’oliva autorizzandone la presenza sulle etichette fin dal 2012. L’indicazione salutistica autorizzata è: “I polifenoli dell’olio di oliva contribui-

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lore energetico del prodotto. scono alla protezione dei lipidi ematici dallo Le indicazioni salutistiche (i claim) utilizzastress ossidativo”, accompagnata dalla frase: bili per l’olio di oliva, e in modo particolare “L’effetto benefico si ottiene con l’assunzione quella specifica relativa giornaliera di 20 g di A causa della parziale natura ai polifenoli, come già olio d’oliva”. Secondo il parere dell’EFSA esiste, idrofila dei composti polifenolici, accaduto in altre filiere, quindi, un’adeguata evi- solo una piccola parte dei composti possono diventare un potente strumento di denza scientifica circa la fenolici dell’oliva, appena il 2 per marketing. È necessarelazione causa-effetto cento, si ritrova nell’olio: il resto rio sottolineare che non tra l’assunzione di polifenoli dell’olio d’oliva e si perde nei sottoprodotti, sansa e tutti gli oli vergini di oliva possono riportare la protezione del LDL acque di vegetazione. un claim in etichetta, (Low Density Lipoprosoprattutto quello sulle sostanze fenoliche, tein) dal danno ossidativo. L’utilizzo del claim ma solo gli oli ottenuti attraverso adeguate è consentito soltanto per quegli oli di oliva pratiche agronomiche e tecnologiche. con un contenuto in polifenoli (standardizzato in base al contenuto di idrossitirosolo e suoi I composti fenolici dell’olio di oliva derivati) pari almeno a 5 mg per 20 g di olio I composti fenolici prevalenti nei frutti deld’oliva. I polifenoli conferiscono all’olio stabilile Oleaceae sono i secoiridoidi. I secoiridoidi tà, qualità nutrizionali e salutistiche oltre che più abbondanti nella specie Olea europaea L. peculiarità sensoriali. La loro presenza è avsono: oleuropeina (nella forma glicosilata e vertita in un olio dal gusto amaro e piccante. non), ligustroside e nuzhenide. La distribuzioAccanto all’indicazione salutistica specifica ne delle sostanze polifenoliche nel frutto non per l’olio di oliva possono essere impiegati alè omogenea. Quasi tutti i composti fenolici del tri due claim generici: frutto sono presenti nella polpa; i più abbon“fonte di vitamina E”: utilizzabile nell’olio d’odanti durante tutto il periodo della maturaliva qualora l’extra vergine in questione conzione sono oleuropeina, ligustroside, verbascotenga almeno 80 mg/1000 g di alfa tocoferolo, side, rutina, luteolina-7-o-glucoside. La parte ovvero minimo il 15 per cento della dose raclegnosa del frutto, costituita dall’endocarpo (il comandata giornaliera (10 mg in base alla Dinocciolo), è povera di composti fenolici. Il seme rettiva 90/496/CEE). Normalmente l’olio d’oliè molto ricco di composti fenolici in termini va contiene 200-220 mg/1000 g di vitamina E. quantitativi; dal punto di vista qualitativo “ricco di grassi insaturi”: utilizzabile solo per sono presenti quasi esclusivamente due comun alimento con un alto contenuto di acidi posti fenolici: nuzhenide e nuzhenide oleoside, grassi insaturi (es. l’acido oleico) come spenella cui struttura molecolare ci sono gli stescificato nell’allegato del regolamento (CE) si frammenti presenti nel ligustroside, precurn. 1924/2006. La sostituzione nella dieta dei sore dell’oleocantale. Idrossitirosolo, tirosolo, grassi saturi con grassi insaturi contribuisce acido clorogenico e oleuropeina aglicone sono al mantenimento di livelli normali di colestei composti fenolici agliconi più presenti nel rolo nel sangue, a patto che almeno il 70 per frutto. La presenza dei secoiridoidi all’interno cento degli acidi grassi presenti nel prodotto delle drupe subisce delle variazioni in base derivino da grassi insaturi e a condizione che alla maturazione del frutto: è più elevata nel gli stessi apportino oltre il 20 per cento del va73


di rottura delle drupe, tempo, temperatura e atmosfera di gramolazione, percentuale di acqua di processo); condizioni di conservazione dell’olio (temperatura, ossigeno, luce e presenza di pro-ossidanti). Si è stimato che le caratteristiche qualitative finali di un olio d’oliva confezionato dipendono per il 60 per cento dall’olivicoltore, il 30 per cento dal frantoiano e il resto dall’imbottigliatore. La fase di campo ha dunque un ruolo determinante sui parametri merceologici, sia chimici sia organolettici, e su quelli salutistici dell’“oro liquido”. Ogni attore della filiera ha un peso sulla definizione della qualità del prodotto: l’olivicoltore incide per il 60 per cento, attraverso la varietà coltivata (20%), le pratiche di irrigazione e di gestione fitosanitaria (15%), la scelta dell’epoca di raccolta e del metodo di raccolta (25%). Il frantoiano influenza la qualità per un terzo attraverso la scelta di modi e tempi di conservazione delle olive prima della lavorazione (15%) e dei sistemi di estrazione (15%). Infine, il commercializzatore può modificare del 10 per cento le caratteristiche scegliendo le modalità di conservazione degli oli.

