io sono un albero
Gli alberi si misero in cammino per andare a eleggere un re che regnasse su di essi. Dissero all'ulivo: “Regna su di noi”. E l’ulivo rispose: “Dovrò forse rinunciare al mio olio, con il quale si rende onore agli dèi e agli uomini, per andare ad agitarmi al di sopra degli altri alberi?” Giudici, 9, 8-9
OliO PantaleO
C’è sempre. Per tutti. Always. For all. I nostri olivi secolari li seguiamo con ogni cura. Sono i nostri patriarchi e ci consegnano ogni anno un olio armonico e fruttato.
Le olive sono come nostre sorelle. Le facciamo viaggiare comode verso il frantoio, perché non si scalfiscano. Abbiamo così tanto a cuore l’olio contenuto all’interno, che non vogliamo perdere tutto il buono che c’è. Siamo così desiderosi di futuro che abbiamo piantato migliaia di olivi in coltura intensiva altamente meccanizzata. Sono piante giovani molto produttive, che ci garantiscono più olio per tutti.
Quando vediamo sgorgare l’olio, per noi è una gran festa. Provate solo a immaginare l’intensità dei profumi, sono così variegati che ogni volta è una meraviglia. Non interrompiamo il lavoro, ma a turno lo degustiamo per saggiarne tutta la bontà. Il nostro frantoio coniuga l’antico e il nuovo, ma dietro le macchine ci siamo sempre noi, intenti a seguire ogni passaggio, pronti a ricavare da ogni oliva tutti i nutrienti possibili, sapori e profumi dell’olio compresi.
Anche quando lo confezioniamo prestiamo ogni minima attenzione, perché un extra vergine di alta qualità va protetto dalle insidie di luce, aria e temperatura. Per questo lo vestiamo bene: per conservare intatta ogni fragranza.
Infine, ecco lei: la nostra bottiglia “Selezione Oro”. Un olio extra vergine di oliva 100 % italiano, versatile e adatto a ogni impiego, ideale a crudo come in cottura. Non vogliamo dire altro, per non essere troppo di parte. Potete solo sperimentarlo in prima persona e farvi un’idea.
Che aspettate a provarlo?
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Sommario olioofficina / anticamera
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> Luigi Caricato visto da Gianfranco Maggio
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> Luigi Caricato: Io sono un albero
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> Rosalia Cavalieri vista da Gianfranco Maggio
11 > Rosalia Cavalieri: Vegetale a chi? Sensibilità, linguaggio e intelligenza delle piante 28
> Alfonso Pascale visto da Gianfranco Maggio
29 > Alfonso Pascale: Alberi e filosofia hanno le stesse radici 43
> L’olio d’alta quota nella illustrazione di Doriano Strologo
44 > Olivicoltura d’alta quota: una rinascita nazionale. Lettera aperta del portavoce di TreeDream Giuseppe Stagnitto al direttore di Olio Officina Luigi Caricato 58 > Salvatore Camposeo visto da Gianfranco Maggio 59 > Salvatore Camposeo: La botanica dell’olivo 64 > Angelo Godini: L’olivo in Puglia, questo semisconosciuto
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84 > Elisabetta e Gabriella Gabrielloni: La nostra battaglia a difesa delle macine e presse 88 > Liceo Artistico "Ambrogio Alciati" di Vercelli. Nuove generazioni di creativi. Chiome d’artista 90 > Liceo Artistico "Federico II Stupor Mundi" di Corato. Nuove generazioni di creativi. Io sono un albero 92
> Alessandro Brasile: Fotografare la danza
95 > Lara Guidetti: Se fossi un albero sarei un ulivo
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Perchè io sono olioofficina / luigicaricato
un
di Luigi Caricato
albero
Io sono un albero, perché non potrei essere altro che un albero. Sta scritto da qualche parte dentro di me, nella mia natura. Non è un caso che abbia scelto proprio questa espressione - “Io sono un albero” - quale tema portante e trainante della settima edizione di Olio Officina Festival. Sentirsi un albero è un po’ come evocare e richiamare con una certa sollecitudine una altrettanto forte e urgente attenzione da riservare all’ambiente, alla sua tutela e cura. C’è inoltre da osservare che immedesimarsi in un albero equivale a immergersi in quell’elemento naturale di cui ci sentiamo noi stessi parte in causa, quasi fosse l’albero un non luogo che contiene tutti i luoghi dove tutti noi in qualche modo cerchiamo di rifugiarci, o per trovare un po’ di pace interiore, o per riflettere sui valori fondanti della vita. Ecco allora il motivo per cui io mi sento - e forse, chissà, in fondo proprio lo sono per davvero - un albero, tanto che ogni santo giorno, da albero, mi sforzo di trovare altri alberi, miei alleati, tra i miei simili, che amino e apprezzino queste creature vegetali, impegnandosi a piantarne di nuove e a farle crescere rigogliose, soprattutto nelle città. Io non sono però un agricoltore, perché non ne ho le capacità e l'attitudine. Anzi, io stesso mi sento bisognoso di qualcuno che mi coltivi e che mi porti con sé nel proprio cuore. Sentirmi albero mi aiuta e mi fa star bene, anche perché nessun albero in fondo è mai solo. 11
olioofficina / saperi
Vegetale a chi?
Sensibilità, linguaggio e intelligenza delle piante di Rosalia Cavalieri
Diversi ma non troppo Immaginate di essere una pianta circondata da insetti, animali erbivori e predatori di ogni specie, e di non poter scappare. L’unica maniera per sopravvivere è essere indistruttibili; essere costruiti in modo interamente diverso da un animale. Essere una pianta appunto (Mancuso, 2017, pp. 8-9). Abbiamo mai provato a indossare i panni di una pianta, a comprendere cosa significhi essere un albero, un arbusto o semplicemente un filo d’erba? In genere tendiamo a considerare le piante quel tanto che ci interessa per abbellire i nostri giardini, le nostre terrazze o i nostri appartamenti, insomma per ragioni ornamentali, o tutt’al più per ragioni alimentari, confinandole per il resto nel gradino più basso della scala dei viventi. Eppure la nostra sopravvivenza sulla Terra dipende in larghissima parte dal mondo vegetale: le piante ci procurano gran parte del cibo che consumiamo, collocandosi alla base della catena alimentare, ci forniscono ossigeno, medicine, energia (combustibili fossili), indumenti, materiali diversi, influenzano il nostro benessere psico-fisico, il nostro umore e altro ancora. E se noi non possiamo fare a meno di loro, loro invece possono vivere tranquillamente senza di noi, come hanno fatto del resto per milioni di anni. Anzi, se pensiamo al disastro ambientale di cui siamo artefici, non è difficile immaginare che sicuramente le piante starebbero molto meglio senza di noi. Questo già la dice lunga sulla diversa rilevanza degli organismi vegetali e dell’uomo dal punto
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rale e conseguentemente una fisiologia tutta particolare grazie alle quali, come si vedrà più avanti, le piante hanno imparato a nutrirsi, a difendersi e a riprodursi (cfr. Mancuso, 2017, pp. 8-9, 29-30). Seguendo un luogo comune alimentato da lunghissimo tempo dalla tradizione filosofica occidentale risalente almeno ad Aristotele, che attribuiva alle piante niente di più che un’anima vegetativa, deputata alla nutrizione, alla crescita e alla riproduzione, negando loro quelle capacità di percezione, di movimento, di provare emozioni e di agire guidate da un’intelligenza, caratteristiche rispettivamente di un’anima sensitiva e di un’anima razionale (De anima, I-II 4003b), tendiamo a considerare le piante come esseri inferiori, “vegetali” appunto: esseri inerti, privi di occhi, di orecchie, di un naso, di una bocca, di gambe, della capacità di correre o di volare, di un apparato respiratorio o di organi digestivi, di un centro di elaborazione di informazioni provenienti dall’ambiente esterno e interno, di capacità di comunicare, di socializzare, di ricordare o di apprendere. Un pregiudizio largamente condiviso ci porta, dunque, ad attribuire ai vegetali una scarsa vitalità in ragione della loro apparente o pre-
di vista biologico: basti pensare che il regno vegetale da solo occupa all’incirca il 99% della biomassa del Pianeta (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 34-38). L’assenza di movimento, un tratto ontologico delle piante in quanto organismi sessili, insieme al fatto di aver sviluppato un corpo che privilegia la superficie al volume, una caratteristica che permette alle piante di assimilare le risorse diffuse nell’ambiente necessarie alla loro crescita, fa sì che siano inseparabili dall’universo che le accoglie. Questo rende una pianta “la forme la plus intense, la plus radicale et la plus paradigmatique de l’êtreau-monde […]. La plante incarne le lien le plus étroit e les plus élémentaire que la vie puisse établir avec le monde” (Coccia, 2016, p. 18). La loro totale diversità rispetto agli animali le situa molto distanti da noi: dal punto di vista evoluzionistico, l’aver scelto l’immobilità, rispetto agli animali che per sfuggire ai predatori e per procurarsi il cibo preferiscono spostarsi, ha prodotto delle conseguenze sulla loro organizzazione anatomica e sul loro funzionamento, rendendole peraltro organismi autosufficienti, a differenza degli animali che per sopravvivere dipendono da altri esseri viventi. A partire quindi da circa cinquecento milioni di anni, quando ebbe inizio la separazione tra universo vegetale e universo animale, e nelle numerose generazioni successive, questi due regni si sono sempre più differenziati, assumendo caratteristiche diametralmente opposte: mentre le piante sono stanziali, passive, lente, gli animali si spostano, sono aggressivi e veloci, e se le piante producono, gli animali in genere consumano. Ma a giudicare dal loro successo evolutivo e dalla loro straordinaria diffusione sul Pianeta, la loro scelta non è stata poi così svantaggiosa. Scegliere di restare ancorate al terreno ha comportato ovviamente una diversa organizzazione struttu-
Abbiamo mai provato a indossare i panni di una pianta, a comprendere cosa significhi essere un albero, un arbusto o semplicemente un filo d’erba? sunta “immobilità”. E questa loro pregiudizievole staticità sembra anche essere la ragione prevalente del nostro scarso interesse per i comportamenti delle piante. E del resto, se da una parte il termine “vegetare” significa vivere, crescere, svilupparsi (riferito agli organi14
avrebbero potuto sopravvivere fissate al terreno, impossibilitate a scappare in presenza di pericoli, a spostarsi in un ambiente migliore quando scarseggiano le fonti di nutrimento o quando il clima è avverso. A differenza degli animali che attraverso il movimento o la fuga aggirano i problemi, le piante, invece, sono costrette ad affrontarli e a risolverli, a trovare soluzioni efficaci ancora più che veloci, ad adattarsi ai continui mutamenti ambientali, un compito che richiede un’organizzazione decentrata e una straordinaria sensibilità a fattori fisici e chimici quali l’umidità, la luce, la temperatura, la struttura del suolo, la gravità ecc. Affezionati a una visione spiccatamente antropocentrica, in qualche misura giustificata dal fatto che siamo la specie più interessante dal
smi vegetali, per l’appunto), dall’altra, nel linguaggio figurato vuol dire condurre una vita inerte, inattiva, priva di interessi e/o di ideali. In genere, infatti, con il termine “vegetale” ci si riferisce a organismi immobili, capaci solo di funzioni fisiologiche di tipo istintivo, e l’espressione “stato vegetativo” in ambito clinico definisce la presenza di un’attività di veglia in assenza di una consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante, una condizione che può evolvere dal coma. E quando, in senso metaforico, di una persona si dice che si è ridotto a un “vegetale”, si intende proprio lo stato di colui che per una malattia o per estrema senescenza mantiene solo la vita biologica, avendo perso le proprie facoltà mentali, e più in generale le facoltà tipiche della vita animale (capacità sensoriali, motorie, di memoria, reattività agli
La nostra sopravvivenza sulla Terra dipende in larghissima parte dal mondo vegetale: le piante ci procurano gran parte del cibo che consumiamo, collocandosi alla base della catena alimentare, ci forniscono ossigeno, medicine, energia (combustibili fossili), indumenti, materiali diversi, influenzano il nostro benessere psico-fisico, il nostro umore e altro ancora. nostro punto di vista, fino a non molto tempo fa pensavamo che l’intelligenza, la capacità di comunicare attraverso un linguaggio e la cultura fossero una nostra prerogativa esclusiva, un nostro tratto specie-specifico. In realtà questo pregiudizio è stato da qualche tempo confutato e già da diversi decenni gli studi di zoosemiotica, a partire dalla “svolta” impressa da Thomas Sebeok (cfr. Petrilli, 2003) che ha esteso la semiosi (capacità di produrre e di interpretare segni, verbali e soprattutto non verbali) a tutto il mondo vivente, animale e vegetale (cfr. Sebeok, 1977; 1990; 2000; 2001 sulla fitosemiotica cfr. Krampen, 1994; 2002 ),
stimoli e capacità di coscienza). Questo ovviamente la dice lunga sul modo in cui consideriamo le piante, sminuendole. Il fatto di essere animali, e quindi così distanti dal regno vegetale, ci rende difficile immaginare che le piante possano essere esseri sensibili, dotati di una forma di intelligenza, capaci di provare qualcosa, di percepire il mondo circostante, di avere una vita sociale, di comunicare tra loro e con gli animali. Eppure se le piante fossero prive di tali abilità, se non avessero attitudini sociali, capacità di interagire con l’ambiente e di adattarsi a esso, e di apprendere dall’esperienza, difficilmente 15
sopravvivenza più sofisticate di quelle praticate da questi ultimi, che ne fanno organismi più resistenti e più moderni, dove stabilità e flessibilità coesistono. La “neurobiologia vegetale” – una nuova disciplina scientifica nata in Germania da poco più di un decennio con František Balušk e il suo team, con l’obiettivo di studiare le reti informative presenti nelle piante e di comprendere come elaborano le informazioni per mettere in atto un comportamento coerente, e praticata anche in Italia da Stefano Mancuso, un pioniere in questo ambito di studi, che a Firenze ha creato il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale –, applicando tecniche tipiche delle neuroscienze, oggi cerca di rispondere a questi interrogativi attestando la capacità delle piante superiori di ricevere ed elaborare segnali dal mondo esterno, di comunicare informazioni a parti di sé e ad altre piante anche distanti, rivoluzionando il modo in cui abbiamo sempre pensato al mondo vegetale e sfatando nel contempo una serie di luoghi comuni. Lo studio del comportamento adattativo delle piante ci mostra che intelligenza e sensibilità non sono necessariamente collegate a un cervello e quindi a dei neuroni, o alla presenza di organi specifici come occhi, orecchie, naso, mani, o un apparato respiratorio, ma si possono avere altri tipi di cellule che assolvono ad analoghe funzioni, un’organizzazione anatomica e una fisiologia diverse ma ugualmente complesse ed efficienti ai fini della sopravvivenza e dell’adattamento all’ambiente. Oggi sappiamo che le piante hanno una struttura modulare, distribuita e reiterata, tanto nella parte aerea quanto nell’apparato radicale, una struttura dunque non centralizzata, costituita da molteplici centri di elaborazione dati, che consente alle varie parti di cui è formata (foglie, rami, radici, chioma) di comunicare tra loro.
e successivamente quelli di etologia cognitiva (cfr., per es., De Waal, 2016; Mainardi, 2006, 2009; Marchesini, 2008), hanno fornito abbondanti prove della capacità delle diverse specie animali di comunicare attraverso linguaggi non verbali per lo scambio di informazioni necessarie alla sopravvivenza e alla convivenza sociale, nonché di comportamenti intelligenti, mostrando quanto sia vasta l’intelligenza degli animali che per moltissimo tempo abbiamo misconosciuto: dalla capacità di costruirsi un nido a quella di progettare e costruire strumenti per procurarsi il cibo o di usare un linguaggio, all’attitudine a risolvere problemi di vario tipo connessi all’adattamento all’ambiente e quindi alla capacità di stare al mondo, alle facoltà di apprendimento, di memoria, di calcolo, di produrre cultura ecc. Se dunque nessuno studioso oggi oserebbe più mettere in dubbio l’esistenza di facoltà di comunicazione e di intelligenza nel mondo animale, si può dire lo stesso per gli esseri vegetali? Possiamo attribuire loro sensibilità, memoria, intelligenza, capacità di comunicare, di dormire, di imparare dall’esperienza, di risolvere problemi, insomma tutte quelle facoltà proprie del mondo animale? E l’assenza di un cervello degno di questo nome esclude la possibilità di esibire funzioni “cognitive” anche minime? In altre parole, il fatto di essere privi di organi così come noi li intendiamo, significa essere privi di una serie di funzioni a essi corrispondenti? Da diversi decenni ormai la ricerca scientifica ha dimostrato che le piante, seppur prive di un organo assimilabile a un cervello centrale che coordina le informazioni per l’intero organismo, esibiscono molte capacità cognitive a esso associate nel mondo animale, e che a livello genetico sono più complesse di molti animali. L’evoluzione le ha costrette a trovare soluzioni molto lontane da quelle escogitate dagli animali, a mettere in atto strategie di 16
aspetto dell’intelligenza vegetale torneremo più avanti. Quanto poi ai movimenti delle piante, seppure lentissimi, il fatto di sfuggire all’osservazione dei nostri sensi, e quindi alla nostra comprensione, non ci autorizza a negarli. Le piante pur essendo sprovviste di muscoli e di un sistema nervoso si muovono attraverso la crescita per captare la luce, per cercare un sostegno (si pensi alle piante rampicanti) o per difendersi dai predatori, aggirano un ostacolo. E da alcuni decenni la tecnologia fotografica e video consente di riprendere tali movimenti, già ampiamente descritti da Charles Darwin in un saggio del 1880, The Power of movement in plants, considerato “una vera pietra miliare della neurobiologia vegetale” (Mancuso, Viola, 2013, p. 24) e per la prima volta ripresi attraverso un filmato in time lapse dal botanico Wilheim Friedrich Philipp Pfeffer già nel 1898 (cfr. Mancuso, 2017, pp. 91-95). Come osservava Charles Darwin (1880, trad. it. 2005, p. 2), l’ampiezza e la direzione del movimento si modificano in relazione agli stimoli interni o esterni: per esempio “se l’estremità [di una radice] incontra nel suolo una pietra od un altro ostacolo, od anche un terreno più resistente da una parte che dall’altra, la radice si scosterà il più possibile dall’ostacolo o dal suolo più compatto, e seguirà così infallibilmente una linea di minore resistenza”, allo stesso modo “le radici saranno deviate dal loro cammino normale dalla presenza, nel suolo, di una sorgente di umidità (Darwin, pp. 355356). Le radici, in particolare, sono perciò in grado di crescere in risposta a stimoli esterni come la luce, la gravità, il gradiente di umidità, il campo elettrico, una pressione, le sostanze nutritive e non ultimo, come è emerso da ricerche recenti, di crescere sotto lo stimolo di una fonte sonora (cfr. Mancuso, 2017, pp. 4142). Si tratta di movimenti “idraulici” basati sul semplice trasporto di acqua o di vapore
Diversamente dagli organismi animali, le piante non hanno singoli organi ma un’architettura diffusa in tutto il corpo: ogni loro parte – rami, fusto, foglie, radici – è connessa con le altre ma è indipendente da esse, e questo, data la loro stanzialità, le rende meno vulnerabili alle aggressioni esterne, altrimenti anche il minimo strappo di un ramo o il fatto di essere brucate da un animale sarebbe per loro fatale. In un certo senso, le piante sentono, annusano, respirano e fanno i loro calcoli con tutto il corpo, distribuendo quanto più possibile ogni funzione, sì da sopportare anche ampie amputazioni senza tuttavia perdere funzionalità. Questa particolare fisiologia per cui le diverse funzioni non sono legate a singoli organi dedicati garantisce la sopravvivenza delle piante, organismi tutt’altro che indivisibili, anche quando ne viene asportata o predata gran parte del corpo: sono in grado di rigenerarsi in tempi più o meno brevi e in certi casi, come in quello della potatura, ne risultano addirittura rafforzate. Senza contare la resistenza di alcune specie vegetali agli incendi. Le palme nane sono a questo riguardo un esempio di straordinaria resistenza alle avversità ambientali: la loro capacità di sopravvivere agli incendi, anche quando sono interamente bruciate, e di ricominciare a produrre nuove gemme con l’umidità, è commovente (cfr. Mancuso, 2017, pp. 146-147). Si pensi poi alla riproduzione per talea, cioè per mezzo di una ramo provvisto di almeno una gemma staccato da una pianta “madre”, o addirittura di una semplice foglia, e capace di dare origine a una nuova pianta. Se infatti gli individui, in quanto tali, sono indivisibili (le due parti di un corpo animale non potrebbero vivere autonomamente), la fisiologia di un albero ci rammenta una colonia di insetti piuttosto che un singolo animale, un comportamento collettivo insomma (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 30-32; Mancuso, 2017, pp. 43-47, 144-147). Ma su questo 18
solo da pochi decenni la ricerca scientifica ha pienamente acclarato che si tratta di organismi tutt’altro che insensibili, collocando quindi tali capacità in una prospettiva che non era mai stata presa in seria considerazione: quella appunto dell’esistenza dei sensi vegetali. Le piante percepiscono l’ambiente circostante, hanno consapevolezza di ciò che sta intorno a loro, ma anche di dove sono situate, della direzione della loro crescita e della localizzazione di un supporto vicino al quale avvinghiarsi, sanno anche quando vengono toccate e sono in grado di distinguere tra diversi tipi di contatto, sanno se una pianta adiacente è cresciuta al punto da sottrarre loro la luce, rispondono alle vibrazioni ecologicamente rilevanti, percependo persino quando stanno per essere mangiate (rispondono, per es., alle vibrazioni delle foglie causate dalla masticazione di insetti erbivori - su questo ultimo aspetto cfr. Appel, Cocroft, 2014). Sono in grado perciò di reagire a una grande varietà di stimoli odorosi, visivi, acustici, tattili, gustativi, grazie ai recettori sensoriali, estremamente affidabili per la loro sopravvivenza, sparsi su tutta la loro superficie corporea. Pur non essendo provviste di occhi, attraverso i fotorecettori presenti specialmente nelle foglie, nei germogli e nei viticci (per cercare il buio anche le radici devono essere fotosensibili), captano la luce, alimento essenziale per la fotosintesi, inclinandosi verso essa, riconoscendone e misurandone la qualità e la quantità, sanno distinguere la luce dall’ombra ma anche la luce ultravioletta che scotta e da quella infrarossa che riscalda. Oltre a emettere odori attraenti per gli animali e per gli esseri umani, odori che hanno prevalentemente una funzione semiotica –
che entra o esce dai tessuti, basti pensare alla fioritura, all’apertura degli stomi, allo strisciare di un rampicante in cerca di un sostegno a cui avvitarsi, al piegarsi dei rami verso una fonte luminosa o al girarsi delle foglie, o alla rapida chiusura delle foglioline pennate della Mimosa pudica per proteggersi quando viene realmente toccata (se viene bagnata dall’acqua o scossa dal vento la foglia invece non si chiude), e ancora alla pigna che tiene ben serrate le sue squame legnose nei giorni di pioggia o quando l’aria è molto umida per impedire la fuoriuscita dei semi, aprendole completamente nelle giornate secche e soleggiate per permettere la dispersione degli stessi nell’ambiente. Ma le piante, per ovviare all’impossibilità di spostarsi dal loro luogo di radicamento e risolvere tanti problemi, sanno avvalersi anche della capacità locomotoria degli animali, ai quali chiedono collaborazione per disperdere i semi, per scopi di difesa e per un’efficiente impollinazione. In quest’ultimo caso, in cambio del servizio reso, le piante offrono agli impollinatori un delizioso nettare, mentre in cambio dei frutti consumati dagli uccelli, dall’uomo o da altre specie animali, la pianta ottiene il vantaggio della diffusione dei suoi semi in ogni dove (cfr. ivi, pp. 57-58, 95-98, 115). Eppure noi continuiamo a considerarle esseri immobili.
I sensi e l’esperienza delle piante Sebbene l’idea che le piante siano esseri dotati di raffinate abilità con cui fanno esperienza del mondo non sia affatto nuova, affacciandosi in epoche e in contesti differenti (per una panoramica storica degli studi sul comportamento delle piante e dei pensatori che se ne sono occupati cfr. Thompkins, Bird, 1973 e il più recente Mancuso, 2013, pp. 9-24), tuttavia
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Una tecnica di produzione video in cui il video
viene appunto generato a partire da singole immagini fotografiche montate in successione come fossero fotogrammi.
