Il Giornale dei Biologi - N. 1 - Gennaio 2021

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GdB

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Il Giornale dei Biologi

COVID

VARIANTI E RISPOSTA IMMUNITARIA ALLE VACCINAZIONI

Nasce il Consorzio Italiano per la genotipizzazione e la fenotipizzazione del virus Sars-CoV-2

www.onb.it

Gennaio 2021 Anno IV - N. 1



Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Il futuro ci appartiene di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 6

Un consorzio per studiare la genetica del Covid di Emilia Monti

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Tarme della farina per l’Efsa sono commestibili di Stefania Papa

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L’impatto del cambiamento climatico sulla salute di Sara Lorusso

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Glioblastoma: speranza in un farmaco di Marco Modugno

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Tumore al seno: scoperta proteina chiave per diagnosi precoce di Domenico Esposito

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Colesterolo dimezzato da due super farmaci di Domenico Esposito

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Infarto. La speranza nel computer di Elisabetta Gramolini

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I cento anni dell’insulina di Sara Lorusso

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Il navigatore degli spermatozoi di Carmen Paradiso

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Sale, gli italiani sono più attenti di Emilia Monti

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Nuovo biomarcatore per il Parkinson di Felicia Frisi

78 INTERVISTE 16

Il controllo qualità delle cellule di Chiara Di Martino

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La migrazione dalle quattro alle due ruote di Felicia Frisi

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Un flash di luce per identificare i tumori di Chiara Di Martino

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La speranza in un guscio di Giacomo Talignani

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Speranza per una leucemia pediatrica acuta di Chiara Di Martino

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Belli e in forma con la mela di Gianpaolo Palazzo

SALUTE

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Geni “spia” per capire quanto sia grave la malattia di Emilia Monti

L’alopecia curata con le staminali di Biancamaria Mancini

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Ginseng e proteina FoxO3A di Carla Cimmino

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Virus epatite e tumori del fegato di Domenico Esposito

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Le scuole di medicina nell’età ellenistica di Barbara Ciardullo


Sommario BENI CULTURALI 69

Procida eletta capitale italiana della cultura 2022 di Pietro Sapia

SPORT

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Olimpiadi e tanto altro: lo sport sfida il Covid di Antonino Palumbo

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Di un’altra categoria. Campioni tra i dilettanti di Antonino Palumbo

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Tennis, la regina e il re sul pianeta “anta” di Antonino Palumbo

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BREVI

AMBIENTE 48

Il lato oscuro delle rinnovabili di Enrico Mariutti

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Il green deal è una rivoluzione culturale di Fiorella Belpoggi e Nicola Armaroli

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600 km di strade in gomma riciclata di Gianpaolo Palazzo

58

Un muro verde per salvare l’Africa di Giacomo Talignani

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I segreti contenuti nelle acque di Gianpaolo Palazzo

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Nel 2020 accelera la crisi climatica di Giacomo Talignani

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I ghiacciai alpini potrebbero scomparire entro il 2100 di Michelangelo Ottaviano

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Fritillaria Delavayi, la pianta che si nasconde di Michelangelo Ottaviano

INNOVAZIONE 66

“Beatrix” per vedere i mosaici genetici di Pasquale Santilio

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Un biosensore per la diagnosi del diabete mellito di Pasquale Santilio

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Una nuova tecnologia per lo studio della Progeria di Pasquale Santilio

LAVORO 76

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE 78

L’associazione tra cicli mestruali irregolari e lunghi e il rischio di DT2 di Sara Lorusso

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La tempistica del trattamento e il rischio di mortalità nei tumori di Sara Lorusso

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L’ormone dello stress: il cortisolo di Giada Fedri

ECM 90

Il sistema integrato della Sicurezza Alimentare di Vincenza Castiglia

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Editoriale

Il futuro ci appartiene di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

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uando ho accettato di cimen- tutte queste opportunità in un progettarmi nelle vicende elettora- to grafico: “l’Albero delle opportunità li dell’Ordine Nazionale dei dei Biologi”, ricavandone un’immagiBiologi per poterne diven- ne plastica e complessiva. Ecco allora tare un amministratore, non che sono emerse una trentina di diveravevo l’esatta percezione di quanto se attività principali tra le quali poter vasta e complessa fosse la platea de- scegliere e una ottantina di sub attività gli amministrati. Neanche nella veste che gemmano dai filoni principali. di parlamentare, allorquando peroraInnanzi a tanta varietà di scelta divo la causa relativa al riventa ridicola quella vecconoscimento della prochia concezione che tutfessione sanitaria per i tora pervade la categoria Davanti ai Biologi Biologi, mi fu nota come che illustra la profespletamente la svariata sione di Biologo come si aprono oltre trenta gamma delle opportunità povera di prospettive di ambiti di impiego e degli impieghi riservalavoro. Ovviamente non ti ai membri della nostra basta elencare tutte le professionale e circa categoria. Nel corso della diverse possibilità di inottanta sub attività parte del mandato presiserimento professionale denziale, ho potuto tocche ci si prospettano dache gemmano care con mano, non senza vanti. Occorre certo costupirmi, quali e quante noscerle, ma poi bisogna dai filoni principali fossero le diverse tipoanche saper imboccare logie di esercizio profesquelle strade semi-desersionale svolte sulla base delle specifi- te, ma ricche di opportunità lavorative che competenze che la legge istitutiva che, sole, possono consentire il deci396/67 riconosce come consustanzia- sivo “passo in avanti”. Ebbene, uno li alle attività del Biologo. Ben si in- dei principali obiettivi che il Consiglio tende: al Biologo abilitato, che abbia, dell’Ordine si è prefissato, fin dal suo cioè, superato l’esame di Stato e si sia insediamento, è stato quello di coniupoi iscritto all’Albo dell’ONB. gare l’informazione e la formazione, Ho via via scoperto che i Biologi si ovvero indicare ai Biologi le nuove sono inseriti in moltissimi ambiti lavo- strade che le scienze biologiche conrativi, ma che questa “circostanza” non sentono di “tracciare”, fornendo, nel è stata affatto recepita dalla maggior contempo, gli strumenti sia cognitivi parte dei componenti della nostra cate- che pratici per poterle percorrere fino goria. Abbiamo condensato e indicato in fondo. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Editoriale

Formare, dunque, non solo teorica- fase. Stiamo parlando di una lacuna da mente, ma anche con le adeguate op- colmare e della quale deve farsi carico portunità, i più capaci e inclini ad ac- l’ONB come tappa del percorso riforquisire le basi, i principali rudimenti matore della professione che è diventaper l’esercizio di quella specifica pro- to elemento caratteristico della nuova fessione. Ecco l’itinerario da seguire. fase del nostro Ordine professionale. Altro campo di intervento da tenere Ma ecco che, al contempo, bisogna pur saper guardare a nuovi orizzonti, a d’occhio per il futuro, è il complesso quelle prospettive originali che la Bio- dei saperi e delle esperienze pratiche logia offre per poter evitare di finire nel campo dell’embriologia, della se“parcheggiati” nelle lunghe code che minologia e della procreazione mediintasano le vecchie strade di inseri- co-assistita. Ancora. Altro campo di intervento è quello costituito della namento professionale. A questa filosofia appartengono le no-tossicologia e dall’epigenetica. Ebconvenzioni che l’ONB ha ultimamen- bene, lo anticipiamo: anche in questi te sottoscritto con enti scientifici che settori saranno promossi corsi profestrattano branche innovative e che con- sionalizzanti per le équipe chiamate ad sentono di andare oltre le sole (e soli- intervenire nelle varie fasi del processo di rilevazione dei rischi e te) cognizioni teoriche dei danni indotti dall’inagevolando stage pratici quinamento. Un corso di sul campo. Altre intese L’Onb ha sottoscritto microscopia elettronica e (ancora) sono in procinto stage pratici per apprendi essere definite nei camnumerose convenzioni dere le metodiche di ripi della trasformazione con enti scientifici levazioni sul campo degli agro-alimentare, della nainquinanti inorganici e no-tossicologia, della sicuaffinché ai Biologi organici, è già stato orgarezza degli alimenti, delle nizzato in proposito. coltivazioni biologiche e vengano offerti, oltre Insomma come “Diobio dinamiche. Campi file nozioni teoriche, gene il Cinico” cercava nora trascurati dai Biologi l’uomo e la sua saggeze quindi risultati appananche degli stage pratici za con la lanterna, così naggio di altre categorie, l’Ordine dovrà cercare di ancorché queste siano dointerpretare e scandagliare gli ambiti tate di minori specifiche competenze. Un’altra finestra sul futuro è quella nuovi e futuribili entro i quali far crerappresentata dal mondo della geno- scere la nostra categoria nel secolo che mica e della bio-informatica che cam- ci si para innanzi. Che i Biologi siano mina insieme a quest’ultima. La tra- essenziali per l’umanità è ormai scontascrizione del genoma umano, l’analisi to: lo certificano le malattie epidemiche del medesimo e le indicazioni che ne come il Covid-19 e lo stato asfittico in scaturiscono, infatti, sono sempre più cui versano l’ambiente e il clima della avveniristiche e sorprendenti per il ge- Terra. Minacce bibliche che non lascianere umano. Un mondo nuovo, insom- no più tempo alle furbizie lucrative dei ma, si disvela agli occhi dei Biologi e produttori e degli sfruttatori dissennati dei Bio-informatici con un esame pre- delle materie prime, e men che meno ai dittivo delle patologie congenite, della tatticismi dei decisori politici inermi e sensibilità e della efficacia dei farma- basiti innanzi alle ripercussioni che una ci, della medicina personalizzata. Ora, pandemia di tal fatta, può provocare proprio il paradosso dei “Bio-informa- sul tessuto socio-economico di un Patici” che in Italia non hanno un corso ese. Guardare quindi al futuro ed alle di laurea specifico, tra decine di corsi frontiere della biologia diventa quasi offerti dalle università italiane, è quel- un obbligo: la strada da intraprendere. lo che più salta agli occhi in questa Per tutti. Senza se e senza ma. 4

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Primo piano

UN CONSORZIO PER STUDIARE LA GENETICA DEL COVID Nasce in Italia su impulso del Ministero della Salute e la supervisione dell’Istituto Superiore di Sanità di Emilia Monti

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asce il Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione. L’iniziativa, promossa nell’ambito del tavolo tecnico per la sorveglianza viro-immunologica di infezioni emergenti, istituito al Ministero della Salute lo scorso 19 gennaio su input del viceministro della Salute Pierpaolo Sileri e con il coordinamento e la supervisione dell’Istituto superiore di Sanità (Iss), vede il patrocinio della Società italiana di Virologia che si farà parte attiva per riunire le competenze virologiche cliniche, di base, veterinarie e bioinformatiche presenti in Italia. «L’Italia non è indietro, ma ha bisogno di fare rete, di fare sistema. Ecco perché nasce questo Consorzio», ha sottolineato il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri. «Fare sistema - ha aggiunto - significa anche usare meglio le risorse: risparmiare energia e denari». Sarà l’Istituto superiore di Sanità a gestire il coor-

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dinamento di ogni iniziativa riguardo allo studio e alla gestione del Covid, ha poi aggiunto il presidente di Aifa, il virologo Giorgio Palù. «Innanzitutto, l’Iss studierà il virus - ha spiegato - deve essere perno non solo dell’informazione epidemiologica e dei dati ma anche fare da riferimento per i controlli di qualità, le banche epidemiologiche. La sorveglianza sul virus deve essere coordinata. Come è già accaduto con l’Hiv. Bisogna porsi progetti: quali sono gli obiettivi, come si valutano, e questo non può farlo che l’Iss», ha detto. Palù ha ricordato che questa pandemia è una grande occasione che ci si presenta per non trovarsi impreparati per il futuro: «Questa è solo una di quelle che vedremo - ha spiegato - perché dal mondo animale arriveranno altri virus». L’obiettivo del nuovo Consorzio è «avere una rete per l’allerta rapida contro le varianti del virus» ha sottolineato Paola Stefanelli dell’Istituto superiore di sanità (Iss). «Tutte le sequenze che faremo del virus verranno de-


Primo piano

© peenat/shutterstock.com

positate su una piattaforma internazionale. Il Consorzio - ha spiegato l’esperta - dovrebbe comprendere diversi obiettivi con reti dedicate e gruppi di lavoro per le varie attività. Tra quelle individuate c’è il monitoraggio genomico dei virus circolanti e il monitoraggio della durata degli anticorpi dopo la vaccinazione. Entrambe queste attività sono già presenti all’Iss ma si metteranno più a sistema le risorse e le capacità». Quindi «l’idea alla base di ogni attività di sorveglianza - ha aggiunto - è quella di rapportarsi con ogni regione per mettere a sistema e avere le informazioni in tempo reale». Ciò che ne deriverà è una «allerta precoce della segnalazione delle varianti e le reti di monitoraggio saranno fondamentali per arrivare in maniera capillare a livello di territorio». La Conferenza Stato-Regioni ha intanto approvato l’intesa sul Piano strategico - operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021 2023). Il piano è stato predisposto dal Mini-

“L’Italia non è indietro, ma ha bisogno di fare rete, di fare sistema. Ecco perché nasce questo Consorzio”, ha detto il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri.

stero della salute sulla base delle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della sanità (Oms); in ambito nazionale, trae il suo fondamento dal piano nazionale della Prevenzione 2020-2025 e dal piano nazionale della Prevenzione Vaccinale, del gennaio 2017. Tra le finalità, quella di facilitare oltre al processo decisionale, l’uso razionale delle risorse, l’integrazione, il coordinamento delle Regioni e degli attori coinvolti e la gestione della comunicazione. Questo piano, terminata la pandemia da Covid-19, guiderà le azioni del Governo, degli operatori sanitari, del mondo socioeconomico e della popolazione stessa per consentire un ritorno alle normali attività, tenendo conto della possibilità di nuove ondate dell’epidemia. «Facciamo tesoro anche delle esperienze acquisite in questo durissimo anno di crisi sanitaria globale e mettiamo a sistema la capacità di reazione dell’Italia e del nostro Servizio Sanitario Nazionale» ha affermato il ministro della Salute, Roberto Speranza. Dall’8 febbraio al 22 arriveranno per l’Italia 2,4 milioni di dosi di vaccini Pfizer (1.753.830) e Moderna (651.600). Il commissario per l’Emergenza Covid, Domenico Arcuri ha trasmesso alle Regioni il nuovo calendario previsionale delle consegne evidenziando in ogni caso che sull’effettiva distribuzione «non si è in alcun modo responsabili e ci si impegna, sin da ora, a comunicare eventuali, non auspicabili, modifiche che dovessero pervenire dalle stesse aziende fornitrici». Le distribuzioni programmate, così come condiviso con le Regioni, sono state definite applicando il criterio di proporzionalità rispetto alla popolazione, che resterà alla base delle successive distribuzioni. Secondo la suddivisione in base alla popolazione la Regione Lombardia che ha il 16,8% degli abitanti riceverà circa 400 mila dosi. A seguire il Lazio con circa 232 mila dosi, la Campania (230 mila), il Veneto (197 mila), la Sicilia (196 mila), l’Emilia Romagna con 180 mila, il Piemonte (174 mila), la Puglia con 160 mila, la Toscana con 149 mila, la Calabria con 76 mila, la Sardegna con 70 mila, la Liguria e le Marche circa 61 mila a testa, l’Abruzzo (52 mila), il Friuli Venezia Giulia (48 mila), la Basilicata (22 mila), le Pa di Trento e Bolzano circa 21 mila ciascuna, il Molise (12 mila) e la Valle d’Aosta con circa 5mila. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Primo Piano

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Primo Piano

TARME DELLA FARINA PER L’EFSA SONO COMMESTIBILI Le larve del Tenebrio molitor sono il primo insetto a ricevere l’ok dall’Autorità Ue. Biologi pronti a raccogliere la sfida dei “novel food” di Stefania Papa*

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osa mangeremo un domani? Cosa troveranno, nel piatto, i nostri nipoti? Come cambierà la dieta del futuro? È a queste domande che, tutti quanti noi, operatori sanitari e non, competenti nel campo dell’igiene e della sicurezza alimentare, siamo chiamati a dare una risposta. Possibilmente oggi, anche alla luce dei cambiamenti, più o meno imminenti, che sembrano profilarsi nel campo dei “novel food”, vale a dire di quegli alimenti che, secondo le norme Ue, non appartengono alla tradizione culinaria del Vecchio Continente. È infatti notizia di questi giorni che le larve del Tenebrio molitor (tenebrione mugnaio), più comunemente conosciute come “tarme della farina”, allevate ed essiccate, possono essere mangiate senza rischi come snack o ingrediente di preparati per biscotti, barrette proteiche e pasta. Lo scrive l’Autorità Europea per la Sicurezza Ali-

Consigliere Ordine Nazionale dei Biologi, Delegata Sicurezza Alimentare, Delegata ONB Regioni Toscana e Umbria, Delegata Accredia. *

© sweet marshmallow/shutterstock.com

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Primo Piano

mentare (Efsa) nel primo parere espresso su un insetto come alimento a partire dal 2018, quando la procedura di autorizzazione su questo tipo di “prodotti”, è stata centralizzata a livello europeo. Dovranno ora trascorrere sette mesi (così come prescrive il regolamento) per giungere ad una proposta vera e propria di autorizzazione da parte della Commissione europea mentre, per la commercializzazione e dunque l’immissione sul mercato delle larve, bisognerà attendere ancora la votazione dei Paesi Membri. L’Efsa si è espressa favorevolmente in merito alla relazione presentata da un’azienda francese che, nel report presentato all’Autorità Europea, aveva indicato le larve essiccate come ingrediente da aggiungere integralmente oppure sotto forma di polvere ad altre pietanze. Ebbene, prima di pronunciarsi l’Ente europeo ha analizzato a fondo il profilo tossicologico di questo particolare tipo di insetto, soppesandone anche il potenziale rischio di allergie, nonché il processo di raccolta, allevamento e quindi trasformazione. E lo ha fatto anche e soprattutto grazie al contributo fornito dal proprio team di esperti sulla nutrizione umana e, in particolare, al gruppo di lavoro interdisciplinare sui “novel food” presieduto dalla dott.ssa Helle Knutsen, biologa molecolare e tossicologa. L’Efsa ha affermato che l’assunzione delle tarme della farina nelle dosi massime considerate nello studio (qualche centinaio di milligrammo per ogni chilo di peso corporeo), non solleva preoccupazioni per quanto concerne la sicurezza alimentare. L’esame della composizione delle larve ha rivelato, infatti, come esse siano costituite per circa il 60 per cento da proteine e per il 20-30 per cento da grassi e che sebbene il punteggio della digeribilità delle proteine sia variabile, in realtà questo risulta essere del tutto simile a quello di altri comuni alimenti. Insomma: qualora le mangiassimo, eventuali controindicazioni non sarebbero molto diverse da quelle “provocate” da alimenti che fanno già parte della nostra tradizione culinaria mentre reazioni indesiderate potrebbero verificarsi solo per chi è allergico ai crostacei e agli acari della polvere. Fin qui la scienza. Perché poi bisogna fare anche i conti con l’apprezzamento da parte dei consumatori europei che, allo stato, non appare del tutto scontato. Secondo una nota di Coldiretti la maggioranza degli italiani (parliamo del 54%) considera gli insetti estranei alla cultura alimentare nazionale e non porterebbe mai a tavola la larva gialla della farina. 10 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