frutto ancora verde, mentre diminuisce durante la fisiologica maturazione probabilmente a causa dell’aumento dell’attività di enzimi idrolitici. L’alta concentrazione di composti fenolici è probabilmente l’arma difensiva contro i predatori nel momento in cui il nocciolo contenente il seme esplica la sua attività riproduttiva. Nel passaggio dall’oliva all’olio cambia notevolmente la natura qualitativa dei composti fenolici. Infatti, i fenoli presenti nel frutto presentano nella struttura molecolare almeno un’unità zuccherina che rende le molecole idrofile e poco affini alla componente lipidica. Dopo la rottura o la lacerazione dell’oliva, i composti fenolici entrano in contatto con enzimi idrolitici (β-glucosidasi) che causano la perdita della molecola di zucchero, dando il via a una serie di riarrangiamenti e degradazioni che portano alla formazione di molecole più semplici come tirosolo e idrossitirosolo. I derivati deglicosilati dei secoiridoidi presentano nella struttura molecolare siti idrofili e siti lipofili; questi ultimi rendono i derivati più solubili nell’olio rispetto ai precursori glicosilati. A causa della parziale natura idrofila dei composti polifenolici, solo una piccola parte dei composti fenolici dell’oliva, appena il 2 per cento, si ritrova nell’olio: il resto si perde nei sottoprodotti, sansa e acque di vegetazione.

In campo La concentrazione delle sostanze fenoliche nell’olio vergine d’oliva, come prima riportato, è largamente influenzata dalle condizioni agronomiche. La varietà ha sicuramente un peso non trascurabile (20%). A parità di altre condizioni, il contenuto di polifenoli degli oli monovarietali di Ogliarola barese variano da 100 a massimo 400 g/kg, mentre quelli di Coratina ordinariamente partono da 250 g/kg fino a oltre 700 g/kg. Tuttavia oggi è possibile, partendo dalla stessa varietà, modificare il contenuto e il profilo fenolico del futuro olio, modulando le proprietà salutistiche e sensoriali e la shelf-life del prodotto finito, consentendo al produttore di progettare in anticipo la qualità dell’olio che desidera produrre.

I fattori determinati Le tecniche agronomiche e quelle tecnologie di estrazione sono strumenti strategici per favorire l’accumulo di sostanze fenoliche nei frutti ed evitare la loro ossidazione e idrolisi, modulando anche gusto e profumi per diversificare la gamma di prodotti nel mercato. Infatti, la presenza di sostanze polifenoliche ad azione salutistica nell’olio è riconducibile essenzialmente a: fattori varietali; pratiche agronomiche (epoca di raccolta, irrigazione e difesa fitosanitaria); variabili di processo (energia 74