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perficie delle sue foglie, attratto dal delizioso nettare che esse secernono, i due grandi lobi di cui sono composte si serrano con forza, intrappolandolo con una sorprendente velocità in risposta a una stimolazione elettrica percepita attraverso i peli neri, situati sulla superficie interna di ogni lobo, che fanno scattare la trappola proprio come un grilletto. A quel punto secerne dei succhi digestivi che le permettono di dissolvere e di assimilare la preda. Esperimenti condotti in laboratorio, poi, confermando quanto aveva già osservato Darwin, dimostrano che quando l’apice radicale di una pianta incontra un ostacolo lo “tasta”, per così dire, per capire come muoversi, per continuare la sua crescita cercando di aggirarlo o di superarlo.
segnali di attrazione, di repulsione o di altra natura, come quelli prodotti per esempio dalle piante aromatiche, dalla liquirizia, dal limone, dal gelsomino, dalla rosa o dall’erba appena tagliata, per comunicare tra di loro o con gli animali –, le piante sanno anche fiutare quando vengono mangiate da un insetto. E inoltre percepiscono i messaggi odorosi emessi dalle altre piante, spesso per allertarle di un pericolo, o dai frutti maturi (nella fase della maturazione tutti i frutti producono in abbondanza una sostanza odorosa, l’etilene, che ne garantisce la maturazione uniforme, influenzando anche quella dei frutti vicini, il che li rende facilmente individuabili dagli animali che se ne nutriranno per poi disperderne i semi) ma anche dagli animali. Questa comunicazione profumata, com’è ovvio, condiziona il loro comportamento. Seppur prive di organi olfattivi propriamente detti (naso e organo vomeronasale), come molti animali, umani inclusi, le piante reagiscono ai feromoni: captano una sostanza chimica volatile nell’aria traducendo questo segnale in una reazione fisiologica. Gli organismi vegetali, come abbiamo detto, reagiscono anche al contatto, sia quando vengono toccati, sia quando toccano qualcosa, grazie ai cosiddetti “canali meccano-sensibili”, piccoli organi recettori diffusi su tutta la loro superficie e strettamente connessi anche al loro senso dell’udito. Abbiamo già accennato al caso della Mimosa pudica, dotata di uno spiccato senso del tatto ma anche della capacità di apprendere, di modificare cioè il proprio comportamento di difesa (non chiudendosi) quando dopo ripetuti contatti percepisce che lo stimolo avvertito non è pericoloso. Un caso ancora più straordinario è quello della Venere acchiappamosche (Dionea Muscipula), una pianta carnivora definita da Charles Darwin come “una delle più meravigliose al mondo” (Darwin, 1875, cit. in Mancuso, Viola, 2013, p. 66): quando un insetto si avventura sulla su-
Il fatto di essere animali, e quindi così distanti dal regno vegetale, ci rende difficile immaginare che le piante possano essere esseri sensibili, dotati di una forma di intelligenza, capaci di provare qualcosa, di percepire il mondo circostante, di avere una vita sociale, di comunicare tra loro e con gli animali. Il caso delle piante carnivore (la Dionea Muscipula o le Nepenthes) è anche un esempio delle diverse attitudini gustative sviluppate dalle piante nel corso dell’evoluzione e del modo in cui funziona il senso del gusto nel mondo vegetale. Gran parte dei vegetali, cibandosi come ogni organismo vivente, deve possedere dei recettori chimici deputati al riconoscimento delle sostanze nutritive presenti prevalentemente nel terreno. La sensibilità alla minima presenza di sostanze chimiche è 20
"Albero con olive", ceramica, lavorato a mano, architetto Alba Rosa Mancini, serie Alberi per gli appetizers
tuttavia percepiti dalle radici di altre piante, il che fa ipotizzare anche l’esistenza di un’insospettabile forma di comunicazione acustica sotterranea. Uno degli esperimenti più interessanti condotti al riguardo ha dimostrato la sensibilità delle piante alla musica, e a quella classica in particolare: un viticoltore toscano, coadiuvato dal Laboratorio Internazionale di Neurobiologia vegetale diretto da Stefano Mancuso, ha diffuso per cinque anni in un vigneto la musica di Mozart osservandone un incremento nella crescita rispetto ai vigneti non esposti al suono e una maturazione più rapida, e ricavandone anche frutti più saporiti. Gli studiosi ipotizzano che a influenzare positivamente la crescita delle piante non sarebbe tanto il genere di musica quanto piuttosto le frequenze di cui è composta, in particolare quelle basse, tra 100 e 500 Hz, laddove frequenze più alte la inibiscono (sui sensi nel mondo vegetale cfr. Chamovitz, 2012; Mancuso, Viola, 2013, pp. 44-70). E v’è di più: un musicista siciliano, Giuseppe Cordaro, incuriosito da queste ricerche ha intrapreso una collaborazione con un gruppo di ricercatori americani ed è riuscito a registrare le “voci” di numerose specie di piante applicando dei sensori galvanici (simili a quelli dell’elettrocardiogramma) alle foglie, convertendo così gli impulsi elettrici prodotti dalle piante in note e scegliendo anche lo strumento virtuale da far suonare a una determinata pianta (cfr. l’intervista rilasciata a Luca Pavanel, 2017).
collocata nelle radici, che “assaggiano” il suolo alla ricerca di azoto, di fosforo e di altri sali minerali. Ma non tutte le specie vegetali si nutrono allo stesso modo. La necessità per alcune di loro di affidarsi a una dieta carnivora è legata a ragioni di tipo evolutivo: dovendosi adattare ad ambienti umidi e palustri dove scarseggia l’azoto, un cibo indispensabile per la sopravvivenza delle piante, alcune specie nel corso dell’evoluzione si sono attrezzate a procurarsi tale sostanza non dal terreno bensì affidandosi alla parte aerea, modificando la forma delle loro foglie per intrappolare gli insetti, piccoli scrigni ricchi di azoto, e a metabolizzarli attraverso degli enzimi che ne favoriscono l’assorbimento. Altre specie ancora, invece, pur non avendo sviluppato organi preposti alla cattura e alla digestione di insetti, ricorrono comunque alle risorse del mondo animale per nutrirsi: le foglie della patata o del tabacco, per esempio, secernono sostanze appiccicose e velenose che attirano gli insetti i quali morendo cadono sul suolo dove rilasciano l’azoto necessario al nutrimento della pianta. Quanto alla capacità delle piante di percepire i suoni e di reagire a essi, sia le ricerche di campo, sia quelle di laboratorio non sembrano attestare in modo certo tale abilità, che resta pertanto la più controversa. La mancanza di un organo dedicato comunque non impedirebbe alle piante di percepire le vibrazioni trasmesse nel terreno e captabili attraverso gli stessi recettori del tatto diffusi in tutta la pianta. Le radici, secondo studi recenti, sarebbero sensibili alle vibrazioni sonore e in particolare alle frequenze basse, in grado di stimolare l’accrescimento della pianta e di favorire la germinazione dei semi, e sono persino capaci di produrre dei suoni simili a degli schiocchi (“clicks”) dovuti alla rottura delle pareti cellulari nel corso della crescita. Si tratterebbe certo di suoni prodotti in modo involontario e
Il linguaggio silente delle piante Dall’interno viene la voce e dall’interno il profumo. Come gli esseri umani si distinguono al buio dal tono delle loro voci, così, nel buio, ogni fiore lo si riconosce dalla fragranza. Ciascuno porta l’anima del suo progenitore (Gustav 22
dall’aggressione inviando alle loro foglie sostanze tossiche. Fenomeni simili avvengono anche nei boschi. Per difendersi dall’aggressione degli insetti, le querce, per esempio, modificano il sapore delle foglie inviando alle stesse e alla corteccia tannini amari e velenosi che uccidono gli insetti parassiti. Un simile processo avviene attraverso l’invio di segnali aerei e di segnali sotterranei (chimici ed elettrici) mediante le radici e rispetto a quanto accade nel corpo umano richiede tempi lunghi: una volta però che l’informazione è stata diffusa, anche le querce vicine si attrezzano a inviare tannini nella loro rete vascolare. Ma a rendere più rapida la trasmissione di queste informazioni tra un albero e l’altro intervengono i funghi, le cui ife possono estendersi per svariati chilometri quadrati: il loro tramite facilita la trasmissione delle informazioni riguardanti la presenza di insetti, i periodi di siccità e altri pericoli ancora. Certo non tutti i funghi sono alleati delle piante, alcuni sono patogeni e tendono a distruggere le radici delle piante per nutrirsi. Anche in questo caso si instaura una sorta di conversazione chimica tra le due specie vegetali che, a seconda delle “intenzioni” del fungo, può tramutarsi in ostilità da parte della pianta oppure attivare un’associazione simbiotica reciprocamente vantaggiosa: il fungo fornisce alla radice minerali come il fosforo, ricevendo in cambio una parte degli zuccheri prodotti dalla pianta con la fotosintesi. Lo scambio di messaggi non si limita solo agli alberi ma presumibilmente avviene in tutte le specie vegetali, e non riguarda solo l’autodifesa e la malattia ma anche la riproduzione sessuale. I fiori delle piante e degli alberi da frutto, per esempio, durante l’impollinazione emanano odori piacevoli per attrarre gli insetti principalmente (ma anche uccelli, pipistrelli, rettili, primati) a visitare i fiori, liberando nell’aria grandi quantità di polline, e poiché
Theodor Fechner, cit. in Tompkins, Bird, 1973, p. 127). Abbiamo visto come, attraverso i sensi, le piante raccolgano informazioni sull’ambiente orientandosi all’interno dello stesso e arricchendo le loro esperienze. Altrettanto importante è però disporre di un linguaggio che permetta loro di utilizzare tali informazioni, di riceverle ma anche di trasmetterle da una parte all’altra della pianta e di comunicare con l’ambiente circostante. Per fare ciò i vegetali si affidano a segnali di varia natura: elettrici, idraulici e chimici. Se, per esempio, le radici di un albero si rendono conto che nel terreno non c’è più acqua disponibile, è di fondamentale importanza che questa informazione venga trasmessa rapidamente alle foglie, i cui stomi (piccole aperture che ricoprono le foglie e che consentono alla pianta di comunicare con l’esterno: di ricevere per es. anidride carbonica e di liberare vapore acqueo) si chiuderanno per impedire la traspirazione dell’acqua che sarebbe fatale per la pianta. Come ogni essere vivente, quindi, anche le piante comunicano internamente attraverso un complesso sistema vascolare, ma sono anche in grado “parlare” tra di loro e/o con gli altri animali usando un linguaggio odoroso, variabile nelle diverse situazioni, avvertito dalle piante vicine e/o anche dagli animali: “milioni di differenti composti chimici che funzionano come i segni di una vera e propria lingua vegetale, della quale però – afferma Stefano Mancuso – conosciamo ancora pochissimo” (Mancuso, Viola, 2013, p. 47). Nella savana africana, per esempio, le acacie per sbarazzarsi delle giraffe che brucano le loro chiome, in tempi brevissimi emettono nelle loro foglie delle sostanze tossiche che allontanano i grossi erbivori, e segnalano nel contempo agli alberi della stessa specie presenti nelle vicinanze l’incombente pericolo. A loro volta anche le altre acacie preallertate si difenderanno 23
trasformato dai batteri in azoto ammonio facilmente assimilabile dalle piante. In quest’ultimo caso, come sopra, la simbiosi scatta dopo uno stretto scambio di informazioni tra il batterio e la pianta (di leguminose, per es.), attraverso un processo di riconoscimento: la ricompensa per i batteri azoto-fissatori è costituita dalle sostanze zuccherine presenti nelle radici. Le piante ricorrono alla comunicazione con il mondo animale anche per il trasporto dei semi, una tappa fondamentale per la loro riproduzione. Se in alcuni casi la loro diffusione è affidata al vento (per es. per il tarassaco o per il tiglio), in altri si avvale di affidabili vettori come gli uccelli e le scimmie frugivore, che attratti dal colore dei frutti se ne nutriranno disperdendone poi i semi nell’ambiente attraverso le feci. Anche le piante poi, come gli animali, mettono in atto forme di “inganno semiotico”, comportandosi non sempre onestamente: un caso emblematico è quello delle orchidee, gli organismi viventi con la più alta capacità di mimesi insieme alla Boquilla (una pianta lianosa diffusa nelle foreste temperate del Cile - su questo esempio di mimesi cfr. Mancuso, 2017, pp. 63-68). Alcune specie sono in grado di imitare perfettamente la forma, la consistenza dei tessuti, la superficie pelosa e specialmente l’odore della femmina di alcuni insetti non sociali (simili alle api e alle vespe), emettendo delle sostanze chimiche analoghe ai feromoni sessuali dell’insetto. Con questa triplice mimesi l’orchidea inganna l’insetto maschio, che intento ad “accoppiarsi”, si ricolma di polline che trasporterà con sé al fiore successivo (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 71-102; Wohlleben, 2015, pp. 14-20). Non ultimo, le piante sono in grado di riconoscersi tra parenti, sanno stringere anche rapporti di amicizia e di solidarietà per lo più con gli esemplari della stessa specie (per es. i faggi, che addirittura si alimentano a vicenda), e
in natura nessuno fa niente per niente, gli impollinatori vengono ricompensati con il dolce nettare zuccherino che pare sia prodotto dalle piante proprio per questo scopo. Ma anche la forma e il colore dei fiori e dei frutti sono un segnale per attirare l’attenzione degli impollinatori e degli spargitori di semi. In certi casi poi le piante per difendersi emettono segnali chimici per chiedere aiuto ai predatori naturali dei loro nemici, ovvero i nemici dei nemici: il fagiolo del Perù, per esempio, quando è aggredito da un acaro particolarmente vorace è capace di riconoscerlo e di chiedere aiuto al suo nemico biologico, un altro acaro carnivoro, attirandolo con un odore particolare. Strategie di difesa così evolute sono usate da numerose specie vegetali come il mais o il pomodoro.
A differenza degli animali che attraverso il movimento o la fuga aggirano i problemi, le piante, invece, sono costrette ad affrontarli e a risolverli, a trovare soluzioni efficaci ancora più che veloci, ad adattarsi ai continui mutamenti ambientali, un compito che richiede un’organizzazione decentrata e una straordinaria sensibilità a fattori fisici e chimici La comunicazione non verbale delle piante si avvale di segnali chimici, elettrici, ottici e anche acustici: grazie a degli apparecchi di misurazione, i ricercatori hanno registrato in laboratorio l’emissione di scricchiolii delle radici ai quali reagirebbero le radici dei germogli vicini. In altri casi le piante chiedono aiuto a microrganismi per fissare l’azoto atmosferico, l’elemento principale di fertilità di un terreno, 24
vita diverse dalla nostra, sia nel mondo animale, sia in quello vegetale, dovremmo farlo abbandonando ogni pregiudizio di superiorità e/o di esclusività delle nostre facoltà, provando a pensare che esistono altre forme di intelligenza (dalle specie meno evolute a quelle più evolute) e facoltà sensoriali non del tutto comparabili alle nostre, ma non per questo meno efficaci per l’adattamento e la sopravvivenza. Questo discorso vale per le specie animali e anche per quelle vegetali, alle quali in genere non tendiamo ad attribuire niente di più che qualche forma primitiva di sensibilità. Se, come si è visto sopra, le piante sono in grado di apprendere, di scambiare informazioni con l’ambiente esterno e con parti di sé, di cacciare animali o di sedurli, di eseguire movimenti per raggiungere il nutrimento, l’acqua o la luce, di dormire (cambiano posizione durante la notte, anche se non se ne conoscono ancora i motivi), di affrontare, quindi, e risolvere problemi di sopravvivenza, allora si può ipotizzare che abbiano qualcosa di analogo a un cervello, insomma una struttura deputata a questa funzione, o che siano comunque dotate di una qualche forma di intelligenza, come ogni altro essere vivente, non necessariamente riconducibile a uno specifico organo.
più facilmente in ambienti come i boschi, compensando reciprocamente le loro rispettive debolezze attraverso scambi di informazioni a livello radicale – favoriti dalla preziosa collaborazione dei funghi, “una specie di Internet del bosco” (Wohlleben, 2015, p. 60) –, laddove gli alberi appartenenti a specie diverse spesso competono per l’accaparramento della luce, dell’acqua e delle sostanze nutritive quando le risorse sono limitate (cfr. Wohlleben, 2015, pp. 22-24). L’intelligenza vegetale Tutte le definizioni di intelligenza elaborate dall’uomo si riferiscono a un unico modello: la mente umana. Anche se ci siamo costruiti una concezione di intelligenza a nostra immagine e somiglianza, è ormai ampiamente acclarato che esistono intelligenze diverse corrispondenti alle differenti modalità di esistenza animale e anche nella nostra specie si parla di intelligenze multiple, cioè di tipologie diverse di intelligenza con specifiche abilità cognitive, che possono in larga parte coesistere nello stesso individuo (sulla teoria dell’intelligenza multipla cfr. Gardner, 1983). Non è escluso però che lo studio dei comportamenti delle piante ci metta di fronte alla necessità di ridefinire il concetto di intelligenza costruito sul modello animale e di guardare alla nostra mente con uno sguardo nuovo. Nonostante la difficoltà di convenire su una definizione unitaria di intelligenza, universalmente condivisa, gran parte degli studiosi concorda nell’identificare questa facoltà con la capacità di adattarsi all’ambiente e di affrontare con successo le sue sfide, di percepirne i cambiamenti, di trovare soluzioni retroagendo nel modo più adeguato, insieme alla capacità di mettere in atto comportamenti che permettono di raggiungere degli obiettivi e di risolvere problemi. In realtà, se analizziamo forme di
Il cammino seguito dalla radichetta quando penetra nel suolo deve essere determinato dall’estremità, la quale a questo scopo ha acquistato diverse sorta di sensibilità. È appena esagerato il dire che la punta radicolare così dotata e che possiede il potere di dirigere le parti vicine, agisce come il cervello di un animale inferiore; quest’organo infatti, posto nella parte anteriore del corpo, riceve le impressioni degli organi dei sensi e dirige i diversi movimenti (Darwin, 1880, p. 368). In questo brano con cui si conclude il saggio di Darwin sul movimento delle piante, lo scien25
po’ come Internet: gli apici radicali agiscono autonomamente ma coordinandosi e interagendo con gli altri (non servono, infatti, solo per trovare acqua e nutrimento, ma anche per comunicare), sì da potenziarsi, instaurando scambi comunicativi di cui si ignora la complessità. In ogni apice radicale ci sarebbe un zona cosiddetta di “transizione”, le cui cellule attuerebbero una trasmissione sinaptica analoga a quella del cervello animale. E sempre nel campo delle ipotesi, si ritiene che i segnali emessi da ogni radice per comunicare con le altre potrebbero essere di tipo chimico (come quelli emessi dalla parte aerea) o di tipo acustico (suoni prodotti dalla pianta durante la crescita e dovuti alla rottura delle pareti cellulari – in questo caso si tratterebbe di un sistema di comunicazione economico che non comporta dispendio di energie), oppure le radici potrebbero essere sensibili ai campi elettromagnetici generati dalle radici limitrofe (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 119-121). La mancanza di strumentazioni tecniche adeguate a registrare i movimenti dell’apparato radicale non favorisce l’avanzamento delle ricerche sul comportamento dei vegetali. Tuttavia, gli studi di neurobiologia vegetale teorizzano la capacità delle piante, e dell’apparato radicale in particolare, di agire come un’intelligenza distribuita: questo tipo di funzionamento consentirebbe loro di percepire gradienti molto deboli di acqua, di ossigeno, di temperatura, di sostanze nutritive, di seguire questi gradienti fino alla fonte in maniera molto precisa, di registrare continuamente la presenza di altre piante o di altri animali, di campi elettromagnetici, di luce e di altro ancora, e di prendere decisioni di fondamentale importanza a partire dall’elaborazione di questi dati (decidere, per es., se crescere verso l’alto dove è più facile respirare aria buona piuttosto che svilupparsi verso il basso alla ricerca di acqua, se crescere verso destra o
ziato ipotizzava già senza troppi azzardi l’esistenza di un’analogia tra le radici delle piante e il cervello di un animale inferiore. Passata per lungo tempo inosservata, questa tesi ha avuto sviluppi fruttuosi solo in tempi molto recenti, sebbene negli anni successivi, il figlio di Darwin, Francis, avesse affermato senza mezzi termini che “le piante sono intelligenti” (1908), scatenando com’era prevedibile un acceso dibattito (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 1922). Gli studi più attuali di František Balušk, e dei suoi collaboratori, e di Stefano Mancuso, ipotizzano che tali strutture si trovino proprio negli apici radicali, cioè nelle estremità delle radici che costituiscono la parte viva delle stesse, veri e propri organi di senso capaci di condurre segnali elettrici molto simili a quelli utilizzati dai neuroni, agendo in modo analogo al cervello umano (cfr. Brenner et al., 2006; Mancuso, Viola, 2013, pp. 117-118): se le radici urtano contro sostanze velenose, pietre impenetrabili o aree troppo umide, analizzano la situazione e trasmettono le modifiche necessarie alla zona di crescita, che cambia direzione e fa sì che le sue propaggini aggirino il punto critico (Wohlleben, 2016, p. 94).
Stando alle teorie di neurobiologia vegetale, le radici di una pianta impegnate nell’esplorazione del terreno si comporterebbero proprio come uno sciame, come una colonia di insetti o uno stormo di uccelli che agiscono tutti insieme, come un’intelligenza distribuita: quando i membri di uno sciame stanno insieme esibiscono comportamenti complessi o proprietà cosiddette “emergenti” non osservabili nell’individuo preso singolarmente. L’informazione, dunque, non passerebbe attraverso un unico centro ma circolerebbe in modo diffuso tra le varie parti, anche periferiche, della pianta. Insomma, una grande rete di radici con una superficie enorme (una pianta può avere anche diversi miliardi di radici) che funziona un 26
“Albero di ulivo", ceramica, lavorato a mano, architetto Alba Rosa Mancini, serie Alberi per gli appetizers
Considerando tutto questo, quando guardiamo una pianta o un albero e magari pensiamo di sbarazzarcene, senza perdere tempo, solo perché ci toglie un po’ di visuale o perché sporca il nostro terrazzo quando perde le sue foglie, dobbiamo farlo con più rispetto, quello che ogni essere vivente e sensiente meriterebbe, ripensando in modo nuovo ai vegetali senza sottovalutarli, rammentando che si tratta di esseri che vivono e agiscono come uno sciame, un insieme di individui simili che coopera in modo efficiente al raggiungimento di obiettivi condivisi. Insomma, dovremmo pensare alle piante come a una diversa varietà di intelligenza e, perché no, provare a ispirarci alla loro organizzazione come modelli per risolvere problemi complessi, esplorare l’ambiente e per indagare i meccanismi di molte funzioni biologiche.
verso sinistra per raggiungere azoto da una parte o fosforo dall’altra), un compito difficilmente realizzabile senza una forma, seppure particolare, di intelligenza (cfr. Mancuso, Viola, 2013, pp. 115-118; Mancuso, 2017, pp. 150157; sull’intelligenza delle piante cfr. anche Trewavas, 2003). Se le piante sono organismi intelligenti devono possedere anche qualche capacità di memoria, necessaria per apprendere dall’esperienza, ma fortemente sottovalutata nel mondo vegetale. E in effetti la natura ha concesso loro anche questa facoltà, quasi certamente una memoria procedurale (o implicita), di basso livello, da cui dipende la capacità di percepire gli stimoli e di reagire a essi, ma, stando alle ricerche più attuali, anche capacità di memoria a breve e a lungo termine: sottoponendo, per esempio, una pianta di olivo a uno stress come la siccità o la salinità, per sopravvivere essa metterà in atto delle modificazioni anatomiche e metaboliche. Se trascorso un po’ di tempo si sottopone la pianta allo stesso tipo di stimolo, magari anche un po’ più forte, essa risponderà allo stress ancora meglio, dimostrando così di aver conservato una traccia delle soluzioni usate in precedenza (di “aver imparato la lezione”, insomma), richiamandole in condizioni di emergenza per reagire in modo più preciso ed efficiente (per un approfondimento sulla memoria delle piante cfr. Chamowitz, 2012, pp. 121-139; Mancuso, 2017, pp. 19-31). Non si può neppure negare che le piante abbiano una certa consapevolezza dell’ambiente che le circonda: della gravità, delle sostanze chimiche disperse nell’aria e nel terreno, dei diversi tipi di contatto quando vengono sfiorate e anche dei loro ricordi. Una pianta sa anche quando viene bruciata a causa di un incendio, quando le manca l’acqua nei periodi di siccità o, come s’è già detto, quando una foglia viene morsa da un insetto (cfr. Chamovitz, 2012, pp. 143-145).
Rosalia Cavalieri è professore ordinario di Filosofia e teoria dei linguaggi nell’Università di Messina, è autrice di una cinquantina di saggi e di numerosi volumi tra cui: Breve introduzione alla biologia del linguaggio (Editori Riuniti, 2006), Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori (Laterza, 2009) e Gusto. L’intelligenza del palato (Laterza, 2011). Per il Mulino ha pubblicato Parlare, segnare. Introduzione alla fisiologia e alla patologia delle lingue verbali e dei segni (con Donata Chiricò, 2005), E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto (2014) e La passione del gusto. Quando il cibo diventa piacere (2016). Per le edizioni Olio Officina ha pubblicato, nel gennaio 2018, I sensi e la lingua dell’olio. Appunti per un degustatore amatoriale.