Lungi da noi schierarci sull’argomento che attiene, pur sempre, alla sfera dei gusti e delle tradizioni gastronomiche, ma da Biologi non possiamo rimanere insensibili rispetto ad un argomento che appare sì legato alla Nutrizione, ma che chiama direttamente in causa anche la Sicurezza e l’igiene Alimentare. Parliamoci chiaro: l’aumento della popolazione mondiale procede di pari passo con la crescita della domanda di cibo mentre correnti migratorie e globalizzazione stanno, via via, agevolando la trasformazione di usi ed abitudini alimentari diffondendo, anche alle nostre latitudini, ricette e pietanze come il cuscus, il kebab o il sashimi, un tempo tipici del Maghreb, della cucina turca o del Giappone. Nulla di nuovo sotto il cielo del mondo. Non è accaduto lo stesso, in passato, con la nostra pizza e con la pasta, oggi simbolo di italianità su tutta la Terra? Ebbene, cosa ci induce a dubitare del fatto che tra qualche decennio anche in casa nostra si possa fare colazione con le... larve del Tenebrio molitor? D’accordo, lo confessiamo: siamo i primi a storcere il muso di fronte all’evenienza di poter “bagnare” biscotti fatti con farine d’insetti nel caffè-latte del mattino! Tuttavia la sfida che si profila


Primo Piano

all’orizzonte non è di quelle che possono essere trascurate ed anzi, chiama direttamente in causa tutta quanta la nostra categoria professionale. Quando, infatti, si parla di “novel food”, come in questo caso, occorre considerare che allo stato, l’Efsa sta valutando, complessivamente, 10 domande sugli insetti come alimenti. Si va dalle cavallette ai grilli essiccati (interi o macinati) fino ad altre tarme simili a quelle che hanno già incassato il “semaforo verde” da parte dell’ente europeo. E qui entrano in gioco i Biologi con le proprie rispettive “speciali competenze”. Gli insetti non sono tutti uguali e presentano un organismo molto complesso. Conoscerli, pertanto, è non solo importante, ma addirittura fondamentale per non dire essenziale ai fini dell’alimentazione umana. L’insetto, infatti, a differenza di altri prodotti alimentari, viene consumato nella sua interezza, compreso l’esoscheletro di cui è esternamente dotato. E nell’esoscheletro, si sa, è presente la chitina, proteina che verosimilmente può essere causa di allergie alimentari. Poi subentrano anche altri fattori legati alla raccolta ed all’allevamento: che tipo di “mangime” occorre dare a questi piccoli esseri viventi per farli “crescere”

Sopra, larva di Tenebrio molitor. © Sarah2/shutterstock.com © wasanajai/shutterstock.com

Con il termine “novel food” si intendono quegli alimenti che, secondo le norme Ue, non appartengono alla tradizione culinaria del Vecchio Continente. L’Efsa ha dato parere favorevole sull’utilizzo del Tenebrone mugnaio in campo alimentare, come snack o ingrediente. © ricochet64/shutterstock.com

bene ed in salute? Una larva si nutre come una cavalletta? Ancora: soffrono di patologie? Vanno curati? Se sì, in che modo, onde impedire che magari finiscano nel piatto “ammalati”? Infine, una volta prelevati e trasformati in cibo, chi ne curerà il confezionamento garantendone anche la perfetta igiene e conservazione prima che arrivino sulle nostre tavole? Qualora non lo si fosse ancora capito, da tutto questo può nascere una filiera agro-alimentare innovativa, con operatori del settore impegnati a garantire il consumatore nella somministrazione dei cosiddetti “novel food”. Insomma tante domande, come si vede, ma anche una grande responsabilità a fronte di un lavoro che appare a dir poco “oneroso” e che tocca vari campi, dalla nutrizione umana alla tossicologia, dalla chimica alla microbiologia, coinvolgendo più figure professionali, oltre a quella del Biologo esperto in campo nutrizionale ed alimentare. Figura, quest’ultima - non lo sottolineeremo mai abbastanza - chiamata a svolgere un ruolo strategico, in particolare, nella “progettazione” di nuovi alimenti e materiali a contatto con quegli stessi alimenti, oltre al percorso d’indagine tecnico-analitica a supporto della valutazione del rischio in campo ambientale ed agroalimentare, lungo tutto l’arco della filiera. Ho avuto già modo di dirlo, in passato. E trovo l’occasione per ribadirlo anche in questa sede. Se è la sfida dei “novel food” quella che dobbiamo accettare, allora occorre farsi trovare pronti e dire alle imprese agroalimentari (ed agli operatori stessi del settore) che per porsi come garanti della Sicurezza Alimentare e Nutrizionale, il comparto è chiamato a fare una cosa sola: dotarsi di figure professionali dotate di comprovata e “speciale competenza” costituendo gruppi di lavoro multidisciplinari in cui esperiti Avvocati, Agronomi, Chimici, Tecnici e Biologi della Qualità e della Sicurezza alimentare (oltre che della Sicurezza Ambientale), siano parte attiva ed integrante di una vera e propria “task force” aziendale multidisciplinare. Una rete dotata di figure altamente qualificate, con competenze scientifiche diversificate, capaci di operare in stretta sinergia tra loro, garantendo la produzione e la distribuzione degli alimenti in tutta sicurezza, con la consapevolezza che le “nuove frontiere” della Biologia possono rivelarsi funzionali alla crescita sostenibile del comparto agroalimentare. “Novel food” compresi, s’intende. Il tutto, non ci stancheremo mai di sostenerlo, ad esclusivo vantaggio del produttore, del consumatore ma anche dell’ambiente. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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L’IMPATTO DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO SULLA SALUTE Il rapporto 2020 di The Lancet Countdown delinea uno scenario drammatico: 296mila morti nel solo 2018 a causa delle alte temperature e aumento del rischio CVD nel 70% dei Paesi di Sara Lorusso 12 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021


Primo Piano

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© PorporLing/shutterstock.com

enza attivare al più presto azioni di mitigazione del cambiamento climatico, la popolazione del Pianeta continuerà a pagare pesanti conseguenze sulla salute pubblica. Il verdetto, grave e preoccupante, è il risultato di un complesso studio scientifico raccolto nel Report 2020 di The Lancet Countdown, un lavoro multidisciplinare che una rete di scienziati ha sviluppato sul rapporto tra salute e cambiamento climatico. Nessun Continente, Paese o comunità, esplicita il rapporto, è immune dagli impatti del cambiamento climatico sulla salute. Le temperature estreme, che colpiscono soprattutto le popolazioni più vulnerabili, sono state per esempio responsabili di 296mila morti nel solo 2018. La pubblicazione che, come recita il sottotitolo, vuole essere uno strumento scientifico per rispondere alle crisi convergenti, è stata realizzata grazie alla collaborazione di 120 studiosi ed esperti di tutto il mondo, economisti, epidemiologi, politologi, data scientist, geografi, sociologi, ingegneri. Che il cambiamento climatico, e in particolare l’innalzamento della temperatura terrestre, abbia già prodotto irreversibili modifiche all’ecosistema in molte aeree del Pianeta è ormai un dato acquisito. Ma finora la stretta relazione con gli effetti sulla salute pubblica non era stata probabilmente definita con uno sguardo tanto multidisciplinare e di portata globale. L’indagine ha preso in considerazione 43 indicatori, suddivisi in cinque sezioni: impatti, esposizione e vulnerabilità dei cambiamenti climatici; adattamento, pianificazione e resilienza per la salute; azioni di mitigazione e benefici per la salute; economia; impegno pubblico e politico. Il quadro condiviso attraverso queste macro aree non è confortante. Cinque anni dopo gli accordi di Parigi, che avevano impegnato i Paesi aderenti a limitare «ben al di sotto dei 2 °C» la soglia del riscaldamento globale, le emissioni di anidride carbonica sono ancora in continuo aumento, così come la temperatura. Seppur di portata globale, gli effetti sono spesso diseguali tra le diverse aree del Pianeta e mostrano un impatto sproporzionato sulle popolazioni che hanno contribuito meno al problema. Dal 1990 le popolazioni nelle regioni dell’Europa e del Mediterraneo orientale sono state le più vulnerabili ai picchi di calore, anche Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Primo Piano

se nessuna regione dei Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si è potuta dire immune. Negli ultimi 20 anni la mortalità correlata alle ondate di caldo è aumentata dal 53,7% nelle persone con più di 65 anni. A livello economico, il valore della mortalità correlata ai picchi di calore è aumentato dallo 0,23% del prodotto mondiale lordo nel 2000 allo 0,37% nel 2018. Per l’Europa il dato si quantifica in costi pari al reddito medio di 11 milioni di cittadini e all’1,2% del reddito nazionale lordo dei singoli Paesi. Uno dei fattori principali di mitigazione dell’esposizione al calore eccessivo è la presenza di verde pubblico: nel 2019, tuttavia, solo il 9% dei centri urbani nel mondo ha offerto un livello elevato di verde e si stima che più di 156 milioni di persone vivano in centri urbani con livelli relativamente bassi di verde disponibile. Sul versante energetico, i passi mossi nella direzione delle fonti rinnovabili non sembrano ancora sufficienti a garantire un cambiamento della tendenza. Il ricorso al carbone come fonte energetica principale è rimasto quasi invariato negli ultimi trent’anni e la riduzione che era stata registrata a partire dal 2013, ha subito un’inversione dal 2016 al 2018. Secondo il rapporto, l’inquinamento atmosferico generato dall’impiego del carbone nella produzione di energia elettrica è collegato a più di 1 milione di decessi, di cui 390.000 sono stati il risultato dell’inquinamento da particolato. Nel 2018 il

Quanto inquina il settore sanitario

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l settore sanitario è stato responsabile di circa il 4-6% delle emissioni globali di gas effetto serra nel 2017, con variazioni sostanziali nelle emissioni pro capite e nell’accesso e nella qualità dell’assistenza sanitaria tra i vari Paesi. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno emesso più di 1.700 chilogrammi di anidride carbonica a persona, mentre la Cina poco meno di 500. Ma i ricercatori hanno verificato che, raggiunta la quota di 400 chilogrammi a persona, le emissioni ulteriori in realtà non sono correlate ai miglioramenti del sistema sanitario. Questi risultati suggeriscono, dunque, che anche il settore sanitario potrebbe mantenere un’elevata qualità dell’assistenza riducendo la produzione di inquinamento.

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numero complessivo di decessi attribuibili al PM 2.5 è stato stimato in 3,01 milioni, in leggero aumento rispetto ai 2,95 milioni del 2015. Anche l’utilizzo globale di carburante per il trasporto su strada è aumentato dello 0,5% nel periodo compreso tra il 2016 e il 2017, con un tasso di crescita in lieve rallentamento rispetto agli anni precedenti. L’aumento delle temperature e la maggiore frequenza di eventi climatici estremi, come siccità, tempeste, inondazioni, minacciano anche la sicurezza alimentare: tra il 1981 e il 2019 il potenziale di rendimento globale per le principali colture è diminuito di valori compresi tra l’1,8 e il 5,6%. Tra il 2000 e il 2017, le emissioni collegate agli allevamenti sono aumentate del 16%. Contemporaneamente sono aumentate le diete squilibrate, soprattutto nei Paesi ad alto reddito: nel 2017 sono stati registrati circa 990.000 decessi a livello globale collegati a un consumo eccessivo di carne rossa. Anche la distribuzione del pesce nelle diete è diminuita in conseguenza del cambiamento climatico. Confrontando i periodi di tempo 2003-2007 e 2015-19, le temperature medie della superficie del mare sono aumentate in 46 delle 64 aree del Pianeta considerate dal rapporto, con un aumento massimo di 0,87 °C osservato nelle acque territoriali dell’Ecuador. Il consumo di pesce di allevamento è cresciuto costantemente negli ultimi quattro decenni, con un corrispondente calo del consumo di pescato. Le conseguenze sulla salute sono immediate, soprattutto perché il consumo di pesce, fonte di Omega-3, è una buona abitudine nella mitigazione del rischio di malattia cardiovascolare (CVD). È stato calcolato un aumento dell’esposizione alla CVD in circa il 70% dei Paesi osservati. In tutto il mondo si è verificato un incremento delle condizioni di idoneità climatica alla trasmissione di una serie di malattie infettive, come la febbre dengue, la malaria e quelle causate da batteri vibrioni. Il problema è emerso anche in aree montuose, dove l’aumento delle temperature sta erodendo, per esempio, l’effetto barriera che l’altitudine oppone alla trasmissione della malaria. Nel 2019 sono stati registrati 236 eventi estremi legati al clima, con perdite economiche assolute quantificate in 132 miliardi di dollari. Sebbene la maggior parte di queste perdite si sia verificata nelle economie dei Paesi ad alto


Primo Piano

reddito, quando normalizzato dal Pil, il valore delle perdite economiche totali nei Paesi a basso reddito era quasi cinque volte maggiore. Lo studio pubblicato da The Lancet ha verificato una serie molteplice di fonti, indagando non solo dati prettamente sanitari o ambientali, ma utilizzando lo stesso metodo di ricerca anche ai settori sociali, della politica e del mondo dei media. Sono così emerse due tendenze globali che concorrono a costruire il contesto. Da un lato appare evidente la maggiore consapevolezza del problema: la copertura in termini di notizie e approfondimenti da parte del mondo dell’informazione è aumentata di oltre il 50% tra il 2007 e il 2019 e la produzione delle riviste scientifiche è aumentata di oltre il 500%. I cittadini sono, inoltre, sensibilmente più coinvolti: nel biennio 2018-2019 è aumentata anche la percentuale di utenti di Wikipedia alla ricerca di articoli che collegassero salute e cambiamento climatico, con un picco di attività connesso all’impegno individuale registrato nel settembre 2019, in coincidenza con il discorso dell’attivista Greta Thunberg al Summit delle Nazioni Unite sull’azione per il clima. Restano, tuttavia, grandi differenze nella qualità e nella quantità dell’influenza politica esercitata: spesso l’impegno per la salute e contro il cambiamento climatico è guidato da Paesi che ne sono più colpiti pur avendovi meno contribuito. La seconda tendenza, invece, è quella relativa all’approccio politico: il cambiamento climatico continua a essere inquadrato in modalità che prestano poca attenzione alle sue dimensioni sanitarie e di ricaduta sulla salute pubblica. I dati raccolti nel rapporto spiegano che meno di un decimo degli articoli scientifici discute del cambiamento climatico anche in termini di costo sanitario. Sul fronte del dibattito globale, inoltre, i leader di governo raramente collegano la salute e il cambiamento climatico nei loro discorsi. Osservando l’agire politico, l’improvviso arrivo della pandemia di coronavirus potrà rivelarsi un nuovo punto di svolta: la salute sta diventando sempre più centrale nell’impegno pubblico. Le conseguenze gravi sulla salute pubblica e gli effetti finanziari dell’epidemia di Covid-19 saranno visibili ancora a lungo nei prossimi anni e gli sforzi per proteggere e ricostruire le comunità locali e le economie nazionali, ricordano gli autori del report, dovranno essere solidi e sostenuti.

Il prossimo appuntamento è la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista nel 2021, che rappresenta un’opportunità per correggere la rotta e rivitalizzare i cosiddetti contributi nazionali determinati, gli obiettivi climatici che i singoli Paesi aderenti si sono volontariamente e in maniera autonoma assegnati. Lo spazio di azione disponibile per raggiungere l’obiettivo è molto limitato. L’avvertimento degli scienziati non ammette tentennamenti. Se anche la risposta all’epidemia di Covid-19 non sarà allineata agli impegni di contrasto al cambiamento climatico, avvertono, il mondo non sarà più in grado di rispettare l’accordo di Parigi e i sistemi sanitari ne risulteranno compromessi in ogni parte del Pianeta.

L’impatto del coronavirus sul clima Le temperature estreme, che colpiscono soprattutto le popolazioni più vulnerabili, sono state per esempio responsabili di 296mila morti nel solo 2018. Cinque anni dopo gli accordi di Parigi, le emissioni di anidride carbonica sono in aumento, come la temperatura. © neenawat khenyothaa /shutterstock.com

I

l rapporto di The Lancet Countdown affronta anche gli effetti che la pandemia di coronavirus ha avuto sul clima. Si stima che il 2020 sia stato contrassegnato da una riduzione dell’8% delle emissioni di gas effetto serra: un dato mai registrato fino all’emergenza in corso. Gli studiosi fanno anche notare che questa notevole riduzione non rappresenta, tuttavia, un passo verso la decarbonizzazione dell’economia, soluzione che sarebbe invece necessaria per rispondere ai cambiamenti climatici. Si tratta, invece, di un «semplice congelamento dell’attività economica». Uno scenario che richiama quello del 2008, quando fu la crisi finanziaria globale a determinare una riduzione dell’1,4% delle emissioni di gas effetto serra: due anni dopo è stato registrato un rimbalzo importante, con l’aumento delle emissioni del 5,9%. I prossimi 5 anni, ricorda il rapporto, saranno fondamentali per fornire sia una risposta al cambiamento climatico sia una risposta strategica agli effetti dell’epidemia. Saranno i cinque anni chiave anche per rispettare l’impegno formale dell’accordo di Parigi. Per raggiungere l’obiettivo della limitazione dell’aumento della temperatura «ben al di sotto dei 2 °C», le 56 gigatonnellate di CO2 attualmente emesse ogni anno dovranno scendere a 25 entro il 2030. Un simile obiettivo richiede una riduzione del 7,6% ogni anno. Senza ulteriori interventi nei prossimi cinque anni, le riduzioni necessarie aumenterebbero al 15,4% ogni anno, quota oggettivamente fuori portata.