do, a parità di stazione geografica. Le piogge, Tra le pratiche agronomiche, l’irrigazione è invece, riducono la componente polifenolica uno dei principali aspetti in grado di modificadell’olio ma ne incrementano quella aromare la composizione fenolica quali-quantitativa tica volatile. Il clima, infine, agisce sul ciclo dell’olio extra vergine d’oliva. L’irrigazione biologico della mosca permette senza dubolearia. Un andabio un aumento della Oggi è possibile, a partire dalla stessa mento climatico faproduzione di frutti. Tuttavia, tale pratica varietà di olive, modificare il contenuto vorevole ai danni di e il profilo fenolico del futuro olio, questo fitofago-chiave ha importanti effetti sulla composizione modulando le proprietà salutistiche dell’olivo determina chimica, fenolica in e sensoriali e la shelf-life del prodotto l’aumento dell’acidità e del difetto organoparticolare, sia delle finito, consentendo al produttore lettico, la riduzione olive sia dell’olio, non di progettare in anticipo la qualità dei polifenoli. Di qui, solo nella loro concendell’olio che desidera produrre. l’importanza della trazione ma anche nel difesa fitosanitaria profilo. Diversi autori dell’oliveto per preservare il claim salutistico hanno dimostrato che il contenuto di fenoli dell’olio. totali nel frutto è inversamente proporzionaI composti fenolici sono biosintetizzati nel le al volume di adacquamento. L’irrigazione frutto immaturo. La fase di accumulo nella convenzionale riduce il contenuto di polifenoli polpa generalmente culmina d’estate, mentre e aumenta quello dei composti volatili. L’ola fase di accumulo nel seme è massima in aulio risulta perciò meno amaro e piccante ma tunno. Con l’invaiatura dei frutti inizia la loro più fruttato. Effetto opposto sortisce lo stress diminuzione, che procede inesorabile durante idrico, che quando è severo induce difetto di tutta la successiva maturazione-senescenza. “legna”. Oggi è possibile applicare in campo Il periodo ottimale di raccolta deve essere il concetto di “irrigazione qualitativa” come dunque valutato in funzione della cultivar e, strumento agronomico per definire le carattea parità di sistema di estrazione impiegato, ristiche chimiche, e quindi salutistiche e senuna stessa cultivar può produrre differenti oli soriali degli oli di oliva, quale obiettivo provergini d’oliva a seconda dell’epoca di raccolta scelta. Generalmente l’olio estratto da olive Dopo il campo, luogo dove il valore verdi determina una prevalenza dell’amaro salutistico si genera, è il frantoio e del piccante, segnali organolettici della predove il contenuto polifenolico si senza di sostanze polifenoliche, rispetto agli oli da olive più mature. Già Catone (234-149 plasma e si modula. a.C.) nel De agricoltura ricorda che “più acerba è l’oliva, migliore è l’olio”, e ancora nel De duttivo di una precisa strategia commerciale. re rustica: “Se fai presto la raccolta, l’olio sarà L’effetto del campo si manifesta anche attrapiù verde e migliore”. Anche Plinio il Vecchio verso la latitudine e l’altitudine: da Sud verso (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia afferma: Nord e dalla pianura alla montagna aumenta “Il periodo migliore per la raccolta, al fine di il grado di insaturazione degli acidi grassi e conciliare quantità e qualità, è quando l’oliva soprattutto il contenuto di polifenoli, a parità comincia a scurire, momento in cui prende il di cultivar. Stesso effetto ha un clima più fred75


operazioni tecnologiche che più influenzano nome di drupa, in greco drypetis. Del resto, la composizione e la qualità dell’olio sono la quando arriva questo momento, c’è differenza frangitura e la gramolazione (15% del totale). a seconda che la maturazione suddetta avvenI diversi tipi di macchine per la frangitura ga nei frantoi o sui rami, che l’albero sia stato (molazza, frangitore, irrigato, oppure che l’oliva denocciolatrice) influencontenga soltanto il proprio Amaro e piccante sono zano il grado di rottura succo e non abbia assorbito connotati organolettici delle cellule del frutto altro liquido che la rugiada dell’olio legati al contenuto in e il rilascio di composti del cielo. L’invecchiamento fenoli biologicamente attivi: minori e di enzimi in guasta all’olio il sapore, a differenza di quanto acca- l’oleuropeina e i suoi derivati grado di modularne la de per il vino, e al massimo conferiscono all’olio carattere concentrazione nell’opuò arrivare a un anno”. Un amaro; il ligustroside e i suoi lio. La concentrazione delle molecole fenoliche quarto della qualità comderivati conferiscono carattere con parziale carattere plessiva finale dell’olio d’olipiccante. L’olio extra vergine idrofilo è strettamente va, e quindi anche del claim d’oliva amaro e piccante non legata all’attività di alsalutistico, dipende dalla cuni enzimi endogeni raccolta. L’Università di è tuttavia particolarmente al frutto e la loro conBari è impegnata, tra l’altro, amato dai consumatori che centrazione nell’olio è nello studio delle relazioni non conoscono, e quindi non fortemente influenzatra epoca di raccolta, indici appezzano, le caratteristiche ta dalle condizioni di di raccolta e parametri quachimiche e sensoriali dei estrazione. I principali litativi della produzione olearia delle cultivar pugliesi migliori oli extra vergini d’oliva. enzimi endogeni coinvolti nella definizione (olivicoltura di precisione). della concentrazione finale di fenoli nell’olio Al pari dell’irrigazione, infatti, anche l’epoca sono polifenolossidasi, perossidasi e beta-gludi raccolta rappresenta una precisa scelta cosidasi. Gli agliconi secoiridoidi, che portano tecnica e imprenditoriale ai fini del raggiungialla formazione di tirosolo e idrossitirosolo, mento di prefissati obiettivi produttivi. si originano dopo la frangitura per idrolisi di oleuropeina, demetiloleuropeina e ligustroIn frantoio side, catalizzate dalle beta-glucosidasi endoDopo il campo, dove il valore salutistico si gegene. Contemporaneamente, ossidoreduttasi nera, è il frantoio il luogo dove il contenuto endogene, quali polifenolossidasi e per ossipolifenolico si plasma e si modula. Numerodasi, riducono la concentrazione fenolica casi studi hanno evidenziato l’importanza deltalizzandone l’ossidazione nella pasta di olive le differenti fasi del processo di elaborazione prima della separazione meccanica dell’olio. dell’olio extra vergine d’oliva sulla composizioQuesti enzimi, presenti prevalentemente nel ne in composti minori. Il primo aspetto nodale nocciolo, possono essere modulati per mezzo che consente di ottenere un prodotto di ecceldella denocciolatura o mediante il controllo lenza o uno caratterizzato da difetti organostrategico della concentrazione di ossigeno lettici e povero di sostanze fenoliche è il tempo nello spazio di testa della gramola. Strategico che intercorre tra la raccolta e la lavorazione, perché l’ossigeno non sempre è un nemico ma, che dovrebbe essere massimo di 24 ore. Le 76