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"Albero con ravanelli”, ceramica, lavorato a mano, architetto Alba Rosa Mancini, serie Alberi per gli appetizers
Per una ricca bibliografica scientifica sull’argomento cfr.: http://www.linv.org/publications/
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olioofficina / visioni
Alberi e filosofia
hanno le stesse
radici
di Alfonso Pascale
Ho fatto un sogno che vorrei raccontarvi. Attraversavo il bosco di Tito, paese lucano dove sono nato oltre sessant’anni fa, e appesantito dalla stanchezza, mi sono fermato per riposarmi. Ero andato a vedere i luoghi dove i contadini titesi avevano occupato le terre nel dicembre del 1949, patendo arresti e processi. Un paio di radure scarsamente soleggiate. La prima denominata lu chià d’ fenogghiu, perché ricca di finocchi selvatici, e l’altra la mangosa, perché esposta a manca o a tramontana. Avevano diretto quelle lotte intellettuali, professionisti e artigiani capaci di stabilire un rapporto paritario coi contadini.
Claudio Michetti - 2017 - La forza di andare oltre, collezione Olio d’Artista, a cura di Francesco Sannicandro, Olio Officina Fest
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Le lotte per la terra e la riforma agraria
democratiche. Le occupazioni di terre in quel periodo avevano, dunque, più un carattere di festa popolare per il riscatto della condizione contadina che non quello di un vero e proprio atto rivoluzionario. Erano momenti in cui cresceva la consapevolezza della necessità di una rinascita, di un cambiamento profondo per determinare nuove condizioni di vita, ma da raggiungere attraverso un allargamento del consenso. Le feste, però, erano sfociate rapidamente in tragedie per insipienza di alcuni responsabili dell’ordine pubblico o per troppo avida paura di alcuni proprietari. La polizia aveva sparato sui manifestanti ed erano morti alcuni contadini come a Torre Melissa in Calabria e a Montescaglioso in Basilicata. A Tito le occupazioni si erano concluse con l’intervento dei carabinieri che avevano arrestato una decina di persone e denunciato un centinaio. A seguito di quella mobilitazione che aveva assunto anche risvolti cruenti, il governo si era affrettato a varare, nel corso del 1950, una serie di provvedimenti per attuare la riforma agraria in alcune aree del Paese, da tempo in gestazione ma ora ritenuta urgente. Era stata inoltre costituita la Cassa per il Mezzogiorno. E così la riforma agraria e le opere infrastrutturali della Cassa avevano agito come un colpo d’ariete delle ondate di trasformazioni nel tessuto economico e sociale del Paese. Erano stati gli esiti di quelle lotte ad avviare l’ammodernamento non solo dell’agricoltura, ma dell’Italia. Per questo la memoria di quei contadini che vi avevano preso parte e dei luoghi dove si erano svolti oggi non dovrebbe andare dispersa. Pensieri siffatti mi passavano per la mente quando mi accorgo che nel luogo dove adesso mi sono fermato c’è un acquitrino, un terreno molle e melmoso. Viene chiamato la zambruneda che significa “zona molto fangosa”. Nei pressi c’è l’azzuppadoru, un fosso con un fiumicello dove una volta le donne andavano a
A Tito il terreno era politicamente fertile perché vi erano stati episodi significativi di una presenza comunista già nel ventennio fascista e nella Resistenza. Un giovane, Rocco Viggiani, si era arruolato nelle Brigate Garibaldine ed era caduto nella guerra di Spagna. Importante era stata la presenza di confinati politici. Inoltre, un giovane militare, Giuseppe Meliante, era rimasto coinvolto nelle deportazioni naziste a seguito del suo rifiuto ad arruolarsi nell’esercito repubblichino. Frequentava il paese un comunista irrequieto che avrebbe voluto incanalare in azioni sovversive il malcontento nelle campagne e l’aspirazione dei contadini alla terra. Si chiamava Peppino Marmorosa, originario del Cilento. Si dice che girasse con un cavallo bianco per raggiungere i diversi centri lucani. Una sorella, Irma, aveva sposato Eugenio Mancinelli che possedeva a Tito alcune masserie. La vicenda di Marmorosa era rimasta avvolta nella leggenda. Un trascorso giovanile rocambolesco lo aveva visto dirigente del fascio, dapprima a San Rufo e poi a Castelmezzano, dove si era trasferito per lavoro. Ma poi, al centro di polemiche legate alla sua movimentata vita sentimentale, era dovuto riparare in Dalmazia. Dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca della zona, si era unito alle formazioni italiane aggregate alle forze partigiane comuniste del maresciallo Tito. Finita la guerra di Liberazione, era stato inviato dal suo partito a dirigere la federazione di Potenza. Le sinistre amministravano diversi comuni lucani e calabresi dove si conducevano le lotte per la terra. Nella primavera del 1946 era stato eletto sindaco del paese il socialista Luigi Salvia. La stessa cosa era avvenuta a Tricarico con l’elezione del poeta Rocco Scotellaro. In diversi centri si erano costituiti i Comitati per la terra, aperti a tutti i cittadini e a tutte le organizzazioni 32
per conto loro, affondando nella melma del bosco: sono diventate radici. Affiorano nettamente dal suolo, come del resto avviene agli altri alberi intorno per via dello scarso spessore dell’humus. È per questo che, da tempi immemorabili, il fiumicello viene chiamato vadda della radice. La vecchia quercia deve avermi adottato. E il motivo credo d’intuirlo. Le foglie che spuntano dalle mie braccia sono sì lanceolate e di colore verde scuro nella pagina superiore come sono quelle dell’alloro; ma la pagina inferiore delle foglie è grigio argento. Come quelle dell’ulivo. I rami di quercia e di ulivo fanno parte dell’emblema della nostra Repubblica, insieme alla stella e alla ruota dentata. Fu il professore di ornato all’Istituto di Belle Arti di Roma Paolo Paschetto a disegnarlo. Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale. Il ramo di quercia che chiude a destra l'emblema, incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi, poi, sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio arboreo. La ruota dentata d'acciaio, simbolo dell'attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta Costituzionale: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». La stella è uno degli oggetti più antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla personificazione dell'Italia, sul cui capo essa splende raggiante.
lavare i panni. L’acqua cade violentemente, come nelle cascate, dall’alto verso il basso, producendo fragore. Da qui il toponimo: nel dialetto di Tito azzuppà significa «cascare con la massima forza». Ho deciso così di appoggiarmi ad una quercia. Ma non era un tronco, non era un legno. Emanava una calda, intensa corrente di energia. Mi è sembrato di appoggiarmi alla schiena calda di un’innamorata vogliosa. Mentre cercavo di dare un senso a questa percezione, mi è affiorato alla memoria un passo de Le Metamorfosi in cui Ovidio racconta la passione di Apollo per la bella Dafne, figlia di Peneo, un fiume sacro che scorre in Tessaglia. Il dio la insegue. E la ninfa, stremata dallo sforzo della folle fuga, getta uno sguardo alle onde del Peneo: «Padre – invoca – vieni in mio soccorso, se voi fiumi ne avete il potere; trasforma la mia immagine, per la quale piaccio troppo». Ha appena finito di pregare che un torpore profondo le invade le membra; il busto delicato si fascia di tenera corteccia; i lunghi capelli si dilatano in fronde; le braccia in rami; i piedi si fissano in immobili radici. Sopravvive soltanto il suo fulgore. Dafne viene trasformata in alloro, la pianta con cui Apollo cinge il suo capo, la sua cetra, la sua faretra e che diventa il simbolo della vittoria. Ancora oggi, in ricordo di Dafne, la corona d’alloro va a chi compie imprese memorabili, dal compimento degli studi universitari ai campionati sportivi. La quercia a cui mi sono appoggiato nel sogno sembra la schiena della bella ninfa trasformata in alloro. Un tronco vivo, percorso da vibrazioni di straordinaria potenza. E nel toccarla mi tranquillizzo e mi abbiocco. Anche nel sogno si può dormire! Quando mi sveglio – continuando a sognare - mi accorgo che sto cambiando. Non sono in grado di parlare perché le mie corde vocali sono ferme. La bocca inaridita. Gli occhi mi si annebbiano. Le braccia s’irrobustiscono e le dita dei piedi crescono
Sono diventato ulivo Mi sono dunque trasformato in un grande albero che sembra avere le sembianze di un vecchio oleastro, quasi come quelli che Eracle Dattilo portò a Olimpia. “Non inquietarti” sussurra la quercia madre con tono benevolo. “Ma non posso muovermi. 33
vivere è così bello, Né desideravo praticare la rassegnazione, a meno che fosse assolutamente necessaria. Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, vivere così fortemente e in maniera così spartana da spazzar via tutto ciò che non fosse vita…». A Walden Thoreau aveva scoperto un’etica con una qualità solida: la natura è per l’uomo un perenne oggetto di esplorazione, una dimora, un rifugio. Vivendo nei boschi in solitudine e in modo indipendente dalla vita sociale organizzata, si era convinto che la sopravvivenza del mondo stava nella natura selvaggia. L’altra opera di Thoreau è considerata una prima teorizzazione - dopo l’Apologia di Socrate, l’Antigone e il Vindiciae contra tyrannos (1573) - della resistenza non violenta volta a non collaborare con il governo quando, come quello americano, impone leggi ingiuste, permette lo schiavismo e aggredisce il Messico.
Non potrò più camminare”. “Non è importante deambulare – tenta di rassicurarmi - ma ogni tanto ci sono degli smottamenti ed è piacevole trovarsi in una posizione diversa. E poi arrivano anche i terremoti. E allora sì che si balla in allegria”. Taccio. Rifletto su quanto mi sta accadendo. Con stupore guardo la strascina ‘a ddoi, il viottolo che serve per tirarsi dietro le fascine, come se per la prima volta osservassi questo tratto perimetrale del bosco. Non avevo invocato nessuno per ottenere tale trasformazione, ma quanto mi sta accadendo non mi turba. Anzi, m’incuriosisce e m’intriga. Mi rammarico solo di non aver studiato a sufficienza gli elementi essenziali della vita di una pianta. Mi sento ignorante. Come farò a respirare e a sopravvivere? Mi viene in mente Henry David Thoreau, autore dello scritto autobiografico Walden ovvero la vita nei boschi e del saggio Disobbedienza civile. Il primo è il resoconto
Le foglie che spuntano dalle mie braccia sono sì lanceolate e di colore verde scuro nella pagina superiore come sono quelle dell’alloro; ma la pagina inferiore delle foglie è grigio argento. Come quelle dell’ulivo. I rami di quercia e di ulivo fanno parte dell’emblema della nostra Repubblica, insieme alla stella e alla ruota dentata. Gandhi, in un articolo del 1921, dirà che «Thoreau forse non era un vero campione della nonviolenza». Ma aggiungerà che lo scritto di Thoreau sulla disobbedienza civile è «un’opera magistrale». E prima Tolstoj e, al suo seguito, Gandhi e, più vicino a noi, Martin Luther King hanno trovato ne La disobbedienza civile un armamentario di argomentazioni teoriche e morali per un modo nuovo di lottare e di esercitare l’azione politica. E come i movimenti ecologisti hanno visto e vedono in Walden l’ideale (o mito?) di una vita che torna a una natura che, diversamente dal-
di due anni, due mesi e due giorni della vita dell’autore in cui egli cerca un rapporto intimo con la natura. Si legge come un testamento rivolto a noi che veniamo dopo cinque generazioni - per farci comprendere la condizione umana. È considerato il vangelo dei movimenti ecologisti. «Sono andato nel bosco – si legge in questo testo - perché desideravo vivere consapevolmente, affrontare solo i fatti essenziali della vita e vedere se non potevo imparare ciò che aveva da insegnarmi e non scoprire, invece, in punto di morte, che non avevo vissuto. Non desideravo vivere ciò che non era vita, 34
quello più coerente con il principio di responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo”. La quercia borbotta come una madre che ascolta le fandonie del figlio senza interromperlo. Ma poi non può fare a meno di reagire: “Negli ultimi tempi, sento fare questi discorsi sempre più spesso come se fossero delle novità. Ma non è così. Da sempre gli umani hanno tentato, a loro modo, di coltivare il senso di responsabilità nei nostri confronti. Lo fanno ovviamente – ieri come oggi – per sopravvivere essi stessi e le generazioni successive. L’amore per tutto ciò che è vitale e su tutto ciò che circonda le forme di vita è un sentimento innato negli umani. Come è innata l’attenzione su tutto ciò che ricorda le forme di vita fino ad associarvisi emotivamente”. “È stato Filippo Lussana – annuisco - nei suoi studi pioneristici delle malattie mentali, nella seconda metà dell’Ottocento, a denominare tale sentimento biofilia. Il termine è stato poi ripreso dallo psicoanalista tedesco Erich Fromm e ulteriormente sviluppato dal sociobiologo di Harvard Edward O. Wilson quando ha sintetizzato, nel volume Il futuro della vita, la sua concezione della biodiversità. In quest’opera lo scienziato-scrittore ci spiega che una componente fondamentale della biofilia è la scelta dell’habitat e che l’umanità ha avuto origine nelle savane e nelle foreste africane. È per questo – egli sostiene - che anche quando le comunità umane hanno inventato l’agricoltura e incominciato a vivere nelle città si sono fatte affascinare sempre dalle savane. Ebbene, questa preferenza per un habitat selvaggio è rimasta negli individui, come una dote ereditaria, un istinto, nonostante essi ab-
la società, non è avvelenata, così La disobbedienza civile è stata e resta fonte di ispirazione dei movimenti di resistenza nonviolenta. È «in modo civile, cioè nonviolento» che chi ha abbracciato l’ideale della disobbedienza civile si pone al di fuori della legge, esponendosi alle sanzioni previste e accettando i guai che ne seguono. Il resistente nonviolento rifiuta di obbedire alla legge che in coscienza reputa ingiusta. Il suo rifiuto è immediato; egli non aspetterà che ingiustizie e violenze seguitino a fare le loro vittime in attesa che si formino maggioranze forse un giorno capaci di fare le riforme. La pluralità delle culture ecologiste “A cosa pensi?” mi chiede la vecchia quercia. “Penso a Thoreau e alle sue idee anticipatrici. Se mi fossi impadronito di una cultura ecologista e pacifista così come la praticano gli amici del WWF o di Greenpeace, forse ora saprei meglio cavarmela nella mia nuova condizione di albero. Non credi?”. “Stupidaggini!” è la secca risposta della quercia madre al mio dubbio. “Mi ha affascinato da sempre – continuo - la critica all’idea di progresso e alla concezione ottimista e positiva della storia. Ma tra la posizione dell'American Committee for International Wildlife Protection che giunse nel 1938 a mettere sotto accusa la totalità della civiltà tecnologica, riproponendo come inconciliabile l'opposizione tra natura e cultura, e le idee dei movimenti che in America sostennero il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt intendeva riparare a una politica d'indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste, ho sempre guardato con interesse a questo secondo filone culturale. E ritengo che tale visione sia anche 36
razioni della natura intente alla riproduzione. E questo perché le acque, non conservando più alcuna regola in tale sconcerto, rivolgevano la loro azione a distruggere. Quindi per l’opera dell’uomo, che senza giudizio contrariava i benefici disegni della madre comune, si rendeva dannosa e funesta l’influenza dei monti sulla pianura”. “Fu Afan de Rivera – m’intromisi in quella suggestiva rievocazione dei diboscamenti e dissodamenti delle montagne del Sud – ingegnere capo della Direzione generale di Ponti e Strade, delle Acque e Foreste e della Caccia del governo borbonico, ad accorgersi di quel disastro ambientale. E richiamò l’attenzione sulla necessità di un riordino per rimettere le cose nell’antico stato naturale e restituire alla pastorizia e all’agricoltura le terre che a ciascuna di esse meglio si appartengono. Alla sua lezione si ispireranno successivamente i grandi tecnici che si occuperanno di bonifiche e irrigazioni nel Mezzogiorno. Ma già in altre epoche storiche si era intervenuti per correggere quello che l’uomo aveva distorto. Lo sapeva bene il giurista ed economista milanese, Cesare Beccaria, che nei suoi scritti ricordava come la proprietà fosse figlia primogenita e non già madre della società e che, quindi, l’individuo di uno Stato, chiunque egli sia, non può avere dei suoi boschi che l’uso. Lo sapeva bene l’agronomo forestale novarese Giuseppe Gautieri che nella sua opera Dell’influsso de’ boschi sullo stato fisico de’ paesi e sulla prosperità delle nazioni sentenziava: «È nemico dello Stato e della Patria colui il quale propone la libertà di disboscare i terreni». Lo sapeva il molisano Vincenzo Cuoco, politico e storico, autore non solo del celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, ma anche dell’opera meno nota Rimboschimento e bonifiche, a cui Afan de Rivera s’ispirò. Cuoco richiamò il senso che storicamente ha sempre avuto la bonifica: non basta disseccare, il più
biano provveduto a «edificare la terra» - per usare la stupenda espressione dello scrittore, filosofo, politico e uomo di scienze, Carlo Cattaneo - di case, di canali, di piante, livellandola e arginandola”. “Un istinto che l’uomo ha avuto da sempre – dice la vecchia quercia con tono canzonatorio - e che lo ha indotto a correggersi quando, ad esempio, si rompeva l’equilibrio tra gli assetti ambientali dei bacini montani e collinari con quelli di pianura. Quassù, da tempi immemorabili, le comunità umane ci hanno attaccato con la scure e il fuoco del debbio per far posto alle colture dei seminativi”. “Avveniva in quei secoli in cui le tante invasioni sofferte dal Regno di Napoli, scacciando le spaventate popolazioni dalle pianure, le facevano rifuggire nelle alture”. “È vero! Ma quella gente non si rendeva conto che, per conquistare terra coltivabile e anche per avidità e agio di facile spaccio della legna, distruggevano o, comunque, indebolivano gli assetti ecologici delle montagne, da cui dipendevano strettamente le condizioni idrauliche delle pianure. Acque e torrenti incominciavano a scendere a valle senza alcun controllo, impaludandosi e spandendo la malaria. E abbattendo noi poveri alberi del bosco, colpivano a morte anche la pastorizia perché veniva meno l’alimento spontaneo per le pecore e le capre. La pianura s’inselvatichiva e soltanto in inverno offrivano pascolo agli animali. Le comunità umane presero a vivere tra le montagne dove prima abitavano gli animali. E quest’ultimi scesero a vivere nelle campagne abbandonate dagli uomini. Le gronde dissodate dei monti si spogliavano di terra vegetale, si squarciavano, dirupavano a falda a falda e divenivano sterili e incapaci di ogni produzione, ad eccezione del musco e della felce. Gli uomini non capivano che, abbattendo noi forsennatamente e creando giganteschi vuoti, turbavano e sconcertavano le ingegnose ope37
turali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. La vecchia quercia tace per non interrompere il mio dialogo intimo. Sa che mi tranquillizza. Ma non posso fare a meno di guardarla, ammirare la sua discrezione, cogliere la sottile ironia che si avverte in quel silenzio. Respiro profondamente. E sento un tepore gioioso salire dalle dita dei piedi. Finalmente comprendo pienamente come ulivi e uomini vivono in simbiosi. Come le loro vite sono legate in un solo futuro. Tanto da far dire a un grande maestro di economia agraria, Manlio Rossi-Doria, «che alberi e filosofia hanno le stesse radici». Il legame tra l’uomo e l’albero è fondamentale per curare la pesantezza del nostro vivere. E ad unirli è la filosofia intesa come un modo di vivere, un’etica, nel senso letterale della parola, dal greco éthos che vuol dire comportamento, più precisamente lo strano e peculiare modo di vivere di chi cerca la leggerezza e la verità, o potremmo anche dire la felicità. «La filosofia come cura di sé» come scrive Andrée Bella nel suo gradevole libro Socrate in giardino.
delle volte bisogna anche piantare sia dove c’è l’acqua e sia dove non c’è. Con grande efficacia scrisse: «Piantare per diminuire l’acqua, piantare per contenerla, piantare per conservarla, piantare per dirigerla. Separare la cura delle bonifiche da quella delle piantagioni è lo stesso che non volere né piantagioni né bonifiche»”. “Vedo che hai rovistato non inutilmente in quei tanti libracci che avevi negli scaffali di casa – ironizzò la quercia. I fatti sono quelli che sai e non puoi che ispirarti ad essi per accettare la tua nuova condizione”. Le radici rurali della nostra cultura ambientalista Aveva ragione lei. Siamo portati un po’ tutti, superficialmente, a ritenere che i filoni culturali ecologisti e ambientalisti si esauriscano in quelli maturati negli ambienti anglosassoni di matrice urbana. A cui oggi si è aggiunto quello della Chiesa cattolica, con l’enciclica di Papa Francesco Laudato sì. Un libro recente (La casa comune è casa di tutti), che ho scritto a quattro mani con Mario Campli, esamina l’arcipelago delle culture impegnate nell’affermare la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo e la responsabilità sociale delle imprese. E descrive anche quelle che si collegano alle culture scientifiche e tecniche agronomiche ed economico-agrarie. In Italia, gli esponenti di queste culture intendevano accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si è manifestata la crisi ecologica tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del secolo scorso. Questi intellettuali furono combattuti, ridimensionati e ostacolati dalle forze dominanti ma erano gli eredi di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse na-
La nuova ruralità “Hai fatto bene a riproporre alla mia riflessione– mi rivolgo con riconoscenza alla vecchia quercia – l’idea che il legame tra uomini e alberi non è un’acquisizione recente, ma affonda nell’antichità. Con questa consapevolezza abbiamo potuto avviare un ripensamento delle nostre idee di sviluppo per rimarginare la frattura ecologica. È così che, negli anni Settanta, intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e nasce così quel fenomeno 38
che guardano con approccio critico e riflessivo al vecchio Stato sociale che si va decomponendo. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti sociolavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali”.
– tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna. Successivamente, il professore di Portici s’impegna ad elaborare una politica ecologista che tenga insieme tutela dell’ambiente, pianificazione energetica e crescita economica. In tale clima culturale, nei territori rurali industrializzati e nelle città traboccate nelle campagne circostanti, nascono spontaneamente nuove forme di ruralità. S’interrompe l’esodo dalle campagne e si registra una lenta inversione di tendenza. All’esodo rurale incomincia a subentrare l’esodo urbano. I figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si affermano così stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire. Una nuova agricoltura silenziosamente introduce un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, riemerge un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura di comunità che incrocia inediti filoni culturali e operativi presenti nei servizi sociali e sociosanitari: quelli
Mi sono trasformato in un grande albero che sembra avere le sembianze di un vecchio oleastro, quasi come quelli che Eracle Dattilo portò a Olimpia. La company Coldiretti & Petrini La vecchia quercia del bosco di Tito ascolta sorniona quello che vado dicendo. E, quando finalmente taccio, esclama: “Sono anni che ripeti a campana questa storia della nuova ruralità. Su questo tema hai scritto diversi libri e molti articoli che però pochissime persone hanno letto. Insegni in modo appassionato in tanti corsi di formazione. Anche in un master promosso dall’Università di Roma Tor Vergata. Vai facendo conferenze in giro per l’Italia. Sei uno stupido romantico. E anche un perditempo. Non vedi che tutti si complimentano, ma poi nessuno ti ascolta per davvero?” “Beh, stai esagerando – mi schermisco -, in questi anni sono nate diverse iniziative a seguito delle attività di animazione a cui ho partecipato”. “Ancora troppo poche. La fanno da padrona le frottole della Coldiretti e le amenità di Carlin Petrini, che ora si son messi addirittura in società per dirle meglio. Fino a quando ci saranno loro e i giornali che assorbono acri39
soprattutto nelle grandi città. Sulle pareti e nelle terrazze degli edifici sono arrivati gli orti. Racconta Elena Comelli che in cima ad un palazzo di uffici vuoti costruito negli anni Cinquanta per Philips, lungo un canale nel centro dell’Aia, crescono pomodori, zucchine e cetrioli. Qui è nata la più grande fattoria urbana d’Europa: milleduecento metri quadri di verdure coltivate in serra. Al piano di sotto, al posto delle scrivanie e degli schermi di computer, abita un enorme allevamento di pesci. L’obiettivo è di servire novecento famiglie locali, oltre a ristoranti e a una scuola di cucina. Analogo progetto c’è a Basilea. Aree industriali dismesse e spazi urbani per uffici non utilizzati diventano il luogo dove insediare coltivazioni di ortaggi e piante officinali e allevamenti di pesci. La tecnologia contribuisce a rendere l’agricoltura urbana una prospettiva praticabile. L’idroponica è un sistema chiuso basato sulle sinergie tra le coltivazioni di ortaggi senza terra e l’allevamento della tilapia, il pesce preferito per la sua grande adattabilità ad ambienti diversi. Negli spazi condominiali delle città e nelle zone verdi si piantano ulivi. Dalle parcelle di orto si passa a quelle di venti-trenta ulivi per dare la possibilità a chi risiede nel quartiere di farsi l’olio. Gli alberi stanno diventando i grandi protagonisti della sostenibilità delle aree urbane. Nei parchi agricoli urbani ci sono fattorie sociali – come la Cascina Forestina alle porte di Milano che curano boschi umidi, ricchi di risorgive e acque palustri, attraversati da fossi e ricolmi di fauna sparsa fra alberi e arbusti, quando non acquattata fra l’erba e i fiori del rigoglioso sottobosco. C’è una domanda crescente di servizi nei quartieri delle città che le imprese agricole potrebbero soddisfare. Ma è una domanda latente che coglie bisogni diffusi da trasformare in domanda esplicita. Una via è quella che vede più assemblee condominiali raccordarsi tra loro, con un solo amministra-
ticamente le veline che diffondono, le nuove agricolture, di cui tu ti affanni a parlare, appariranno come delle banalità. Ma arriverà il momento che queste innovazioni si espanderanno. Dovranno passare ancora degli anni. È inutile affannarsi. Il seme che è stato seminato germoglierà e la rivenuta sarà abbondante. Puoi anche smetterla di andare a predicare. Bisogna solo saper attendere”.
