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Piante modificate per non inquinare
Possono inquinare gli alberi? In un mondo che corre per arginare gli effetti della crisi climatica e dell’inquinamento generato dall’uomo spesso viene indicata come soluzione quella di “piantare più alberi” per assorbire più CO2. Nei mesi scorsi, dall’India all’Etiopia, dall’Italia all’Australia, abbiamo assistito a centinaia di iniziative in cui sono stati piantati milioni di nuovi alberi, definiti come veri alleati e protagonisti nella battaglia per scongiurare i danni dei gas serra. Ai più sfugge però che sì, in un certo senso, anche gli alberi possono inquinare: certe specie emettono infatti gas nell’atmosfera che possono peggiorare l’inquinamento atmosferico, contribuire a polveri sottili ed alterare il clima.
Per esempio, ormai comunissimi, i pioppi: questi alberi, come querce, eucalipti e altre specie, emettono tracce di isoprene, composto organico gassoso. Secondo alcuni studi le piante rilasciano un miliardo di tonnellate di isoprene e di altri gas organici ogni anno. Lo rilasciano con l’enzima isoprene sintasi che reagisce con i radicali idrossido e con gli ossidi d’azoto nell’aria contribuendo per esempio ad innalzare la concentrazione di ozono. Il rilascio di isoprene sembra che abbia la funzione di proteggere soprattutto le foglie quando sale la temperatura o sono più esposte alla luce e si crede che l’isoprene agisca come meccanismo per ridurre lo stress legato per esempio alla siccità.
Mentre sono in corso diversi studi su questo composto in Oregon alcuni ricercatori, negli ultimi anni, si sono chiesti se fosse possibile “eliminare” questa funzione in modo da rendere i pioppi più efficaci nella lotta alla crisi climatica e dunque meno “inquinanti”. Per farlo hanno modificato geneticamente alcune piante in modo tale da bloccare l’emissione di isoprene e non danneggiare la qualità dell’aria. I risultati
PIANTE MODIFICATE PER NON INQUINARE Le specie vegetali contribuiscono ad aumentare le polveri sottili e ad alterare il clima
dello studio sono stati pubblicati dai ricercatori dell’Università dell’Arizona sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences in cui si fa luce sulla possibilità di applicare questa tecnica soprattutto sui pioppi che oggi ricoprono circa 9,4 milioni di ettari a livello globale, più del doppio di 15 anni fa. I pioppi infatti sono alberi a crescita rapida e ovunque nel mondo servono per diversi tipi di industrie, anche rinnovabili, e sono fonte di biocarburanti e altri prodotti tra cui carta, pallet, compensato oppure legno per mobili.
Lo scopo dei ricercatori era trovare il modo per fare sì che milioni di tonnellate di isoprene gassoso non si disperdessero in atmosfera (riscaldandola) e non reagissero con altre sostanze inquinati trasformandosi in un danno anche per le nostre Pioppi, querce ed eucalipti producono isoprene, un composto organico gassoso e inquinante vie respiratorie. Così gli scienziati dell’Università dell’Arizona, dell’Helmholtz Research Center di Monaco, della Portland State University e dell’Oregon State University hanno deciso di modificare geneticamente una serie di pioppi in piantagioni dell’Oregon e dell’Arizona per osservare come si sarebbero comportati nei mesi successivi.
Hanno scoperto che gli alberi la cui produzione di isoprene è stata geneticamente soppressa non hanno subito effetti negativi in termini di fotosintesi oppure di “produzione di biomassa” e sono stati in grado di produrre cellulosa e di crescere, sostengono, proprio come gli alberi che producevano isoprene. La scoperta è stata una sorpresa, dato il ruolo protettivo dell’isoprene nei climi considerati stressanti, soprattutto nel caso della pian
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Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences tagione dell’Arizona. Per Russell Monson, professore di ecologia e biologia evolutiva all’Università dell’Arizona e autore principale dello studio, «la soppressione della produzione di isoprene nelle foglie ha innescato percorsi di segnalazione di stress alternativi che sembrano compensare la perdita di tolleranza allo stress dovuta all’isoprene». In sostanza «gli alberi hanno mostrato una risposta intelligente che ha permesso loro di aggirare la perdita di isoprene e arrivare allo stesso risultato, tollerando efficacemente le alte temperature e lo stress da siccità». In questo modo, dicono gli scienziati, le piante geneticamente modificate con la tecnica dell’interferenza dell’RNA risultano “non inquinanti”. «I nostri risultati suggeriscono che le emissioni di isoprene possono essere ridotte senza influire sulla produzione di biomassa nelle piantagioni forestali temperate - chiosa il co-autore dello studio Steven Strauss, professore di biotecnologia forestale presso la Oregon State University - questo è ciò che volevamo comprende. Ci chiedevamo se era possibile ridurre la produzione di isoprene e conservare allo stesso tempo la salute generale delle piante. Sembra che sia possibile, che la nostra modifica non comprometta in modo significativo lo stato di salute». Ora, mentre saranno realizzati altri studi sulle piante geneticamente modificate, gli scienziati sperano che il loro esperimento possa aprire le porte «ad una maggiore sostenibilità ambientale mentre sviluppiamo le piantagioni e anche, se si pensa ai biocarburanti, all’utilizzo come fonti alternative a combustibili fossili». (G. T.).
La pianta Ogm che depura la casa
Lo scorso anno, parlando di piante geneticamente modificate, ha fatto scalpore una versione transgenica di una pianta comunemente presente nelle nostre case, l’Epipremnum aureum o Pothos, che grazie a dei geni di coniglio è stata modificata in modo tale da assorbire la maggior parte degli inquinanti potenzialmente cancerogeni che respiriamo in casa. Lo studio è stato realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington che attraverso un gene che codifica per un enzima presente nel fegato dei conigli ha realizzato una pianta modificata e destinata ad ambienti chiusi, pensata per depurare da benzene e cloroformio, derivanti magari da fumo o candele o dall’evaporazione dell’acqua d’uso domestico. Secondo i ricercatori la versione non modificata ha assorbito meno del 10 per cento degli inquinanti in una settimana; quella transgenica invece oltre il 90 per cento.
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