presente in bassa concentrazione, consente la sintesi dei composti volatili responsabili del profumo dell’olio, attraverso l’ossidazione per via lipossigenasica degli acidi grassi polinsaturi, linoleico e linolenico. All’aumentare della temperatura di gramolazione aumenta generalmente il contenuto di sostanze fenoliche e il sapore amaro dell’olio, poiché aumenta la solubilità di queste sostanze nella fase lipidica, fino a una soglia massima oltre la quale prevalgono i fenomeni ossidativi. Inoltre, l’aggiunta d’acqua di processo, finalizzata a migliorare la qualità dell’olio, ha effetti deleteri di dilavamento delle molecole fenoliche. Infine, quando l’olio è estratto, va difeso da nemici naturali per preservarne il valore salutistico: luce, calore, ossigeno. Per questo è importante filtrare l’olio appena estratto e conservarlo al buio, in ambiente fresco, minimizzando il contatto con l’aria.

(pizzica!, è acido!) tanto da scartarne decisamente il consumo, e quindi l’acquisto. Sfortunatamente, non è l’eccezione che la maggior parte dei consumatori italiani sia indirizzato quasi esclusivamente al consumo di oli poco amari, meglio se piatti, spesso quasi rancidi. Ci sono motivazioni storiche, sociali e colturali di tali comportamenti errati, aggravate da una persistente assenza di azioni politiche strategiche in Italia, mirate alla diffusione capillare e sistematica di una corretta cultura dell’olio. Una campagna promozionale sugli aspetti nutraceutici degli oli extra vergini d’oliva potrebbe costituirne un potentissimo strumento di valorizzazione, molto più efficace e rapido di molti corsi di avvicinamento o di idoneità fisiologica all’assaggio. Sapere che “l’olio amaro e piccante fa bene alla salute” è sicuramente più attraente e diretto del sapere che “l’olio è buono al palato se è amaro”.

Conclusione Le più innovative tecniche colturali in campo e le tecnologie di estrazione in frantoio costituiscono potenti strumenti sia di governo della qualità sia di diversificazione produttiva degli oli d’oliva. Le conoscenze scientifiche oggi disponibili permettono di ottenere la migliore qualità, sensoriale e salutistica, degli oli d’oliva, per ambiente e per varietà coltivata. Amaro e piccante sono connotati organolettici dell’olio legati al contenuto in fenoli biologicamente attivi: l’oleuropeina e i suoi derivati, infatti, conferiscono all’olio carattere amaro; il ligustroside e i suoi derivati conferiscono carattere piccante. L’olio extra vergine di oliva amaro e piccante non è tuttavia particolarmente amato dai consumatori che non conoscono, e quindi non appezzano, le caratteristiche chimiche e sensoriali dei migliori oli extra vergini d’oliva. Purtroppo è ordinario che si scambi il piccante e l’amaro, due dei tre attributi positivi di un olio, per un grave difetto

Salvatore Camposeo e Maria Lisa Clodoveo fanno parte del Centro di Ricerca sull’olivo, l’olio e le olive da mensa del Dipartimento di Scienze agro-ambientali e territoriali dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.

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Pietro Coricelli. La bellezza di un amore. Nudo e crudo. Un amore da raccontare. Amore per il nostro lavoro, per il valore di ciò che facciamo, per il fascino di uno dei prodotti più preziosi della terra. Amore nudo e crudo che non ha bisogno di altro, se non di se stesso. È questo l’olio che amiamo, in cui crediamo, a cui siamo fedeli. Perché ne siamo innamorati, dal 1939.