Il legame tra l’uomo e l’albero è fondamentale per curare la pesantezza del nostro vivere. E a unirli è la filosofia intesa come un modo di vivere, un’etica, nel senso letterale della parola, dal greco éthos che vuol dire comportamento, più precisamente lo strano e peculiare modo di vivere di chi cerca la leggerezza e la verità, o potremmo anche dire la felicità. Non comprendo dove la quercia madre vuole andare a parare. Mi piace l’uso del termine rivenuta, anziché prodotto o frutto. La parola in ebraico antico è revuà, nome composto dalla radice del verbo venire. Ed esprime la rinnovata sorpresa di qualcosa che viene dalla terra in risposta all’azione del seminatore. Un’azione che è un chiedere, non un esigere. Nella nostra parola prodotto o frutto c’è l’abitudine a dare per scontato un risultato, a fare della terra un ingranaggio di una catena di produzione. Per la lingua ebraica, il frutto viene ancora come un dono dal suolo e non dal nostro sfruttamento di essa. Ma sul resto di quel che dice la quercia, resto titubante. Poi riprendo il mio racconto: “Recentemente c’è un fenomeno nuovo che si va espandendo 40
Francesco Paglialunga - 2017 - Radici, collezione Olio d’Artista, a cura di Francesco Sannicandro
Il legno di città
tore al servizio di una strada, intesa come insieme di abitazioni e infrastrutture costituenti l’unità minima di urbanizzazione. Si tratta di costituire condomini di strada che, in base al principio di sussidiarietà, prendano in affidamento, da proprietari pubblici o privati, il fondo stradale, i marciapiedi e gli spazi aperti di uso comune per curarne la manutenzione e per organizzare la migliore fruizione a vantaggio dei residenti. A tali attività si possono aggiungere una serie di servizi sociali, sociosanitari ed educativi che le imprese agricole possono offrire a fronte di una domanda che i condomini di strada possono aggregare. Il connotato agricolo di queste forme di terziario civile innovativo che si vanno sperimentando e diffondendo, va ricercato non tanto nella coltivazione e nell’allevamento, bensì nella qualità delle partnership e delle collaborazioni, nella reinvenzione della cultura agricola e rurale locale, nel rilancio in forme moderne delle pratiche solidali e dei beni relazionali propri dei contesti rurali tradizionali, insomma nella rivitalizzazione della funzione generatrice di comunità. Funzione propria dell’agricoltura che nasce diecimila anni fa, innanzitutto, come agricoltura di servizi (al servizio appunto delle prime comunità sedentarie) prima ancora di connotarsi come attività produttiva. Del resto la parola coltivare in ebraico antico era resa con il termine abad, il cui significato letterale è servire. Coltivare la terra è dunque servire la natura e la comunità”. “Sei sempre così pesante – m’interrompe la quercia seccata, con il tono irritato di una maestra dei vecchi asili, prima di Maria Montessori - con questi rimandi etimologici. Astrazioni dietro astrazioni, formulate con pedanteria. Non fai mai un esempio concreto delle affermazioni che esprimi in modo apodittico e sempre con quel tono asseverativo”.
“Accetto la critica e ti parlerò allora del legno di città, anzi, di un caso concreto di economia civile che pone al centro persone in difficoltà mentre utilizzano il legno degli alberi urbani per realizzare manufatti di pregio. Se ne occupa da anni il mio caro amico Franco Paolinelli, dottore in scienze forestali e paesaggista, in collaborazione con l’Associazione Fiore nel deserto e altre realtà di Roma. «Per garantire la funzionalità e la sicurezza dei cittadini – mi ha spiegato Franco - gli alberi di città devono essere ciclicamente gestiti e rinnovati. Accade, inoltre, frequentemente che siano messi nei posti sbagliati e, diventando grandi, creino inconvenienti. E così diventa necessario sostituirli. Ne derivano tronchi, rami, ceppi di legno, che contengono carbonio». Non ci avevo mai pensato. E alla mia domanda «ma dove va a finire questo materiale che si accumula nelle città?» il mio amico dottore in scienze forestali ha risposto che esso viene considerato un rifiuto e va dunque a finire nelle discariche. Qui rami e piccoli tronchi vengono in parte trasformati in chips, con cui fare legno ricostruito o compost, ma, per lo più, vengono semplicemente lasciati lì a marcire. «In tutti questi casi – mi ha detto Franco - il carbonio torna, più o meno velocemente, libero nell’atmosfera. Se si degrada in carenza di ossigeno potrebbe dar luogo a metano, un gas ad effetto serra molto più elevato della stessa CO2. Riutilizzando questo legno di città non bruciato per farne oggetti di valore, esso diventa, invece, un magazzino duraturo di carbonio. Non va nell’atmosfera per alimentare l’effetto serra. Essendo un materiale biologico multifunzionale, il suo riutilizzo contribuisce alla sostenibilità del pianeta». «Anche gli alberi di Natale – gli ho chiesto incuriosito - diventano legno di città?». «Per gran parte sì. Infatti, dai vivai passano nelle case; e dopo le feste, quelli 42
le camere alla Casermetta, prima che mi addentrassi nel bosco. La più anziana è Miccia, trovata per strada nove anni fa quando ancora aveva dieci mesi. L’altra è Dolce che sta a casa con noi da tre anni, dopo averne trascorsi cinque in un canile. Alzano il capo e le orecchie. Non so cosa fare per tranquillizzarle. Le chiamo per nome. Ma ho netta l’impressione che non sentano la mia voce. Per la prima volta comprendo fino in fondo il significato dei suoni che emettono con il loro fiato anelante. Interpreto pienamente l’irrequietudine ferma dei loro occhi infantili e incerti. Mi stanno cercando disperatamente, m’invocano, non sanno che fare. Nelle loro movenze si scorge l’impeto della vita, la marea dell’essere, la persistenza di un attendere all’infinito. Provo a muovermi per andare incontro ai miei cani e finalmente accarezzarli, ma non posso farlo. Sono saldamente piantato nella terra profonda. “Non ti preoccupare – mi grida la vecchia quercia -; se restano nel bosco potrai sempre vederle e sentirle”. “Non sono più abituate a stare nel bosco e sicuramente finiranno per essere sbranate da animali selvatici in cerca di cibo. No, non posso permetterlo. Devo vedere come fare per proteggerle”. “Sapevo che gli umani amassero in modo straziante i propri cani. Ma il tuo è un caso patologico. Vedrai che le tue amiche sapranno cavarsela da sole con coraggio o, al limite, scapperanno via dinanzi al pericolo”. “Nei cani non esiste il coraggio – ribatto - se lo intendiamo come capacità di affrontare un pericolo conoscendone le possibili conseguenze pericolose e anche mortali e quindi affrontandolo in modo cosciente e razionale. Il fatto è che gli animali non hanno il concetto del pericolo e della morte come gli uomini. Hanno solo un istinto di autodifesa e di conservazione. Fuggono dal pericolo per salvare la propria incolumità o la propria vita. Ma qui dove
in vaso, con radici, sono piantati nei giardini; gli altri diventano legno di città. Oggi esistono segherie mobili e tecniche, più o meno sofisticate, per trasformare i tronchi e i rami più grossi in tavole ed altri pezzi utilizzabili. In alcuni casi si può fare anche nel giardino stesso in cui si è dovuto tagliare o potare l’albero. Da questi si possono poi fare elementi di arredo, oggetti d’uso comune, oggetti d’arte, ma anche materiali per attività di laboratorio didattico o terapeutico. La biomassa prodotta dagli alberi può quindi essere distribuita in varie destinazioni, secondo il criterio della maggiore utilità economica, ecologica e sociale». E così divagando, Franco ed io abbiamo un giorno immaginato che si potesse cogliere anche il valore simbolico del legno di città. Infatti, oltre al carbonio, esso ha dentro di sé la storia dei luoghi in cui il suo albero è cresciuto o è stato portato. E ci può quindi ricordare una città, un parco, una situazione storica, un evento particolare. Se l’albero vive a piazza San Pietro, gli utensili che saranno prodotti, riutilizzando i suoi rami a seguito della potatura, potranno fregiarsi della denominazione «legno degli alberi del papa». E si potrà aggiungere la certificazione del carbonio immagazzinato. Nel laboratorio dell’Associazione Fiore del deserto, giovani madri e ragazzi africani in condizioni di svantaggio riciclano il legno di città e realizzano panche, sgabelli, fioriere e cestini per raccogliere la carta. Ciascun oggetto è un pezzo unico, originale in quanto modellato da una materia prima unica che conferisce al manufatto una forma particolare diversa da tutte le altre possibili. Oggetti non seriali nei quali si ritrovano le qualità e le proprietà dei materiali utilizzati e la capacità creativa dell'apprendista artigiano”. Sento all’improvviso il mugolio di un cane che si avvicina, anzi sono più d’uno. Li riconosco. Sono i miei amici a quattro zampe che avevo affidato ad alcuni amici umani alloggiati nel43
fuggono e come si salvano?”. “Rassomigli ai tuoi cani – mi canzona la vecchia quercia – e ormai non sai più fare a meno di loro”. Non ascolto più il vecchio albero che avrebbe voluto adottarmi in onore dell’emblema della nostra Repubblica. La preoccupazione e l’ansia per i miei cani mi assalgono e incomincio a scuotermi sempre più violentemente. I mugolii di Miccia e Dolce si fanno sempre più intensi. Mi sveglio di soprassalto dal letto e mi siedo. Mi stanno leccando le mani intensamente. Mi rendo conto che stavo solo sognando e mi rassereno. Loro mi guardano felici.
Alfonso Pascale, presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani), è stato vicepresidente nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori dal Cristina Mangini - 2017 - Oasi, collezione Olio d’Artista,
1992 al 2002, e ha promosso nel 2005 l’associazione “Rete
a cura di Francesco Sannicandro, Olio Officina Festival 2018
Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011. È autore di diversi volumi, tra i quali Partire dal territorio. Agricoltura, rappresentanza e politica nell'Italia che cambia (Rce, 2002), Il '68 delle campagne (Rce, 2004), Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi (Cavinato, 2013), Educarci all'agricoltura sociale. Prove di terziario civile innovativo (GAL Capo di Leuca, 2015), La casa comune è casa di tutti (con M. Campli, Informat, 2016).
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olioofficina / visioni
Olivicoltura
d'alta quota
di Giuseppe Stagnitto
Lettera aperta del portavoce di TreeDream al direttore di Olio Officina Luigi Caricato
Indice della lettera 1. Scopo della lettera aperta 2. Il pensiero che crea un problema non lo risolve 3. La rivoluzione culturale di TreeDream 4. Un modo nuovo di operare economicamente 5. La nuova coscienza civica del consumatore 6. Il progetto di "alcuni sognatori" 7. La pianta di olivo diventa protagonista del messaggio 8. La restaurata "regalità dell'individuo" 9. Una nuova occasione di testimoniare 10. Sintesi programmatica per la rinascita dell’olivicoltura d’alta quota Appendice. Una bibliografia scientifica essenziale per l’olio d’alta quota
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1. Scopo della lettera aperta
A questo riguardo il quotidiano Il Sole 24 Ore (nell’articolo di Silvia Sperandio,“Taggialto, l'olio di montagna che salva i terreni e va da Peck” del 25 febbraio 2015) parla di "una sorta di network della sostenibilità agro-alimentare e ambientale che è in realtà molto di più”. E’ proprio su questo “di più” (che la giornalista generosamente ci attribuisce) che vorremmo riflettere apertamente, in quanto crediamo che la battaglia che Lei ci sta aiutando a combattere (e a vincere) in particolare per la cultivar taggiasca in alta quota, possa sempre più riguardare l'intera olivicoltura dei territori montani italiani.
Gentile Direttore Luigi Caricato, scopo di questa lettera aperta è fare il punto sul comune progetto di rinascita dell'olivicoltura d'alta quota italiana, anche nella speranza di sensibilizzare imprenditori, politici e amministratori affinché non cadano nella tentazione di risolvere "burocraticamente" un problema che appartiene ad un livello diverso. In particolare, riprendendo e aggiornando alcuni concetti già espressi nell’articolo “Gli eroi dell’olivicoltura estrema” (pubblicato su Olio Officina Magazine il 12.07.2016), vorremmo invitare i lettori ad una riflessione critica sui metodi nuovi utilizzati dal nostro movimento culturale TreeDream per raggiungere certi traguardi in tempi relativamente brevi. Questi metodi nuovi, in sintesi, possono essere sintetizzati in un principio di lealtà comunicativa fondata su un rapporto di fiducia: la fiducia come "principio di innovazione economica", secondo la felice espressione di Damiano Fuschi, studioso di Diritto Ambientale e di Economia:
2. Il pensiero che crea un problema non lo risolve La fiducia di cui parla Damiano Fuschi è stata da noi perseguita innanzitutto verso gli olivicoltori per persuaderli a perseverare nel mantenere ancora gli oliveti d'alta quota. Ma la fiducia è principio di innovazione economica soprattutto se fonda il rapporto con tutti i protagonisti del mercato, consumatori finali compresi. Caro Direttore, noi non crediamo che la battaglia che Lei ci sta aiutando a combattere possa essere vinta ricorrendo alle cosiddette certificazioni ufficiali che poco interessano, secondo nostra esperienza diretta, ad una certa classe di consumatori. Infatti, se l'olio è percepito degno di appartenere alla "fascia alta del mercato", non sono richieste ulteriori attestazioni. Nell’articolo “Il nostro olio è differente” (pubblicato su Olio Officina Magazine il 16.05.2016) Lei ha avuto per noi parole di cordiale apprezzamento:
"L'azione politica di Flavio Lenardon [il presidente di TreeDream] costituisce un punto di svolta, una vera e propria innovazione economica in un processo produttivo: competitor imiteranno il modello di fiducia che si occupa realmente del territorio e considera il profitto solo un indicatore e uno strumento." Damiano Fuschi Come Lei ben sa, e come sanno i lettori delle riviste da Lei dirette, TreeDream è il perno fondamentale di un modo nuovo di comunicare il significato di iniziative economiche, fondate su Progetti d'azione concreta, rese pubbliche perché devono essere pubblicamente condivise.
"Provare a fare ingresso sugli scaffali prestigiosi di un riconosciuto tempio internazionale della gastronomia qual è Peck, non è da tutti. Loro ci sono riusciti, e non da poco, ma da diversi anni. 48
La legge 28.12.2015 definisce “società benefit” quelle società “che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune”. Il punto fondamentale su cui noi abbiamo molto riflettuto è questo: se è davvero necessario dire che “mentre persegui il tuo interesse devi fare anche qualcosa di utile socialmente”, vuol dire che è, in pratica, venuto sempre meno il concetto stesso di “comunità”. Infatti Adriano Olivetti diceva che la comunità si definisce dal “comune interesse morale e materiale”. Quella di TreeDream è una comunità rinata, proprio perché ha perseguito, sin dall’inizio, contemporanemente un comune interesse morale e un comune interesse materiale, oltre al beneficio sociale dell’intera collettività.
Il Taggialto piace, si vende, perché non c’è nella bottiglia solo l’olio, ma altro: il valore aggiunto dell’alta quota, ma, soprattutto, una progettualità, una storia, un senso di compiutezza." Anche se il Taggialto ha caratteristiche che lo rendono unico, noi siamo persuasi che la maggior parte degli oli ottenuti dalle cultivar nelle regioni montane italiane meriterebbe di appartenere al mercato di "fascia alta" dell'olio extra vergine. Il nostro successo potrebbe pertanto esser trainante per più vasti territori. Come già espresso questa lettera vorrebbe sensibilizzare imprenditori, politici e amministratori affinché non cadano ancora nella tentazione di risolvere "burocraticamente" un problema che appartiene ad un livello diverso. Come dice la nota frase attribuita ad Einstein: "non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo". Purtroppo, sino ad oggi, la mano pubblica ha spesso assecondato una omogeneizzazione dell'olio prodotto, non favorendo quella differenziazione fondata sul riconoscimento ambientale (non necessariamente geografico) specifico del luogo d'origine, che avrebbe salvato questa "coltivazione estrema". 3. La rivoluzione culturale di TreeDream Per far meglio comprendere ai lettori l’originalità del nostro pensiero riportiamo alcuni brani tratti dall’articolo “TreeDream, rivoluzione culturale” (pubblicato su Olio Officina Magazine il 9.05.2017): l’articolo trascrive il contenuto dell’intervento dello storico Alfonso Pascale ad Olio Officina Festival 2017.
Flavio Lenardon e Alfonso Pascale ad Olio Officina 2017
ALFONSO PASCALE: Io sono testimone di una piccola rivoluzione che voi avete realizzato, una rivoluzione essenzialmente “culturale”. Voi avete smentito un senso comune: a noi, per decenni (...) ci veniva anche detto che quel modello “produttivistico” dell’agricoltura avrebbe in qualche modo segnato definitivamente la decadenza delle agricolture della montagna, dell’alta collina.
GIUSEPPE STAGNITTO: Noi di TreeDream siamo stati invitati ad assistere all’inizio del 2017, ad un’interessante tavola rotonda in Milano, sulle Società Benefit. 49
4. Un modo nuovo di operare economicamente
La decadenza riguardava inevitabilmente le zone ove appunto non c’erano le possibilità di poter fare un’agricoltura produttiva che avesse la stessa importanza dell’agricoltura che si faceva nella aree privilegiate, che si consideravano addirittura più “favorite”. A distanza di alcuni decenni noi stiamo dimostrando che quell’assunto era un assunto falso. Lo possiamo oggi dimostrare attraverso le tante esperienze dell’agricoltura sociale, perché la vostra è un’esperienza di agricoltura sociale. Voi avete smentito quell’assunto che ha accompagnato per decenni il nostro sviluppo: l’assunto culturale che voleva che un’impresa possa reggersi solo se quell’imprenditore persegue esclusivamente il profitto. (...) Questa è la rivoluzione culturale di cui voi siete protagonisti, di cui dovete avere la piena consapevolezza con l’orgoglio di dare questi esempi al nostro Paese.
Perché diciamo che è "nuovo" il nostro modo di operare economicamente? Lasciamo il giudizio ai lettori dopo averli invitati a considerare quanto segue. - Quando, a memoria d'uomo, è mai avvenuto che operatori economici privati si siano raccontati praticamente in "tempo reale", ad esempio scrivendo lettere aperte programmatiche (vedi i punti successivi) o redigendo pubbliche cronache documentanti i passaggi concettuali seguiti per l'ideazione dei marchi? - Quando, a memoria d'uomo, operatori economici privati hanno dichiarato di perseguire nel modo più esplicito un obiettivo politico (restituendo all'aggettivo politico il proprio originale significato etimologico)? - Quando, a memoria d'uomo, è avvenuto che operatori economici privati abbiano esercitato funzione sociale e culturale non "a lato" del loro agire, ma nel cuore stesso della loro attività? A questo proposito cito alcune Sue parole, Direttore: "Lenardon e Stagnitto stanno guidando una rivoluzione civile e silenziosa che merita ampio rispetto e attenzione" (Articolo La mia parola vale, pubblicato il 4 dicembre 2012 e riportato su Olivo Matto). Con paziente perseveranza Flavio Lenardon, nelle serali riunioni di TreeDream, ha svolto per anni un’attività quasi “filologica”, perché per prima cosa si doveva ricostruire il “significato” delle nostre stesse parole. Non è stata questa un'operazione di altissimo valore politico che avrebbe dovuto essere colta e "favorita" (come prescrive l'art. 118 della nostra Costituzione) dalla mano pubblica? Domanda chiarificatrice: non vedono i nostri imprenditori, politici e amministratori le "no-
FLAVIO LENARDON: Noi, con TreeDream, siamo partiti al contrario, noi siamo ripartiti dall’uomo, perché la persona è al centro di tutto il sistema. Come è sempre stato da secoli. Noi abbiamo soltanto ripreso un sistema che da sempre funziona, senza partire invece dall’economia. Si parte dal basso per andare verso l’alto. Non vi è bisogno di una ricaduta sociale operata dallo Stato perché, operando secondo i principi di TreeDream, la ricaduta sociale è automatica in quanto la comunità vi provvede da sé stessa. La nostra governance del territorio è fondata sulla governance delle persone! ALFONSO PASCALE: E’ un nuovo modello di welfare che noi non riusciamo ancora a far capire e ad introdurre nelle politiche economiche. Noi dobbiamo riuscire in questo sforzo di comprensione culturale. 50
5. La nuova coscienza civica del consumatore
bili cause" che giustamente potrebbero sostenere l'intero comparto dell'olivicoltura montana? Direttore, ci domandiamo: deve sempre la forza prevalere sulla ragione? La forza di cui parliamo è una forza di attrito colossale che vuole mantenere l’attuale stato delle cose. La ragione è talmente semplice che può afferrarla un bambino. Le iniziative di salvaguardia del territorio fondate su un principio di omogeneizzazione territoriale che non consente di differenziare e valorizzare il peculiare profilo chimico e sensoriale dell’olio d’alta quota, hanno spesso condotto al degrado quasi irreversibile dell’olivicoltura montana. Gli specialisti sanno infatti da tempo ciò che non è ancora oggetto della grande comunicazione.
Caro Direttore, non è difficile constatare che sta prendendo sempre più piede una nuova coscienza civica del consumatore, il quale, insieme "al gusto dei sensi e delle emozioni, vuole, ora, anche la consapevolezza di partecipare a ciò che è utile allo sviluppo dell'uomo". Abbiamo così fatto nostra la bella espressione di Alfonso Pascale che nel suo intervento a OOF 2016 ha anche detto: "il consumatore vuole conoscere le motivazioni di fondo che spingono a produrre questo particolare olio" ... "raccontare la propria storia è un elemento fondamentale per costruire la fiducia". Nell’articolo “Il gusto rivolto al futuro” (pubblicato su Olio Officina Almanacco 2016, pag. 29) Alfonso Pascale, scrive: “Un gusto razionale ... associa le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili”.
La rinascita dell'olivicoltura d'alta quota ha valore morale e civile: si potrebbe essere ancora in tempo per salvare meravigliosi territori, evitare disastri ecologici e, probabilmente, salvare anche vite umane.
Pertanto, chi davvero vuol far risorgere l’olivicoltura montana, deve diventare consapevole che la prima urgenza non è “cercare di vendere”. Lei ci è testimone, Direttore, che per anni e anni noi non abbiamo "cercato di vendere", perché le urgenze erano altre: per noi la vera urgenza era ricreare una coscienza di identità che i contadini avevano praticamente perduto! Raccontare la nostra storia? L'analogia più corretta per comprendere la dinamicità del nostro operare è quella di un "organismo": l'interazione tra organismo ed ambiente fa sì che è proprio nel perseguire una finalità
La presenza delle componenti aromatiche e dei composti polifenolici (dotati di proprietà anti-ossidanti ed anti-infiammatorie) - quella presenza che realmente distingue la qualità di un olio di oliva, perché ciò che rimane è la sola parte grassa che, per quanto assolutamente pregevole, non è elemento distintivo - è infatti incrementata dalle situazioni di stress idrico o climatico, che caratterizzano proprio le zone di maggior altitudine.