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Intervista

IL CONTROLLO QUALITÀ DELLE CELLULE Svelate due proteine chiave nelle anomalie della divisione cellulare. Ne parla Luca Fava

di Chiara Di Martino

S

i può parlare di un vero e proprio “controllo qualità”, una sorta di verifica dei requisiti necessari, in questo caso, a bloccare la proliferazione dei danni cellulari che può dare vita a un tumore. Sembra particolarmente promettente per le sue implicazioni a tutto tondo uno studio del Dipartimento CIBIO – Centro di Biologia integrato di Trento, pubblicato su EMBO Journal, che ha individuato quello che proprio gli studiosi hanno chiamato il “controllo qualità” delle cellule, ossia il meccanismo molecolare che blocca e induce al suicidio le cellule che non si sono duplicate correttamente. È un filone di studi che a Trento ha visto scorrere il suo percorso principale, ma che affonda le proprie radici in Austria. Questo perché Luca Fava, docente 37enne e team leader dell’Armenise Harvard Laboratory of Cell Division al Dipartimento CIBIO dell’Università di Trento e autore senior dello studio, biologo molecolare originario di Bolzano laureatosi all’Università di Padova, si è prima trasferito al Max Planck Institute di Monaco, dove ha svolto un dottorato in biochimica studiando il processo di divisione cellulare, e poi,

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dopo aver trascorso un periodo a Basilea, nel 2011 ha iniziato un postdoc all’Università di Innsbruck, nel Dipartimento di Immunologia dello Sviluppo. Qui sono state gettate le basi di questo studio. Ma è proprio Fava a raccontarlo. Quali sono stati primi passi? «L’osservazione originaria riguardava l’esistenza di un meccanismo di controllo qualità che si altera quando la mitosi non si conclude correttamente. Quando non si completa con esattezza la duplicazione cellulare, si verificano errori irreparabili che possono influenzare il normale sviluppo della cellula. In questi casi, il nostro organismo interviene impedendo alle cellule danneggiate di replicarsi. Si tratta di uno dei meccanismi usati dal corpo per correggere gli errori prima di una loro eccessiva proliferazione. A volte, però, questo meccanismo fallisce e le cellule danneggiate si diffondono originando i tumori». Quale risposta induce il difetto nella mitosi? «Attiva una risposta nella proteina P53, un fattore di trascrizione noto fin dalla fine degli anni Settanta per il suo ruolo di rego-


Intervista

© Andrii Vodolazhskyi/shutterstock.com

latore del ciclo cellulare e di soppressore tumorale. Il seme dell’attuale scoperta riguarda il fatto che il controllo di qualità da noi studiato agisce contando i centrosomi nella cellula, ovvero organelli che, in situazioni di normalità, sono presenti in singola copia per cellula. Se la mitosi non si conclude correttamente, ci si ritrova il doppio dei centrosomi. Abbiamo quindi compreso che esiste un meccanismo che li conta e informa la cellula che qualcosa è andato storto». Può esserci qualche segnale d’allarme? «Utilizzando tecniche di microscopia avanzata usata in combinazione alla genetica molecolare, il nostro team di ricerca ha individuato le due proteine ANKRD26 e PIDD1 che inviano il segnale che ferma la proliferazione delle cellule malformate. In sostanza, viene emesso il segnale che blocca la divisione cellulare o porta la cellula all’apoptosi. Quando ANKRD26 e PIDD1 sbagliano a dare il segnale, però, si verificano a catena gli eventi che possono portare alla duplicazione incontrollata dei centrosomi e alle aberrazioni cromosomiche che promuovono lo sviluppo di tumori. Per questo motivo, il prossimo passo sarà comprendere il comportamento di

Luca Fava Nel 2017 Luca Fava ha vinto il Career Development Award (CDA) della Fondazione Armenise Harvard. Dopo essersi aggiudicato il CDA 2017, Luca Fava è rientrato in Italia e ha istituito l’Armenise Harvard Laboratory of Cell Division al Dipartimento Cibio dell’Università di Trento per studiare la mitosi, il processo di duplicazione cellulare.

questi segnali nelle cellule tumorali, in cui questo meccanismo è compromesso». Perché queste evidenze sono così importanti? «Perché tantissimi tumori, circa il 37%, ha origine da un precursore che ha subito una duplicazione del genoma identica a quella che si genera nel caso di una mitosi incompleta. E stiamo parlando di tanti tipi tumorali differenti. La scoperta in sé non ha impatto sulla diagnosi, piuttosto individua il meccanismo fisiologico deputato a prevenire la degenerazione». Quindi quali sono le potenzialità di questa ricerca? «Questi studi, che hanno recentemente ottenuto il supporto finanziario della fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, potrebbero essere la base per sviluppare nuovi approcci di medicina personalizzata per intervenire direttamente sui segnali che portano alla proliferazione dei centrosomi e combattere lo sviluppo dei tumori. Nel futuro, infatti, intendiamo avvalerci di collaborazioni con ricercatori di estrazione diversa dalla nostra ed esperti, ad esempio, di genomica dei tumori, per capire se i nei tumori con un genoma duplicato oppure con un numero alterato di centrosomi esistano delle opportunità terapeutiche particolari». Sono in corso altri studi simili, a livello nazionale e internazionale? «Il filone di ricerca attivo nel panorama internazionale che si collochi più vicino al nostro è quello guidato da Andrew Holland, presso la Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora. Il suo team ha identificato una mutazione di ANKRD26, la prima proteina che abbiamo studiato, che ricorre nei tumori. Questa mutazione interferisce con la capacità di ANKRD26 di emanare segnali a PIDD1, la seconda proteina oggetto del nostro studio. I risultati del team americano sono stati pubblicati nello stesso numero di EMBO J che ha dato risalto ai nostri risultati, confermando la validità delle nostre conclusioni. Al contempo esistono altre ricerche, a guida italiana, che hanno associato mutazioni del gene ANKRD26 a forme ereditarie di coagulopatie. Se queste mutazioni modulino anch’esse l’interazione tra ANKRD26 e PIDD1 rimane una domanda irrisolta». Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Intervista

UN FLASH DI LUCE PER IDENTIFICARE I TUMORI Dario Polli, coordinatore del progetto Vibra, descrive l’innovativo microscopio ottico del Politecnico di Milano che potrebbe diventare un fondamentale strumento diagnostico delle patologie oncologiche

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n flash di luce per individuare i tumori: porta la firma del Politecnico di Milano lo sviluppo di un rivoluzionario microscopio ottico in ambito biologico e biomedico in grado di visualizzare rapidamente il contenuto chimico di un campione biologico per identificare le cellule malate in una biopsia umana. La ricerca rientra nel progetto quinquennale “VIBRA– Very fast Imaging by Broadband coherent Raman”, appena concluso: sotto i riflettori sofisticate tecniche laser che generano impulsi di luce ultrabrevi della durata di milionesimi di milionesimi di secondo, tra gli eventi più brevi mai realizzati dall’uomo. Grazie a queste è stato possibile registrare l’“impronta digitale” delle molecole che costituiscono la materia. Ogni molecola, infatti, è riconoscibile dal “suono” che emette quando vibra: da qui il nome del progetto. Come queste tecniche possano essere utilizzare per identificare i tumori è Dario Polli a spiegarlo. Professore di fisica e responsabile scientifico del progetto, spiega le enormi implicazioni della ricerca. Da dove è partito lo studio?

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«Il progetto Vibra nasce 5 anni fa al Politecnico di Milano grazie a un finanziamento della comunità Europea nell’ambito dello European Research Council. Si tratta di un progetto di finanziamento molto prestigioso e selettivo di giovani promesse in vari settori della ricerca scientifica universitaria. Con un budget da quasi 2 milioni di euro, è stato possibile acquistare strumentazione all’avanguardia e assumere dottorandi e assegnisti di ricerca che mi aiutassero a svolgere la ricerca scientifica in laboratorio. Il microscopio ottico che abbiamo realizzato è rivoluzionario perché permette di mappare tridimensionalmente il contenuto chimico delle molecole che costituiscono i campioni biologici. Fino ad ora questo non era possibile in quanto si dovevano utilizzare dei mezzi di contrasto come particelle fluorescenti che erano in grado di localizzare solo alcuni specifici componenti della materia e comunque comportavano il rischio di perturbare i meccanismi biologici naturali data la dimensione non trascurabile di questi fluorofori. Il microscopio che stiamo realizzando, al contrario, sfrutta il segnale intrinseco delle molecole per-


Intervista

Chi è

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ario Polli è Professore associato di Fisica al Politecnico di Milano. La sua ricerca si concentra, tra le tante cose, sulla spettroscopia e microscopia Raman coerente, sull’ottica ultraveloce e non lineare e sulla spettroscopia in trasformata di Fourier. Ha pubblicato 100 articoli scientifici su riviste internazionali, citati più di 5000 volte. È appassionato di divulgazione scientifica e fondatore di una premiata startup chiamata NIREOS.

ché è sensibile alla loro vibrazione. Utilizzando particolari laser a impulsi, infatti, è possibile sia far oscillare le molecole che registrarne la frequenza di vibrazione e quindi identificarle univocamente, senza l’aggiunta di alcun agente di contrasto. Questi risultati sono frutto di un lungo percorso di ricerca e innovazione anche tramite collaborazioni internazionali. Infatti, oltre a quello italiano, esistono una manciata di altri laboratori soprattutto in Europa, Giappone e Stati Uniti, che insieme al Politecnico di Milano stanno portando avanti questa tematica di ricerca. Ognuno aggiunge un piccolo tassello in modo che unendo tutti questi elementi si possa in futuro arrivare a perfezionare la tecnica e portare questa tecnologia anche in ambito clinico». Lo strumento progettato è già una realtà? Sarà possibile, per costi e caratteristiche, che si diffonda ad ampio raggio? «Questo microscopio non è ancora in commercio. Esiste tuttavia una versione più semplificata che già oggi viene utilizzata in ambito biologico e della ricerca biomedicale. Essendo, però, molto più lento, non permette di visua-

Il microscopio ottico che abbiamo realizzato è rivoluzionario perché permette di mappare tridimensionalmente il contenuto chimico delle molecole che costituiscono i campioni biologici. Fino ad ora questo non era possibile in quanto si dovevano utilizzare dei mezzi di contrasto come particelle fluorescenti.

© Wichudapa/shutterstock.com

Microscopio del progetto Vibra.

lizzare rapidamente campioni estesi e quindi registrare immagini con elevato grado di dettaglio, ma solamente di misurare il contenuto molecolare in alcuni punti specifici. Tuttavia, è già stato possibile dimostrare con questi strumenti, anche in ambito clinico, che è possibile utilizzarli per distinguere con grandissima accuratezza i tessuti sani dai tessuti tumorali». Funziona per gran parte delle tipologie tumorali? «Ogni tipologia tumorale ed ogni organo ha caratteristiche specifiche. Bisogna allenare l’algoritmo di intelligenza artificiale a riconoscere ogni tipo di tumore e differenziarlo dagli altri. In principio sì, può funzionare con tutti i tipi di tumore. Ricordiamo che lo strumento richiede sempre di passare attraverso una biopsia: il tessuto prelevato viene cioè tagliato in fettine sottilissime (circa 10 microns, ovvero uno strato mono-cellulare) in maniera da essere semi-trasparenti. Noi, infatti, le osserviamo in trasmissione. Lo scopo è dare risposte quantitative, riproducibili, oggettive, analizzando il tessuto in maniera più precisa dell’occhio umano (che è oggi la pratica clinica) ». Quali sono i prossimi step dello studio? «Il futuro che noi vediamo per questo microscopio è quello di portarlo sul mercato nel giro di 4-5 anni, in maniera che biologi e medici possano utilizzarlo per l’identificazione delle patologie in ambito diagnostico. Uno degli ambiti di applicazione già promettente, ad esempio, è quello dell’istopatologia, dove si prevede che si possa affiancare all’occhio umano, a volte impreciso o soggettivo, uno strumento quantitativo e riproducibile che possa identificare i tessuti tumorali delle biopsie con elevata precisione». (C. D. M.) Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Intervista

SPERANZA PER UNA LEUCEMIA PEDIATRICA ACUTA Il gruppo guidato da Stefania Bortoluzzi ha identificato alcuni RNA circolari alterati

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a leucemia linfoblastica acuta (ALL) rappresenta un quarto delle malattie oncologiche dei bambini. Il 10-15% delle ALL pediatriche è costituito dal sottotipo a cellule T (T-ALL), una neoplasia ematologica piuttosto aggressiva e finora difficile da curare, causata dalla trasformazione oncogena dei timociti in via di sviluppo: in poche parole, i timociti immaturi evolvono in cellule leucemiche. Attualmente, il protocollo terapeutico prevede la chemioterapia, ma uno dei problemi principali, come si vedrà più avanti, è rappresentato dalle recidive: dopo il trattamento, infatti, il 10-20% dei pazienti ha una ricaduta. Le scoperte di uno studio internazionale – che vede come capofila l’Università di Padova, in collaborazione con il Cancer Research Institute di Gent, in Belgio, ed è durato oltre 2 anni – portano alla luce nuove alterazioni molecolari nella leucemia linfoblastica acuta a cellule T pediatrica, la cui conoscenza potrebbe offrire

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nuovi strumenti sia per la diagnosi sia per la cura di questa malattia. La ricerca, pubblicata sulla rivista Blood Advances, identifica infatti alcuni RNA circolari (circRNA) espressi in modo anomalo nella T-ALL. Alla guida dello studio, la professoressa Stefania Bortoluzzi del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, coordinatrice di un gruppo di ricerca dedicata alla bioninformatica. Qual è stato il punto di partenza? «L’originalità del nostro studio è di aver preso in considerazione molecole sinora poco conosciute, RNA non lineari resi, in passato, difficili da trovare proprio dalla loro peculiare circolarità. Questa linea di ricerca è partita qualche anno fa grazie all’intuizione mia e della professoressa Geertruij te Kronnie, intuizione confermata dalle ricerche recenti, svolte dal gruppo che guido e da altri ricercatori: gli RNA circolari possono avere ruoli importanti nelle cellule e essere alterati in diverse condizioni patologiche. Lo scopo dello studio era


Intervista

Chi è

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eneziana di nascita, Stefania Bortoluzzi ha studiato biologia molecolare a Padova, per poi proseguire con un dottorato di ricerca in genetica. È autrice di 95 paper in riviste scientifiche internazionali e di numerosi contributi in diversi volumi. Fin dal 2001 ha coordinato progetti multicentrici come PI ed è stata responsabile di Unità Operativa in grandi progetti internazionali.

definire il panorama dei circRNA espressi nella leucemia linfoblastica acuta a cellule T pediatrica e il potenziale impatto di queste molecole nella malattia». E cosa avete osservato? «I circRNA sono molecole di RNA stabili che possono guidare il cancro attraverso le loro interazioni con microRNA e proteine e mediante l’espressione di peptidi. Abbiamo usato il sequenziamento dell’RNA per confrontare l’espressione dei circRNA tra le cellule leucemiche nella T-ALL pediatrica e le cellule progenitrici delle cellule T normali. Questo ci ha permesso di identificare i circRNA espressi in modo anomalo in cinque diversi sottotipi di T-ALL associati a specifiche alterazioni genetiche. L’analisi di circRNA, miRNA e pattern di espressione genica in T-ALL ha inoltre evidenziato alcuni circRNA con possibile ruolo oncogeno e altri soppressori tumorali putativi, suggerendo il loro coinvolgimento funzionale nella patogenesi della malattia. Analisi preliminari in

“L’originalità del nostro studio è di aver preso in considerazione molecole sinora poco conosciute, RNA non lineari resi, in passato, difficili da trovare proprio dalla loro peculiare circolarità”.

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vitro hanno indicato che uno specifico RNA, circZNF609, può contribuire a sostenere la vitalità delle cellule tumorali nella T-ALL». Se dovesse spiegarlo in sintesi? «Lo studio ha per la prima volta mostrato che gli RNA circolari sono alterati nella T-ALL, con specificità dei diversi sottotipi molecolari, e possono avere un ruolo nella malattia. Sono scoperte importanti: si tratta infatti di una leucemia pediatrica particolarmente grave, con tassi di cura ancora insoddisfacenti, ed un alto rischio di ricaduta, per cui è importante identificare nuovi meccanismi molecolari associati alla trasformazione neoplastica». A chi altri sente di dire grazie? «Il nostro gruppo di lavoro si è altamente specializzato in questo ambito grazie anche al sostegno di Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. Stiamo lavorando su più fronti: alcuni ricercatori - Enrico Gaffo, Anna Dal Molin e Alessia Buratin - sviluppano nuovi metodi bioinformatici per identificare gli RNA circolari e comprenderne la funzione, mentre lo studio dei circRNA in diverse leucemie rare è in corso insieme a Maddalena Paganin, Silvia Bresolin e Caterina Tretti». Quali sono i prossimi passi da compiere? «Alcuni RNA circolari troppo espressi nelle cellule maligne vengono studiati in laboratorio con l’obiettivo di identificarne la funzione. Mediante silenziamento specifico, è possibile diminuire l’espressione dei circRNA nelle cellule tumorali e verificare cosa cambia nel comportamento di queste. In ultima analisi, vogliamo chiarire l’impatto di un ciascun circRNA sulle caratteristiche tipiche delle cellule maligne, quali eccessiva proliferazione e blocco del differenziamento». (C. D. M.) Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Salute

GENI “SPIA” PER CAPIRE QUANTO SIA GRAVE LA MALATTIA Altra ricerca sulla Leucemia Linfoblastica Acuta. Studio sviluppato nei laboratori di ricerca della Fondazione Tettamanti, in collaborazione con l’Università Bicocca

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è una bellissima notizia che accompagna l’avvio del 2021 della ricerca e che lancia un segnale di grande speranza anche in una situazione di emergenza pandemica. Due geni, chiamati Nutm1 e Pax5, possono aiutare a prevedere la gravità di una particolare forma di leucemia linfoblastica acuta che insorge nei bambini con meno di un anno di età. Uno studio sviluppato nei laboratori di ricerca della Fondazione Tettamanti, in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca ed altri centri clinici italiani, ha rilevato che in una particolare forma di leucemia linfoblastica acuta l’alterazione di alcuni geni si associa a una prognosi più o meno grave. Lo studio ha evidenziato che la presenza di queste alterazioni geniche può essere utile anche per scegliere i farmaci più efficaci contro la malattia. In particolare, due geni, (Nutm1 e Pax5),

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possono aiutare a prevedere la gravità di una particolare forma di leucemia linfoblastica acuta che insorge nei bambini con meno di un anno di età. Uno studio, sviluppato nei laboratori di ricerca della Fondazione Tettamanti in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca ed altri centri clinici italiani, ha rilevato, infatti, che se nelle cellule malate il gene NUTM1 è fuso con altri geni la prognosi della malattia è migliore mentre se è il gene PAX5 ad essere fuso con altri, l’esito della patologia è più grave. Non solo, lo studio ha evidenziato che la presenza di queste alterazioni geniche può essere utile per scegliere i farmaci più efficaci contro la malattia. I risultati dello studio, sviluppato analizzando retrospettivamente i dati di pazienti di centri dell’Associazione Italiana Emato-Oncologia Pediatrica (Aieop), sono pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Blood. La leucemia linfoblastica acuta è il tumore più frequente in età pediatrica, costituendo in questa fascia di età l’80 per cento delle leucemie e circa il 25 per cento di tutti i tumori diagnosticati tra 0 e 14 anni. La massima incidenza si registra tra i due e i cinque anni, per poi calare con l’aumentare dell’età. «Aver individuato la presenza del gene Pax5 fuso con altri nei casi con prognosi più difficile - ha spiegato Giovanni Cazzaniga, responsabile dell’unità di ricerca “Genetica della leucemia” della Fondazione Tettamanti e ricercatore di genetica medica all’Università di Milano Bicocca ci indica una nuova strada terapeutica: esistono infatti nuovi farmaci sperimentali che agiscono proprio su di esso. Tra questi, in particolare, vi è un inibitore delle chinasi che ha già dimostrato il suo effetto antitumorale e antiangiogenico in numerose forme tumorali. Inoltre, abbiamo uno strumento in più che ci aiuta a capire quando utilizzare le terapie più avanzate, come ad esempio l’immunoterapia, impiegandole per i casi più difficili, cioè quelli in cui non è presente il gene Nutm1 fuso con altri. Questa scoperta ci dice inoltre quanto sia importante identificare e riconoscere diversi sottotipi genetici che permettono di modificare le terapie in funzione del diverso rischio di ricaduta di malattia, anche se si tratta ancora di un risultato di laboratorio e non di uno strumento disponibile nella pratica clinica». La leucemia linfoblastica acuta può essere di tipo B o di tipo T a seconda del tipo di cellule del sistema immunitario che si ammalano. Una forma rara di leucemia linfoblastica acuta insorge