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L'olivo tabernacolo olioofficina / arte

di BOBOEEM Elisabetta Bosisio e Maria Teresa Bolis

L’Olivo, sinonimo di fertilità e rinascita, di resistenza alle ingiurie del tempo e delle guerre, simbolo trascendente di spiritualità e di sacralità, di pace e valore, ha accompagnato la storia della terra dagli albori fino ai giorni nostri: la colomba biblica tornò con un ramo di ulivo nel becco per annunciare il ritiro delle acque dalla terra. Proteggiamo il nostro patrimonio arboreo, i nostri Olivi. Non dimentichiamo le loro antiche origini. Difenderemo, insieme a questi alberi secolari, anche le nostre radici. In un mondo lacerato da guerra e distruzione, onoriamo questa antica pianta che, da sempre, fornisce il suo prezioso liquido dorato. In modo emblematico, rappresentiamo un tabernacolo, in ferro, in cui è custodito un calice, in vetro e resina sintetica opaca, ricolmo d’olio; nel centro, sospeso sopra al calice, un tozzo di pane, alimento primo dell’umanità.

Dimensione della mini installazione 45 x 45 x 45 cm. L’opera è esposta nell’ambito della mostra collettiva “Pane e olio del futuro”, di Arte da Mangiare, su progetto di Ornella Piluso e a cura di Monica Scardecchia.

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olioofficina / oliofotonico

Quando l'universo era più giovane L’olio da olive è da inquadrare nella “scala periodica degli elementi”. Il discorso dell’olio fotonico viene da molto lontano... di Giovanni Valentini

Sono un operatore di Arte-Scienza, tra i primi in assoluto per una nuova Scienza, sin dal 1960, e con Luigi Caricato ho avuto uno scambio epistolare che amo molto. Sono un operatore di “olio di oliva fotonico e alimentare”, piacendomi molto l’“olio fotonico” che dura da oltre tremila anni. Già nella scorsa edizione di Olio Officina Festival ho trattato il tema dell’olio fotonico, un discorso che viene da molto lontano e si perde nella notte dei tempi, quando l’Universo era più giovane e le condizioni astronomiche, astrofisiche e cosmologiche erano diverse. L’olio d’oliva lo inquadro nella “scala periodica degli elementi”, ma a me piace la sua evoluzione nei secoli, nei millenni, quando la storia dell’Apulia era assai diversa da quella attuale, ma io, da buon salentino, parto da lì. È sin da allora che storia, mito e leggenda si intersecano in un humus in cui l’olio d’oliva faceva già capolino. Cer-

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to, riportandomi in tempo reale, non posso che soffrire nel vedere il fecondo Universo di oliveti nel Salento assaliti e decimati dal parassita killer Xylella, che per tutti noi è diventato un incubo e un brutto sogno. Dov’è finito, in quest’anno appena concluso, il nostro olio di cui tutti eravamo orgogliosi? Il piacere, da bambini, di gustare a merenda quel profumo particolare e gustosissimo dell’olio d’oliva salentino dov’è finito? Voglio lottare contro la malinconia e sperare che la “moderna scienza olearia” bonifichi e ricostruisca tutto in fretta. Fortunatamente altre regioni d’Italia si sono salvate da questo flagello, e non è tutto perduto. Certo, non possiamo scordare quale ruolo abbia avuto l’olio d’oliva quando era anche luce fotonica profumata, così preziosa per i nostri antenati. E già: l’olio d’oliva, bruciando, era anche luce e profumo per gli ambienti. L’albero d’olivo salentino, e pugliese, ha una morfologia e un tronco che sembra avvitarsi e attorcigliarsi nel cielo. Mi ricorda la geniale cupola del Borromini di Sant’Ivo alla Sapienza di Roma, dove quella forma sembra un miracolo della Natura. Tra le campagne del Salento viveva qualche oliveto dalla storia millenaria; io stesso ne conoscevo qualcuno e andavo lì a meditare.

Giovanni Valentini, artista, nato nel Salento, a Galatina, nel 1939, vive e opera a Milano. Focalizza la sua attenzione sullo spazio astrofisico e sulla luce. Ha lavorato nel corso degli anni sull’arte elettronica, smelling, arte olfattiva – quattromila aromi naturali tratti dalla bio-

L’olivo salentino, proprio per la sua peculiarità morfologica, sembra un omaggio agli dèi, o una divinità esso stesso. Non è certo un caso che ai piedi dell’Acropoli di Atene vivesse un albero d’olivo di oltre duemila anni. Ebbene, quest’olivo aveva visto molte cose di quella grandiosa civiltà. Pare però che un autobus facendo manovra lo abbia involontariamente investito: che peccato! Chissà quante volte il grande scultore Fidia gli passò accanto…

sfera – e moltissime altre composizioni aromatiche; su arte biologica, arte e bionica, scanning electron, microscope, biogenetica, biovibrazioni con apparati elettronici ed elettromeccanici. “Cyborg arte”, le nuove frontiere tra l’ingegneria artificiale, la vita biologica e i computer. Arte e Computer Graphics, cyborg spaziale-umanoide predisposto per la conquista dei Pianeti. L’Uomo Bionico. Hibernation: tecnologia dell’ibernazione, i congelatori ad azoto liquido, le tecniche biomediche, tessuti umani in ibernazione e piccoli animali ibernati.