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comune che si realizza il massimo beneficio! La rinascita dell'olivicoltura d'alta quota ha valore morale e civile: si potrebbe essere ancora in tempo per salvare meravigliosi territori, evitare disastri ecologici (è il sistema dei terrazzamenti montani che protegge dalle frane) e probabilmente salvare anche vite umane. Ecco la nostra storia: noi siamo arrivati in un luogo ove nessuno vedeva più un valore (la logica produttiva infatti diceva: poiché la coltivazione degli oliveti ad una certa quota non è suscettibile di meccanizzazione, essi sono oggettivamente destinati a morire, un sacrificio da accettare in nome dell’inevitabile progresso) e abbiamo condotto una campagna comunicativa impressionante se paragonata alla povertà dei mezzi. In poche parole - sulla via aperta, nel campo della comunicazione, proprio da Lei Luigi Caricato - abbiamo letteralmente creato un nuovo mercato.
quello della rinascita dell'olivicoltura d'alta quota italiana, per salvare dalla totale estinzione una "cultura" (cultura di olivi e di uomini allo stesso tempo). La lettera partiva dal dato obiettivo seguente: l’olio che si trae dagli oliveti sopravvissuti in quota, in zone di diffuso abbandono, ha peculiari caratteristiche che lo differenziano dall’olio che si trae dagli oliveti generalmente coltivati. Lei Direttore è stato il pioniere indiscusso nella comunicazione della necessità di questa differenziazione. Infatti già in un libro del 2005, intitolato Extravergini d’alta quota, aveva scritto che è necessario “far comprendere i motivi per cui gli oli di montagna abbiano costi di produzione del tutto differenti, ma anche un profilo sia chimico-fisico, sia sensoriale diverso rispetto a oli di pianura“. Scopo esplicito della lettera aperta non era quello di chiedere contributi pubblici ma trasmettere il senso dell'urgenza di un'attività comunicativa che rimedi agli errori del passato: infatti non avendo mai differenziato opportunamente l’olio d’alta quota se ne stava condannando all’estinzione l’olivicoltura. Nella lettera aperta Flavio Lenardon scriveva: Il contadino non si è mai arreso ad una concezione ideologica e disumana che impone una visione mercantile dei rapporti umani, come non si è mai arreso ad una concezione delle pubbliche istituzioni quali detentrici di un potere che troppo spesso esibiscono abusandone, proprio come gli antichi padroni romani esibivano la sferza ai loro schiavi.
Una delle prime riunioni di TreeDream
6. Il progetto di "alcuni sognatori" Gentile Direttore, il 28 settembre 2012, Lei pubblicava la Lettera aperta del Presidente di TreeDream al Presidente della Regione Liguria (vedi articolo Ridare status sociale al lavoro del contadino, su Olivo Matto) e la presentava come l'esposizione di un progetto di alcuni sognatori "pronti a tradurre in realtà le loro più nobili aspirazioni". Il progetto descritto nella lettera aperta era
Purtroppo, come Lei ben sa, in questi successivi anni, l'onore e l'onere di questa nuova attività comunicativa è ricaduta unicamente sulle povere spalle di pochissimi: tra essi, ovviamente, Lei, e certamente noi, del movimento culturale TreeDream. 52
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tutto il contenuto di polifenoli a parità di cultivar. Stesso effetto ha un clima più freddo, a parità di stazione geografica.” La pianta d'ulivo diventa, finalmente, la vera protagonista del messaggio: come Lei scrive, Direttore, l'olio è semplicemente un "puro succo di oliva” e, pertanto, si deve ottenere semplicemente spremendo le olive. Cultivar differenti danno necessariamente oli differenti. Olive ottenute da piante in condizioni "estreme" di stress (in alcuni casi, al limite stesso della fruttificazione) danno oli con caratteristiche uniche, differenti dall'olio che si ottiene da piante della stessa cultivar cresciute a quota inferiore. In questo modo il cittadino è lealmente informato della conseguenza della sua scelta, in quanto la sua scelta può esprimere interesse e sostegno per un'iniziativa di salvaguardia territoriale che riguarda condivisi valori morali e materiali. Ne deriva che nel nuovo modello di comunicazione l'olio non è "prodotto", ma "sindotto". E' stato necessario, per noi di TreeDream, creare un nuovo termine, "sinduzione": produrre vuol dire, letteralmente, "portare avanti"; sindurre vuol dire invece “portare insieme con altri”. Gli olivicoltori condividono, insieme con altri operatori, il vanto di un'azione collettiva che salvaguarda il risultato di una fatica secolare (e a volte millenaria): il progetto audace di terrazzare intere montagne può infatti rinnovarsi, con civica consapevolezza, nella coscienza ecologica attuale. Caro Direttore, proprio Lei, nell’ambito della sesta edizione dell’Olio Officina Festival, ha conferito il titolo di “EROE DELL’OLIVICOLTURA ESTREMA D’ALTA QUOTA” a sette olivicoltori facenti parte del nucleo storico di TreeDream con la seguente motivazione:
7. La pianta di olivo diventa protagonista del messaggio Siamo giunti al punto: novità del nostro modo di operare economicamente è di avere dato finalmente la parola ai primi artefici del processo che partendo dagli elementi naturali arriva a quel distillato magico che è l'olio d'oliva. Questi primi artefici sono i contadini olivicoltori, i veri alleati e collaboratori della natura. Questa nostra scelta è la conseguenza necessaria di una consapevolezza: l'odierna lealtà comunicativa, riguardo la qualità di un olio, riduce il messaggio all'essenziale: l'olio d'oliva deve ottenersi semplicemente spremendo le olive e quindi la qualità dell'oliva ne determina la virtù. Nel suo articolo “Un atto di libertà e implicita ribellione” (Olio Officina Almanacco 2016, pag. 33) Lei scriveva: “L’olio da olive non è più considerato un normale condimento, ma è esso stesso alimento e ingrediente di primo piano. Non più alimento generico, ma “cibo funzionale”, functional food, dall’alto valore salutistico e nutrizionale, tanto che per molti è ormai considerato a pieno titolo un nutraceutico, per metà nutrimento e per l’altra metà farmaco.” Riportiamo, al proposito, un breve brano tratto dall’articolo “Costruire il claim salutistico di un olio” di Salvatore Camposeo e Maria Lisa Clodoveo, Università di Bari (Olio Officina Almanacco 2016, pag. 75). “L’effetto del campo [situazione degli oliveti] si manifesta anche attraverso la latitudine e l’altitudine: da Sud verso Nord e dalla pianura alla montagna aumenta il grado di insaturazione degli acidi grassi e soprat54
chi di varie regioni d’Italia, dicevano che più l’oliva cresce in alto più è piccola e buona) noi ci eravamo dimenticati il motivo stesso per cui faticavamo a coltivare gli olivi in condizioni così difficili, in quanto nessuno frantoiano era disposto a pagare una differenza di prezzo. Lo facevamo solo per dovere perché cosi facevano i nostri padri e lasciare quelle terre abbandonate ci sembrava un tradimento.”
RICONOSCIMENTO DELL’UTILITÀ SOCIALE DI UN INSTANCABILE LAVORO SVOLTO A CUSTODIA E DIFESA DEL TERRITORIO MONTANO, OLTRE CHE IN RAGIONE DEL SOSTEGNO AL MOVIMENTO CULTURALE TREEDREAM, NELL’AMBITO DELLE INIZIATIVE CULTURALI FINALIZZATE ALLA RINASCITA DELL’OLIVICOLTURA D’ALTA QUOTA ITALIANA.
8. La restaurata "regalità dell'individuo"
Ovviamente questa consapevolezza della differenza caratterizzante l’olio ottenuto da olive di alta quota ha avuto importanza determinante per creare quel nuovo mercato che sta salvando il territorio più vulnerabile, in quanto più esposto al rischio dell’abbandono. Tuttavia questa sola consapevolezza non era sufficiente per persuadere intimamente i nostri olivicoltori a perseverare nei sacrifici necessari al loro ministero. Flavio Lenardon, nel suo sforzo rivoluzionario, non poteva cioè limitarsi a dire “mantenete la coltivazione di questi olivi al limite del bosco perché abbiamo l’obiettivo di creare un nuovo mercato che compensi il vostro sacrificio”. Non comprende il lettore il rischio di sostituire alla motivazione nobile (anche se percepita quasi oscuramente) legata solamente al senso del dovere questa sola, diversa, motivazione? Perché, in altre parole, Flavio non poteva limitarsi a questa esortazione che pure sembra così carica di buon senso economico?
Proviamo a rispondere alla seguente domanda: come è riuscito TreeDream a riunire i contadini? La risposta a questa domanda apparirà a molti lettori sorprendente; riteniamo tuttavia doveroso il nostro sforzo per chiarire questo punto vitale in quanto vediamo in esso la chiave di volta per un’azione risolutrice che potrebbe risollevare tutto il comparto dell’olivicoltura montana. Gli stessi principi per i quali si è riunificata la volontà dei contadini con i risultati positivi che oggi cominciamo ad avvertire, potranno infatti servire per riunificare la volontà dei piccoli frantoiani. Infatti, in un caso andava risvegliato il coraggio morale di mantenere vive piante di olivo in condizioni di coltivazione estreme, e, nel secondo caso, va risvegliato il coraggio morale per ristabilire la verità delle cose e non arrendersi alle politiche di omogeneizzazione territoriale, spesso causa del degrado dell'olivicoltura montana. Flavio Lenardon ha consapevolmente esercitato una magistrale operazione maieutica col fine di ricostruire tra i contadini quella coscienza di identità che essi avevano quasi perduto. Questa perdita di identità è documentata dalle loro stesse parole. “Prima che Flavio Lenardon ci “ricordasse” che le olive d’alta quota sono differenti da quelle di pianura (tanto che i nostri vecchi, come i vec-
Ritorna la stessa domanda che c’era stata posta anni fa in un incontro pubblico con un docente della Bocconi: che importa questo vostro idealismo con le nude realtà economiche e finanziarie che reggono il mercato? Ricordo che allora avevamo risposto citando la nota affermazione di Benedetto Croce: l’economia non conosce oggetti fisici ma azioni. Caro Direttore, come lei sa, io sono un inge55
suoi primi frutti positivi.
gnere e quindi opero con oggetti fisici dei quali oggettivamente misuro volumi e calcolo pesi ma mai, ripeto, mai ho potuto constatare che un concetto come il “valore” possa essere parimenti correlato agli oggetti della mia riflessione professionale. In altre parole il volume di una costruzione non dipende dal desiderio e dalla volontà di chi la considera mentre il prezzo della stessa costruzione ne è fondamentalmente condizionato. Prova ne è, ad esempio, che la sistemazione o la demolizione di quella costruzione richiede necessariamente un certo tempo, mentre il suo valore può essere raddoppiato o annullato in un solo istante. Il solo errore filosofico per cui non distinguiamo questi differenti livelli porta alla confusione dei concetti, all’inefficacia delle azioni e alle sofferenze umane che ne conseguono. Ecco perché il nostro Presidente Flavio Lenardon ribaltando tutti i luoghi comuni consolidati riguardo l’agire economico si è posto come primo obiettivo quello di “curare l’anima”, nostra e quella degli olivicoltori, offesa perché contaminata da una cultura estranea ai nostri valori. Da Platone abbiamo infatti appreso che lo Stato è un immagine ingrandita dell’anima dei cittadini, tanto è vero che uno dei suoi capolavori è allo stesso tempo uno studio dell’anima dell’uomo e delle forme dello Stato (ovvero della civile convivenza). In uno dei nostri documentari Flavio dice “non abbiamo avuto cura di queste piante perché non abbiamo avuto cura di noi stessi”. Pertanto Flavio ha come prima cosa “restaurato” la nostra comune dignità, ristabilendo il valore dell’oralità: in TreeDream l’accordo verbale vale più del contratto scritto. Questa ritrovata “regalità dell’individuo” (uno degli otto principi di TreeDream) ha dato i
9. Una nuova occasione di testimoniare Questa lettera aperta, caro Direttore, Le offre una nuova preziosa occasione di "testimoniare". Mi permetto questa esortazione perché ho presente una Sua toccante confessione biografica, resa pubblicamente il giorno della riconsacrazione dei territori olivicoli montani (durante la celebrazione religiosa chiamata "Come un popolo nella cattedrale degli ulivi", alla presenza del Vicario Generale della Diocesi di Albenga-Imperia).
Imperia, 13 luglio 2013: la testimonianza di Luigi Caricato
Io sono figlio di olivicoltori. Così, a un certo punto della mia vita mi sono detto: perché mio padre si alza alle quattro e mezzo del mattino? Purtroppo non sempre c’è la giusta renumerazione per il proprio, duro, lavoro: si lavora tanto, e il prezzo dell’olio non giustifica l’impegno e il grande sacrificio. Ero ragazzino, e questo mio pensiero lo vivevo come un senso di grande ingiustizia. Ed è qui che è subentrato il grande scrittore Giuseppe Pontiggia, quando mi ha detto: “Bene, allora tu hai questo compito: testimoniare".
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10. Sintesi programmatica per la rinascita dell’olivicoltura d’alta quota
c. 4 Cost., recita, infatti: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Operazioni di specifica salvaguardia fondate su certificazioni ufficiali potrebbero non risultare effettivamente vantaggiose, in quanto una certa classe di consumatori non le associa necessariamente ai prodotti degni di figurare nella fascia più alta del mercato. Gli altri tentativi di salvaguardia territoriale che non consentono di differenziare e valorizzare il peculiare profilo chimico e sensoriale dell’olio d’alta quota, omogeneizzando burocraticamente oliveti di più facile e di di più difficile coltivazione, potrebbero addirittura condannare a morte l’olivicoltura montana. Questi tentativi violano, innanzitutto, le politiche europee che, al contrario, chiedono siano valorizzate proprio le “differenze produttive”, oltre ad essere in palese contrasto con il contenuto dei Piani di Sviluppo Rurale che rimarcano la necessità del sostegno ad iniziative tese a valorizzare le “specifiche differenze” di produzione locale.
L’esperienza di TreeDream dimostra che la rinascita dell’olivicoltura montana è possibile e realistica, a patto di modificare l’attuale predominante “forma mentis” dell’operatore economico, dell’amministratore e del politico. Il caso dell’olivicoltura d’alta quota non deve essere assimilato alle agricolture assolutamente non remunerative e quindi sostenute dallo Stato per l’utilità sociale che ne deriva: ad esempio certi pascoli che assicurano il mantenimento di alcune zone montane. Il caso dell’olivicoltura d’alta quota è singolare per questo motivo paradossale: è oggettivo e scientifico che l’olio tratto da oliveti in via di abbandono, proprio perché in alta quota e quindi di difficile coltivazione, ha un peculiare profilo chimico e sensoriale che lo rendono degno di essere classificato come una categoria a sé stante. E’ infatti ormai pacificamente acquisito che la presenza di componenti aromatiche e salutistiche - quella che realmente distingue la qualità di un olio di oliva, perché ciò che rimane è la sola parte grassa sia pure pregevolissima, ma non specifica - è incrementata dalle situazioni di stress idrico o climatico, che caratterizzano le zone di maggior altitudine. Ecco la novità della nostra comunicazione: noi diciamo che è sufficiente che sia colta la differenza qualitativa che distingue l’olivicoltura d’alta quota e, a costo zero per la pubblica comunità, è ristabilito e mantenuto in salute l’intero sistema idrogeologico.
Anche la forma mentis dell’operatore econo-
Il caso dell’olivicoltura d’alta quota è singolare per questo motivo paradossale: è oggettivo e scientifico che l’olio tratto da oliveti in via di abbandono, proprio perché in alta quota e quindi di difficile coltivazione, ha un peculiare profilo chimico e sensoriale che lo rendono degno di essere classificato come una categoria a sé stante
Pertanto i politici, per quanto riguarda l’olivicoltura d’alta quota, una volta compresa la semplicità attuativa del progetto, dovrebbero semplicemente rifarsi ad uno dei massimi valori della nostra Carta fondamentale, cioè favorire l’autonoma iniziativa. L’art. 118 57
11850, July 2012
mico deve mutare: prima di pensare a “vendere”- agendo con nuova e consapevole “responsabilità politica” - dovrà pazientemente ricreare le premesse culturali, ricostruendo comunità umane che hanno perduto il senso della propria identità e che potrebbero rinascere traendo risorse da un nuovo mercato fondato su una differenza specifica che non è mai stata praticamente comunicata. Noi di TreeDream mettiamo volentieri a disposizione la nostra esperienza, alleandoci con chi voglia procedere lungo la via già avviata per la rinascita dell’olivicoltura d’alta quota italiana.
"La maggior parte delle fonti concorda sul fatto che all'aumentare del livello di stress [stress idrico, che insieme a quello climatico caratterizza le situazioni a maggior quota] aumentano il contenuto in polifenoli dell'olio e la stabilità ossidativa". Inglese P., Famiani F., Servili M., I fattori di variabilità genetici, ambientali e colturali della composizione dell'olio di oliva, Italus Hortus, 16 (4), 2009:67-81 "Altitude has an effect on the quality characteristic of oils, in particular their fatty acid content. Oils obtained from plants grown at higher altitudes have greater stability to oxidation." Di Vaio C., Nocerino S., Paduano A., Sacchi R., Influence of some environmental factors on drupe maturation and olive oil composition, J. Sci. Food Agric., 20 July 2012
Giuseppe Stagnitto
Segretario di TreeDream Movimento culturale per la rinascita dell'olivicoltura d'alta quota italiana
"Olive oils obtained from monovarietal olive groves at high altitude are, in general, sweeter and have an herbaceous fragrance compared to the corresponding oils from lower elevations."
APPENDICE. Una bibliografia scientifica essenziale per l’olio d’alta quota
Aparicio R., Harwood J., Handbook of Olive Oil - Analysis and Properties, Second Edition, 2013
Riportiamo alcuni brevi brani scientifici documentanti il cosiddetto “effetto altitudine”. "Summarizing, the elevation of the cultivation site has a marked influence on the antioxidant content, with higher elevation orchards producing olives with larger contents of antioxidant compounds with respect to lower elevation ones." Ouni Y., Taamalli A., Guerfel M., Abdelly C., Zarrouk M., Flamini G., The phenolic compounds and compositional quality of Chétoui virgin olive oil: effect of altitude, African Journal of Biotechnology Vol. 11 (55): 1842-
"There were significant differences between the oils from both cultivars when grown in the different environments. At higher altitude, the oils showed a greater amt. of oleic acid, phenols and a higher stability, while in the open the oils had higher satd. and linoleic acid content. Aroma profiles were also influenced by the pedoclimatic conditions" Issaoui M., Flamini G., Brahmi F., Dabbou S., Ben Hassine K., Taamali A., Chehab H., 58
Ellouz M., Zarrouk M., Hammami M. Effect of the growing area conditions on differentiation between Chemlali and Chetoui olive oils Food Chemistry (2009), 119(1), 220-225. "At higher altitude, the oils showed a greater content of oleic acid and higher stability, while in the open the oils had higher tocopherol and linoleic acid contents. For the phenolic compds., the environment influenced each cultivar in different ways. Sensorial characteristics, showed significant differences between the oils from each cultivar and location." Aguilera M. P., Beltran G., Ortega D., Fernandez A., Jimenez A. Uceda M., Characterisation of virgin olive oil of Italian olive cultivars: Frantoio' and Leccino', grown in Andalusia Food Chemistry (2004), 89(3), 387-391.
NOTA: i diagrammi riguardano l’effetto altitudine sulla base di studi eseguiti in Tunisia.
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olioofficina / saperi
La botanica dell'olivo di Salvatore Camposeo
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Cerchiamo di spiegare come è fatto l’olivo, rispondendo ad alcune domande. Innanzitutto… Come si chiama l’olivo? L’albero che siete abituati a individuare con questo nome appartiene ad una specie arborea sempreverde che nel 1753 Linneo chiamò Olea europaea, per distinguerla da altre differenti specie e sottospecie di ‘olivi’, sia africane che asiatiche. Ancora oggi la classificazione botanica è in continuo aggiornamento. Riferiamoci allora, semplificando, all’olivo europeo il quale, a sua volta, comprende due varietà botaniche: la varietà selvatica (oleaster) e la varietà coltivata (sativa). Alla prima appartengono gli oleastri, gli olivi spontanei tipici della macchia mediterranea, caratterizzati da foglie piccole, di forma ellittica e di consistenza coriacea, da frutti piccoli, sferici, con poca polpa; gli oleastri hanno l’aspetto di cespugli, spesso spinescenti, e non raggiungono grandi dimensioni; essi sono ormai reperibili solo nelle poche zone macchiose rimaste superstiti. Alla seconda, invece, appartengono gli olivi da frutto, coltivati nei campi, caratterizzati da frutti con polpa sviluppata, e che possono raggiungere dimensioni ed età notevoli. È questo l’olivo che costituisce l’albero da frutto più coltivato in Italia, su oltre un milione di ettari, e che comprende più di 500 cultivar.
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Come è nato l’olivo?
ereditato direttamente dall’oleastro. Questa metamorfosi può avvenire grazie a una serie di organi specializzati, quali ovoli, corde e soprattutto gemme avventizie. Questi stessi organi, tra l’altro, gli permettono di riparare i danni da gelo, da fuoco, da taglio, da malattie… e allungare così la vita biologica dell’olivo. Quando coltiviamo l’olivo, con la potatura l’agricoltore conferisce e mantiene nel tempo la forma di allevamento ad albero, che quindi è l’aspetto ‘artificiale’ che esso assume a fini produttivi. Tuttavia, l’olivo non dimentica il suo portamento naturale che, alla prima occasione, rispunta inesorabilmente. Anche per il fico l’habitus naturale a cespuglio viene continuamente modificato attraverso la potatura annuale, a conferirgli l’habitus agronomico ad albero. Per altre specie, come il melograno ed il nocciòlo, il portamento naturale a cespuglio viene, invece, conservato anche quando esso è coltivato. Lo stesso avviene per l’habitus sarmentoso della vite e del kiwi.
Tutte le cultivar, cioè le varietà coltivate di olivo, derivano dall’oleastro, cioè dalla varietà selvatica, per addomesticazione. Tutto iniziò al termine dell’ultima era glaciale, circa 7 mila anni fa, quando l’uomo cominciò ad addomesticare gli oleastri sopravvissuti alla glaciazione, arroccati in quattro zone-rifugio sparse dal medio oriente alla penisola iberica. L’addomesticazione dell’olivo europeo procedette per incrocio e per selezione e sono sempre più certi contributi genetici di specie di olivo africane. La formazione delle attuali piattaforme eliografiche regionali, così ben differenziate tra loro, è il risultato anche delle migrazioni umane dall’oriente verso l’occidente del Mediterraneo, soprattutto fenicie e greche. Le cultivar di olivo, tuttavia, conservano moltissimo del patrimonio genetico degli oleastri da cui sono derivati e la stragrande parte di esse presenta caratteri di produttività e di vigoria poco ‘gentili’. La domesticazione dell’olivo, infatti, è ancora in corso e purtroppo, per motivi ‘culturali’, procede molto lentamente.
Le gemme dell’olivo: a legno, a fiore o miste?
L’olivo: albero o cespuglio?
Le gemme normali, per distinguerle da quelle avventizie, sono gli organi più importanti di un organismo vegetale: da esse, infatti, prendono origine tutti gli altri organi epigei, sia vegetativi che riproduttivi. L’olivo possiede gemme a legno, le quali, schiudendo, danno origine a tutti e soli gli organi vegetativi: i germogli con le foglie vere; i germogli, a loro volta, si sviluppano in rami e questi in branche. L’olivo possiede gemme a fiore, le quali, schiudendo, danno origine a tutti e soli gli organi riproduttivi: le infiorescenze con i fiori; i fiori, a loro volta, si sviluppano in frutti al cui interno è custodito il seme. Ogni infiorescenza, che si chiama mìgnola, può portare un numero di fiori da 10 fino a 30, in funzione della
Quando pensate ad un olivo coltivato lo immaginate come un albero, in tutte le sue varianti di forme e di dimensioni; le varianti sono tante quante le cultivar e gli ambienti di coltivazione. Oggi, infatti, coltiviamo olivi alti 15 metri e olivi alti 3 metri, con fittezze in campo che vanno da appena 50 alberi fino ad arrivare a 2 mila alberi in un ettaro! Immaginate ora un olivo che non sia stato potato per alcuni anni e vedreste cambiare completamente il suo aspetto: vedreste l’albero-olivo trasformasi nel cespuglio-olivo. Perché? Il portamento ‘naturale’ dell’olivo è il cespuglio, non l’albero, e questo importante carattere botanico lo ha 62
Frantoio del Poggiolo Monini il percorso dell’eccellenza. I Monocultivar
La raccolta Le olive vengono raccolte al giusto grado di maturazione sulla base di analisi specifiche. Dalla raccolta alla frangitura, che avviene entro le 24 ore, le temperature vengono mantenute basse per garantire una migliore conservazione e bloccare i processi di fermentazione: le olive vengono raccolte alle prime luci dell’alba e trasportate al Frantoio del Poggiolo in camion refrigerati a 5-7°C.