Salute

I dati

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© Gorodenkoff/shutterstock.com

nei bambini prima del compimento di un anno di vita. Questa forma è tradizionalmente suddivisa in due sottotipi, quello con un riarrangiamento del gene Mll (cioè il gene è “rotto” e posizionato in un punto “errato” del cromosoma) e quello privo di tale alterazione (“MLL-germline”). Ad oggi i bambini con la forma MLL-germline sono tutti curati con la stessa terapia, non particolarmente intensiva. Lo studio si è concentrato su questa ultima forma poiché sino ad oggi le conoscenze dei meccanismi biologici e delle alterazioni genetiche alla base della malattia sono abbastanza approfondite nei pazienti più grandi ma praticamente assenti in questa fascia di età. Un ulteriore spunto per questa ricerca è stata la recente scoperta che il gene Nutm1 è presente in forma alterata in casi di questa malattia con prognosi particolarmente positiva. Partendo da questa informazione, i ricercatori hanno voluto analizzare completamente il patrimonio genico delle cellule malate per scoprire se vi fossero altre

situazioni di questo tipo. Sono stati quindi analizzati 30 casi seguiti in centri AIOEP tra il 2006 e il 2019. Dalle analisi genetiche è emerso che nella forma MLL-germline di leucemia linfoblastica acuta è frequente la presenza di geni fusi con altri, cioè l’unione accidentale del loro dna che può verificarsi durante la loro traslocazione da un punto all’altro del genoma. In 22 casi su 30 erano presenti fusioni di geni. Le fusioni del gene Nutm1 erano le più frequenti con 9 casi (30%) e avevano come partner di fusione i geni ACIN1 (5 casi), CUX1 (2), BRD9 (1) and ZNF618 (1). In questi casi si è registrata una sopravvivenza libera da malattia a tre anni del 100 per cento. Anche le fusioni del gene PAX5 erano ricorrenti con 6 casi (20%) e avevano come partner i geni DNAJA1 (3 casi), FBRSL1 (1), MBNL1 (1), GRHPR (1). In questi bambini invece la sopravvivenza libera da malattia a tre anni era solo del 25 per cento. (E. M.)

a leucemia linfoblastica acuta è una malattia relativamente rara: in Italia si registrano circa 1,6 casi ogni 100mila maschi e 1,2 casi ogni 100mila femmine, cioè circa 450 nuovi casi ogni anno tra gli uomini e 320 tra le donne. La leucemia linfoblastica acuta è però il tumore più frequente in età pediatrica: rappresenta l’80 per cento delle leucemie e circa il 25 per cento di tutti i tumori diagnosticati tra 0 e 14 anni. L’incidenza raggiunge il picco tra i 2 e i 5 anni e poi cala con l’aumentare dell’età (il 50 per cento di tutti i casi viene diagnosticato entro i 29 anni). Sono pochi i fattori di rischio noti per la Lla. Tra quelli ambientali si possono citare l’esposizione a radiazioni (anche per cure mediche come la radioterapia) e a certe sostanze chimiche come il benzene, un componente naturale del petrolio, contenuto anche in alcuni pesticidi e nel fumo di sigaretta.

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Salute

VIRUS EPATITE E TUMORI DEL FEGATO Nel 2020 in Italia 13mila nuovi casi: ma si temono gli effetti collaterali della pandemia

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ono 13mila i nuovi casi di tumore del fegato registrati in Italia nel 2020: di questi 9.100 sono stati causati dai virus dell’epatite B e C, i rimanenti da altre malattie del fegato. I morti totali sono stati 7.800, ed è proprio il dato relativo alla sopravvivenza negli ultimi anni quello che non fa registrare miglioramenti significativi a differenza di altre malattie oncologiche. Sono questi alcuni dei dati snocciolati nel corso di un evento promosso dall’associazione EpaC Onlus e realizzato grazie a un grant incondizionato di Ipsen. Nel corso del convegno, oltre a rimarcare il ruolo chiave dell’abuso di alcol, responsabile nelle regioni del Nord Italia di un terzo di tutti gli epatocarcinomi, si è posto l’accento anche sugli effetti collaterali della pandemia di coronavirus, notando come il rito consolatorio che ha visto milioni di italiani rifugiarsi nel cibo spazzatura durante interminabili giornate trascorse in casa, abbia procurato danni all’organismo in generale e in particolare al fegato, facendo aumentare soprattutto nei pazienti con problematiche già conclamate il rischio di malattie epatiche. Antonio Gasbarrini, direttore di Medicina interna Gastroenterologia presso l’Università Cattolica Fondazione-Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma, ha spiegato come i virus dell’epatite B e C siano i principali

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responsabili del 70% delle neoplasie. «Un singolo virus dell’epatite B o C - ha spiegato Gasbarrini - incrementa il rischio di sviluppare il tumore del fegato di 20 volte, mentre la co-infezione di entrambi gli agenti patogeni comporta un aumento di addirittura 80 volte». Proprio per questo motivo si ritiene fondamentale la vaccinazione contro l’infezione da HBV, il virus dell’epatite B, da svolgere in età pediatrica. Ad oggi il tasso di copertura a livello nazionale è pari al 94% ma il rischio, come conseguenza indiretta della pandemia, è che nei prossimi anni si assista ad un calo delle immunizzazioni. Tra i fattori di rischio del tumore al fegato rientrano anche il fumo di sigaretta e il grave aumento di peso, in particolare se associati alle complicazioni correlate al diabete e all’assunzione di alcol. Il tumore del fegato si presenta, infatti, nella quasi totalità dei casi durante la fase della cirrosi epatica, correlata sempre più spesso all’abuso di alcol. Questa condizione colpisce in Italia più di 450mila persone e si stima che fino al 3% di queste svilupperà anche un tumore del fegato. Sempre Gasbarrini sottolinea come il fegato costituisca «un grande motore metabolico» del nostro organismo, motivo per il quale ogni volta che introduciamo al suo interno qualcosa di tossico come le bevande alcoliche si verificano delle conseguenze, in particolare se l’organo è già


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danneggiato. Il professor Gasbarrini, sottolinea però come «la vera partita è il cibo». Per preservare l’organo è infatti necessaria un’alimentazione bilanciata, che non sia eccessiva e che non costituisca una via di fuga dalle angosce di tutti i giorni, a maggior ragione in un periodo complicato come quello che stiamo affrontando. L’esperto nota infatti come con la pandemia «molte persone stanno mangiando troppo e male», anche perché l’unica occasione di socializzazione ad oggi è quella di andare a fare la spesa e di ritrovarsi in famiglia davanti ad una tavola ricca. Questa, però, rischia di tramutarsi in una cattiva abitudine, con effetti deleteri per il nostro organismo e in specie per il fegato. Porre attenzione ai consigli degli esperti è quanto mai fondamentale considerato che il tumore del fegato è molto aggressivo e solo il 20% dei pazienti sopravvive a cinque anni dalla diagnosi. Bruno Daniele, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia dell’ospedale del Mare di Napoli, spiega che «solo in un caso su dieci possiamo intervenire in modo efficace con interventi chirurgici mentre la radioterapia è scarsamente utilizzata». Anche il trapianto rappresenta un trattamento ottimale poiché ha il merito di risolvere anche il problema della cirrosi epatica. Questa soluzione però viene riservata a una minoranza di pazienti. Tra le nuove cure spicca ca-

Sono 13mila i nuovi casi di tumore del fegato registrati in Italia nel 2020. Di questi 9.100 sono stati causati dai virus dell’epatite B e C, i rimanenti da altre malattie del fegato I morti totali sono stati 7.800. Tra i fattori di rischio ci sono fumo e grave aumento di peso. © Oteera/shutterstock.com

bozantinib, terapia orale di seconda e terza linea già impiegata per il carcinoma a cellule renali, da alcuni mesi disponibile in Italia anche contro le forme più avanzate di tumore del fegato. Il dottor Gasbarrini ha rimarcato l’importanza di un team multidisciplinare nel trattamento degli epatocarcinomi, rimarcando la delicatezza di un organo che svolge funzione di filtro del nostro corpo. Ne deriva che anche i nuovi farmaci vadano somministrati con cautela, per evitare che una «terapia antitumorale determini un danneggiamento della funzione epatica tale da compromettere i potenziali vantaggi dell’azione antineoplastica». Attualmente vivono in Italia 33.800 persone con una diagnosi di tumore del fegato: 25.300 uomini e 8.500 donne, un numero in leggera crescita negli ultimi anni. Ivan Gardini, presidente dell’associazione EpaC Onlus, da anni impegnata per tutelare i diritti di questi pazienti, ha espresso a sua volta il convincimento che la malattia «vada gestita in strutture specializzate da un team multidisciplinare» composto da «epatologi, oncologi, chirurghi e radiologi diagnostici ed interventistici». Questo approccio, spiega Gardini, «deve essere reso operativo e garantito soprattutto in questo preciso momento storico». A tal fine viene espresso l’auspicio per la creazione di «una rete regionale di strutture in grado di offrire le cure migliori e più appropriate». (D. E.). Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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GLIOBLASTOMA: SPERANZA IN UN FARMACO Nel 20% dei casi si registra un’iperattività mitocondriale, che alimenta la neoplasia. Un’arma arriva dai farmaci inibitori di Marco Modugno

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n team di scienziati della Columbia University di New York, guidati dal duo italiano formato da: Antonio Iavarone e Anna Lasorella, ha scoperto nel circa 20% dei glioblastomi, un’iperattività dei mitocondri. Questa è una buona notizia per quello che riguarda la ricerca per la cura di questo cancro che colpisce il cervello, in una delle forme più aggressive e letali, con una media di sopravvivenza di appena 15 mesi da quando viene diagnosticato. Questa iperattività, alimenta i tumori in cui si presenta, e ciò permette quindi di andare a contrastarli attraverso l’utilizzo di farmaci inibitori dei mitocondri, che sono attualmente già disponibili o in fase di sperimentazione clinica. Secondo gli autori di questo importantissimo studio - pubblicato sulla rivista scientifica “Nature Cancer” – la scoperta apre la strada a terapie personalizzate in grado di andare a bersagliare il cancro, non più in base all’organo o al tessuto in cui esso si origina, ma bensì in base al suo metabolismo. Questa scoperta è stata possibile, soprattutto grazie ai recenti progressi delle tecniche di analisi molecolare effettuate su singole cellule tumorali. I ricercatori hanno caratterizzato le proprietà biologiche di 17.367 singole cellule da 36 diversi tumori cerebrali. Hanno così esaminato la malattia e classificata a seconda delle sue caratteristiche

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biologiche fondamentali, ottenendo 4 tipi differenti di glioblastoma: «2 di questi ricapitolano le funzioni attive nel cervello normale, rispettivamente le cellule staminali o i neuroni - spiegano gli scienziati – mentre gli altri 2 gruppi includono i tumori mitocondriali e una tipologia con attività metaboliche multiple, altamente resistente alle attuali terapie». Per i pazienti affetti da tumori mitocondriali si stima una sopravvivenza più lunga rispetto a quelli colpiti dagli altri 3 tipi. Grazie a questo studio ora si potrà contare su un nuovo approccio terapeutico: infatti emerge per i farmaci che inibiscono i mitocondri “un potente effetto antitumorale” contro le cellule di glioblastoma con mitocondri iperattivi. Il follow-up del lavoro ha mostrato che gli stessi medicinali sono attivi contro i glioblastomi mitocondriali nel topo. Farmaci inibitori dei mitocondri sono già in sperimentazione in pazienti il cui glioblastoma presenta la fusione genica Fgfr3-Tacc3, già individuata dal gruppo di Iavarone e Lasorella, che promuove l’attività mitocondriale e genera tumori dipendenti da questa iperattività. «Ora possiamo espandere questi studi clinici a un gruppo più ampio di malati - afferma Iavarone, docente di Neurologia alla Columbia – perché possiamo identificare i pazienti con tumori che, indipendentemente dalle alterazioni geneti-


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che, sono caratterizzati da attività mitocondriale elevata». «Siamo incoraggiati per la scoperta del gruppo mitocondriale di tumori al cervello, abbiamo già farmaci per questo gruppo in fase di sperimentazione clinica - commenta Lasorella, docente di Pediatria dell’ateneo newyorkese – la nuova classificazione ci fornisce idee su come aggredire anche gli altri 3 sottotipi e su questo ci stiamo concentrando. Abbiamo superato il concetto che la terapia personalizzata del cancro coincida soltanto con farmaci contro specifiche mutazioni - precisa la scienziata -. Raramente è possibile ottenere risposte cliniche in questo modo, ma oggi possiamo trattare i tumori bloccando quelle caratteristiche biologiche fondamentali che sostengono l’espansione tumorale e possono essere causate da molteplici combinazioni genetiche. Riteniamo che uno dei motivi per cui i progressi terapeutici nel cancro al cervello sono stati così lenti - riflette Iavarone – sia proprio l’assenza di classificazioni funzionali di questi tumori». Ora con la classificazione dei tumori cerebrali in base alle loro caratteristiche biologiche chiave e non solo alle alterazioni genetiche o ai biomarcatori cellulari, la speranza da parte delle ricercatrici italiane è di recuperare il gap sull’esempio dei successi già segnati ad esempio contro il cancro al seno: «Nel caso dei tumori della mammella -

La scoperta apre la strada a terapie personalizzate in grado di andare a bersagliare il cancro, non più in base all’organo o al tessuto in cui esso si origina, ma bensì in base al suo metabolismo. Grazie a questo studio ora si potrà contare su un nuovo approccio terapeutico. © DedMityay/shutterstock.com

ricordano – si sono identificati sottotipi molto ben definiti, e questo ha portato allo sviluppo di terapie che hanno come obiettivo le caratteristiche chiave di ogni particolare tipo di tumore». Gli scienziati italiani negli Usa aprono anche prospettive inedite che permettono di identificare i processi biologici fondamentali attivi in ogni singola cellula tumorale. «In questo modo possiamo classificare ogni cellula tumorale sulla base della biologia reale che la sostiene», sottolinea Iavarone. I due scienziati Italiani, che oltre a condividere le scoperte in campo scientifico, condividono anche la vita privata, attraverso il loro studio stanno cercando forma di applicazione, mediante le medesime tecniche, ad altri tumori maligni. «Questo approccio - sottolineano – dovrebbe portare a identificare attività biologiche comuni ai diversi tipi di cancro indipendentemente dal tessuto di origine. I farmaci che trattano il cancro mitocondriale al cervello potrebbero essere efficaci nel sottotipo mitocondriale di altri tumori, per esempio quello del polmone». «Classificando i tumori in base alle attività biologiche fondamentali su cui le cellule tumorali si basano per sopravvivere e moltiplicarsi - affermano Iavarone e Lasorella – scopriremo che i tumori hanno in comune più di quanto non sia evidente solo esaminandole alterazioni dei loro geni». Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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TUMORE AL SENO: SCOPERTA PROTEINA CHIAVE PER DIAGNOSI PRECOCE Studio del Ceinge: individuato il ruolo della proteina Prune-1 nella neoplasia Passi avanti contro il carcinoma mammario triplo negativo

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mportanti passi avanti nella lotta contro il tumore al seno, e in particolare nella diagnosi precoce della sua forma più aggressiva, il carcinoma mammario triplo negativo (Tnbc), che rappresenta il 20% dei tumori al seno. A farli registrare gli studiosi del centro di ricerca di Napoli Ceinge-Biotecnologie avanzate in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche (Università di Napoli Federico II) e l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale. Il loro studio, pubblicato sulla rivista 28 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

scientifica internazionale iScience, ha riportato la scoperta di una proteina chiave: dalla ricerca è emerso infatti che la proteina Prune-1 è iper-espressa in circa il 50% delle cellule tumorali delle donne affette da carcinoma mammario triplo negativo ed è correlata alla progressione del tumore, alle metastasi a distanza (polmonari) nonché alla presenza di macrofagi M2 (presenti nel microambiente tumorale del TNBC e associati ad un rischio maggiore di sviluppare metastasi). La prima fase dello studio è stata svolta su un modello murino geneticamente modificato di TNBC

metastatico, caratterizzato dall’iper-espressione dei geni PRUNE1 e WNT1 nella ghiandola mammaria. Come ha spiegato Veronica Ferrucci, ricercatrice della Ceinge e dell’Università Federico II di Napoli, nei topi è stato osservato che quando i geni Prune1 e Wnt1 nella ghiandola mammaria sono espressi in maggiore quantità si generano non solo questa forma aggressiva di tumore al seno, ma anche metastasi polmonari. La sua collega Fatemeh Asadzadeh ha sottolineato come, analizzando i database relativi a questo tumore, il gruppo di ricerca abbia ottenuto conferma rispetto al fatto che quando questi geni sono iper-espressi si verificano prognosi peggiori per le donne affette dal cancro. Ne deriva che il processo scoperto nel modello animale può essere lo stesso anche nella donna. I ricercatori del Ceinge hanno inoltre identificato una piccola molecola non tossica, che è risultata capace di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone. Per questa molecola sono state già eseguite le verifiche di tossicità nel modello murino. Massimo Zollo, genetista, professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del Ceinge, ha aggiunto che ora «è allo studio lo sviluppo di una seconda molecola più sensibile alla quale dovrà fare seguito la sperimentazione nel topo e poi sull’essere umano». Lo studioso, ha inoltre annunciato lo sviluppo di «un kit che è in grado di identificare all’esordio quali TNBC hanno maggiore probabilità di sviluppare metastasi con sede polmonare e/o in siti distanti». Il kit in questione utilizza gli studi genomici di cui sopra e può aiutare l’oncologo nel determinare una terapia eventualmente più aggressiva sin dall’esordio. Per dimostrare la sua efficacia nella diagnosi clinica serviranno circa 1-2 anni di validazione. (D. E.).