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L'olio nel

timbro Postale

olioofficina / filatelia

di Maria Carla Squeo

Poste Italiane è presente con due speciali annulli filatelici alla quinta edizione di Olio Officina Festival. Nei Chiostri di Palazzo delle Stelline, tutti gli appassionati collezionisti hanno potuto usufruire dell’annullo della corrispondenza con due differenti timbri dedicati alla cultura olearia, e in particolare alla nobile arte dell’assaggio, rappresentata dal bicchiere ufficiale a forma di tulipano. Tali timbri restano disponibili anche successivamente alla tre giorni del festival, presso l’ufficio filatelico, per poi essere depositati in ultimo al Museo della Comunicazione di Roma. I bozzetti dell’annullo riproducono il bicchiere dell’assaggio dell’olio, visto in due differenti illustrazioni realizzate da Valerio Marini. La forma del bicchiere ufficiale dell’assaggio è quella di un tulipano senza gambo, ed è stato scelto e voluto dal Consiglio oleicolo internazionale, per essere infine adottato con un proprio regolamento comunitario dall’Unione europea e accettato anche in ogni altro Paese al mondo. Di solito il colore del bicchiere è blu, o comunque ambrato, in modo che il colore dell’olio non condizioni l’assaggiatore al momento della degustazione. C’è tuttavia chi invoca un bicchiere trasparente, perché non si può rinunciare alla bellezza di un olio in tutte le sue sfumature di colore. “Nel 2015 – afferma Luigi Caricato – ho pensato di valorizzare le

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‘forme dell’olio’, ovvero il packaging con cui si presentano in Italia e nel mondo le varie confezioni e i contenitori deputati a ospitare l’olio in attesa di essere consumato. Quest’anno – aggiunge il direttore di Olio Officina Festival – ho scelto il bicchiere dell’assaggio e la figura chiave dell’assaggiatore, il quale, attraverso i sensi, sa e riesce abilmente a individuare tutti i profili della qualità, servendosi del naso, del gusto e delle sensazioni tattili, chinestetiche e retro-olfattive che si avvertono al momento dell’assaggio dell’olio esaminato in purezza, nel bicchiere. L’olio, alla fine, si scopre essere un alimento semplice e insieme complesso. Non una massa grassa indistinta, ma l’espressione di una molteplicità di percezioni tra loro ben connotate e dai tratti peculiari specifici e in alcuni casi unici. I due annulli filatelici di quest’anno, e quello del 2015, servono per sensibilizzare il consumatore e portarlo a un’attenzione verso ciò che abitualmente consuma in maniera il più delle volte inconsapevole. E’ un invito all’attenzione, è un prestare fiducia ai propri sensi”. Una operazione culturale di grande valore, anche emotivo. Il collezionismo filatelico, d’altra parte, è sempre un’occasione per rafforzare il concetto che la cultura, in qualsiasi ambito essa si racchiuda, rappresenta di fatto un valore inestimabile.

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olioofficina / retrospettive

L'arte della saponeria

di Antonio Monte

Storia di archeologia industriale.Tutto ebbe inizio a partire dall’olio

“È questa una delle regioni oleifere per eccellenza. Vi concorrono la natura e la posizione del suolo, e la temperatura del nostro clima”. In questa maniera Cosimo De Giorgi, l’eminente studioso leccese che nei suoi studi abbracciò campi vastissimi ed eterogenei, definì la Terra d’Otranto, con i suoi numerosissimi comuni, distinti in sei zone oleifere. È innegabile che l’olio ha conosciuto all’interno del bacino del Mediterraneo una straordinaria e avvincente storia millenaria, che continua sino ai giorni nostri. L’industria olearia ricopriva, dunque, un posto di primaria importanza, non solo per i livelli produttivi ma anche per il ruolo di integrazione che essa svolgeva per la provincia in relazione alle altre aree economiche. L’olio salentino era tutt’altro che destinato alla tavola: esso era impiegato principalmente “per le fabbriche de’ panni di Lana, e del Sapone” e per l’illuminazione, pertanto per tali usi era ricercatissimo e ben pagato. La grande quantità di olio che si produceva a livello industriale fece sviluppare altre industrie che utilizzavano gli scarti della lavorazione, quali i residui dell’olio lampante (la morchia) e la sansa; questi sottoprodotti diventavano la materia prima per l’estrazione dell’olio dalle sanse di oliva con il solfuro di carbonio e per la fabbricazione dei saponi a base di olio d’oliva. Nella produzione del sapone il territorio salentino (le province di Lecce, Brindisi