Il Frantoio del Poggiolo a Spoleto, nel cuore dell’Umbria, è da sempre il centro delle attività Monini per la ricerca di una qualità assoluta. È proprio lì che nasce il progetto Monocultivar, oli di qualità superiore fatti con olive di un’unica varietà, con caratteristiche e gusto inconfondibili. Il Nocellara presenta freschi profumi di foglia di pomodoro, erbe falciate e sentori di menta e mandorla dolce. Il Coratina è un olio con sentori speziati e persistenti, aromi floreali e vegetali di mandorla e rucola. Il Frantoio è un olio elegante con intensi aromi vegetali di carciofo, cardo e mandorla verde.
La produzione Al Frantoio del Poggiolo si lavorano le olive con una particolare attenzione ai dettagli. Il lavaggio avviene con successiva e immediata asciugatura delle olive per ridurre al minimo la carica batterica; la frangitura con un processo dedicato per ogni tipo di oliva e grado di maturazione; la gramolazione è personalizzata rispettando le caratteristiche delle olive; la filtrazione è immediata per evitare il degrado del prodotto.
La selezione Le zone di produzione sono selezionate identificando i territori più vocati alla produzione di ciascuna cultivar. Vengono scelte le aziende agricole più virtuose con cui collaborare, a cui si forniscono le linee guida per la lavorazione del terreno, la cura delle piante e dei suoi frutti. Le singole piante sono tracciabili e l’appartenenza a ciascuna cultivar è certificata tramite l’esame del DNA. www.monocultivarmonini.it
Le ricette uniche Zefferino Monini è coinvolto in prima persona nel processo, fornendo indicazioni per ottenere prodotti dalle fragranze uniche ed inimitabili.
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quenza di questi casi non sono state ancora studiate per l’olivo. Tuttavia, il significato biologico di tali manifestazioni è più chiaro: la cauliflorìa, infatti, sarebbe un carattere che certificherebbe la presenza di uno o più progenitori ancestrali vissuti, o viventi, nell’Africa tropicale nella costituzione dell’olivo europeo.
cultivar. Le mignole si trovano sul ramo, normalmente in posizione laterale, all’ascella delle foglie. All’apice il ramo porta una gemma a legno che, schiudendo in un germoglio, garantisce l’allungamento dell’asse vegetativo. La ramificazione è invece garantita dalla schiusura delle gemme a legno che si trovano in posizione laterale sul ramo. Sul ramo, quindi, possiamo trovare sia gemme a legno che gemme a fiore. È possibile trovare gemme a fiore, quindi mignole, anche all’apice del ramo. In questi casi, non rari, sulla mignola troviamo delle piccole foglie, le bràttee, che forniscono un significativo contributo alla fruttificazione, che nell’olivo avviene tipicamente sui rami. Più rare, invece, sono le gemme miste dell’olivo, le quali si possono trovare sia in posizione apicale che laterale sul ramo. La gemma mista quando schiude dà origine ad un corto germoglio provvisto di fiori. In questi rari casi, la fruttificazione avviene sul germoglio, come se si trattasse della vite! La presenza di gemme a fiore con brattee e di gemme miste indica, in generale, un ottimo stato vegetativo dell’olivo, legato sia a favorevoli condizioni climatiche, ma anche a razionali tecniche colturali: sono due modi che l’olivo ha per ‘dire grazie’ all’olivicoltore.
Quanto possono vivere gli organi di un olivo? Un olivo, se coltivato, può vivere anche migliaia di anni, anche grazie alla presenza di organi, come abbiamo visto, che permettono di ricostituire la parti morte. Tuttavia, i diversi organi dell’albero hanno longevità biologiche molto diverse. Gli organi che raggiungono quelle età venerande di decine di secoli sono quelli ipogei, come le branche radicali e la ceppaia, poiché sono le meno esposte a stress e a danni che, invece, possono colpire gli organi epigei, quali il tronco e le branche. Branche e rami, inoltre, sono periodicamente rinnovati con la potatura. Le foglie dell’olivo sono molto longeve e possono arrivare fino a tre anni di età. L’olivo, infatti, è una specie sempreverde per questo: prima che le vecchie foglie cadano, esse sono già state sostituite da quelle mature e da quelle giovani, nate una o due primavere prima, rispettivamente. Le foglie vecchie dell’olivo cadono generalmente all’inizio dell’estate. Similmente si comportano anche gli agrumi e tutti gli altri sempreverdi. Di contro, la vita media delle foglie delle specie caducifoglie, come la vite, il fico, il melo, il mandorlo, è di circa sette mesi; esse cadono in autunno, senza che altre le abbiamo potute sostituire: le nuove foglie, infatti, nasceranno solo la primavera successiva. Le foglie dell’olivo nascono sui nodi dei germogli, dove si originano anche le gemme normali, a legno o a fiore. Il germoglio dell’olivo si svi-
L’olivo può fruttificare sulle branche? Ancora più straordinari nell’olivo sono i casi di cauliflorìa, cioè della formazione di mignole, e di olive, non sui rami come è normale, ma sulle branche o addirittura su giovani tronchi. Tra le specie arboree da frutto dei climi mediterranei solo il carrubo, altro albero sempreverde, ha questo comportamento; ma, a differenza dell’olivo, nel carrubo la cauliflorìa è un fatto ordinario. D’altra parte, la cauliflorìa è tipica di fruttiferi comuni nei climi tropicali, come il cacao ed il caffè. L’intensità e la fre64
decine di miliardi di granuli pollinici, prodotte da un solo olivo e in appena dieci giorni, nel corso della fioritura. Se ne accorge bene chi ne è allergico…
luppa in seguito alla schiusura di una gemma a legno; la crescita è intensissima nei primi due-tre mesi di vita e termina all’inizio dell’estate, quando raggiunge il suo massimo accrescimento. Solo in alcune condizioni, climatiche e colturali, il germoglio riprende ad allungarsi dopo l’estate o in autunno. In ogni caso, il germoglio dell’olivo non vive più di sette mesi e, lignificandosi, dà origine ad un nuovo organo: il ramo. Il ramo è l’organo che porta le gemme, a fiore e a legno, in numero variabile a seconda di quanto si è allungato il germoglio. Esso passa l’inverno quiescente e la primavera successiva dalle sue gemme si origineranno i nuovi germogli, con le nuove foglie, e le mignole, con i fiori e i frutti. Il ramo passa il suo secondo inverno quiescente e, se non sarà potato, la primavera successiva si svilupperà in un nuovo organo: la branca. Il ramo di olivo vive, quindi, circa diciotto mesi, mentre la branca ogni primavera aumenterà di calibro, dando origine a branche sempre più grosse che potranno vivere secoli. Il fiore dell’olivo è, invece, l’organo più effimero poiché, una volta formato vive sette-dieci giorni al massimo, per lasciare il posto, se tutto è andato bene, al frutto e…all’olio! Il frutto nasce all’interno del fiore, in seguito alla fecondazione; cresce per tutta l’estate ed in autunno inizia a maturare. Una volta maturo il frutto muore, all’età di sei-otto mesi, si stacca dal ramo e cade, se nessuno lo ha raccolto per tempo.
Cosa sono le olive passerine? Le olive passerine, chiamate più tecnicamente pseudodrupe, sono piccole olive tondeggianti, riunite in grappoli, provviste di nòcciolo ma senza seme. Possono anche invaiare, cioè acquistare il colore violaceo tipico delle olive. Il fenomeno, detto anche impallinatura delle olive, determina una notevole perdita di produzione dell’olivo ed è causato da un incompleto processo di fecondazione, anche per difetto di impollinazione. Il tubetto pollinico si approfondisce nello stigma e nello stilo ma non raggiungere l’ovulo; la sua presenza stimola l’ingrossamento dell’ovario con effetti simili a quelli indotti dalla partenocarpia, producendo frutti senza la fecondazione ma che non si sviluppano normalmente. Tali difficoltà possono essere causate sia da fattori climatici, quali freddi tardivi, venti secchi, elevate umidità, che nutrizionali, come la carenza di boro.
Quanto polline produce l’olivo? Un fiore di olivo, all’interno delle due antere, produce in media circa 150 mila granuli pollinici. Pertanto, una mignola, che porta in media venti fiori, ne produce tre milioni. Se si moltiplica per tutte le mignole di un ramo, per tutti i rami di una branca fruttifera, per tutte le branche fruttifere dell’albero, si ottengono 65
olioofficina / saperi
L'olivo in Puglia
questo semisconosciuto di Angelo Godini
Università degli Studi Aldo Moro di Bari
Su importanza e diffusione Dalla lettura dei dati ISTAT degli anni 2011/15 riportati in Tabella 1 si ha conferma di ciò che è ampiamente noto da tempo e cioè che la Puglia è la prima e più importante regione olivicola italiana quanto a:
a)
superficie investita in oliveti (33,4 % di quella nazionale)
b)
produzione di olive (38,1% di quella nazionale)
c)
produzione di olio d’oliva (39,9% di quella nazionale).
La produttività media in olio degli oliveti pugliesi è di circa il 20% più elevata della media nazionale (0,51t/ha contro 0,41t/ha). La produzione d’olio d’oliva pugliese è inoltre pari al 6,5% di quella mondiale dello stesso periodo, stimata in 2.816.000 tonnellate.
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Maria di Leuca, l’estremo lembo Sud orientale di Puglia e d’Italia.
In Puglia, l’olivo è diffuso quasi senza soluzione di continuità lungo gli oltre 400 chilometri di sviluppo del territorio della regione, da Nord-Ovest a Sud-Est. Dall’estrema pianura di Nord Ovest del Tavoliere della provincia di Foggia, l’olivo sale di quota e prende a pendolare tra il promontorio del Gargano ad Est ed il subappennino Dauno ad Ovest, quindi ridiscende al piano, attraversa la Capitanata meridionale, il litorale delle province di Bari, BAT e Brindisi, risale le colline interne della Murgia e infine ridiscende a Taranto e Lecce per terminare a livello del mare di Capo di S.
In Puglia l’olivo è coltura prevalentemente di pianura, visto che circa 230.000 ettari, il 61,0% della superficie regionale, sono ascritti a quella tipologia altimetrica. Soltanto il 38,9% degli ettari dedicati dai pugliesi all’olivo ricade in territori di collina, mentre l’olivicoltura di montagna è assolutamente irrilevante perché occupa una superficie di poco superiore a 500 ettari, pari soltanto allo 0,1% della superficie totale regionale. 67
media dell’azienda olivicola italiana allo stesso anno è risultata pari a 1,23 ettari. In tema di rappresentatività delle classi di ampiezza, oltre la metà delle aziende olivicole pugliesi (per l’esattezza il 51,6%) ha dimensione non superiore ad 1 ettaro, mentre il 3%, corrispondente a circa 10.000 aziende, ampiezza uguale o superiore a 20 ettari. La polverizzazione delle aziende olivicole pugliesi è massima nelle aree di collina. Comunque la si guardi, l’ampiezza dell’azienda pugliese olivicola, come pure di quella italiana, rimane il punto di maggiore debolezza del comparto. Il fatto che negli ultimi quarant’anni detta ampiezza media sia aumentata oppure diminuita significa poco o nulla giacché stiamo parlando di cifre che oscillano intorno ad un ettaro e che nel migliore dei casi non raggiungono i 2 ettari. Viene difficile pensare che, come in Italia, anche in Puglia quei bassi valori di dimensioni medie aziendali possano favorire l’introduzione di innovazioni che, senza mutare l’esistente, aiutino a migliorare i bilanci attraverso l’aumento della produttività da un lato e/o la riduzione dei costi dall’altro. Grazie alla longevità “biblica” degli alberi della specie, gli attuali titolari delle oltre 900.000 aziende olivicole italiane, compresi gli oltre 200.000 pugliesi, raramente hanno investito capitali per realizzare alcunché, ma hanno solo ereditato annosi oliveti senza doversi sobbarcare a spese di investimento e avviamento, in quanto sopportate prima di loro da qualcuno tra gli antenati. Oltretutto, i dati Istat informano che quanto ad età, il 45% dei conduttori di oliveti ha più di 65 anni e solo il 3% meno di 34 anni. Ed è noto che, più avanza l’età, più si è restii, salvo eccezioni, ad accettare e affrontare innovazioni, massimamente quando stravolgenti il consolidato esistente.
Quando si parla di olivicoltura di collina pugliese si deve tuttavia intendere una situazione attinente all’altimetria piuttosto che alla giacitura, perché sono assenti ondulazioni e pendenze eccessive, i terrazzamenti sono cosa molto rara, la viabilità interpoderale e l’accessibilità ai fondi olivetati sono da considerare da buone a molto buone. In Italia, invece, la suddivisione per aree altimetriche dell’olivicoltura vede prevalere quella di collina col 61%, seguita da quella di pianura col 28%, e con buona rappresentatività di quella di montagna con l’11% L’ampiezza dell’azienda olivicola pugliese come punto debole I dati Istat informano che in Puglia, tra il 1980 e oggi, la superficie dedicata dai pugliesi all’olivo è aumentata progressivamente, arrivando a 376.737 ettari, mentre è costantemente diminuita la superficie media dell’azienda olivicola, che da 1,49 ettari del 1980 è passata a 1,12 ettari del 2010. In Puglia più che altrove, deve essersi fatta sentire la spinta alla polverizzazione delle aziende, visto che l’ampiezza 68
Peculiarità dell’olivicoltura pugliese
che consociata, con sesti d’impianto regolari, solitamente in quadro, calibrati alla fertilità dei terreni e alle intenzioni di consociazione con altre arboree (es. vite, mandorlo) oppure erbacee e/o orticole. Nelle aziende più piccole, le più numerose, le cose forse cambiano, ma non tanto da smentire quanto detto.
Il comune denominatore distintivo di tutta l’olivicoltura pugliese è l’importanza annessa al modo di allevare gli alberi della specie: dovunque si volga l’occhio, ci si rende conto che, anche se da tempo non bene quantificabile, gli alberi d’olivo non vengono mai stati lasciati liberi di crescere, ma sono educati a svilupparsi in forme e maniere ben definite. La forma d’allevamento esclusiva dell’olivicoltura tradizionale pugliese è riconducibile al “vaso cilindrico”, che presenta interessanti, peculiari varianti, riguardanti le dimensioni finali della chioma e/o il suo modo di distribuirsi nello spazio, ovvero il rapporto tra gli assi e/o la fogliosità e/o l’inclinazione delle branche, ecc. Trattasi di eccellente sintesi delle interazioni tra le numerose componenti coinvolte: da quella genetica a quella ambientale e colturale. Senza dimenticare quella culturale. Considerato che sono da poche migliaia (area ‘Ogliarola garganica’) a molte decine di migliaia (area ‘Coratina’) gli ettari di oliveti impostati secondo canoni ben precisi e uniformi in ciascuna delle aree sulle quali
Orientamenti della produzione e piattaforma varietale Per quanto attiene alla destinazione del prodotto, i dati in Tabella 3 confermano che in Puglia la coltivazione di olive per l’estrazione dell’olio è quasi esclusiva, perché irrilevante in assoluto e in percentuale è la quota parte della produzione destinata alla trasformazione per il consumo come olive da tavola, nell’accezione del termine. Così scarsa importanza attribuita dai pugliesi al comparto può essere spiegata anche col fatto che la coltura delle olive da tavola deve essere assimilata a quella di qualsiasi altro fruttifero per il quale il rispetto della quantità (intesa ad esempio come costanza) e della qualità (intesa ad esempio come calibro dei frutti) della produzione diventano essenziali per standardizzare e valorizzare il prodotto nello spazio e nel tempo. Quantità e qualità delle produzioni che sono assicurate soprattutto dalla risorsa irrigua, che però fino a qualche lustro fa era molto scarsa. Resta il fatto che, dove sono state create sufficienti disponibilità idriche, gli imprenditori agricoli pugliesi, nonostante la tradizionale consuetudine con l’olivo, hanno finora preferito privilegiare uva da tavola, agrumi e pesco tra le colture arboree. Probabilmente, i più non avranno compreso l’utilità di realizzare nuovi oliveti dotandoli di risorse irrigue, visto che gli alberi affidati alle loro cure vivono da secoli in regione e sono arrivati ai nostri giorni pienamente produttivi col solo aiuto delle piogge.
ci soffermeremo, non è possibile non parlare di singole “scuole” di allevamento e potatura, anche se i capiscuola restano ignoti almeno a chi scrive. Denominatore comune degli oliveti tradizionali è comunque il progressivo prevalere dello scheletro, dovuto ai continui, annosi processi di ingrossamento degli organi permanenti epigei (tronco, branche) ed al fatto che la olivicoltura tradizionale è per oltre il 70% condotta in asciutto ed è secolare o plurisecolare. Non mancano alberi d’olivo millenari. Quanto alla distribuzione degli alberi sul terreno, forse favoriti dalla prevalente giacitura pianeggiante, i locali hanno privilegiato la realizzazione di oliveti, sia come coltura specializzata 70
Quanto alla tipologia degli oli prodotti, la Puglia può essere divisa in due metà. Nella prima metà, che va dai confini col Molise alla “conca barese”, l’olivicoltura è caratterizzata da alberi di altezza contenuta, potati annualmente o biennalmente, con alternanza di produzione attenuata, raccolta dei frutti manuale oppure meccanica dall’albero e molitura tempestiva; l’olio che si estrae dalle olive appartiene nella quasi totalità alla categoria degli “extra vergini”. Nella seconda metà, dal Sud-Est barese fino al capo di Leuca, prevale l’olivicoltura con alberi monumentali, chioma folta, frutti piccoli o molto piccoli, potatura a turni ampi (da quadriennali a sessennali), dove l’alternanza di produzione è di conseguenza molto accentuata. In quei distretti, la raccolta manuale oppure meccanica delle olive dall’albero trova ostacoli di natura tecnica ed economica spesso insormontabili e avviene nell’80-90% dei casi mediante raccattatura periodica da terra o da reti sottese attendendo i flussi di cascola naturale oppure aiutando le olive a cadere con l’uso di cascolanti chimici. Alla periodicità della raccattatura segue la periodicità dei conferimenti in frantoio, dove le olive sostano tempi non bene definiti prima della lavorazione; di conseguenza l’olio che si ottiene è di tipo “lampante” in elevatissima percentuale.
La piattaforma pugliese è costituita da poco più di 50 varietà (Agriconsulting, 1983), ma non più di cinque sono quelle di maggiore importanza, dalle quali proviene cioè il 90% della produzione regionale d’olio. Quelle cinque varietà, tutte dalla coltivazione da antica a molto antica, e loro sinonimi (tra parentesi la superficie approssimativa a ciascuna di esse destinata dagli olivicoltori pugliesi) sono: 1. Ogliarola di Lecce, e/o Chiarita, Cima di Mola, Cima di Monopoli, Cima di Fasano, Fasanese, Monopolese, Ogliarola, Ogliarola salentina, Oliva leccese, Pizzuta (~150.000 ha); 2. Cellina di Nardò e/o Asciulo, Cafaredda, Cafarella, Casciulo, Cellina, ‘Cellina leccese, Leccese, Muredda, Nardò, Oliva di Lecce, Oliva di Nardò, Saracena, Scurranese (~80.000 ha); 3. Coratina e/o Cima di Corato, La Valente, Oliva a grappoli, Racemo, Racioppo, Racioppo di Corato (~ 70.000 ha); 4. Cima di Bitonto e/o Ogliarola barese, Bitontina, Marinese, Ogliarola, Paesana, Ogliarola garganica, Frantoio (~ 30.000 ha); 5. Peranzana e/o ‘Provenzale, Francese (~10.000 ha).
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L’olivicoltura in provincia di Foggia
e leggermente amarognolo, ricco di biofenoli, che diventa fine dopo 3-4 mesi. Nel Gargano trova invece diffusione la terza varietà foggiana per importanza, nota localmente col nome di ‘Ogliarola garganica’, ma che è stato dimostrato essere sinonimo di ‘Ogliarola barese’ o ‘Cima di Bitonto’ e questa, a sua volta, di ‘Frantoio’ (Resta et al., 2002). Infine, ‘Rotondella’ è varietà da olio decisamente “minore” ed è diffusa esclusivamente nel subappennino Dauno, ai confini con la Campania, donde sembra essere originaria. Nelle pianure del Nord (San Severo, Torremaggiore) e del Sud (Cerignola) del “tavoliere”, l’olivicoltura tradizionale assume i connotati prevalenti della coltura specializzata, con aziende anche di grandi dimensioni, con impianti con sesto regolare, allevati secondo forme (il “vaso sanseverese” a Nord, il “vaso barese” a Sud) e con sistemi e turni di potatura improntati comunque alla ricerca della razionalità. Nella zona della ‘Peranzana’, gli olivi sono allevati a vaso cilindrico con asse trasversale sensibilmente maggiore di quello verticale, ottenuto con la divaricazione delle due branche primarie, che vengono fatte sviluppare quasi in orizzontale. È proprio l’accentuata divaricazione delle branche primarie la caratteristica distintiva dell’allevamento a “vaso sanseverese”: si ritiene che gli alberi furono così impostati in tempi remoti per contenere lo sviluppo in altezza della chioma, per facilitare potatura e raccolta e renderle meno dispendiose, sebbene a quei tempi la manodopera abbondasse e fosse a costo bassissimo. Il mutare delle condizioni socio economiche spinge oggi per la meccanizzazione delle operazioni, in particolare di raccolta, ma l’accentuata divaricazione delle annose branche primarie associata spesso alla loro dubbia integrità si è dimostrata inconciliabile con l’impiego di macchine vibratici del tronco. In quanto locus
In provincia di Foggia la coltivazione dell’olivo interessa il 10% della locale S.A.U. e copre la superficie di 51.000 ettari con una produzione di 156.000 tonnellate di olive e di 25.340 tonnellate di olio. In ambito regionale, l’olivicoltura foggiana incide attualmente per il 15% delle superfici e delle produzioni. Dal 2009, la provincia di Foggia ha perso i territori dei comuni di Margherita di Savoia, San Ferdinando e Trinitapoli, con buona rappresentatività dell’olivo, che sono confluiti nella nuova provincia BAT. Quanto alla ripartizione dei terreni olivetati in base all’altimetria, il 52,3% della olivicoltura foggiana è olivicoltura di pianura, il 46,7% olivicoltura di collina e l’1,0% olivicoltura di montagna. La provincia di Foggia è l’unica pugliese nella quale compaiono superfici a olivo ascritte alla zona altimetrica di montagna, per quelle frange di coltura presenti soprattutto nel subappennino Dauno. L’assortimento varietale e le forme d’allevamento dell’olivicoltura foggiana risentono della dispersione della coltura in isole scarsamente comunicanti tra loro. La varietà maggiormente diffusa è ‘Coratina’, originaria della vicina BAT, che caratterizza soprattutto gli oliveti del polo meridionale di pianura intorno a Cerignola. Il modello di ‘Coratina’ nel basso foggiano è del tutto uguale a quello della stessa varietà nella BAT, al quale si rimanda il lettore. Da sottolineare che in provincia di Foggia, più che altrove, ‘Coratina’ è coltivata in irriguo e la chioma particolarmente fogliosa è una chiara dimostrazione degli effetti dell’irrigazione su attività vegetativa e produttiva. La seconda varietà per importanza è ‘Peranzana’, diffusa nel Nord-Ovest della provincia, tra Sansevero e Torremaggiore. Appena prodotto, l’olio extra vergine di ‘Peranzana’ è di colore verde, di sapore fruttato 72
che oggi si fregia del riconoscimento di DOP. ‘Bella di Cerignola’ è allevata secondo gli stessi criteri adottati per allevare ‘Coratina’. L’olio extra vergine prodotto in provincia di Foggia si fregia della denominazione DOP “Dauno”, con quattro menzioni geografiche: Dauno Gargano (varietà base ‘O. garganica’); Dauno sub-appennino (varietà base ‘O. garganica’, ‘Coratina’, ‘Rotondella’); Alto tavoliere (varietà base ‘Peranzana’); Basso tavoliere (varietà base ‘Coratina’)
minoris resistentiae, siffatto modo d’impalcare gli alberi espone al rischio di “scosciatura” di una o di entrambe le branche da sollecitazioni delle ganasce dei vibratori al tronco. Quella forma d’allevamento ha quindi imposto la ricerca di soluzioni più soft, più efficienti della tradizionale brucatura, ma meno efficienti della vibrazione del tronco, quali i pettini pneumatici, e/o le spazzole oscillanti. Sono anche in corso tentativi mirati, con potature di riforma, a creare nuova impalcatura con branche primarie meno divaricate. Peculiarità del distretto olivicolo che fa capo al comune di Peschici, dove è diffusa ‘Ogliarola garganica’, è l’allevamento degli alberi a “vaso” cilindrico stretto ed alto e impalcato costantemente su tre branche primarie di primo ordine invece che su due, come avviene dappertutto nel resto della regione. Nelle intenzioni del “caposcuola” di quel modo di impostare gli olivi doveva esserci quella di ripartire acqua e nutrienti tra tre branche anzichè tra due nel tentativo, non proprio riuscito, di contenere lo sviluppo in altezza degli alberi di una varietà notoriamente vigorosa come ‘Ogliarola garganica”. Gli alberi raggiungono comunque altezze che non facilitano le operazioni di potatura e raccolta come oggi si vorrebbe. Un’altra particolarità degli oliveti di ‘Ogliarola garganica’ in quel di Peschici è quella d’essere gli unici in tutta la Puglia ad essere rigorosamente recintati con reti metalliche che ne impediscono l’accesso agli estranei, siano essi uomini oppure animali. Unica rispetto alle altre province pugliesi, l’olivicoltura foggiana concede un ben definito spazio alla produzione di olive da tavola: si tratta di un segmento assai interessante, che è nato e si è consolidato soprattutto nei territori della Capitanata meridionale e che si fonda su di una varietà leader, di origine ignota, antica e presumibilmente locale, ‘Bella di Cerignola’, di cui si conosce più di un clone,
L’olivicoltura nella BAT (Barletta, Andria, Trani) La BAT è la più giovane delle province pugliesi, con una S.A.U. di 106.054 ha. La sesta provincia è stata attivata nel 2009 ed è composta dal territorio di un limitato numero di comuni, prima facenti parte delle province di Foggia e di Bari. Nella nuova provincia, l’olivo è diffuso su 32.809 ettari e interessa il 30,9% della locale S.A.U. La superficie dedicata dai locali all’olivo è pari all’8,7% di quella regionale e gli oliveti della BAT risultano i più produttivi in termini di olio (0,7 t/ha), perchè sono i più razionalmente impostati e condotti. Quanto alla ripartizione dei terreni olivetati in base all’altimetria, il 50% della olivicoltura della BAT è olivicoltura di pianura, il 50% olivicoltura di collina. L’olivicoltura della BAT è sostanzialmente monovarietale, con ‘Coratina’ che monopolizza il territorio. Alberi piccoli, allevati a vaso cilindrico equilatero, con chioma più o meno folta a seconda se irrigati o meno, con sesti regolari e densità di piantagione tra 200 e 240 alberi ettaro, raccolta delle olive dall’albero, manualmente oppure meccanicamente con vibrazione del tronco più bacchiatura, disegnano il modello-tipo di quell’olivicoltura, che si ripete identico nel limitrofo basso foggiano. L’olio extra vergine che si ottiene dalle olive 73
L’olivicoltura in provincia di Bari
di ‘Coratina’ risulta fruttato, di colore gialloverde, di sapore intenso, molto amaro, molto piccante, molto ricco di biofenoli, che diventa fine dopo 5-6 mesi o più. Come ho già avuto modo di scrivere, l’olivicoltura della BAT può essere definita, tra gli innumerevoli modelli italiani tradizionali, quello più vicino ai canoni di una olivicoltura impostata e condotta con criteri moderni, in particolare per il modo di intendere allevamento dell’albero e gestione dell’oliveto. A tale proposito è interessante leggere quanto scritto da un viaggiatore del secolo XVI, L. Alberti, bolognese, che nell’opera “Descrittione di tutta l’Italia & Isole pertinenti ad essa” accenna all’olivicoltura del triangolo tra Andria, Barletta e Trani e scrive: “essendovi le gran selve d’olivi …. molto ordinatamente disposte, di tanta altezza & grossezza che non sarebbe creduto narrandole . Io dirò una parola che parea a me tanta differenza tra questi alberi fruttiferi e i nostri quali havemo di tal generazione …..quanto alla grossezza de’ tronconi, quanto all’altezza & disposizione dei rami”. Interessante perché le parole di L. Alberti fanno capire l’esistenza di principi di base, che sono arrivati fino ai giorni nostri, quanto a regolarità dei sesti d’impianto e a criteri per l’allevamento e la potatura dell’olivo in quella parte di Puglia oltre quattrocento anni fa. Quanto alla denominazione DOP dell’olio extra vergine prodotto nella BAT, non risulta che sia stato ancora approvato un nuovo e diverso disciplinare che ridefinisca la zona di produzione all’interno della nuova provincia: è lecito tuttavia immaginare che, qualora presentato e approvato, esso ricalcherebbe il disciplinare DOP “Terra di Bari”, menzione Castel del Monte, della provincia di Bari, che prevede come varietà base ‘Coratina’.