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e è vero che il 2020 è stato l’anno del Covid, l’auspicio è che il 2021 sia ricordato - oltre che per la sconfitta del coronavirus - anche come l’anno in cui dei super farmaci sono riusciti ad avere un grande impatto sul trattamento del colesterolo, anche e soprattutto in termini di vite salvate. Ogni anno in Italia muoiono a causa di malattie cardiovascolari più di 224.000 persone: di queste, poco meno di 50.000 sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. Un nemico insidioso per quanto riguarda il Belpaese se è vero che su oltre un milione di pazienti più ad alto rischio, sono più di otto su dieci quelli che hanno valori di colesterolo superiori a quelli indicati come soglia dalle linee guida europee. Ne deriva un problema sanitario urgente, aggravato ulteriormente dalla pandemia di coronavirus, che ha portato molti pazienti ad evitare i controlli di routine spesso salvifici. Dell’arrivo dei super farmaci si è parlato nel corso dell’ultimo congresso organizzato dalla Sic, la Società italiana di cardiologia, nel corso del quale sono state annunciate due nuove molecole che saranno disponibili in Italia già da quest’anno. L’introduzione sul mercato di questi nuovi farmaci è resa possibile dalla loro efficacia (e ovviamente dalla comprovata sicurezza), registrata in due studi già pubblicati sul prestigioso New England Journal of Medicine. Uno dei farmaci, basato su piccoli Rna interferenti, è in grado di determinare la riduzione del 54% del colesterolo Ldl (noto come colesterolo cattivo). In che modo? Grazie a due iniezioni sottocutanee l’anno: una puntura ogni sei mesi che non provoca alcun effetto collaterale su fegato e reni, risultando dunque ottimamente tollerato dall’organismo. L’altro super farmaco presto utilizzato per combattere il colesterolo è l’acido bempedoico, molecola

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COLESTEROLO DIMEZZATO DA DUE SUPER FARMACI Arrivano in Italia dei nuovi medicinali per combattere la patologia La Società italiana di cardiologia: «Salveranno 10mila vite ogni anno»

che ha dimostrato di ridurre l’Ldl di circa il 20% senza portare dolori muscolari come invece possono fare le statine. Questi due farmaci, attraverso l’inibizione dell’Rna che l’attiva, bloccano la produzione di Pcsk9, una proteina coinvolta nel processo di trasporto e distruzione dei recettori per il colesterolo sulla superficie delle cellule epatiche. Ciro Indolfi, presidente Sic, e Pasquale Perrone Filardi, presidente eletto Sic, hanno spiegato come la riduzione di livelli di colesterolo nel sangue nei pazienti ad alto rischio rappresenti un «importante obiettivo di salute pubblica» che in

futuro potrebbe permettere di «ridurre la mortalità per eventi cardiovascolari salvando 10.000 vite» ogni anno. In particolare Indolfi ha rimarcato come il colesterolo sia «responsabile di 47.000 decessi l’anno con una spesa sanitaria che arriva a 16 miliardi di euro per costi diretti e indiretti». Gli ha fatto eco Perrone Filardi osservando come, su più di un milione di italiani a rischio altissimo di eventi cardiovascolari, «solo il 20% raggiunge gli obiettivi raccomandati dalle linee guida internazionali» che hanno abbassato i valori di riferimento al di sotto di 55 mg/dl. (D. E.). Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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INFARTO LA SPERANZA NEL COMPUTER A Torino creato un sistema di classificazione del rischio post evento grazie al machine learnig di Elisabetta Gramolini

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ll’occhio clinico si affianca oggi l’aiuto del cervellone, capace di elaborare migliaia di dati. Grazie alla applicazione del machine learning, una branca dell’intelligenza artificiale, alla Cardiologia dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino è stato sperimentato per la prima volta al mondo un sistema che classifica il rischio per i pazienti che hanno subito un infarto. Lo studio, condotto assieme al dipartimento di Informatica dell’Università di Torino e a quello di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politecnico, è stato pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet. Gli autori hanno utilizzato il machine learning o apprendimento automatico, secondo il quale i computer imparano progressivamente dai dati che vengono loro forniti migliorando sempre più le loro capacità predittive ed individuando correlazioni. «I pazienti con infarto miocardico acuto – spiega il dottor Fabrizio D’Ascenzo, coordinatore dello studio – sono ad altissimo rischio nei primi due anni sia di una recidiva di infarto sia di sanguinamenti maggiori legati ai farmaci che mantengono il sangue “più fluido”, come la cardioaspirina. La decisione sulla terapia migliore deve bilanciare questi due rischi, cosa

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che il cardiologo fa basandosi sulla propria esperienza e sul suo intuito clinico, aiutato da dei punteggi di rischio. Tuttavia questi punteggi sono poco precisi e pertanto di modesto aiuto anche per un cardiologo esperto. Abbiamo perciò cercato di migliorare la situazione utilizzando dati clinici riguardanti 23.000 pazienti, molti dei quali raccolti in Piemonte, che hanno fornito la massa critica di informazioni per la nostra ricerca». L’analisi dei dati con questa tecnica basata sull’intelligenza artificiale si differenzia nettamente dall’approccio usato finora, basato sull’analisi statistica tradizionale. In alcuni settori, secondo i ricercatori, questa nuova tecnica determinerà una vera rivoluzione: «I dati – spiega Marco Aldinucci, docente di Informatica dell’Università di Torino – sono stati ana-


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La capitale italiana per l’intelligenza artificiale

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lizzati con algoritmi di machine learning che usano pertanto metodi matematico-computazionali per apprendere informazioni direttamente dai dati, senza il bisogno di conoscere nulla a priori sulle possibili relazioni tra i dati stessi». Ma qual è la differenza tra l’approccio tradizionale basato sull’analisi statistica e l’uso dell’intelligenza artificiale? Mentre la precisione dei migliori punteggi disponibili per identificare la possibilità di un evento come un nuovo infarto o un sanguinamento si aggira intorno al 70%, la precisione di questo nuovo punteggio di rischio si avvicina al 90%, riducendo statisticamente la possibilità di una diagnosi scorretta da tre a un solo paziente su dieci analizzati.

L’analisi dei dati con questa tecnica basata sull’intelligenza artificiale si differenzia nettamente dall’approccio usato finora, basato sull’analisi statistica tradizionale. In alcuni settori, secondo i ricercatori, questa nuova tecnica determinerà una vera rivoluzione. L’eccellente risultato prodotto da questa ricerca dimostra ancora una volta la molteplicità e la trasversalità delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, che ormai spazia in tutti i settori di punta della nostra economia, dall’industria alla salute.

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I capoluogo piemontese è stato scelto a settembre dal governo come sede principale dell’Istituto italiano per l’intelligenza artificiale (3I4AI). L’hub di ricerca si occuperà dell’applicazione dell’intelligenza artificiale in vari settori, con attività di ricerca prevista anche in diverse sedi aggiuntive sul territorio nazionale. Sia l’Università che il Politecnico di Torino avranno un ruolo importante nell’Istituto. I settori principalmente coinvolti saranno: manifattura, internet delle cose, robotica, sanità, mobilità, agrifoood ed energia, pubblica amministrazione, aerospazio, cultura e digital humanities. L’istituto avrà un organico di circa 1.000 persone e conterà su un budget annuo di 80 milioni di euro.

«Siamo entusiasti di questi risultati - afferma il professor Gaetano Maria De Ferrari – per tre motivi. Primo, possiamo ora curare meglio i nostri pazienti, aggiungendo alla nostra esperienza clinica delle stime davvero precise del rischio cui vanno incontro, confermando il ruolo centrale della Cardiologia universitaria di Torino nella ricerca volta a creare benefici per i pazienti. Secondo, lo studio è una dimostrazione fortissima delle possibilità dell’intelligenza artificiale in medicina e in cardiologia in particolare. Terzo, questo risultato ottenuto in collaborazione tra Università e Politecnico rafforza la scelta di Torino come sede dell’Istituto italiano di intelligenza artificiale. In particolare, noi vorremmo candidarci ad un ruolo di riferimento italiano per l’intelligenza artificiale in medicina e questa pubblicazione può contribuire a legittimare questa aspirazione». «L’Intelligenza artificiale – commenta il rettore del Politecnico di Torino, Guido Saracco - rappresenta un tema chiave per la ricerca dei prossimi anni, sul quale il nostro Ateneo può vantare competenze riconosciute dalla comunità scientifica internazionale e ha ottenuto risultati di estrema rilevanza. L’eccellente risultato prodotto da questa ricerca dimostra ancora una volta la molteplicità e la trasversalità delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, che ormai spazia in tutti i settori di punta della nostra economia, dall’automotive alla manifattura, all’industria del lusso e molti altri ambiti, come appunto quello della salute, dove sta diventando sempre più essenziale. Questa ricerca è poi un esempio di collaborazione multidisciplinare tra enti, che dimostra ancora una volta che tutti i soggetti del territorio sono già pronti a lavorare insieme per fare dell’Istituto un grande polo di ricerca». Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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uanto vale un secolo di insulina? Molto, a giudicare dai progressi fatti anche nella qualità della vita dei pazienti che hanno bisogno di terapie insuliniche. A cento anni dalla scoperta che ha rivoluzionato il trattamento del diabete, la scienza ne celebra la storia. La rivista “Endocrine Reviews”, houseorgan dell’Endocrine Society, ha pubblicato un lungo articolo che ripercorre la storia dell’insulina e il modo in cui il progresso scientifico ha influenzato le scelte terapeutiche. Nel corso dei decenni il trattamento basato sull’insulina è cambiato dall’utilizzo di estratti dal pancreas animale a soluzioni pure e controllate, di cui è possibile prevedere gli effetti con estrema precisione. La scoperta dell’insulina è attribuita a un gruppo di studiosi dell’Università di Toronto guidato da John J. R. Macleod, professore di fisiologia. Nel 1921, McLeod accettò la proposta del giovane chirurgo Frederick G. Banting (con cui condividerà il Nobel nel 1923) di testare in laboratorio alcune intuizioni sulle sostanze estratte dal pancreas dei cani diabetici e non. Il gruppo di lavoro fu completato dallo studente Charles Best, che cominciò a tenere traccia dei risultati dell’utilizzo degli estratti, e dal biochimico James Bertrand Collip, che portò la propria esperienza nella purificazione delle soluzioni. L’anno successivo, nel gennaio 1922, effettuarono il primo test di insulina in un ragazzo diabetico di 14 anni.

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Con l’avvio della sperimentazione anche in altri laboratori farmaceutici, non ci volle molto per la produzione commerciale su larga scala di insulina che cominciò sul finire del 1923. Gli ultimi cento anni sono stati caratterizzati da una continua attività di perfezionamento della terapia a base di insulina, dalla definizione delle soluzioni alle formulazioni capaci di garantire un’azione prolungata. La ricerca si è tradotta in una molteplicità di opzioni disponibili per i pazienti affetti da diabete. Oggi esistono sia differenti formulazioni sia diverse modalità di somministrazione. Ciascuna è caratterizzata dalla combinazione di due indicatori: la farmacocinetica (PK), cioè l’assorbimento, l’andamento nel tempo della concentrazione circolante di insulina dopo la somministrazione, e la farmacodinamica (PD), che si riferisce all’andamento dell’effetto sulla concentrazione di glucosio nel sangue. Sia la PK che la PD sono influenzate dalle caratteristiche dell’insulina iniettata e da una serie di fattori fisiologici, come l’esercizio fisico, la temperatura corporea e la sensibilità all’insulina. La comprensione e la valutazione di tutti questi valori sono fondamentali alla buona riuscita della terapia. Le caratteristiche delle formulazioni, infatti, vengono modulate per imitare al meglio i profili naturali di rilascio dell’insulina e avere risposte personalizzate. Le prime formulazioni commerciali erano realizzate con insuline animali, soprattutto di bovino e maiale, che avevano proprietà PK e


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I CENTO ANNI DELL’INSULINA L’Endocrine Society celebra un secolo di progresso e continuo cambiamento nelle soluzioni e nei metodi di somministrazione

PD molto simili a quelle dell’insulina umana, nonostante le differenze nelle sequenze di amminoacidi. Ma una delle problematiche più rilevanti con cui la ricerca si è dovuta confrontare è stata la formazione di anticorpi anti-insulina, che portavano a lipoatrofia e resistenza all’insulina in una percentuale significativa di pazienti. Solo negli anni Ottanta queste insuline sono state trattate e rese meno immunogeniche, pur senza garantire un’attività biologica migliore. Con la crescita della domanda, è stato necessario individuare una fonte di insulina scalabile. La scoperta del gene dell’insulina e la commercializzazione della tecnologia del DNA ricombinante hanno consentito, a partire dal 1982, lo sviluppo e la produzione su larga scala di insulina umana biosintetica. Da allora l’utilizzo di prodotti di origine animale è andato calando, per scomparire quasi del tutto. La ricerca ha poi lavorato sul costante miglioramento degli effetti della somministrazione. In condizioni normali, per l’insulina endogena esiste un meccanismo di feedback che ne controlla la secrezione in base ai cambiamenti nel livello di glucosio nel sangue. Quando, invece, l’insulina viene somministrata non esiste un simile meccanismo di controllo automatico. Ecco perché è necessario misurare regolarmente l’assunzione di glucosio nel sangue e gestire così al meglio le dosi di insulina da assumere: ma solo a partire dagli anni Settanta i pazienti hanno potuto fare affida-

La scoperta è attribuita a un gruppo di studiosi dell’Università di Toronto guidato da John J. R. Macleod, professore di fisiologia. Nel 1922 fu effettuato il primo test su un ragazzo diabetico di 14 anni. La produzione commerciale su larga scala cominciò sul finire del 1923. © Image Point Fr /shutterstock.com

mento sulla tecnologia di monitoraggio della glicemia a domicilio. Alcuni dei progressi più importanti nella definizione di formulazioni sempre più precise e “ingegnerizzate” sono legati alla curva di assunzione. Rispetto alla risposta dell’insulinica endogena, la somministrazione esogena prevede tempi diversi per raggiungere la concentrazione attesa e una permanenza più prolungata. Questo comporta estrema precisione nella somministrazione, una quotidianità decisamente scomoda per l’individuo e un generale rischio di ipoglicemia qualora i tempi di somministrazione non siano stati programmati con precisione. Simili limiti sono stati superati con l’apporto della biotecnologia che ha permesso di progettare analoghi dell’insulina ad azione rapida e, più recentemente, ad azione prolungata. Per molti anni dopo la scoperta dell’insulina, l’iniezione tramite siringa è stata l’unica modalità di somministrazione. Oggi sono disponibili diversi metodi, come le penne monodose usa e getta o a cartucce di insulina, oppure microinfusori, veri e propri computer indossabili. E poiché il monitoraggio dei livelli di glucosio è l’aspetto fondamentale di ogni terapia, si stanno diffondendo anche applicativi connessi alle penne per garantire controllo e definizione del trattamento tramite la lettura dei dati su smartphone. A cento anni dalla scoperta, il progresso è tutto in divenire. (S. L.). Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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IL NAVIGATORE DEGLI SPERMATOZOI Individuato un meccanismo molecolare importante per la fecondazione, che aiuta a mantenere la direzione verso l’ovocita

di Carmen Paradiso

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la glicina che consente agli spermatozoi di mantenre la retta via fino alla meta: l’ovocita da fecondare. Senza l’aggiunta di questo amminoacido alla sequenza della proteina tubulina (componente fondamentale della coda dello spermatozoo o flagello) la fertilità risulta compromessa. È questa la scoperta, pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Science, che porta anche la firma italiana: Gaia Pigino, associate head del Centro di ricerca in Biologia strutturale dello Human Technopole e group leader al Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda, e due studenti del suo team, Gonzalo Alvarez Viar e Aleksandr Kostarev. La ricerca, sviluppata al Max Planck Institute di Dresda, all’Istituto Curie di Orsay e al Centro di ricerca e studi avanzati europei di Bonn, grazie alla crio-microscopia elettronica, (una tecnologia che consente di vedere sino quasi alla scala degli atomi) ha evidenziato che senza l’aggiunta della glicina (mutazione genetica) gli spermatozoi non sono in grado di indirizzare il movimento verso l’ovocita (cellula riproduttiva femminile) in quanto tendono a muoversi circolarmente perdendo l’orientamento. Questo studio è di fondamentale importanza sia per l’infertilità maschile, che nell’80% dei casi è causata dalla scarsa mobilità degli spermatozoi, e sia per le ciglipatie (malattie ereditarie causate dal malfunzionamento del ciglio) che non riguardano solo l’infertilità maschile 34 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

essendo il ciglio un organo presente in molte cellule del corpo umano. Infatti, come spiega Gaia Pigino, associate head del Centro di ricerca in Biologia strutturale dello Human Technopole: «Nel corpo umano le ciglia sono fondamentali, si trovano pressoché ovunque: dai neuroni, alle cellule epiteliali di reni e polmoni, agli spermatozoi. Nelle fasi di sviluppo dell’embrione l’azione delle ciglia sono fondamentali perché portano al corretto “posizionamento” e sviluppo di organi e tessuti. Nell’adulto invece, sono necessarie per il corretto funzionamento della maggior parte degli organi. Inoltre, le ciglia sono le strutture cellulari che ci permettono di percepire l’ambiente che ci circonda, vediamo grazie alle ciglia dei fotorecettori nella nostra retina, odoriamo e udiamo grazie alle ciglia sensorie all’apice dei neuroni nel nostro naso e orecchie. Con l’avanzamento della conoscenza delle loro caratteristiche il funzionamento di ciglia e flagelli viene ad essere correlato ad un nu-

mero crescente di patologie, dette anche cigliopatie, tra cui idrocefalo, infertilità, malattie delle vie aeree, malattie policistiche del rene, fegato o pancreas, disfunzioni cognitive, nonché malattie della retina e difetti dell’udito e dell’olfatto. Sebbene si tratti ancora di una ricerca di base, conoscere sempre meglio questi organelli ci permetterà di sviluppare in futuro studi per correggerne le disfunzioni e quindi le patologie derivanti».