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nale (e forse anche dell’Italia settentrionale) giunta alla quinta generazione. Giuseppe Sante, Stefano, Giuseppe Sante junior e, attualmente, ancora Stefano junior come nelle migliori dinastie: infatti, proprio una dinastia di maestri dell’arte della saponeria. Essi hanno scritto un’interessante pagina della storia d’impresa, prima delle “Puglie” (come riportato nelle carte intestate) e, successivamente, di Terra d’Otranto, del Salento, del Mezzogiorno d’Italia. L’azienda tuttora attiva produce, con metodi e tecniche artigianali, saponi all’olio d’oliva (oltre a detergenti e disinfettanti) continuando la tradizione dei saponieri presenti sul territorio pugliese (soprattutto in Terra di Bari), che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento vantava, come già ricordato, numerose fabbriche di sapone facendo concorrenza ai saponi liguri (in particolare quelli di Savona con il noto saponificio Domenico Sguerso & Figli) e a quelli francesi (noto l’antico saponificio Gavarry a La Ciotat, tra Tolone e Marsi-

e Taranto, note come Terra d’Otranto) non ha avuto fabbriche vere e proprie, come invece è accaduto in Terra di Bari (che tra il 1885 e il 1890 contava ventisei fabbriche di sapone); il “sapone comune o ordinario” si produceva in maniera artigianale in alcuni paesi. Solo Casa Colosso di Ugento, nei primi anni Quaranta del secolo scorso, impiantò un sansificio e una fabbrica di saponi per sfruttare gli scarti del grande stabilimento oleario. Tra i più noti saponifici presenti in Terra di Bari giova ricordare il saponificio di Giorgio Borrelli, quello di Antonio Sorrentino, di Donato Roppo, o quello della “Soc. An. Saponificio Larocca” e tanti altri. Tra questi merita di essere annoverato, perché tra i primi a essere impiantato in provincia di Bari, il grande saponificio, oleificio e sansificio di Giuseppe Sante L’Abbate a Fasano (che sino al 1927 faceva parte della provincia di Bari), attivo dal 1880. La saponeria G.S. L’Abbate, fondata da Giuseppe Sante tra il 1878 e il 1880 è l’unica fabbrica di saponi dell’Italia centro-meridio-

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glia). Giuseppe Sante intuì da subito, mentre lavorava con il padre Vito, intermediario nella vendita di olio, che la grande quantità di olio scadente o di pessima qualità poteva essere utilizzato come materia prima per la fabbricazione dei saponi. Erano gli anni in cui iniziavano a sorgere, soprattutto a Bari, importanti saponerie alimentate con forza motrice a vapore; tra le prime e più note si ricordano le fabbriche di Milella & C., quella della Société Nouvelle des Huileries et Savonneries Meridionales e la Oss Mazzurana & Comp. Giuseppe Sante nel 1878 circa iniziò l’attività di saponiere in alcuni locali in via Larizza a Fasano; ma nel 1880 l’azienda assume l’attuale denominazione G.S. L’Abbate, Casa propria

oli d’oliva pugliesi e grassi pregiati di importazione. Si inizia, in tal modo, la fase industriale dell’attività saponiera che, con il supporto di una moderna attività di marketing, porta il saponificio G.S. L’Abbate a partecipare a Esposizioni nazionali e internazionali, dove consegue encomi e ambiti riconoscimenti con medaglie d’oro e croci al merito. Tra il 1903 e il 1909 partecipa alle più importanti Campionarie italiane, tra cui quella di Roma, Firenze, Perugia, Genova, Milano (dove ottiene una menzione speciale ed è premiato per tre varietà di saponi: il Radium, l’Electric e il Mon Plaisir) e all’Esposizione Agricola, Industriale, Zootecnica di Brindisi. I saponi prodotti erano molto ricercati e ri-

fondata nel 1880. Nel corso degli anni perfezionò il ciclo, rigorosamente artigianale, di produzione del sapone e introdusse nuovi prodotti sia per il bucato sia per uso personale. Alla morte prematura del fondatore, le sorti dell’azienda passano nelle mani del primogenito Stefano che, con tenacia ed entusiasmo, innova i metodi artigianali di fabbricazione del sapone con tecniche moderne utilizzando

scuotevano un notevole successo perché erano sottoposti al “Controllo Chimico permanente italiano” con sede a Genova. Nell’opuscolo stampato in occasione dell’Esposizione Agricola di Brindisi del 1909 è scritto: “Il Premiato Saponificio G.S. L’Abbate di Fasano (Bari) è uno dei pochi in Italia i di cui prodotti figurano sotto il ‘Controllo’, per cui merita una speciale attenzione, dando un elenco di detti 91