Fino a dieci anno addietro, alla provincia di Bari appartenevano gli oliveti dei territori dei comuni di Andria, Barletta, Bisceglie, Canosa, Minervino murge, Spinazzola e Trani, quasi tutti regno indiscusso di ‘Coratina’ e oggi confluiti nella BAT. La coltura dell’olivo nel barese si è perciò ridotta a poco meno di 100.000 ettari: detta superficie rappresenta il 37% circa della S.A.U. provinciale ed il 26% della superficie totale dedicata dai pugliesi all’olivo. La produzione di olive costituisce circa il 25% del totale regionale; quella d’olio d’oliva il 24%. La coltura è distribuita tra la fascia costiera e la collina interna della Murgia di Nord-Ovest e di Sud-Est. Per gli aspetti varietali, partendo da NordOvest e proseguendo verso Sud-Est, si incontrano gli ultimi lembi di coltivazione di ‘Coratina’ per entrare poi nei distretti di ‘Cima di Bitonto’ e di ‘Cima di Mola’. Negli ultimi cinquant’anni ‘Coratina’ è penetrata un po’ dappertutto nell’attuale provincia di Bari, tanto da acquistare buona rappresentatività dovunque: all’inizio mediante un particolare tipo di innesto di sostituzione, detto “tacconata” ), su piante adulte della varietà ‘Cima di Bitonto’ (Godini, 1965), poi anche con impianti realizzati ex novo, grazie alla promozione di vivai regionali. Quella di Bari è l’unica delle sei province pugliesi nella quale l’olivicoltura di collina prevale su quella di pianura: infatti, quanto alla ripartizione dei terreni olivetati in base all’altimetria, il 40% dell’olivicoltura barese viene classificata come olivicoltura di pianura contro il 60% di collina. La parte settentrionale della provincia è il regno di ‘Cima di Bitonto’ e interessa circa il 35% dell’olivicoltura provinciale. Quella di ‘Cima di Bitonto’ è un’olivicoltura nella quale prevalgono l’irregolarità dei sesti e la singo74
zione con altre arboree oppure con orticole, costituisce la caratteristica saliente di quell’olivicoltura nella fascia costiera. Sebbene maestosi, anche quegli alberi risultano essere stati impostati dall’uomo secondo un denominatore comune vecchio da tempo e ispirato a definiti criteri: di tanto ci si può avvedere quando la potatura di quegli alberi, una volta ogni 4-6 anni, ne mette a nudo la studiata struttura scheletrica. Nella collina interna (Murgia di Gioia del Colle, Murgia di Castellana Grotte), gli alberi di ‘Cima di Mola’ e/o ‘Coratina’, sono sempre allevati a vaso cilindrico equilatero e mostrano sviluppo più moderato di quelli lungo la costa. La qualità dell’olio delle olive di ‘Cima di Mola’ molto dipende dalla cura agli alberi, dal metodo di raccolta e dalla tempestività dell’estrazione: quando si applichino tecniche finalizzate all’ottenimento di olio extra vergine, il prodotto è poco fruttato, leggermente amaro, astringente e verdognolo appena prodotto, ma si considera maturo dopo 4-5 mesi, quando diventa giallo-verdognolo e meno intensamente profumato. Nelle aziende della zona interna della ‘Cima di Mola’ il metodo di raccolta prevalente è ancora quello diretto e manuale dall’albero, con la tradizionale brucatura, ma anche con vibratori del tronco più bacchiatura. Nella fascia costiera, la mole degli alberi impone invece altre soluzioni per la raccolta delle olive, come raccattature periodiche da terra per aspirazione meccanica oppure da reti sottese alla chioma degli alberi con o senza ausilio di cascolanti. In provincia di Bari, con appendice nella BAT, esiste poi una peculiare produzione, di cui non è nota la consistenza, ma che si sta leggermente espandendo e meriterebbe maggiore attenzione per promuoverne la valorizzazione sia pure come prodotto di “nicchia” e che potrebbe essere inclusa nel segmento olive da tavola:
larità della forma d’allevamento, non sempre riconducibile al vaso, da qualcuno tuttavia chiamato “vaso bitontino”, che si caratterizza soprattutto per la mancanza delle “cime”, che vengono accuratamente e continuamente eliminate. Ne derivano alberi con curvatura forzosa delle branche, che sono contorte, guardano verso il basso e diventano lunghe pendici a “coda di bue”, che terminano con ciuffi più o meno folti di vegetazione. Con la potatura di produzione si pone molta cura nell’eliminazione dei germogli che ogni anno si sviluppano nei punti di massima curvatura delle branche per evitare che prendano il sopravvento e ripristino la localmente non richiesta e non desiderata “funzione di cima”. Con questo accorgimento, i caposcuola della potatura alla bitontina intesero in modo diverso da quelli del Gargano (la varietà è la stessa) mortificare il vigore e contenere lo sviluppo in altezza degli alberi, ma anche qui con risultati solo in parte soddisfacenti. La pendulità delle branche fruttifere associata all’incerta integrità del tronco degli alberi più annosi, rende oggi non generalizzabile la raccolta meccanica con vibratori del tronco e obbliga alla raccolta manuale, sia pure con l’ausilio di pettini vibranti. L’olio extra vergine che si ottiene dalle olive di ‘Cima di Bitonto’ è dolce, leggermente fruttato, di pronto consumo, non molto ricco di biofenoli, di colore giallo dorato e sapore delicato. Alla zona meridionale è interessato il rimanente 65% dell’olivicoltura provinciale, dove trova spazio incontrastato ‘Cima di Mola’ (sinonimi: ‘Cima di Monopoli’, ‘Fasanese’, ‘Ogliarola di Lecce’, ecc.) a fogliame folto, frutto piccolo, caratterizzata da forte tendenza all’alternanza di produzione. Gli alberi, spesso secolari, molto sviluppati, dal tronco con diametro molto sviluppato presentano chioma cilindrica, ma sono difficili da gestire a costi contenuti. I sesti sono comunque larghi e la densità di piantagione è bassa; la consocia76
no, Fasano, Ostuni ecc. ospitano la massima concentrazione di alberi secolari, dai tronchi enormi, corrugati, inclinati, prostrati e anche sostenuti da pile di mattoni di tufo, testimonianza del forte attaccamento dei locali agli alberi della specie. Le chiome sono educate a svilupparsi sempre secondo la forma geometrica di un cilindro equilatero; i sesti sono irregolari e buona parte di quegli oliveti denuncia origine molto antica. Metodi di raccolta e caratteristiche della produzione olearia ricalcano, evidentemente, gli schemi e i modelli indicati per le sottozone delle altre province cui si rifà, di volta in volta, l’olivicoltura brindisina. Per rendere più agevole la raccattatura delle olive, in particolare nella zona di Fasano si è diffusa la pratica della realizzazione di vistose rincalzature al pedale degli alberi per fare in modo che le olive mature, staccandosi spontaneamente dall’albero, rimbalzino e rotolino fermandosi lontano dal tronco per rendere più agevole la successiva raccattatura. L’olio extra vergine prodotto in provincia di Brindisi si fregia di due denominazioni DOP: “Colline di Brindisi” (varietà base ‘Ogliarola di Lecce’) per il Nord brindisino e “Terra d’Otranto” (varietà base ‘Ogliarola di Lecce’ e ‘Cellina di Nardò’) per il Sud brindisino.
si tratta delle “olive dolci”, varietà con frutti quasi del tutto privi dell’amara oleuropeina, da consumare saltati in padella con olio e sale. Tra le principali varietà a frutto dolce meritano d’essere citate ‘Dolce di Cassano’, ‘Nolche’, ‘Pasòla di Andria’, ‘Termite di Bitetto’. L’olio extra vergine prodotto in provincia provincia di Bari si fregia della denominazione DOP “Terra di Bari”, approvata prima delle costituzione della sesta provincia, con tre distinte menzioni geografiche: Castel del Monte (varietà base ‘Coratina’); Bitonto (varietà base ‘Ogliarola barese); Murgia dei Trulli e delle Grotte (varietà base ‘Cima di Mola’). L’olivicoltura in provincia di Brindisi In provincia di Brindisi l’olivo è diffuso su una superficie di 63.710 ha in coltura principale, ed interessa oltre il 50% della locale S.A.U. La produzione provinciale di olive è pari a 150.000 tonnellate annue e quella d’olio a 32.500 tonnellate, pari al 18% di quella regionale. L’olivicoltura di pianura (65%) prevale su quella di collina (35%). In provincia di Brindisi si sogliono distinguere tre diverse zone olivicole: quella settentrionale, in prosecuzione della fascia costiera meridionale dell’olivicoltura barese, della quale ricalca modello e assetto varietale (‘Cima di Mola’) e della quale presenta gli stessi aspetti generali e gli stessi problemi di gestione degli alberi; quella interna di collina, da intendere quale naturale prolungamento dell’olivicoltura della Murgia barese di Sud-Est con ‘Cima di Bitonto’, ‘Cima di Mola’ e ‘Coratina’; quella meridionale, dell’alto Salento che, per scelte varietali (‘Ogliarola di Lecce’ e ‘Cellina di Nardò’), forme d’allevamento e gestione dell’oliveto, ha molti tratti in comune con la confinante olivicoltura leccese. I territori dei comuni di Carovigno, Cisterni-
L’olivicoltura in provincia di Taranto In provincia di Taranto la coltivazione dell’olivo interessa il 25% della locale S.A.U. ed occupa, in termini assoluti, una superficie complessiva di 36.408 ettari. Ad una produzione di circa 117.000 tonnellate di olive corrisponde una produzione di circe 16.000 tonnellate d’olio, pari all’8,6% di quella regionale. Quanto alla ripartizione dei terreni olivetati in base all’altimetria, il 75% della olivicoltura tarantina viene considerata come olivicoltura di pianura e solo il 25% di collina. 77
to per sostituire gli olivi. Il resto è stato fatto dalla diffusione nell’area della viticoltura da tavola allevata a tendone, che per definizione non ammette consociazioni. Sulle colline di Castellaneta e di Martina Franca, la coltura è costituita da oliveti tradizionali a sesto irregolare, con alberi di dimensioni più modeste di quelli del piano e dove le cure colturali, ricalcano quelle della murgia barese. L’olivicoltura di quelle due aree di collina viene inoltre condotta in mancanza quasi assoluta di risorse irrigue. E’ soprattutto in quelle aree che ricadono gli oliveti “marginali” cui si è prima fatto cenno. Zone olivicole classificate come marginali sono state individuate anche sulle colline che fanno da corona al territorio di Grottaglie. Nella zona della ‘Cellina di Nardò’ e della ‘Pizzuta’, la mole degli alberi impone ancora oggi la raccolta delle olive da terra o da reti sottese; solo nei “nuovi” oliveti e nella aziende più progredite il ricorso alla raccolta meccanizzata mediante l’ausilio di pettini pneumatici oppure a quella meccanica con vibratori ad inerzia multidirezionale ha trovato sviluppo. L’olio extra vergine prodotto in provincia di Taranto si fregia nella denominazione DOP “Terre Tarentine” con più varietà base (‘Leccino’, ‘Coratina’, ‘Ogliarola’ e ‘Frantoio’), a conferma di quanto scritto a proposito dell’influenza di vivai in zona nel promuovere il rinnovamento varietale della locale olivicoltura.
Nel tarantino si sogliono distinguere, grosso modo, due poli di concentrazione dell’olivicoltura, diversi soprattutto per posizione geografica e per tipologia di impianti: a) il polo della collina litoranea, comprendente la Murgia di confine con le province di Bari e di Matera ed interessante circa 9.000 ettari; b) il polo della pianura, comprendente la fascia ionica confinante con le provincie di Brindisi e di Lecce ed interessante 27.000 ettari. L’assortimento varietale dell’olivicoltura tarantina è simile a quello delle contigue provincie di Brindisi e Lecce: prevalgono su tutte ‘Cellina di Nardò’ e ‘Ogliarola di Lecce’ (localmente conosciuta come ‘Pizzuta’): la prima è diffusa maggiormente nel versante ionico Sud-orientale, mentre la seconda trova maggiore concentrazione nel versante ionico Nordoccidentale. Non bisogna dimenticare tuttavia la penetrazione che in provincia hanno avuto altre varietà, prima fra tutte ‘Coratina’, anche grazie all’esistenza di un polo vivaistico molto attivo tra gli anni ‘60 e ‘90 del secolo scorso. Caratteristica saliente dell’olivicoltura tradizionale tarantina del litorale è la maestosità degli alberi, allevati secondo una forma tipica del circondario del comune di Massafra e che ha preso il nome di “vaso massafrese”, cilindrico, stretto e alto, con sesto d’impianto regolare e assai largo, con alberi rigorosamente in quadro (in genere m 16x16) e densità di piantagione bassa (circa 40 alberi/ha), forse perché concepiti in origine più come seminativi arborati che come oliveti specializzati. Da alcuni decenni, il classico “vaso massafrese” è stato quasi del tutto modificato con operazioni di potatura di riforma che ne hanno abbassato la chioma. In alcuni casi esso è scomparso del tutto perché, con l’arrivo dell’acqua per uso irriguo circa sessanta anni fa, piani di sviluppo del territorio portarono, in un primo momento, al riempimento dei larghi interfilari con la consociazione con agrumi, che poi hanno fini-
L’olivicoltura in provincia di Lecce Le statistiche ufficiali non hanno ancora registrato il calo di superfici e produzioni dell’olivo in provincia di Lecce causato dal batterio Xylella fatidiosa Wells, Raju et al., veicolato dall’insetto Philaenus spumarius L. Negli ultimi 3-4 anni il batterio ha falcidiato alcune migliaia di ettari di oliveti, con primo focolaio nel basso Salento occidentale. Prima che X. 78
ficiali e più poveri, i sesti diventano irregolari e le densità di piantagione si abbassano considerevolmente. Gli oliveti tradizionali e più rappresentativi della provincia di Lecce si caratterizzano per l’altezza degli alberi, l’ampio diametro della chioma, il tronco sottile in proporzione e la ridotte dimensione delle drupe, tanto di ‘Cellina di Nardò’ quanto di ‘Ogliarola leccese’. Anche in provincia di Lecce si deve essere formata una scuola che ha portato ad educare gli alberi fin da giovani e ad allevarli a vaso cilindrico impostato su due branche primarie, sebbene potandoli a turni ampi. Quando accennavo ai problemi di natura tecnica ed economica spesso insormontabili intendevo riferirmi agli ostacoli che si oppongono a potature più frequenti visti i tempi tempi, i costi e la pericolosità dell’operazione, quando attuata nel modo raffigurato. Alle arrampicate umane si sta ovviando con la potatura meccanizzata con piattaforme elevatrici. Data la situazione, la raccolta delle olive per la produzione di olio extravergine diventa un problema. Poco praticabile, soprattutto a causa dell’ampiezza della chioma, è anche la raccolta meccanica con vibratori ad inerzia multidirezionale oppure con altre macchine/attrezzi coadiuvanti nel processo di distacco delle olive dai rami. Quando gli olivi vengano condotti per la produzione di olio extra vergine (meno del 20% del totale provinciale) il prodotto che si ottiene è diverso a seconda della varietà da cui originano: per quello di ‘Ogliarola di Lecce’ vale quanto scritto a pagina 9 per ‘Cima di Mola’. ‘Cellina di Nardò’ produce olio giallo chiaro, limpido, poco amarognolo e leggermente fruttato. Gli olivicoltori leccesi hanno quindi elaborato una propria cantieristica di raccattatura delle olive, che porta comunque all’ottenimento di olio prevalentemente di tipo lampante. Il modello di raccolta, che vale anche per le olivi-
fastidiosa facesse la sua comparsa intorno al 2013, la coltivazione dell’olivo risultava occupare 92.600 ettari, interessando così circa il 57% della locale S.A.U. Stando ai dati delle statistiche ufficiali pre-Xylella, l’olivicoltura della provincia di Lecce, alla pari con quella di Bari per diffusione, risulta essere la seconda quanto a produzione (circa 235.000 tonnellate di olive e 41.000 tonnellate d’olio per lo più lampante). In ambito regionale, l’olivicoltura leccese incide per il 25% delle superfici e per il 22% delle produzioni di olive e di olio. La massima altura in provincia di Lecce non arriva a 200 m s.l.m. Perciò, quanto a ripartizione dei terreni olivetati, tutta l’olivicoltura leccese è considerata come olivicoltura di pianura ed è convenzionalmente suddivisa in sette sottozone, le più importanti delle quali sono le due pianure estreme, quella di Lecce a Nord Ovest (27.000 ettari, pari al 30% circa) e quella di Leuca a Sud Est (15.000 ettari, pari al 16% circa). L’assortimento varietale dell’olivicoltura leccese è fondato in pratica su due sole varietà, delle quali una, ‘Cellina di Nardò’, prevalente sull’altra, ‘Ogliarola leccese’, nel rapporto di 58 a 38. Il rimanente 4% può essere attribuito a varietà d’origine extra salentina. ‘Cellina di Nardò’ e ‘Ogliarola leccese’ sono varietà dalla presenza molto antica (Presta, 1794), dove sono conosciute sotto numerosi sinonimi. Di entrambe sono ignote origine e genealogia, ma entrambe sembrano avere trovato, la prima più della seconda, condizioni edafiche e climatiche ottimali nell’intera penisola salentina. L’olivicoltura leccese assume la facies di coltura altamente specializzata, con particolare addensamento soprattutto nel territorio dei comuni di Casarano, Melendugno, Ugento e Vernole: nei terreni migliori essa è costituita da impianti anche di notevoli superfici, con sesti ampi, ma regolari; nei terreni più super79
conto dei limiti dell’ambiente, del comportamento delle varietà, delle esigenze di gestione e delle intenzioni di consociazione.
colture del basso barese, del brindisino e del tarantino, consta delle seguenti fasi: a. impiego di diserbanti e/o disseccanti abbinato alla rullatura del terreno sul quale cadranno le olive; b. attesa della caduta delle olive secondo i periodici flussi di cascola naturale oppure come risposta delle drupe a trattamenti con cascolanti chimici; c. andanatura meccanica periodica con scope o spazzolatrici rotanti del prodotto caduto naturalmente al suolo e raccattatura con macchine raccattatrici; d. separazione delle olive dai corpi estranei (pietre, terra, foglie) mediante cernitori meccanici; e. trasporto del prodotto in oleificio in attesa della molitura per l’estrazione dell’olio. Si stima che solo il 10-20% dell’olivicoltura leccese produca olio extra vergine, che si fregia della denominazione DOP “Terra d’Otranto” (varietà base ‘Ogliarola di Lecce’ e ‘Cellina di Nardò’), che comprende, come territorio, non solo la provincia di Lecce, ma anche le parti confinanti delle province di Brindisi e Taranto.