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a prevenzione di tantissime malattie comincia a tavola e ruota intorno a scelte alimentari responsabili. Gli italiani hanno ridotto il consumo medio di sale di circa il 12% in 10 anni, passando da un’assunzione media giornaliera di 10,8 g negli uomini e 8,3 g nelle donne nel 2008-2012 a rispettivamente 9,5 g e 7,2 g nel 2018-2019. Una riduzione che emerge in maniera evidente dal monitoraggio nella popolazione italiana adulta dei livelli urinari giornalieri di sodio quale indicatore del consumo abituale di sale, i cui risultati sono disponibili online sulla rivista scientifica Nutrition, Metabolism and cardiovascular diseases. Il monitoraggio, partito nel 2008, è stato promosso e finanziato dal Ministero della Salute - Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ccm), e condotto dal Dipartimento Malattie Cardiovascolari, Endocrino-metaboliche e Invecchiamento dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. «Lo studio – spiega Chiara Donfrancesco, ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità, responsabile dell’indagine - ha confrontato i dati dell’escrezione urinaria di sodio in campioni estratti casualmente dalla popolazione generale adulta nel 2008-2012 e nel 2018-2019 nell’ambito del Progetto Cuore. I campioni di popolazione coinvolti riguardano, per ciascun periodo, circa 2.000 uomini e donne di età compresa tra i 35 e i 74 anni residenti in 10 Regioni italiane, distribuite tra il Nord, il Centro e il Sud Italia: Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Abruzzo, Basilicata, Calabria e Sicilia. Abbiamo così potuto osservare che l’assunzione media giornaliera di sale nella popolazione è stata di 10,8 g negli uomini e 8,3 g nelle donne nel 2008-

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SALE, GLI ITALIANI SONO PIÙ ATTENTI Diminuisce il consumo del 12% negli ultimi 10 anni. Monitoraggio del Ministero della Salute pubblicato sulla rivista Nutrition, Metabolism and cardiovascular diseases

2012 e rispettivamente di 9,5 g e 7,2 g nel 2018-2019, con una riduzione significativa dell’assunzione di sale quindi di circa il 12% in 10 anni». La riduzione è stata rilevata, sebbene in misura diversa, in quasi tutte le Regioni esaminate e in tutte le classi di età, categorie di indice di massa corporea (normopeso, sovrappeso, obesi) e livelli di istruzione, e corrisponde a oltre un terzo rispetto all’obiettivo del 30% indicato nel Piano d’azione globale dell’Oms da raggiungere entro il 2025. «La diminuzione dell’assunzione di sale – afferma Pasquale Straz-

zullo, già ordinario di Medicina Interna presso l’Ateneo Federico II e co-autore dello studio - è stata dimostrata efficace nel ridurre la pressione arteriosa e il rischio di malattie cardiovascolari associate ed è identificata come una delle misure più convenienti, in termini di costi/benefici, per la tutela della salute a livello di popolazione. Per questo motivo, una riduzione relativa del 30% dell’assunzione media di sale entro il 2025 è tra i nove obiettivi strategici che l’Oms ha incluso nel Piano d’azione globale 2013-2020 per le malattie non trasmissibili». (E. M.) Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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NUOVO BIOMARCATORE PER IL PARKINSON Ricerca italiana dimostra l’aumento della chemochina Prochineticina 2 (PK2) nel siero dei malati. Si spera in nuove prospettive di diagnosi e cura

di Felicia Frisi

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ra le priorità per chi soffre di Parkinson, c’è la necessità di essere curati subito ed essere curati bene. Un principio facile da enunciare, ma difficile da tradurre nella pratica clinica con altrettanta disinvoltura. Tuttavia, la ricerca offre spesso nuovi percorsi per rendere sempre più precoce la diagnosi e sempre più efficace il trattamento della malattia. In tale direzione si è mosso un team di ricercatori che ha potuto dimostrare per la prima volta un significativo aumento della chemochina Prochineticina 2 (PK2), un peptide

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chemochino-simile, nel siero di pazienti affetti da malattia di Parkinson. I risultati di questo studio pilota condotto da Cinzia Severini dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc), da Nicola Biagio Mercuri e Tommaso Schirinzi della Clinica neurologica dell’Università di Roma Tor Vergata e da Roberta Lattanzi e Daniela Maftei del Dipartimento di fisiologia e farmacologia della Sapienza Università di Roma sono stati pubblicati su Movement Disorders. Lo studio ha analizzato il sangue di 31 pazienti con malattia di Parkinson e per la prima volta è stato di-

mostrato che i livelli serici di PK2 risultano significativamente aumentati rispetto a soggetti sani di controllo. «La PK2 è abbondantemente espressa nel sistema nervoso centrale ed è coinvolta in diverse funzioni sia fisiologiche che patologiche tra cui la neuroinfiammazione. Evidenze sperimentali hanno precedentemente dimostrato che la PK2 è un fattore che si attiva precocemente nella degenerazione nigrostriatale associata alla malattia di Parkinson, suggerendo un suo ruolo neuroprotettivo attraverso un’azione di ripristino del danno mitocondriale», spiega Cinzia Severini ricercatrice del Cnr-Ibbc. «Particolarmente interessante – dice la ricercatrice – è risultata la correlazione tra l’aumento di PK2 nel siero e due marcatori di neurodegenerazione nel fluido cerebrospinale (CSF o liquor) degli stessi pazienti, quali la proteina beta amiloide1-42 e il lattato. In particolare, l’aumento nel siero di PK2, associato ai più alti livelli di beta amiloide1-42 che si ritrovano nel liquor, può indicare un effetto protettivo di tale chemochina nei confronti della patologia a livello delle sinapsi neuronali e della deposizione di placche di amiloide, eventi comuni sia alla malattia di Parkinson che alla malattia di Alzheimer. Inoltre, tale aumento di PK2 si correla con la diminuzione dei livelli di lattato nel liquor, indice di stress ossidativo e danno mitocondriale, confermando l’ipotesi di un’azione antiossidante e di ripristino del danno mitocondriale». Tali risultati suggeriscono che la PK2 possa rappresentare non soltanto un potenziale biomarcatore precoce della patologia, ma anche un target farmacologico per la creazione di terapie potenzialmente utili nella malattia di Parkinson. «L’obiettivo finale è quello di comprendere appieno il ruolo di PK2 nella malattia di Parkinson, aprendo quindi la strada a possibili sviluppi clinici centrati su tale peptide», conclude Severini.


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LA MIGRAZIONE DALLE QUATTRO ALLE DUE RUOTE Più bici e moto, maggiore attenzione delle amministrazioni locali ma non mancano le criticità. I dati del rapporto dell’Osservatorio Focus2R

mezzi pubblici e quelle dotate di un servizio di bike sharing, che passano dal 57% del 2018 al 53% del 2019. Una leggera diminuzione quest’ultima, che incide anche sul numero degli abbonati (-10%) e su quello dei mezzi (-14%). Sono tuttavia i dati sulla sicurezza dei ciclisti a destare preoccupazione: 253 delle 3.173 vittime della strada del 2019 sono stati infatti ciclisti (in aumento del 15% rispetto al 2018). Sul fronte della mobilità su moto, scooter e ciclomotori l’accesso alle corsie riservate ai mezzi pubblici scende al 12% delle città intervistate. Ad oggi l’accesso è consentito in tutte o nella maggior parte delle corsie soltanto in sei Comuni (Benevento, Imperia, Milano, Parma, Taranto, Venezia), mentre solo in alcune di esse a Bergamo, Como, Genova e Pescara. Positivo invece l’andamento delle opportunità di sharing (soprattutto a trazione elettrica), che si consolidano in città importanti come Genova, Milano, Rimini, Roma e Torino. Sebbene limita-

to a queste cinque città, il numero complessivo di veicoli inizia ad avere una certa consistenza con 2.360 unità a Milano (il 57% del totale), 1.000 a Rimini, 560 a Roma e circa 150 a Genova e Torino. (F. F.)

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e due ruote, a pedali o a motore, destano un crescente interesse tra gli italiani. I benefici sono immediati e si misurano attraverso una mobilità agile, meno dispendiosa e inquinante rispetto alle autovetture classiche. È quanto emerge dal quinto rapporto dell’Osservatorio Focus2R, la ricerca promossa da Confindustria ANCMA (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori) con Legambiente ed elaborata dalla società Ambiente Italia. L’indagine fornisce ogni anno una panoramica delle politiche messe in campo dai Comuni capoluogo di provincia italiani e dedicate a ciclisti urbani e motociclisti. I risultati del monitoraggio sono il frutto di un questionario rivolto a 104 municipi, a cui quest’anno hanno risposto 79 amministrazioni. Il report, che non rappresenta i cambiamenti dettati dall’emergenza Covid19 attenendosi a dati relativi al solo 2019, rende disponibile un ingente patrimonio di informazioni su piste ciclabili, sharing mobility, parcheggi dedicati e tanti altri aspetti legati alla mobilità su due ruote nei centri urbani fornito direttamente dalle amministrazioni locali. Dopo cinque edizioni, l’ultima rilevazione conferma la graduale ascesa della mobilità su due ruote nell’agenda politica delle città italiane, seppure ancora troppo lenta e accompagnata da due ricorrenti campanelli d’allarme: la sicurezza degli utenti della strada e il profondo divario tra nord e sud del Paese nelle misure messe in campo. Per quanto riguarda la mobilità a pedali, salgono la disponibilità media di piste ciclabili, ciclopedonali, zone 20 e 30 km/h (+6% rispetto al 2018 e +20% dal 2015), la possibilità di accesso delle biciclette alle corsie riservate ai mezzi pubblici e il numero di Comuni con postazioni di interscambio bici nelle stazioni ferroviarie, mentre sono in calo le città in cui è consentito il trasporto di biciclette sui

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LA SPERANZA IN UN GUSCIO Possono noci, mandorle e nocciole aiutare la qualità degli spermatozoi e favorire la fertilità maschile? Lo studio pubblicato su Andrology

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n un mondo dove aumentano i livelli generali di infertilità maschile, una buona notizia è racchiusa in un piccolo guscio. Nuovi studi raccontano infatti che una giusta miscela di noci potrebbe aiutare migliorare la qualità degli spermatozoi. Da tempo diversi studi stanno indagando la potenziale efficacia delle noci, le mandorle e le nocciole, come alimenti in grado di portare benefici importanti alla qualità dello sperma. Di recente, pubblicato sulla rivista Andrology, uno studio portato avanti da un team di ricercatori dell’Universitat Rovira i Virgili, dell’Istituto della salute Pere Virgili, del CIBERobn (guidato dal Dr. Jordi Salas-Salvadó) e con alcuni colleghi dell’Università dello Utah (guidati dal Dr. Douglas T. Carrell), ha raccontato come possa esserci un collegamento fra il consumo di un mix di noci e i modelli di metilazione del DNA spermatico. I ricercatori hanno condotto uno studio su un campione di 72 giovani dallo stile di vita sano e non fumatori. È noto, infatti, che uno stile di vita in cui si eccede in fumo, abuso di alcol e droghe oppure in cui si hanno problemi di obesità, può incidere sulla qualità dello sperma. È importante anche una dieta corretta, per questo motivo i giovani sottoposti a una serie di esperimenti hanno dichiarato di sostenere uno stile di vita sano e

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una dieta adeguata. In particolare, per condurre i loro test, i ricercatori hanno somministrato un mix quotidiano di noci per un periodo di 14 settimane durante un programma chiamato FERTINUS che si è svolto dal 2015 al 2017 ed è stato guidato dalla dottoressa Mónica Bulló e dal dottor Albert Salas-Huetos, durante il quale veniva somministrato un mix di circa 60 grammi tra noci mandorle e nocciole. Quello che i ricercatori dichiarano di aver scoperto è un possibile collegamento tra il consumo di noci e un miglioramento del numero di spermatozoi nonché della loro vitalità, della loro motilità e della loro morfologia. Non si tratta di una “cura” né sicura né affidabile, ma in taluni individui sottoposti ai test i valori riscontrati dopo il consumo di noci sono stati incoraggianti, dicono gli esperti. È stata infatti riscontrata una diversa metilazione del DNA di 36 regione genomiche nei pazienti del gruppo che consumavano le noci oltre a una dieta corretta di diversi alimenti. «Questo lavoro dimostra che ci sono alcune regioni sensibili dell’epigenoma dello sperma che rispondono alla dieta e che possono provocare cambiamenti nello sperma e nella sua capacità di fecondare» ha spiegato Albert Salas-Huetos, autore dello studio. I ricercatori hanno visto che la metilazione di 36 regioni genomiche era dif-


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ferente tra l’inizio e la fine dello studio solo nel gruppo che consumava noci, ed il 97,2% delle regioni mostrava ipermetilazione. Segnali incoraggianti che però, spiegano gli stessi scienziati, non bastano: servono altri studi ed esami per approfondire il ruolo delle noci nella qualità dello sperma. WMentre si sa come detto che quest’ultimo può essere influenzato ad esempio da stile di vita eccessivo, ma anche da fattori ambientali, inquinamento e altre variabili, la dieta è oggi uno dei settori in generale più analizzati dalla scienza per cercare di trovare risposte al declino della qualità dello sperma maschile. In particolare andranno analizzate e comprese quali sostanze della miscela di frutta a guscio somministrata per 14 settimane possono aver apportato i miglioramenti per numero di spermatozoi, vitalità, motilità e morfologia. Albert Salas-Huetos, che ora lavora all’Università di Harvard, è convinto che approfondendo questo percorso si possano trovare nuove correlazioni fra il consumo di noci e cambiamenti nello sperma e nella sua capacità di fecondare. In passato in più occasioni sono state esaminate noci, nocciole e mandorle come potenziali aiutanti per aiutare i maschi a diventare futuri padri. Già nel 2018 per esempio un’altra ricerca aveva

I ricercatori hanno condotto lo studio suun campione di 72 giovani dallo stile di vita sano e non fumatori, ai quali hanno somministrato un mix quotidiano di noci per un periodo di 14 settimane. Eccedere in peso e fumo incide sulla qualità dello sperma. © Yurchanka Siarhei/ shutterstock.com

suggerito che le noci unite a una dieta in “stile occidentale” poteva migliorare i parametri del liquido seminale in uomini sani ed in età riproduttiva. In questo caso lo studio suggeriva l’ipotesi che gli effetti benefici collegati al consumo di noci potessero essere il risultato di una riduzione della frammentazione del DNA dello sperma o dovuti ai cambiamenti nella metilazione del DNA. Anche qui non era chiaro quali sostanze presenti nelle noci agissero sulla metilazione dello sperma, ma i ricercatori avevano sottolineato la possibilità deòlla presenza nel mix di noci mandorle e nocciole dell’acido folico e della genisteina, ormone naturale che appartiene alla categoria degli isoflavoni, elementi in grado di favorire una azione antiossidante. Da tempo diversi studi, in più occasioni negati poi da altre ricerche, hanno avanzato diverse ipotesi sulle diete in grado di migliorare la qualità dello sperma. Spesso vengono indicati come importanti gli antiossidanti vegetali per migliorare la motilità degli spermatozoi, e sempre per aumentare la capacità di fecondazione vengono spesso citate vitamina C, vitamina E, zinco, arginina, folati e beta-carotene. Nonostante le tante indicazioni e ricerche, oggi non c’è però una ricetta univoca in grado di garantire miglioramenti sempre efficaci relativi ai problemi dell’infertilità maschile, che in Italia riguarda secondo alcuni dati quasi il 20% degli uomini in età riproduttiva. I ricercatori del nuovo studio, per tanto, chiosano suggerendo che le nuove osservazioni cliniche relative al consumo di noci possano giustificare un ulteriore approfondimento e indagini per trovare nuove certezze, oltre che speranze, nelle complesse relazioni tra dieta e fertilità maschile. (G. T.). Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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BELLI E IN FORMA CON LA MELA

Un team della Libera Università di Bolzano ha prodotto un oleogel dalle bucce del frutto con capacità antiossidanti, utile sia per l’industria alimentare, come ingrediente sostitutivo naturale, sia per quella cosmetica di Gianpaolo Palazzo

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er 50.000 lire comperò nell’ordine: una forchettina di plastica, un coltellino di plastica, stuzzicadenti di plastica, un bicchierino di plastica, un’ala di pollo… di plastica e una mela bacata». Al povero ragionier Ugo Fantozzi, in viaggio con i colleghi verso Ortisei per una settimana bianca a maggio, che non ci sarà, (“Fantozzi contro tutti”, film del 1980) le disavventure non mancano, neanche con le mele. Proprio da esse, anzi, grazie ai semi e alle bucce, è nato il primo brevetto depositato dalla Libera Università di Bolzano al Ministero dello Sviluppo economico. Nei laboratori del Parco Tecnologico, i ricercatori dell’équipe di Matteo Scampicchio, ordinario di Tecnologie alimentari alla Facoltà di Scienze e Tecnologie, hanno prodotto un oleogel con capacità antiossidanti, che potrebbe essere usato sia dall’industria alimentare come ingrediente sostitutivo naturale a composti di sintesi sia dall’industria cosmetica. Inoltre, si adatta bene pure alla produzione di pet food, ossia cibo per animali domestici. Il professor Scampicchio e la sua squadra di ricercatori sono riusciti a valorizzare i residui

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provenienti dalle lavorazioni di prodotti locali che, in caso contrario, andrebbero smaltiti, con un costo per le aziende. Infatti, il punto di partenza di questa scoperta sono state proprio le bucce delle mele, rimaste nelle industrie altoatesine di trasformazione alimentare: «La ricerca - ammette Scampicchio - è stata frutto del caso. La ricercatrice Giovanna Ferrentino stava verificando come estrarre polifenoli, composti antiossidanti, dalle bucce di mele per mezzo di CO2 supercritica. Al termine dell’operazione di estrazione, nel cilindro rinveniva sempre delle cere che lo ostruivano. Le abbiamo analizzate e abbiamo capito che quel materiale aveva delle potenzialità notevoli». Esaminato il deposito e miscelandolo con oli ricchi di acidi grassi insaturi, come l’olio di lino, si è ottenuto un gel capace di rallentare i processi di ossidazione e che, dunque, sarebbe molto utile per una produzione di alimenti decisa ad evitare l’impiego d’ingredienti chimici come il BHT (butilidrossitoluene), BHA (butilidrossianisolo) o per prodotti cosmetici in cui potrebbe rimpiazzare, ad esempio, il propil gallato. Nel laboratorio dell’Università bolzanina si è, inoltre, scoperto


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I dati sulle produzioni

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a produzione di mele nel 2020 è poco oltre i 2,1 milioni di tonnellate. L’analisi di “Assomela”, l’associazione dei produttori di mele, che rappresenta, attraverso i suoi membri circa l’80% della produzione melicola nazionale e il 20% di quella europea, fotografa, a livello regionale, una perdita in Alto Adige, colpito da gelate primaverili e grandinate, mentre è tornata ai livelli degli anni precedenti in Trentino. Si presentano con il segno positivo pure Veneto e Lombardia. Cala, sempre a causa di eventi estremi come gelo, grandine, nubifragi, siccità e caldo torrido, la raccolta nell’Emilia Romagna, mentre fa segnare un record la produzione piemontese, seconda per importanza dopo quella del Trentino - Alto Adige.

