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ICTUS CEREBRALE PATOLOGIA

TEMPO-DIPENDENTE

Più di 150mila persone ogni anno in Italia vengono colpite. La sfida è mantenere la rete dell’emergenza all’altezza per non perdere minuti preziosi

Come in un circuito di Formula 1, dove i meccanici ai box lavorano all’unisono per battere ogni record, agevolare l’azione di squadra e guadagnare una manciata di secondi. Così anche nella valutazione e nell’intervento su un paziente con sospetto ictus cerebrale gli operatori sull’ambulanza, prima, e i sanitari in pronto soccorso, poi, devono eseguire ogni esame e intervento avendo l’obiettivo di fare presto. Nel nostro Paese, ogni anno sono 150 mila le persone colpite dalla patologia, ma secondo i dati dell’Associazione A.L.I.Ce. Italia Odv, l’80% di tutti gli episodi potrebbe essere evitato, partendo dalla individuazione delle condizioni sulle quali si può intervenire, grazie a opportune modifiche del proprio stile di vita e curando le possibili cause più frequenti (ipertensione, diabete e fibrillazione atriale).

«L’ictus è una patologia tempo dipendente: i risultati positivi che possono essere ottenuti grazie alle terapie disponibili (trombolisi e trombectomia meccanica) sono strettamente legati, infatti, alla precocità con cui si interviene», spiega il professor Danilo Toni, direttore dell’unità di Trattamento Neurovascolare del Policlinico Umberto I di Roma. Oggi la letteratura scientifica registra buoni risultati anche per la somministrazione del farmaco per la trombolisi dopo nove ore dall’esordio. Questo tuttavia non deve rilassare o far credere che la corsa si arresti: «ci sono pazienti – pre- cisa Toni - che hanno la possibilità di essere curati anche a cinque o più ore dopo i sintomi. Ciò però non significa che una volta visto il paziente, si ha la sicurezza di avere il tempo necessario. Non ho infatti idea se la persona, giunta all’unità stroke del pronto soccorso, evolverà verso la necrosi definitiva del tessuto ischemico oppure più lo farà più lentamente». Di sicuro, i familiari o chi si trova in presenza dei sintomi tipici dell’ictus cerebrale (afasia, paresi facciale e braccio immobilizzato), non devono portare la persona all’ospedale con mezzi propri ma chiamare il numero delle emergenze e spiegare le condizioni all’operatore al telefono. Altra necessità, nella catena delle operazioni, è mantenere la valutazione da parte della diagnostica per immagini.

«Mi batto da tempo per questo passaggio necessario anche se rapido – dice il professore -. Il paziente con sospetto ictus è complesso e non può essere portato direttamente all’unità neurovascolare. Non ho infatti nessun elemento clinico per valutarlo. Sono solo le indagini strumentali, come la Tac o la Angiotac, da eseguire entro i primi 20 minuti da quando il paziente è entrato in pronto soccorso, a definire il quadro. E se la persona è candidata alla trombectomia meccanica, questa va eseguita entro i primi 60 minuti, così come dettano le linee guida. Non è facile, perché questo lavoro richiede un’organizzazione complessa. Tutti i protagonisti devono essere avvertiti e pronti a fare la propria parte. Non può esserci un’attivazione a cascata dopo che il paziente è giunto in pronto soccorso perché si perdono minuti preziosi. Un’ora di tempo in più sono anni di vita neuronale».

La corsa a fare presto nei casi di ictus cerebrali fa i conti con la carenza di risorse nei dipartimenti di emergenza. Molti medici di urgenza, negli anni, a causa del surplus dei carichi e straordinari, si sono licenziati preferendo la strada del “medico a gettone”, cioè dell’impiego a chiamata molto più remunerativo. Al meccanismo, il ministero della Salute ha annunciato più volte di voler mettere un freno rivedendo le normative. «Se ci fosse –commenta il professore - un riconoscimento adeguato della complessità, della onerosità e a volte anche del pericolo che il lavoro in emergenza comporta - basti ricordare quante

I risultati positivi che possono essere ottenuti grazie alle terapie disponibili (trombolisi e trombectomia meccanica) sono strettamente legati, infatti, alla precocità con cui si interviene.

© Min C. Chiu/shutterstock.com

aggressioni quotidianamente vengono poste in essere nei confronti dei medici - credo che probabilmente la problematica sarebbe attenuata e forse anche risolta. Spetta inoltre alle scuole di specializzazione formare più medici d’emergenza, anche se sono sempre meno le domande di partecipazione al concorso da parte dei neo laureati in medicina».

Dopo gli interventi in emergenza e un periodo di degenza il 50% dei pazienti segue la riabilitazione. Una volta tornata a casa la persona, spesso è assistita solo dalla famiglia. «È importante che gli ambulatori e le strutture ospedaliere dove il paziente è stato ricoverato nella fase acuta si organizzino per poter intercettare i pazienti e dar loro il supporto necessario eventualmente per identificare ulteriori segnali come per esempio la spasticità del braccio». (E. G.)

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