Al riguardo non mi stancherò mai di riportare quanto scritto dal già citato F. L. Alberti che, nel 1577, riferendosi alla zona tra Monopoli (BA) e Fasano (BR), scrive: “Si veggono tanti olivi, & tante mandorle piantate con tal’ordine, ch’è cosa maravigliosa da considerare, come sia stato possibile ad esser piantati tanti alberi da gli huomini”. Chi passasse oggi, di proposito o per avventura, per quella parte di Puglia dovrebbe accontentarsi della sola visione di alberi monumentali d’olivo perchè “immortali”, ma non dei molto meno longevi mandorli e non più sostituiti una volta morti di vecchiaia. Ribadisco che non è esagerato parlare di scuole antiche e diverse sul modo d’allevare gli alberi d’olivo, in un ambiente facile e nemmeno troppo vasto, tra distretti olivicoli anche ben collegati tra loro. A giudicare dall’età degli alberi impostati nei modi di volta in volta descritti, quelle diverse scuole hanno preso a caratterizzate ogni singolo distretto olivicolo da molto tempo. Modelli olivicoli intelligenti, che hanno funzionato in modo egregio fino a circa la metà del secolo scorso, ma che oggi prestano il fianco alle critiche che abbiamo in parte sottolineato e sono diventati - alcuni più di altri- ingombranti perché costosi da gestire, quando si confrontino gli attuali alti costi di produzione con i bassi prezzi di vendita del prodotto finale degli alberi della specie, l’olio d’oliva. In altre parole, in Puglia gli alberi d’olivo sono storicamente, attentamente, e razionalmente allevati in ognuna delle sottozone regionali descritte; tanto si può desumere dall’accuratezza posta nell’impostazione iniziale degli alberi, nella ricerca di soluzioni mirate al migliore adattamento delle singole varietà a
Il futuro dell’olivicoltura pugliese In Puglia esistono dunque diversi, ben definiti e peculiari modelli di olivicoltura tradizionale, aventi tutti come comuni denominatori: 1. la struttura scheletrica che porta allo sviluppo spaziale delle chioma secondo una figura geometrica ben precisa e riconducibile comunque ad un solido come il cilindro, sia pure con variazioni sul tema; 2. la cura posta dagli olivicoltori pugliesi, avvantaggiati dalla giacitura pianeggiante del territorio, nel distribuire sul terreno gli alberi della specie (i sesti d’impianto) in modo regolare, avvicinandoli oppure allargandoli tenuto 80
Per spiegare il secondo punto, ricordo due eventi:
specifiche condizioni pedologiche e climatiche e tenuto conto delle condizioni socio economiche all’epoca della loro iniziale diffusione. Ritengo che, come massimo della ricercatezza si possa citare il caso di Massafra, in provincia di Taranto, dove, per la fertilità dei terreni e il vigore delle varietà, qualcuno ritenne che gli alberi troppo fogliosi, con chioma alta e continua di ‘Pizzuta’ potessero presentare problemi di illuminazione delle parti interne del vaso. Quel qualcuno decise che fosse opportuno creare delle soluzioni di continuità, aprendo delle “finestre” rivolte a levante per favorire la penetrazione della luce. All’occhio attento, il particolare non sfuggirà osservando la figura 20. Purtroppo, il presente dei modelli descritti di olivicoltura tradizionale pugliese appare incerto:
- l’allargamento dell’allora Comunità Economica Europea (oggi Unione Europea) con conseguente abbattimento delle barriere doganali a nazioni come Grecia nel 1981, Spagna e Portogallo nel 1986, tutte produttrici, soprattutto la seconda, di olio d’oliva; - l’apertura nel 2010 delle porte dell’Unione Europea ai prodotti agricoli, incluso l’olio d’oliva, dei paesi della sponda meridionale del Mare Mediterraneo in pagamento dei prodotti che l’industria dell’UE esporta in quell’area, inclusi - ironia della sorte - i macchinari italiani (e pugliesi) per il progresso del livello tecnologico e qualitativo di quella industria olearia. Per motivi che sarebbe lungo spiegare in questa sede, ma che troveranno spazio adeguato in altra, basterà sapere che dai nostri dirimpettai mediterranei (così come da greci e spagnoli), tutti produttori di olio d’oliva, l’Italia è costretta ad importare grossi quantitativi di olio d’oliva, per soddisfare la domanda interna e l’esportazione verso Paesi terzi. Il problema nasce nel momento in cui l’olio dei nostri dirimpettai viene importato a bassissimo prezzo, che impedisce che venga alzato quello del prodotto interno. Ciò non dipende dalla messa in atto di politiche di dumping da parte di marocchini, tunisini, turchi ecc., ma dal reale, bassissimo costo di produzione del loro olio extra vergine per il bassissimo costo del lavoro in quei paesi, perché da sette a dieci volte inferiore a quello attualmente in vigore in Italia. Ricordo che la coltivazione dell’olivo richiede molta manodopera, tanto che il lavoro umano finisce per essere la prima e più importante voce di costo annua per la produzione del chilo d’olio aziendale. Secondo alcuni economisti che hanno lavorato in Puglia, il costo della manodopera inciderebbe per oltre l’80% sul
1. per il continuo aumento dei costi di gestione senza un equivalente aumento di valore della produzione; 2. per i mutamenti all’interno del comparto determinati dall’abolizione delle barriere doganali, che ha liberalizzato l’importazione di olio d’oliva senza dazi, dapprima da altri Paesi europei, poi da nostri dirimpettai mediterranei; 3. per la paventata fine dell’attuale Politica Agricola Comunitaria (PAC); 4. per le devastazioni che sta provocando X. fastidiosa. Per quanto concerne il primo punto, è ormai acclarato che, negli ultimi sessant’anni, ad un aumento dei costi per manodopera, carburanti, fitofarmaci, macchine ed attrezzi, compreso tra 20 e 50 volte, ha corrisposto un aumento di valore del chilo d’olio prodotto di solo 10-12 volte. Il futuro non fa sperare in un’inversione di tendenza.
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so la coltura. Nel pieno rispetto della legislazione nazionale, come il DLL 27 Luglio 1945, n 476 oppure la Legge 14 Febbraio 1951, n 144, che vietano l’estirpazione degli alberi d’olivo, ma nulla dicono in caso di abbandono della coltivazione. La Regione Puglia ha per ora disposto la salvaguardia dei soli alberi monumentali, con la legge regionale 4 giugno 2007, n. 14 “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia” all’insegna del “grosso è bello”. Meglio poco di niente. Purtroppo, nel silenzio generale, almeno un modello, il vaso massafrese, è già scomparso. Altri modelli sono invia di modificazione irreversibile, come il vaso sanseverese; altri ancora vivono vita grama come gli olivi di Bitonto e dintorni, quasi fossero in attesa di rimodellamenti che finora non sono stati proposti. L’unica forma che oggi non sembra essere in crisi è il vaso col quale viene allevata ‘Coratina’.
valore della produzione (Grittani e Tartaglia, 1979). Capisco che il lavoro di Grittani e Tartaglia potrà sembrare datato, ma personalmente non credo che, da allora ad oggi, le cose siano migliorate Il terzo punto nasce dal fatto che il costo di produzione del chilo d’olio d’oliva extra vergine targato UE tende a eguagliare, quando non a superare, il suo prezzo di vendita all’ingrosso. Da oltre cinquanta anni l’UE sussidia gli olivicoltori affinché siano tenuti bassi i prezzi alla produzione per poi tenerli bassi al dettaglio, impedendo così il crollo degli acquisti a favore dei più economici oli d’oliva extracomunitari e dei molto, molto più economici oli di semi. In buona sostanza, è da decenni che l’intervento UE aggiusta i bilanci delle aziende olivicole di tutti i paesi comunitari produttori d’olio d’oliva, come Spagna, Italia, Grecia e Portogallo in ordine d’importanza. Non stupisca quindi il grido d’allarme lanciato da ricercatori spagnoli, secondo i quali il 50% degli oliveti di Jaen (il più importante centro di produzione olivicola dell’Andalusia) non sarebbe più redditizio senza i sussidi UE (Rubia e Torres, 2011). Lasciano perplessi anche le dichiarazioni dei Commissari Europei all’Agricoltura che si sono succeduti negli ultimi 10 anni, dalla danese Marianne Fischel Boel all’irlandese Phil Hogan passando per il rumeno Dacian Ciolo, tutti autorevoli rappresentati di Paesi dove gli alberi d’olivo non allignano. Ciò aiuta forse a spiegare lo scarso interesse di una parte dell’Unione Europea, quella continentale, a tenere in vita il regime dei sussidi per la protezione di alcune produzioni agricole mediterranee, come l’olio d’oliva. Quale lo scenario immaginabile, se e quando i sussidi voluti dall’UE dovessero essere eliminati? Insieme con l’insostenibilità economica degli attuali modelli olivicoli tradizionali emergerebbe la spinta per la disaffezione ver-
Quanto all’ultimo punto, non c’è molto da dire se non che una grave insidia minaccia da alcuni anni la sopravvivenza dell’olivicoltura (per ora solo) pugliese e questa insidia è una malattia mortale provocata dal batterio X. Fastidiosa. Dal basso Salento, il contagio si sta estendendo alle olivicolture brindisine e tarantine e minaccia di diffondersi in regioni limitrofe. Nessuna delle principali varietà d’olivo coltivate in regione e citate più volte nella presente monografia sembrerebbe essere resistente, così come sensibili alla malattia sono risultati il ciliegio dolce (Puglia, primo produttore italiano) e il mandorlo (Puglia, secondo produttore). Tentativi per arginare la diffusione della batteriosi e progetti per il riutilizzo degli ettari già distrutti sono in corso. Molto è stato detto, poco è stato fatto, sicché il batterio continua ad avanzare lentamente, ma indisturbato, tra i rimpalli verbali di addebiti tra le parti, non sempre aventi chiare 83
mercuriali della Camera di Commercio di Bari per rendersi conto che, quando ci sono, le differenze di quotazione tra extra vergini standard e extra vergini DOP pugliesi non invogliano certo alla corsa per l’attribuzione del riconoscimento. Oggi, solo il 5% della produzione oleicola pugliese può dire di avvalersi di una qualsiasi delle denominazioni attivate. Lo scarso interesse per le DOP può essere spiegato anche col fatto che i pugliesi sono molto bravi a produrre, meno bravi a organizzarsi e a valorizzare. Ancora oggi non riescono ad imbottigliare e mettere sul mercato come prodotto pugliese altro che una parte minima della produzione, di poco superiore al 10% (incluso il prodotto DOP), mentre il grosso è (s) venduto come qualcosa che non ho difficoltà a definire “olio da taglio” perché altri, in altre regioni, storicamente più esperti ed avveduti nella filiera del confezionamento e commercializzazione, provvedano a valorizzarlo e a fare proprio il valore aggiunto da tali operazioni. Mi riferisco, in particolare, all’olio extra vergine di ‘Coratina’, perché molto amaro, molto piccante e molto ricco in biofenoli e perciò molto richiesto sia come tale sia perché in grado di aggiustare con studiati tagli oli meno dotati. A ben vedere, è la stessa situazione vissuta dalla Puglia vitivinicola fino ad un recente passato. La rivoluzione delle tecnologie enologiche e lo sviluppo di una generazione di singoli imprenditori capaci hanno riscattato l’immagine storica della vecchia vitivinicoltura pugliese, come quella fornitrice di pura e semplice materia prima, i “rossi da taglio”, ricchi di colore e di gradazione, al servizio della vitivinicoltura talvolta “anemica” di altri distretti vitivinicoli. Data la situazione, qualcuno ha recentemente pensato di chiedere una nuova denominazione, non più DOP ma IGP, riguardante questa volta l’intera Puglia. Nelle intenzioni dei proponenti, la nuova denominazione dovrebbe
e coraggiose vedute sul modo di debellare il flagello in tempi ragionevoli, cioè prima che i danni da esso prodotti diventino irreparabili. DOP e IGP per la valorizzazione dell’olio pugliese Come scritto in apertura, la Puglia è la più importante regione olivicola d’Italia quanto a superficie e produzione di olio. La coltura è molto diffusa in tutte le province e forse è anche per questo che, da quando sono stati istituiti i regolamenti UE oltre vent’anni fa, ognuna di esse ha ritenuto di chiedere e ottenere il riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (DOP) con annesse menzioni, che così ricapitolo: 1. Dauno, che riguarda la provincia di Foggia, con 4 menzioni; 2. Terra di Bari, che riguarda le province di Bari e BAT, con 3 menzioni; 3. Colline di Brindisi, che riguarda la provincia di Brindisi con esclusione del territorio dei comuni confinanti con la provincia di Lecce; 4. Colline Tarentine, che riguarda la provincia di Taranto con esclusione del territorio dei comuni confinanti con la provincia di Lecce; 5. Terra d’Otranto, che include l’intera provincia di Lecce e i confinanti territori dei comuni di Brindisi e Taranto. Se qualcuno pensava che la sola attribuzione del titolo DOP sarebbe stata sufficiente a valorizzare in automatico gli oli che di quelle denominazioni si fregiavano, ebbene bisogna dire che quel qualcuno si è sbagliato. I fatti hanno dimostrato che non esiste nessuna correlazione diretta tra attribuzione del titolo e apprezzamento del prodotto. Oltretutto, l’iscrizione a una DOP ha anche un suo costo, che fa aumentare quello complessivo di produzione. È sufficiente scorrere le serie delle 84
funzionare meglio delle precedenti cinque, che tuttavia non vengono cancellate, per sfruttare la maggiore massa critica di un’unica denominazione invece dell’attuale polverizzazione. Spiegato il perché, nulla però viene detto sul come. Non resta altro che sperare che questa nuova denominazione possa avere il successo che è mancato alle precedenti.
Le foto riportate nelle pagine 67, 73 e 79 sono gentilmente concesse da Pantaleo Spa.
Riferimenti bibliografici 1. Alberti F.L., 1577. Descrittione di tutta l’Italia & isole pertinenti ad essa. G.M.Leni, Venezia 2. Autori Vari, 1983. Manuale per il rilevamento delle particelle olivetate. Agriconsulting S.p.A., Marzo. 3. Godini A., 1965. La “tacconata”, un particolare tipo di reinnesto in piante adulte di olivo. Scienza e Tecnica Agraria,V, (12). 4. Godini A., 1999. L’olivo non deve fare come il mandorlo. Terra e Vita, n 34 del 03.09. 5. Godini A., 2016. La Xylella non si fermerà se noi resteremo immobili. La Gazzetta del Mezzogiorno, 22 marzo. 6. Grittani G. e Tartaglia A., 1979. Il sistema agricoloalimentare pugliese: sottosistema olio di oliva. Istituto di Economia e Politica Agraria, Università di Bari: 1-70. 7. Il Sole24ore, 2007. Agricoltori, cercatevi un secondo lavoro Agrisole, supplemento n 2 8. ISTAT: Censimento agricoltura. 9. ISTAT: Annuari di Statistica Agraria. 10. Presta Giovanni, 1795. Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio. Napoli, stamperia reale. 11. Resta P., Lotti C., Fanizza G., Godini A., Mariani R. e Palasciano M., 2002. Use of AFLP to characterize Apulian olive varieties (O. europaea). Acta Horticulturae, 12.Rubia A. D. e Torres E., 2011. El 50% del olivar de Jaén ya no es rentable. Olivarero, 7.04.
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olioofficina / visioni
La nostra battaglia a difesa delle macine e presse di Gabriella ed Elisabetta Gabrielloni
Dall’olivo all’olio il passo è breve. È tale passaggio, o rapporto dialettico, a decidere la bontà o meno del risultato. Quanto più il processo di trasformazione si adegua a metodi latenti in natura, tanto più il risultato di tale trasformazione è efficace. Quanto più il processo di trasformazione si allontana dai quei metodi, tanto più il risultato perde in efficacia. Chiamatelo tradizionalismo, conservatorismo, anacronismo, romanticismo: a ben vedere, è solo razionalismo.
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Potrà sembrare banale, tuttavia intuitivo, ma al mondo non esiste nessuno capace di far roteare un’oliva tra le mani e produrre, con questo volteggio, dell’olio. Al contrario, si può e si è capaci di prendere un’oliva tra le mani, stringerla in un pugno e, in forza di questa presa, produrre delle piccole goccioline. L’esempio è semplice ed evidente, come sono semplici ed evidenti tutti i principi di Natura. Leonardo Da Vinci costruì la prima macchina volante osservando il volo degli uccelli; le attuali luci a led si ispirano all’anatomia della lucciola e l’ultimo treno proiettile giapponese si rifà ad un preciso pennuto in grado di penetrare in acqua con il becco senza il benché minimo schizzo o rumore. Quanto più il processo di trasformazione si adegua a metodi in Natura latenti, tanto più il risultato di tale trasformazione è efficace. Quanto più il processo di trasformazione si al-
Veniamo al Mondo con una Natura già data. La Natura ci precede e, in tale anticipazione, si dà. Natura pertanto è sinonimo di dono, come lo è ogni sua manifestazione ed espressione. E il dono chiede di essere preservato, affinché ciò che custodisce si manifesti in tutta la sua originalità. Tra le migliaia di espressioni di cui la Natura ci ha fatto partecipi, c’è quella tanto cara all’Antica Grecia, preziosa a tal punto da divenire manifestazione del sacro: l’olivo. Dall’olivo all’olio il passo è breve, nella misura in cui si inserisce l’uomo che, nel suo rapporto con la natura, la trasforma e la rende utile ai suoi bisogni. Ed è tale trasformazione, o rapporto dialettico, a decidere della bontà o meno del risultato. Perché la trasformazione può attenersi a parametri logici e naturali, ossia reali perché insiti nella natura, o a parametri illogici e quindi non naturali. 88
lontana dai quei metodi, tanto più il risultato perde in efficacia. Spetta all’uomo decidere che tipo di rapporto dialettico instaurare. Delle due l’una: o palesare ciò che è latente (ossia spremere), o inserire forze esterne. Perché sono molteplici i percorsi che dall’olivo conducono all’olio: alcuni rispettano categorie di Natura, altri categorie di mercato, ossia appunto forze esterne. Spremere un’oliva è, a rigor di logica, il metodo meno invasivo possibile che la Natura ci offre per produrre olio. Anzi, è l’unico metodo
un prodotto con un altro passo. In questo caso, la figura del Mastro Oleario è di fondamentale importanza: nel capire la corretta consistenza della pasta in macinazione, nel giusto dosaggio sui fiscoli, nella tempistica da seguire durante la pressione, e nell’accorta gestione di ogni altro dettaglio, l’apporto conoscitivo del Mastro è una prerogativa necessaria. E in tale dialettica tra il Mastro e l’olivo, la trasformazione a presse dona il massimo, producendo un olio armonico, rotondo e dal gusto equilibrato.
in grado di preservare ciò che nel frutto è ancora allo stato puro. E dico l’unico perché la spremitura confacendosi ad una categoria di principio, è il solo a preservare il prodotto. Certo, il metodo tradizionale a presse è un processo di trasformazione con molti punti critici e forse per questo oggi molto osteggiato. Ma nella misura in cui il processo è condotto da un uomo capace e di esperienza, profondo conoscitore di ogni sfumatura, quei punti critici divengono trampolino di lancio per ottenere
Per tutto ciò, noi alle macine e presse ci crediamo: l’olio ottenuto ha caratteristiche apprezzate dal consumatore e rientra negli alti parametri di qualità che ci prefiggiamo. Pertanto, la nostra battaglia a difesa del sistema tradizionale è stata e sarà costante, affinché la discriminazione condotta nei suoi confronti, attualmente in qualche modo già superata e risolta, non trovi più terreno fertile per rinascere.
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olioofficina / arte
Chioma
d'artista Liceo Artistico "Ambrogio Alciati" di Vercelli. Nuove generazioni di creativi
Alcuni particolari delle illustrazioni degli studenti della classe 3 A del Liceo Artistico "Ambrogio Alciati" di Vercelli, coordinati dal professor Diego Pasqualin, esposte alla settima edizione di Olio Officina Festival, raccolte in seno alla mostra “Chiome d‘artista”, del movimento culturale Arte da mangiare mangiare Arte, direzione artistica di Ornella Piluso e curatela di Monica Scardecchia.
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olioofficina / arte
Io sono
un albero
Liceo Liceo Artistico "Federico II Stupor Mundi" di Corato. Nuove generazioni di creativi
Una grande installazione ospitata in seno alla mostra “Olio d’artista" - da un’idea, e a cura, di Francesco Sannicandro - realizzata dagli allievi dell’artista Paolo Desantoli, del Liceo Artistico di Corato, i quali hanno reinterpretato l'illustrazione simbolo della settima edizione di Olio Officina Festival - “Io sono un albero” - realizzata da Doriano Strologo.
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olioofficina / visioni
Fotografare
la danza di Alessandro Brasile
Fotografare la danza è per me cercare "l’incanto del ritmo”, non congelare un movimento plastico. Prediligo stare a bordo palco durante prove e filato, quando non in scena o in quinta. Pur nella perizia di un corpo in situazione di rappresentazione, preparato, è necessario che la forma venga “tradita” e tradotta nel pulsare. L’attore - danzatore deve convivere con la possibilità divina e sottile dell’errore. Questo è il rischio che condivido con i performer fotografando: la ricerca della vita (o vitalità) nella messa in scena. Alessandro Brasile, fotografo di scena, ritratto, design e reportage. Inizia il suo lavoro, dopo un trascorso d’attore, collaborando con numerosi festival e compagnie. Prosegue eseguendo ritratti di attori, designer e artisti. Ha realizzato servizi per il design collaborando con realtà editoriali e aziende del settore. Diversi i lavori pubblicati di reportage di viaggio e documentario. Le sue immagini sono state pubblicate da riviste e magazine nazionali ed esteri fra i quali: Liberation, de Volkskrant, Casa Vogue e Bell’Italia. Varie le mostre all’attivo, personali e collettive, in Italia e all’estero. Dal 2007 si dedica anche all’insegnamento della fotografia; è cultore della materia presso l’Università Politecnico di Milano, e tiene corsi per numerosi enti e privati. Premiato nel 2016 e 2017 ai Moscow International Foto Awards. Attualmente è impegnato nella realizzazione del suo primo video-documentario. www.alessandrobrasile.com Alessandro Brasile è l’autore della copertina di Olio Officina Almanacco 2018; la danzatrice ritratta è Lara Guidetti.
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Ode all’olio, foto © Alessandro Brasile per Sanpapie
Della Caduta, foto © Alessandro Brasile per Sanpapie
olioofficina / visioni
Se fossi un albero
sarei
di Laura Guidetti
un ulivo
Foto Š Piero Gemelli
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elementi fondamentali per la danza: come un albero cresce nella continuità di un processo organico e di nutrimento. Esistono moltissime specie di alberi, e così ci sono molti linguaggi nella danza che possono intrecciarsi tra loro ed espandere la possibilità del movimento a creare senso e bellezza, nutrendo il paesaggio umano, sociale e culturale in cui si innesta. Trovo che l’ulivo sia un albero bellissimo perché continua e sviluppa nel tronco e nei rami la forma delle sue radici. Impiega un tempo lunghissimo a scolpirsi e le sue linee sono maestose ed imprevedibili, solide ed ipnotiche. Ci sono molte varietà di ulivi che si incontrano tra loro per generare nuove forme e nuovi frutti. Credo che il corpo di un danzatore segua lo stesso percorso e spero che la danza si apra a sempre più a innesti, incroci ed incontri per far crescere frutti ed estrapolare un essenza pura dalla natura metamorfica e densa, strutturata ed imprevedibile. Sogno che la danza, come l’olio, possa essere nutriente della quotidianità di quante più persone possibili e che si prosegua in una ricerca attenta sulla qualità ed il tempo necessario per svilupparne l’eccellenza.
L’albero è una creatura vivente che respira, crea ossigeno, disegna il paesaggio e origina circoli di alimentazione organica in comunicazione con gli elementi intorno a sé. La danza per me è la stessa cosa: il corpo umano e l’albero sono la stessa cosa. A questo proposito non mi definisco una ballerina quanto una danzatrice perché, nella mia ricerca, la creazione del movimento parte dall’interno del corpo, ivi compresa la mente, e si manifesta all’esterno in modi molteplici che non seguono soltanto l’estetica o la plasticità della forma ma il il principio di trasformazione in divenire. Quando danzo la razionalità cede il passo all’immagine poetica e alla percezione del movimento che scardinano la normale relazione con tempo, spazio, percezione di sé e dell’altro. La danza ha, per me, un forte valore rituale, sia individuale che collettivo, che riposiziona il corpo tra cielo e terra, tra radici e rami, per consentirgli di essere ponte: strumento di metamorfosi e comunicazione. Lo studio e la dedizione al lavoro fisico sono
Lara Guidetti, coreografa e danzatrice, compare nella foto di copertina realizzata da Alessandro Brasile. Studi alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, e collaborazioni con grandi maestri contemporanei. Nel 2006 ha fondato la compagnia Sanpapié, di cui è direttrice artistica e coreografa.
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olioofficina / progettocultura Olio Officina Almanacco 2018, anno VI, numero 6
L’annuario Olio Officina Almanacco è una espressione di libero pensiero a supporto del grande happening Olio Officina Festival – Condimenti per il palato & per la mente. Prima edizione e le successive a Milano: 27, 28, 29 gennaio 2012; seconda edizione: 24, 25, 26 gennaio 2013; terza edizione: 23, 24, 25 gennaio 2014; quarta edizione: 22, 23, 24 gennaio 2015; quinta edizione: 21, 22, 23 gennaio 2016; sesta edizione: 2, 3, 4 febbraio 2017; settima edizione: 1, 2, 3 febbraio 2018. In copertina Lara Guidetti. Foto di © Alessandro Brasile Seconda di copertina: illustrazione di Doriano Strologo. Terza di copertina: illustrazione di Nebula (Giulia Serafin) Quarta di copertina: testo autografo della poetessa Margherita Rimi tratto dall’antologia La gravidanza della terra, edizioni Olio Officina (2017)
Olio Officina Almanacco è un supplemento di Olio Officina Magazine, n. 227, del 31 gennaio 2018. Direttore: Luigi Caricato Redazione: via Giovanni Rasori 9 - 20145 Milano ISBN 978-88-94887-13-6 Progettazione grafica: Alberto Martelli, Aerostato Si ringrazia per la gentile collaborazione Maria Carla Squeo. Stampa: Editrice Salentina, Galatina (Lecce). Web > festival: olioofficina.com – magazine: olioofficina.it – globe: olioofficina.net edizioni: olioofficina.eu
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€ 12,00 ISBN 978-88-94887-13-6
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