che la funzionalità antiossidante acquisita dagli oleogel prodotti con la cera aumenta in funzione della velocità di raffreddamento della miscela contenente la matrice di acidi grassi insaturi in forma liquida e la cera, successivamente al loro riscaldamento e miscelazione. Della mela, come per il maiale, in Trentino - Alto Adige non si butta via nulla, neanche i semi, capaci di regalare olio green: «È già possibile comprare olio estratto dai semi di mela, che viene usato per usi cosmetici. Ciò che differenzia la nostra ricerca - spiega Giovanna Ferrentino, ricercatrice e docente di “Operazioni Unitarie” alla Facoltà di Scienze e Tecnologie - è l’utilizzo di una tecnologia pulita che non fa ricorso ai solventi. Si tratta di una grande opportunità, perché gli elementi comunemente definiti di scarto possono ritornare ad essere ingredienti veri e propri da reintrodurre nel ciclo produttivo. Questo è uno degli obiettivi che dovrebbe avere l’Europa e molti gruppi di ricerca stanno già lavorandoci su, anche per sensibilizzare le aziende e per trovare una soluzione assieme a loro». L’estrazione con anidride carbonica supercritica dà un ulteriore vantaggio, poiché l’olio

«È già possibile comprare olio estratto dai semi di mela, che viene usato per usi cosmetici. Ciò che differenzia la nostra ricerca - spiega Giovanna Ferrentino, ricercatrice e docente alla Facoltà di Scienze e Tecnologie - è l’utilizzo di una tecnologia pulita che non fa ricorso ai solventi». © wavebreakmedia/ shutterstock.com

ottenuto è di qualità più elevata: è assente l’amigdalina, un composto tossico a base di cianuro, presente in basse quantità nell’olio estratto con solventi. Una volta raccolto dall’estrattore, l’olio di semi di mele è un prodotto finito, dal profumo di mandorla, che può essere usato come additivo nelle lavorazioni alimentari, ma non solo. Ha evidenti caratteristiche nutraceutiche dal momento che contiene in abbondanza antiossidanti come tocoferoli. Come avviene il procedimento? I semi di mela vengono in un primo momento essiccati a 40° fino a dodici ore e poi macinati. Quindi, la polvere viene inserita nel cilindro dell’estrattore da cui, dopo circa trenta minuti, si ricava l’olio. La resa è di circa il 21%: da 400 grammi di semi si possono ricavare circa 80 grammi di olio. «Abbiamo iniziato a collaborare inizialmente con una grande multinazionale svizzera, ma il rapporto si è interrotto per un problema di volumi minimi. Ora - conclude il professor Scampicchio - abbiamo un progetto avviato con l’altoatesina “Vog Products”, che tratta tonnellate di mele ogni mese e, dunque, ha a disposizione una quantità di scarti enorme. Sono interessati a valorizzarli». Il nuovo brevetto riguarda sia il prodotto ottenuto, sia il procedimento di estrazione per mezzo di CO2 supercritica, un’operazione amica dell’Ambiente. Attualmente i ricercatori stanno verificando la possibilità di produrre l’oleogel anche da ulteriori prodotti di scarto come vari cereali, semi di girasole, dalla soia, dai fogli cerei, dalle bucce dell’uva e dai semi delle olive. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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L’ALOPECIA CURATA CON LE STAMINALI Su “Cell Metabolism” lo studio che spiega come le cellule site nei follicoli piliferi sarebbero la chiave per rallentare l’invecchiamento e far ricrescere i capelli perduti di Biancamaria Mancini

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capelli giocano un ruolo importante nell’uomo, sia esteticamente che nelle relazioni; la parte esterna che noi osserviamo è in realtà solo la parte morta del capello. La parte viva del capello, la radice, è interna al follicolo localizzato nel derma del cuoio capelluto. Il follicolo pilifero è un organulo davvero piccolo, eppure la sua complessità funzionale e i numerosi meccanismi molecolari che lo coinvolgono, lo rendono un importante modello per studiare la differenziazione delle cellule staminali e i meccanismi dell’invecchiamento cellulare umano. È recente la notizia pubblicata su Cell Metabolism che proprio le cellule staminali site nei follicoli piliferi sarebbero la chiave di svolta per prevenire l’alopecia, per rallentare l’invecchiamento e per far ricrescere finalmente i capelli perduti [1]. Alla base del follicolo è sita la papilla dermica, responsabile del trofismo capillare, ed è proprio qui che è presente un’altissima attività mitotica responsabile dell’allungamento del capello e della sua pigmentazione tramite i melanociti. Nonostante la grande attività cellulare, non è nella papilla dermica che risiedono le

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cellule staminali del capello. Allora dove si trovano le cellule staminali necessarie a garantire il continuo ricambio cellulare e l’innesco del nuovo anagen? Più in superficie rispetto alla papilla dermica, ma sotto la ghiandola sebacea, vi è un rigonfiamento detto bulge in cui si localizza un pool di cellule staminali responsabile di ogni riavvio del ciclo vitale del capello per tutta la vita dell’individuo. È proprio dalla zona del bulge in seguito a precisi segnali biochimici che, le cellule staminali follicolo (HFSC), scenderanno verso la papilla dermica per dare origine alla nuova crescita [2]. In particolare, una volta attivate, le HFSC escono dal bulge per generare la guaina esterna della radice, ma incredibilmente una parte di queste ritorna al bulge come nuove cellule staminali di riserva. I meccanismi di questa reversibilità non sono chiari ed è proprio questo meccanismo alla base della ricerca di moltissimi


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Bibliografia 1. Christine S.Kim, Sara A.Wickström et al. “Glutamine Metabolism Controls Stem Cell Fate Reversibility and Long-Term Maintenance in the Hair Follicle” Cell Metabolism Volume 32, Issue 4. Pages 629-642. 6 October 2020, 2. Biancamaria Mancini “Embriogenesi del follicolo pilifero” Il Giornale dei Biologi Anno II n. 10. Pag. 52-53. Ottobre 2019 3. Huang K, Fingar DC “Growing knowledge of the mTOR signaling network”. Seminars in Cell & Developmental Biology. 36: 79–90. December 2014.

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scienziati perché considerata la chiave per comprendere il segreto della giovinezza e della ricrescita capillare. Nello studio condotto da Wickstroem nell’Università di Helsinki [1], si dimostra che la capacità delle cellule della guaina esterna di tornare allo stadio staminale richieda la soppressione di un passaggio metabolico durante le prime tappe di attivazione delle HFSC dove è coinvolto il metabolismo della glutammina. Interessante sottolineare come sia la reversibilità elle HFSC che il metabolismo della glutammina siano regolati dal complesso rapamicina2 (mTORC2)-Akt già all’interno del bulge. In diversi studi biochimici, mTORC2 ha dimostrato di rispondere ai fattori di crescita e di modulare il metabolismo e la sopravvivenza cellulare, grazie alla sua attivazione della chinasi di sopravvivenza Akt [3]. Da queste pregresse evi-

Più in superficie rispetto alla papilla dermica, ma sotto la ghiandola sebacea, vi è un rigonfiamento detto bulge in cui si localizza un pool di cellule staminali responsabile di ogni riavvio del ciclo vitale del capello per tutta la durata della vita dell’individuo.

denze, l’esperimento condotto a Helsinki dimostra che la soppressione di mTORC2 comporta il mancato ripristino delle cellule staminali del bulge, provocando una rigenerazione difettosa del follicolo pilifero e una compromessa manutenzione a lungo termine delle HFSC. Questi risultati evidenziano senza dubbio l’importanza del controllo spazio-temporale degli stati metabolici delle cellule staminali nell’omeostasi degli organi. La dimostrazione di quanto scritto è avvenuta mediante esperimenti in vivo su topi, grazie ai quali si è scoperto che è proprio la proteina Rictor, costituente del complesso proteico di mTORC2, che gioca un ruolo chiave nel processo di reversibilità. Negli esperimenti in vivo, sono stati quindi utilizzati modelli genetici di topo con deficit per la sintesi della proteina Rictor, e dalla loro osservazione si è documentato il ritardo della rigenerazione del capello e il rallentamento di ogni nuovo ciclo del follicolo pilifero [1]. Lo studio dimostra quindi che l’assenza della proteina Rictor può compromettere la reversibilità delle cellule staminali, avviando un lento esaurimento delle stesse nel bulge e anticipando la caduta dei capelli. Grazie a questa scoperta si aprono nuovi scenari terapeutici, come la modifica delle vie metaboliche per aumentare la capacità rigenerativa dei tessuti, e non solo riguardo la perdita dei capelli. La funzione di tutti i tessuti infatti, dipende dall’attività e dalla salute delle cellule staminali, ed è proprio la loro attività ridotta che provoca l’invecchiamento. Saranno necessari ulteriori studi per comprendere come tali risultati possano essere utilizzati nella biologia delle cellule staminali umane e nelle terapie farmacologiche che combattono calvizie e invecchiamento.

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GINSENG E PROTEINA FOXO3A Effetti antipigmentazione e antietà della bacca di ginseng coreano sulla pelle attraverso l’attivazione dei fattori FoxO di Carla Cimmino

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a ricerca è ormai rivolta verso la scoperta di agenti antiaging tra i prodotti naturali e l’attenzione di questo studio è rivolta al “ginseng rosso coreano”. Questa pianta erbacea viene utilizzata per effetti terapeutici, ma ha anche per effetti antitumorali, antifatica, antidiabetici, e promuove la sintesi di DNA, RNA e proteine. Uno studio recente ha dimostrato, che sia la foglia che la bacca di ginseng hanno livelli più elevati di alcuni ginsenosidi rispetto alla radice. Attualmente, l’estratto di bacche di ginseng è in fase di valutazione in studi clinici e preclinici, perché ha alti livelli di composti attivi, in particolare ginsenoside Re e vitamina E. I fattori FoxO ( fattori di trascrizione di classe O forkhead / winged helix, regolano vari eventi biologici, tra cui metabolismo, crescita, sviluppo e longevità),sono coinvolti nella segnalazione cellulare e sono attivati da vari stimoli ambientali, come insulina, fattori di crescita dell’insulina (IGF), stress ossidativo, citochine e sostanze nutritive. In particolare si è visto come lo stress ossidativo

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inibisca o attivi i fattori FoxO. Ad esempio: il perossido di idrogeno inibisce l’attività di FoxO attivando la via della proteina B della fosfoinositide 3 chinasi influenzando gli effetti insulino-mimetici, considerando che le specie reattive dell’ossigeno (ROS) attivano la stimolazione dai macrofagi 1, la protein chinasi attivata dal mitogeno e la chinasi N-terminale c-Jun attivano la proteina FoxO tramite fosforilazione e rottura del legame con la proteina 14-3-3. Nella pelle, la sottoregolazione di FoxO3a promuove la senescenza cellulare nei fibroblasti dermici umani, FoxO3a regola anche la protezione contro le radiazioni UV-B e la sua traslocazione nucleare dipende dall’irradiazione UV. Questi studi suggeriscono, che FoxO3a ha un ruolo importante nelle risposte cellulari nella pelle indotte da stimolazioni esterne. La melanogenesi è uno dei processi dell’invecchiamento cutaneo e comporta una serie di fasi di ossidazione strettamente regolate. Recentemente è stato dimostrato che FoxO3a è un fattore anti-melanogenico, che media la depigmentazione indotta da antiossidanti (es.


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vitamina C, N-acetilcisteina e trolox (Vit E)), che riducono i livelli di melanina insieme alla traslocazione nucleare di FoxO3a. FoxO3a regola l’espressione di numerosi geni anche nella melanogenesi, e modula anche una via di segnalazione antiaging. Attraverso questa ricerca si è dimostrato, che gli estratti di bacche di ginseng e di radice di ginseng diminuiscono l’accumulo di melanina, questo effetto è dato dal syringaresinol. Poiché l’estratto di radice di ginseng, l’estratto di bacche di ginseng e il syringaresinol hanno attività antiossidante, è stata quindi studiata la loro relazione con la proteina genica antietà FoxO3a, si è visto che questi componenti del ginseng hanno indotto la traslocazione nucleare di FoxO3a, portando all’attivazione di geni anti-aging. Per confermare gli effetti antietà dei componenti del ginseng, sono state determinate le curve di sopravvivenza dell’organismo Caenorhabditis elegans, valutandolo come modello di invecchiamento. E’ stato infatti dimostrato che questi componenti del ginseng hanno prolungato la durata di vita del ceppo N2 di tipo selvatico.

I fattori FoxO, che regolano vari eventi biologici, tra cui metabolismo, crescita, sviluppo e longevità), sono coinvolti nella segnalazione cellulare e sono attivati da vari stimoli ambientali, come insulina, stress ossidativo, citochine e sostanze nutritive. © True Touch Lifestyle /shutterstock.com

Considerando la lipofuscina è un biomarcatore per valutare la senescenza cellulare. E’ stato eseguito un test della lipofuscina utilizzando fibroblasti dermici umani proliferanti, per valutare l’attività antiaging nelle cellule della pelle. La lipofuscina pigmentata, che viene rilevata nelle cellule replicanti, si accumula durante il processo di invecchiamento. La lipofuscina si accumula con l’aumentare dell’età replicativa dei ceppi di fibroblasti umani. Utilizzando fibroblasti dermici umani di pelle adulta per misurare l’effetto antiaging di syringaresinol rilevando il livello di accumulo di lipofuscina, sono state osservate notevoli differenze, con una marcata diminuzione della lipofuscina nei fibroblasti di età avanzata. Questi risultati suggeriscono che gli effetti antietà dell’estratto di bacche di ginseng sono rilevanti anche nel modello di invecchiamento della pelle. Tuttavia, ancora ulteriori studi in vivo devono essere eseguiti per poter confermare questi effetti. In conclusione. L’estratto di bacche di ginseng e il suo componente fitochimico naturale syringaresinol hanno mostrato effetti anti-melanogeni su una linea cellulare di melanoma umano, prolungato la durata della vita dell’organismo modello di invecchiamento C. elegans e ridotto l’accumulo della lipofuscina pigmentata correlata all’età nei fibroblasti dermici umani. Questi effetti possono essere dovuti a una potente attività antiossidante e all’attivazione del gene della longevità FoxO3a. Questi dati evidenziano che l’attività anti-pigmentazione e anti-aging dell’estratto di bacche di ginseng indotta dall’attivazione del gene della longevità FoxO3a, potrebbe rappresentare un buon imput per lo studio delle vie di segnalazione anti-melanogene, utilizzando componenti di ginseng, e anche per progettare agenti farmacologici o anti-melanogenici che regolano la segnalazione anti-aging. Inoltre, il trattamento con syringaresinol ha ridotto l’accumulo della lipofuscina pigmentata correlata all’età nei fibroblasti cutanei umani. Tratto dall’articolo “Effects of Korean ginseng berry on skin antipigmentation and antiaging via FoxO3a activation”, di JuewonKim, Si YoungCho Su, HwanKim1DonghyunCho, SunmiKim, Chan-WoongPark, TakahikoShimizu, Jae YoulCho, Dae BangSeo, Song Seok Shin. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Salute

LE SCUOLE DI MEDICINA NELL’ETÀ ELLENISTICA Il centro culturale di Alessandria, fulcro del mondo scientifico, con l’organizzazione di congressi, dibattiti e confronti favorì l’incontro tra scienziati di tutto mondo

di Barbara Ciardullo

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Pur partendo dagli studi ippocratici, egli però si ricollega alla posizione empirica, affermando che l’esperienza è superiore alla speculazione teorica. Erofilo pone la sua attenzione sulle pratiche chirurgiche, come la dissezione e la vivisezione e per questo motivo viene considerato il fondatore dell’anatomia scientifica. Erasistrato di Ceo (III sec. a. C.) è sostenitore anche lui del metodo sperimentale ed è ritenuto il fondatore della fisiologia. Altre scuole importanti nel mondo ellenizzato, distanti tra loro sul piano metodologico e dottrinario, vanno incontro a competizioni, che spesso sfociano in accese polemiche. Tra le scuole dell’età ellenistica troviamo: • scuola empirica: essa si ricollega in parte alla corrente filosofica dello scetticismo. Fondatore di questa scuola è Filino di Cos (IV-III sec. a. C.), allievo di Erofilo. Filino però estremizza le sue posizioni, allontanandosi di molto dal suo maestro. Secondo la sua tesi come quella

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lessandria d’Egitto durante l’età ellenistica è il centro attivo sul piano culturale: infatti, la Biblioteca ed il Museo, istituzioni di grande erudizione fondate dai Faraoni, costituiscono il luogo principale dove gli studiosi trovano l’agio di discutere e di lavorare in condizioni ottimali da ogni punto di vista: scientifico, bibliografico, logistico e materiale. Alessandria, insomma, rappresenta la sintesi della scienza classica ed ellenistica e l’organizzazione di congressi, dibattiti e confronti favorisce l’incontro tra uomini di pensiero provenienti da ogni parte del mondo. Alessandria nel campo della medicina è la città più efficiente ed importante, dove vengono coltivati in modo particolare gli studi anatomici e fisiologici e dove nascono più scuole presiedute da diversi maestri. La più famosa è quella gestita da Erofilo di Calcedone (IV-III sec. a. C.).

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degli empirici, in medicina è conoscibile solo ciò che è basato sulla pratica e sull’osservazione dei fatti. Poco interessati all’anatomia e contrari ai processi di dissezione e vivisezione, che considerano un processo disumano, gli empirici identificano la finalità della medicina nell’indicare la giusta terapia ed insistono sull’individualità del singolo paziente, onde evitare concetti troppo astratti ed anche generalizzazioni. • Scuola dogmatica: questa scuola, che viene definita anche logica e razionale o analogistica, parte dagli insegnamenti di Platone e di Aristotele. Gli esponenti di questa scuola sono i veri continuatori del metodo ippocratico. Essi, infatti, nei loro studi dicono che la medicina deve affidarsi alla ragione e alla congettura ed, inoltre, ritengono che sono fondamentali le pratiche chirurgiche, come la dissezione e la vivisezione, opponendosi così agli empirici. • Scuola metodica: questa scuola riprende il pensiero dell’epicureismo e di Democrito e per questo modo di vedere e di considerare la scienza in generale si allontana sul piano programmatico della tradizione ippocratea, che invece era tenuta in gran conto dalle altre scuole. Con questa posizione la scuola metodica provoca in un certo senso una sostanziale svalutazione dell’arte medica. I metodici non vanno alla ricerca degli elementi particolari nella malattia, bensì degli elementi comuni; allo stesso modo i medicamenti specifici e tradizionali sono banditi a favore di terapie di carattere generale, opponendosi così alla prassi degli empirici. • Scuola pneumatica: questa scuola si riallaccia allo stoicismo ed il suo fondatore è considerato Ateneo di Attalea (I sec. a. C.): come base metodologica essa tiene presente i principi scientifici portati avanti dai dogmatici e dagli ippocratici. Questa scuola, però, si differenzia quando fa dipendere la salute psicofisica dall’equilibrio tra lo “pneuma”, vero principio vitale, e le sue quattro qualità: umidità, secchezza, caldo e freddo, ed è favorevole a ricorrere non a terapie d’urto, come la pratica chirurgica, ma a terapie blande e generali.


