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LA MOLECOLA CHE MODIFICA EPIGENETICAMENTE LE CELLULE TUMORALI
La ricerca dell’Università di Urbino, per individuare possibili target terapeutici, procede anche grazie alla raccolta fondi della Fondazione Pirozzi di Fano
La conoscenza riguardo al ruolo delle modificazioni epigenetiche nella trasformazione neoplastica va avanti. Una parte consistente dell’impegno è italiano ed è articolato in studi finanziati dal pubblico ma anche dal privato, sia grande sia piccolo. È il caso della ricerca, condotta dal dipartimento di Scienze Biomolecolari e dal dipartimento di Scienze Pure e Applicate dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, sui meccanismi epigenetici per individuare i possibili target terapeutici e sostenuta dalla Fondazione Pirozzi di Fano, istituita con lo scopo di generare fondi per la ricerca e produrre contenuti ed informazioni utili per chi si ammala di tumore. Il progetto, in realtà, parte ancor prima dell’incontro con la Fondazione, con il lavoro sulle molecole sintetizzate svolto dall’equipe del professor Vieri Fusi, prorettore vicario dello stesso ateneo.
«Nel 2012, abbiamo iniziato a pubblicare i primi dati - ricorda Mirco Fanelli, ordinario presso il dipartimento Scienze Biomolecolari dell’Università di Urbino – e negli anni abbiamo scoperto che una molecola selezionata fra le più attive era capace modificare alcune informazioni epigenetiche delle cellule tumorali». Tramite il sostegno della Fondazione, il gruppo di ricercatori di Urbino ha avviato quindi il progetto, selezionando il modello cellulare di un sottotipo di leucemia mieloide acuta che rappresenta e una delle più aggressive malattie ematopoietiche negli adulti. I risultati del lavoro sono già stati pubblicati alla fine del 2022 sulla rivista Cancer Gene Therapy, del gruppo editoriale Nature.
«Scrinando in vitro più di 60 linee cellulari diverse – spiega il professor Fanelli - abbiamo osservato che il modello emopoietico era quello più sensibile, insieme al modello del carcinoma del colon. Da qui, abbiamo compreso alcuni meccanismi attraverso i quali la molecola che avevamo selezionato, dal nome maltonis, agisce portando alla diminuzione della replicazione e alla morte delle cellule: diminuendo il livello di un noto marker epigenetico, la metilazione della lisina nove dell’istone H3 (H3K9me3). Nel contempo, le cellule trattate con maltonis reprimono l’espressione di un oncogene molto noto e da decenni studiato quale potenziale target terapeutico, c-Myc. Inoltre, mediante l’utilizzo di una procedura da noi perfezionata e nota a livello internazionale con il nome “PAT-ChIP”, abbiamo compreso della redistribuzione a livello genomico di alcuni marker epigenetici degli istoni».
Altro aspetto interessante emerso durante il lavoro è che le cellule rispondono al trattamento inducendo una risposta tipo anti-virale, come se fossero infettate da un virus: «questo – continua Fanelli - è un aspetto che apre nuove ipotesi di lavoro come, ad esempio, provare ad indurre una immunomodulazione con la speranza, in futuro, di migliorare le terapie immunologiche. Le ipotesi di sviluppo vanno dunque dallo studio della immunomodulazione alla possibilità di studiare le molecole in vivo, che era poi il nostro obiettivo iniziale. Vorremmo infatti capire se queste molecole possono essere in primo luogo non tossiche ed efficaci almeno nei modelli di studio preclinici in vivo». Il lavoro proseguirà anche con il contributo dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano con cui il gruppo di scienziati dell’Università di Urbino collabora da anni. L’aspettativa è infatti quella di produrre i modelli in vivo e sottoporli ai protocolli terapeutici per capire le potenzialità della molecola. L’obiettivo sarebbe un grande traguardo, in linea con le aspirazioni della famiglia Pirozzi che hanno dato vita al fondo.
«La Fondazione ha fatto un grande lavoro - spiega Marco Pirozzi, in occasione di un evento pubblico in cui è stato presentato il lavoro. Spesso, quando si parla di raccolte fondi, tante volte non si sa con certezza dove finiscono i contributi, per questo presentiamo pubblicamente i risultati di questa ricerca che, nonostante sia nata nel piccolo, da una famiglia, in qualche modo può competere e diventare un modello con il quale supportare la ricerca in campo nazionale». (E. G.)
Il gruppo di ricercatori di Urbino ha avviato il progetto, selezionando il modello cellulare di un sottotipo di leucemia mieloide acuta che rappresenta e una delle più aggressive malattie ematopoietiche negli adulti.
© Party people studio/shutterstock.com
Cosa Fa La Fondazione Pirozzi
La Fondazione è nata nell’agosto 2017 grazie alla forza di Marina Magini e Marco, che hanno voluto ricordare la propria figlia, morta a 24 anni per un linfoma. L’attività è volta a sostenere la ricerca in campo ematologico, oncologico e genetico, promuovere l’informazione e la formazione per migliorare la capacità diagnostica e terapeutica. La Fondazione ha pubblicato anche un libro, intitolato “Il Cibo Ideale”, che contiene la tesi di laurea di Francesca sull’alimentazione in chemioterapia. Anche il ricavato della vendita del volume è andato a finanziare la ricerca dell’Università di Urbino (https://fondazionepirozzi.it/fondazione/).
L’occhio umano può mostrare i primi segnali dell’Alzheimer prima che i suoi sintomi diventino evidenti? La risposta è affermativa secondo i ricercatori del Cedars-Sinai, autori dell’analisi più ampia mai realizzata fino ad oggi sui cambiamenti nella retina - uno strato di tessuto posto nella parte posteriore dell’occhio in cui si originano le informazioni visive - e su come queste trasformazioni corrispondano ai cambiamenti cerebrali e cognitivi nei pazienti affetti dal morbo. Nella loro analisi, che è stata pubblicata sulla rivista peer-reviewed “Acta Neuropathologica”, gli esperti hanno compiuto un importante passo avanti nella comprensione dei complessi effetti della malattia di Alzheimer sulla retina, in particolare nelle prime fasi del deterioramento cognitivo. Gli autori della ricerca sono infatti convinti che questa comprensione sia la chiave per lo sviluppo di trattamenti più efficaci che potrebbero prevenire la progressione della malattia, capace di distruggere la memoria e le capacità cognitive dei pazienti.
Maya Koronyo-Hamaoui, professore di Neurochirurgia, Neurologia e Scienze Biomediche al Cedars-Sinai e autore senior dello studio, ha