prodotti genuini: Sapone Radium, Electric Sapone, Mon Plaisir, Ideal Palmolive”. Le necessità produttive conseguenti al ruolo acquisito dell’azienda nel panorama nazionale rendono necessaria (tra il 1923 e il 1927) la costruzione di un moderno opificio, costruito in via Roma, dove oggi ancora si produce. Stefano, tra le diverse innovazioni commerciali che introdusse nell’azienda, dedicò particolare attenzione alle nuove forme di comunicazione (che nei primi anni Venti del Novecento iniziarono ad adeguarsi alle esigenze del mercato) come mezzo di promozione dei prodotti. Inoltre, rivolse particolare cura all’incarto dei saponi con pregiate carte e raffinati astucci. Dopo la crisi economica del 1929, l’azienda incrementa la crescita completando il ciclo di produzione del sapone con impianti di trattamento de-

gli oli d’oliva (estrazione dell’olio dalle sanse, raffinazione, esterificazione). In questi anni entra in azienda il primogenito Giuseppe Sante junior che, con i due fratelli, affianca il padre sino alla sua scomparsa. La ripresa economica degli anni postbellici impone all’azienda un rinnovo delle tecnologie e dei prodotti. A fianco del sapone entrano in campo nuovi articoli per la detergenza domestica e i prodotti disinfettanti, sempre in linea con la filosofia storica dell’azienda. La fine degli anni Novanta del secolo scorso vede la scomparsa della terza generazione e l’ingresso in azienda della quarta e della quinta. Oggi tutte le attività della storica G.S. L’Abbate s.r.l. amministrata da Stefano junior sono suddivise con la Nibe s.r.l. e L’Abbate Industrie Chimiche s.r.l. amministrate da Giuseppe L’Abbate. 92


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Antonio Monte è architetto e ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali, con esperienze di docenza in architettura del paesaggio e patrimonio industriale; lavora a progetti di recupero di spazi e opifici comunemente definiti “archeologia industriale”. Tra le numerose pubblicazioni all’attivo, per le Edizioni del Grifo, Frantoi ipogei del Salento (1995), Le miniere dell’oro liquido. Archeologia Industriale in Terra d’Otranto: i frantoi ipogei (2000) e L’antica industria dell’olio. Itinerari di archeologia industriale nel Salento (2003).

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olioofficina / progettocultura olioofficinaalmanacco 2016, anno IV, numero 4 L’annuario olioofficinaalmanacco è una espressione di libero pensiero a supporto del grande happening Olio Officina Festival –Condimenti per il palato & per la mente. Prima edizione a Milano, nei giorni 27, 28 e 29 gennaio 2012; seconda edizione nei giorni 24, 25 e 26 gennaio 2013; terza edizione nei giorni 23, 24 e 25 gennaio 2014; quarta edizione nei giorni 22, 23 e 24 gennaio 2015; quinta edizione nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 2016. Tutto nasce a partire da un’idea di Luigi Caricato, promotore, curatore e anima propulsiva. Olio Officina è un progetto culturale con cui si intende riformulare l’abituale approccio con la cultura materiale. L’obiettivo è soddisfare l’urgente necessità di volgere lo sguardo a nuovi percorsi esplorativi, attraverso l’adozione di linguaggi e stili interpretativi inediti e inusuali. Olio Officina non è soltanto cultura materiale, ma anche, e soprattutto, luogo di cultura alta e di confronto. Da qui l’impegno a non confinare l’attenzione ai soli condimenti che soddisfano il palato, ma di estendere equamente il medesimo interesse ai condimenti che nutrono e impreziosiscono la mente. Copertina: Valerio Marini Quarta di copertina: incisione di Lucio Passerini ispirata a Camillo Sbarbaro, dal titolo Scala, opera esposta nell’ambito della mostra “Segni e parole”, a cura di Nicola Dal Falco, ospitata in Olio Officina Festival 2016 (21-23 gennaio 2016, Chiostro del Palazzo delle Stelline, Milano). “Una scala morale, poco angelica, dove i versi da Trucioli di Camillo Sbarbaro sono altrettanti pioli di saggezza o di ironia, comunque stoiche. Chi vi si arrampica prova l’ebbrezza terrena di un’aria fine, quel po’ che ne rimane, impigliata alla chioma di un albero” (Nicola Dal Falco). olioofficinaalmanacco è una realizzazione per Olio Officina Festival Direttore: Luigi Caricato Milano, gennaio 2016 ISBN 978-88-940201-7-5 Progettazione grafica: Alberto Martelli, Aerostato Stampa: Editrice Salentina, Galatina (Lecce) Si ringrazia per la gentile collaborazione Maria Carla Squeo e Ilaria Santomanco Web > festival: olioofficina.com – magazine: olioofficina.it globe: olioofficina.net – blog: olivomatto.it – luigicaricato.net

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Scala preferisco le donne agli uomini i bambini alle donne le bestie ai bambini gli alberi alle bestie â‚Ź 12,00 ISBN 978-88-940201-7-5

Scala, Lucio Passerini per Camillo Sbarbaro

9 788894 020175

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