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IL LATO OSCURO DELLE RINNOVABILI Per sostituire i combustibili fossili c’è bisogno di decine di materiali e di molte risorse naturali in più, portando danni al nostro ecosistema di Enrico Mariutti

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a crisi ambientale fa sempre più paura. La contrazione di gas a effetto serra in atmosfera aumenta incessantemente, la “febbre” del pianeta sale, i fenomeni metereologici di straordinaria violenza si moltiplicano. Nel frattempo, la fame di materie prime dell’umanità continua ad aumentare: ogni anno preleviamo dal sottosuolo e dalla biosfera circa 50 miliardi di tonnellate di risorse naturali, una massa pari a 7.000 piramidi di Cheope, con conseguenze disastrose per la salute dell’ecosistema e anche per l’equilibrio climatico. Come rileva il World Economic Forum, infatti, circa il 90% della perdita di biodiversità è legato al procacciamento di risorse naturali. Parallelamente, il cambio di destinazione d’uso dei suoli legato al fabbisogno di materie prime è responsabile per circa il 30% di quello squilibrio di gas in atmosfera che è il motore del cambiamento climatico. Dopo decenni di furibonde discussioni, si è andato aggregando un crescente consenso scientifico, politico e mediatico attorno a un programma globale di contrasto alla crisi ambientale imperniato sulle energie rinnovabili. Sfruttando il Sole e il vento per produrre energia, infatti, lasceremmo “sotto terra i combustibili fossili”, come invita a fare Greta Thunberg, alleggerendo la pressione sull’ecosistema terrestre e riducendo gradualmente le emissioni di gas a effetto serra. In teoria il ragionamento funziona ma nella pratica sprofonda in una gigantesca contraddizione: per costruire tutte le centrali eoliche e fotovoltaiche necessarie a sostituire completamente i combustibili fossili c’è bisogno di una quantità enorme di calcestruzzo, acciaio, rame, alluminio, cobalto, indio e altre decine di materiali. Insomma, di un mare di risorse naturali in più. Facciamo qualche esempio. Un commentary uscito qualche anno fa su Nature Geoscience stima che per convertire alle energie rinnovabili circa il 15% del fabbisogno globale di energia primaria (termica + elettrica) potrebbe essere necessario aumentare la produzione di calcestruzzo di 20 miliardi di tonnellate l’anno, quella di acciaio di 8 e moltiplicare di svariate volte quella di alluminio, vetro e rame . Va rimarcato che non si tratta di una voce isolata: anche su altre riviste prestigiosissime, come Science o PNAS, sono usciti Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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paper che prevedono un consistente aumento del fabbisogno di materie prime legato alla “rivoluzione verde”. E l’ONU, addirittura, ha istituito un panel apposito sull’argomento, sul modello del più noto panel sul cambiamento climatico (IPCC). Per essere chiari, l’umanità attualmente estrae dal sottosuolo circa 10 miliardi di tonnellate di combustibili fossili l’anno tra carbone, petrolio e gas naturale. Quindi non parliamo di diminuire il consumo di risorse naturali ma di accrescerlo vertiginosamente. D’altra parte, bisogna anche considerare un aspetto tecnico. Anche nei giacimenti più ricchi, i metalli sono presenti in concentrazioni molto basse. Per dare un’idea, genericamente in un deposito di rame il rame è presente in rapporto di 1 a 150 (1 tonnellate di rame ogni 150 tonnellate di roccia) ma nel caso delle terre rare questo rapporto può schizzare fino a 1 a 10.000. Quindi, parallelamente alle stime sul prelievo di minerali e metalli andrebbero contabilizzato anche il gigantesco flusso di materiali di risulta, la cui gestione – tra l’altro – presenta frequentemente notevoli problemi di carattere socio-ambientale a causa della contaminazione chimica legata ai processi estrattivi. Non solo: la produzione di calcestruzzo, acciaio o alluminio avviene attraverso cicli industriali energivori e ad alta intensità carbonica (che comportano notevoli emissioni di 50 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

anidride carbonica). Semplificando, rischiamo di alimentare un circolo vizioso: per produrre il calcestruzzo e l’acciaio necessari a costruire i pannelli solari servirà più energia, quindi serviranno più pannelli solari, quindi serviranno più calcestruzzo e acciaio, quindi servirà più energia, quindi serviranno più pannelli solari e così via. Anche la prospettiva del riciclo/riutilizzo dei materiali, purtroppo, è illusoria. Da una parte, perché alcuni materiali alla base della “rivoluzione verde” non si riciclano/riutilizzano. Il calcestruzzo, per esempio, è uno di questi. E poi perché, come sottolinea un recente paper uscito su Nature, il riciclo/riutilizzo di alcune componenti fondamentali della transizione energetica, come le batterie, comporta notevoli rischi per la sicurezza, problemi di ordine etico e, in definitiva, potrebbe presentare un bilancio ambientale negativo invece che positivo. Ma c’è di più. Di molti materiali alla base della transizione energetica, infatti, le riserve note sarebbero sufficienti a garantire la domanda globale solo per uno o due anni in uno scenario 100% rinnovabili. La Commissione Europea, per esempio, prevede che la domanda di Terbio legata alla transizione energetica europea potrebbe superare l’attuale produzione globale già entro dieci anni. Non a caso, si progetta di andare a cercare minerali e metalli a 100/200 chilometri di profondità o sugli asteroidi near-Earth . Due prospettive che, almeno per il momento, sono pura fantasia ma denotano le dimensioni titaniche del problema. Infine, non bisogna dimenticare che la domanda di energia aumenterà. Secondo l’ultimo World Energy Outlook dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) nel 2050 consumeremo il 50% di energia in più . E, se dovrà essere energia solare o eolica, ricadiamo ancora una volta nello stesso circolo vizioso di prima: servirà più energia, quindi serviranno più materiali, quindi più energia etc. I cortocircuiti logici, perciò, non mancano. Tuttavia, il problema rimane: il pianeta sta diventando una gigantesca serra. Ci sono altre soluzioni? Certo che ci sono. Tra le tante, vale la pena menzionarne una che non riscuote particolare attenzione mediatica, nonostante le grandi potenzialità: le emissioni negative. Con emissioni negative (NETs) si definiscono tutte quelle op-


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zioni che invece di emettere anidride carbonica in atmosfera la prelevano dall’aria e la stoccano nella geosfera o nella biosfera. Semplificando, permettono di invertire il ciclo alla base del cambiamento climatico. Non parliamo solamente di tecnologie avveniristiche o materiali innovativi: secondo la più ampia, recente e autorevole revisione della letteratura scientifica esistente in tema di assorbimenti forestali, un ettaro di bosco mediterraneo cattura più di 10 tonnellate di anidride carbonica l’anno e un ettaro di eucalipto ne cattura più di 30. Recentemente, il tema della cattura forestale è stato portato alla ribalta da un paper pubblicato su Science, che ha provato a stimare le potenzialità di un programma di riforestazione globale, giungendo a risultati sorprendenti . Ancor più sorprendente, però, è stata la reazione di molti climatologi e degli esperti green più ortodossi, che hanno cercato in ogni maniera di far ritirare la pubblicazione e di screditarne i risultati, nonostante le robuste evidenze scientifiche. Oramai non si riesce più a capire se l’obbiettivo è mettere al sicuro le prossime generazioni o far fare un sacco di soldi all’industria delle rinnovabili. C’è addirittura un florido filone scientifico, quello del “moral hazard”, secondo cui qualsiasi soluzione che rallenti lo sviluppo delle rinnovabili è immorale . E parliamo di centinaia di papers, non delle posizioni di qualche esaltato. Certamente il potenziamento degli assorbimenti naturali, che coinvolge anche l’agricoltura e la zootecnia, non può essere una soluzione definitiva, soprattutto in uno scenario contraddistinto da una crescita continua della domanda di energia. Ma ha due grossi vantaggi: costa poco ed è una contromisura-tampone che possiamo attivare in brevissimo tempo senza innescare reazioni politiche, economiche o sociali avverse. Allargando lo sguardo, le emissioni negative aprono uno squarcio su un gigantesco problema metodologico. Gli assoluti non vanno d’accordo con la natura umana. Azzerare è un concetto che ha ben poco a che fare con la nostra Storia. Sempre più “scienziati ambientalisti” come James Hansen, il decano dei climatologi, oppure Peter Wadhams, l’oceanologo autore del bestseller “Addio ai ghiacci”, si sono convinti che azzerare le emissioni sia impossibile. C’è chi scommette sugli assorbimenti naturali, c’è chi punta sulla cattura di-

retta (Direct Air Capture), c’è chi studia come alterare l’atmosfera per modulare l’apporto di radiazione solare e chi vede un gran futuro per l’energia nucleare. Oramai, a credere in uno scenario 100% rinnovabili sono rimasti solo i nostalgici di Al Gore, i disinformati e i lobbisti del solare o dell’eolico. Di conseguenza, viene spontaneo chiedersi: come è possibile che mentre il dibattito internazionale impazza, arrivando a coinvolgere anche i principali mass-media globali (New York Times , Washington Post , Guardian ), sulle riviste divulgative italiane non esiste un singolo approfondimento su questi temi?

Bibliografia

Il fabbisogno energetico necessario per la produzuone di una tonnellata di alluminio è pari a 30mila kwh. Quello per la produzione di acciaio varia dagli 800 ai 5mila kwh. Infine, quello per la produzione del calcestruzzo oscilla tra i 200 e i 300 kwh. © Gumpanat/shutterstock.com

1. http://www3.weforum.org/docs/WEF_The_Next_ Frontier_Natural_Resource_Targets_Report.pdf 2. https://www.globalcarbonproject.org/ 3. https://www.nature.com/articles/ngeo1993#:~:text=Potential%20future%20scarcity%20is%20 not,is%20also%20set%20to%20soar 4. https://science.sciencemag.org/content/367/6473/30.full?ijkey=p2yHdYIUFKUPg&keytype=ref&siteid=sci 5. https://www.pnas.org/content/112/20/6277#sec-1 6. https://www.resourcepanel.org/ 7. https://www.nature.com/articles/s41586-019-1682-5 8. https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/raw-materials-demand-wind-and-solar-pv-technologies-transition-towards-decarbonised-energy-system#:~:text=To%20meet%20the%20future%20 energy,drastically%20in%20the%20coming%20 decades. 9. https://www.nature.com/articles/s41561-0200593-2 10. https://www.nature.com/articles/s41550-0190827-7 11. https://www.iea.org/reports/world-energy-outlook-2020 12. https://cbmjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13021-018-0110-8# 13. https://science.sciencemag.org/content/365/6448/76 14. https://science.sciencemag.org/content/354/6309/182 15. https://www.nytimes.com/2018/11/14/climate/ climate-change-natural-solutions.html 16. https://www.washingtonpost.com/business/2019/06/12/new-plan-remove-trillion-tons-carbon-dioxide-atmosphere-bury-it/ 17. https://www.theguardian.com/environment/2019/ oct/21/farming-could-be-absorber-of-carbon-by2050-says-report.

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uando mi è stato segnalato l’articolo: “La grande eresia: la rivoluzione verde è un’enorme fake news?”, pubblicato online su Econopoly – il Sole 24 ore - l’11 Novembre 2020, e scritto da Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico, sono rimasta davvero colpita. Infatti, data la serietà della testata giornalistica e il livello dell’autore, e data la mia personale sensibilità ai temi dell’ambiente e della salute, i dati riportati hanno confuso la mia visione sulla sostenibilità. L’articolo mette in dubbio, anzi demolisce, molte delle convinzioni accumulate negli ultimi decenni, quelle convinzioni che mi hanno portata all’accoglimento entusiasta delle politiche Europee denominate Green Deal, proprio perché consone con la mia visione. In particolare il Green Deal europeo prevede un piano d’azione volto a promuovere l’uso efficiente delle risorse passando a un’economia pulita e circolare, al ripristino della biodiversità e alla riduzione l’inquinamento. E, per raggiungere questi obiettivi, la transizione energetica verso fonti rinnovabili rappresenta Direttrice Scientifica Istituto Ramazzini, Bologna. ** Dirigente di Ricerca, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Bologna. *

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una delle scelte fondamentali. Per basarmi su un parere scientificamente fondato e verificare la plausibilità dell’ipotesi di Mariutti, ho voluto confrontarmi con il collega Nicola Armaroli, considerato uno dei maggiori esperti in Italia e all’estero proprio sul tema della transizione energetica. Nei miei 40 anni di attività di laboratorio, dedicata soprattutto all’identificazione di agenti chimici o fisici dannosi per la salute, quello che ho appreso dagli studi che ho condotto è che tutti i carburanti di origine fossile esaminati, benzina, nafta, kerosene, i loro singoli costituenti come aromatici, additivi ossigenati antidetonanti, e i loro prodotti di combustione, sono cancerogeni nell’animale sperimentale. Gli stessi risultati sono stati in seguito spesso confermati nell’uomo, purtroppo andando a contare gli ammalati o i morti, lavoratori e popolazione generale, compresi i bambini, esposti agli stessi carburanti o ai loro prodotti di combustione. Quindi, l’abbandono dei combustibili fossili è per me una priorità in termini di salute pubblica, oltre che per la bonifica dell’ambiente in generale, naturalmente compresa la riduzione di CO2. Questo articolo è il frutto di un aperto confronto fra due scienziati di formazione diversa, ma con uguale attenzione alla sostenibilità dello sviluppo sul nostro pianeta; siamo coautori delle considerazioni riportate di seguito. Intanto l’articolo di Mariutti è basato su un duplice


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IL GREEN DEAL È UNA RIVOLUZIONE CULTURALE L’abbandono dei combustibili fossi è una priorità per salute pubblica e ambientale Commento all’articolo di Enrico Mariutti “La grande eresia: la rivoluzione verde è un’enorme fake news?”, pubblicato su Econopoly – il Sole 24 ore l’11 Novembre di Fiorella Belpoggi* e Nicola Armaroli**

infondato ragionamento: 1) La transizione energetica devasterà il pianeta; 2) La strada da percorrere è continuare a usare i fossili e stoccare la CO2 nel sottosuolo, un approccio facile e poco costoso. Cioè non prevenire...ma curare! Dove la cura potrebbe essere peggiore del male. Per il punto 1, Mariutti scrive: ”In definitiva, dietro a quella che chiamiamo “rivoluzione verde” si nasconde in realtà un programma per accrescere rapidamente e drasticamente il prelievo di risorse naturali. Con tutto quello che consegue per la salute degli ecosistemi e anche degli esseri umani: per estrarre miliardi tonnellate di ghiaia, argilla, ferro, bauxite e rame in più, distruggeremo altre foreste incontaminate, inquineremo ulteriormente aria e acqua, spingeremo verso l’estinzione decine di migliaia di specie animali”. Secondo Mariutti, il passaggio alle energie rinnovabili comporterà la devastazione ambientale del pianeta, a causa dell’aumento smisurato del consumo materiale. Abbiamo argomentato altrove su questi temi1, 2. In questa sede, per illustrare il nostro pensiero, ci soffermiamo su un esempio, quello dell’auto elettrica, un dispositivo che è particolarmente adatto per commentare il primo punto3. Uno di noi due possiede un’auto elettrica con una batteria da 40 kWh. La batteria, che include il guscio protettivo e l’elettronica, pesa 209 kg. Di questi, si può stimare che circa 100

Il Green Deal è un piano d’azione per promuovere l’uso efficiente delle risorse passando a un’economia pulita e circolare, al ripristino della biodiversità e alla riduzione l’inquinamento. Per raggiungere questi obiettivi, la transizione energetica verso fonti rinnovabili è fondamentale. © Smile Fight /shutterstock.com

kg siano materiali di pregio contenuti nelle celle: 10 kg di Litio, 25 di Nichel, 8 di Manganese, 9 di cobalto e 48 di grafite. Sono oggettivamente un bel po’ di “materia”. Però questi 100 kg seguono sempre il proprietario nei suoi viaggi: l’auto elettrica è un sistema chiuso che non necessita mai di rifornimento di nuovo materiale. L’unico ingresso è l’elettricità. Il proprietario può produrre questa elettricità a km zero sul tetto di casa con un impianto fotovoltaico o, ove questo non sia possibile, può stipulare un contratto di fornitura di sola elettricità rinnovabile con un operatore del mercato. Se non è così scrupoloso, utilizzerà il mix elettrico italiano che, essendo al 35% rinnovabile, garantisce comunque di rimanere largamente al di sotto delle emissioni di CO2 di un’auto tradizionale, come ampiamente assodato in letteratura4. Vediamo invece il caso dell’auto termica. Dopo 250mila km, un’auto diesel che ha un consumo di 18 km/l, ha bruciato 13900 litri di carburante, ovvero oltre 10 tonnellate di combustibile corrispondenti a circa 8 volte il peso dell’intera vettura e oltre 40 volte il peso di una batteria come quella descritta più sopra. Passando al flusso in uscita, un’automobile diesel Euro 6, dopo 250mila km ha emesso 35 tonnellate di CO2, circa 25 volte il suo peso. Non ce ne curiamo più di tanto perché la CO2 è un gas incolore, inodore e totalmente impercettibile ai nostri sensi: per noi quello scarto Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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non esiste. Utilizziamo l’atmosfera come discarica incontrollata per i rifiuti della nostra auto. L’auto tradizionale è un esempio da manuale di economia lineare: consuma quantità esorbitanti di materiali e produce una quantità addirittura superiore di rifiuti (purtroppo il carbonio si lega all’ossigeno dell’aria quando brucia) che scarica direttamente nell’ambiente. L’auto elettrica non consuma nulla di materiale durante tutto il suo periodo di funzionamento (neanche l’olio lubrificante). La batteria esausta di un’auto può funzionare per anni per altri scopi (utilizzo di seconda vita, tipicamente come accumulo per impianti di produzione elettrica rinnovabile); quando è totalmente fuori uso, può essere integralmente riciclata. In altre parole, i suoi materiali preziosi saranno recuperati ed utilizzati da altre persone. L’auto elettrica è quindi un esempio di economia circolare, dove le risorse, dopo essere state utilizzate, possono essere reintegrate nel ciclo economico. È assolutamente vero che la transizione energetica richiede enormi quantità di materiali, ma questo può essere un problema insormontabile solo se ragioniamo secondo i canoni consolidati, che sono quelli che utilizza Mariutti. E invece dobbiamo cambiarli. Facciamo un esempio numerico. L’attuale produzione mondiale annuale di litio sarebbe sufficiente a coprire solo il 10% delle auto che fabbrichiamo. Possiamo decuplicare la produzione di litio? Certamente, ma questo non possiamo farlo molto a lungo e le nostre future miniere di litio dovranno essere le batterie stesse, che andranno sempre più progettate non solo per essere efficienti e veloci da caricare, ma anche per essere facilmente separabili e riciclabili. Questo è il progresso tecnologico di cui abbiamo bisogno e questo accade già oggi. Quindi è auspicabile che si investa in questo settore. Bisogna poi sottolineare che il progresso non è richiesto solo in ambito tecnologico. Dobbiamo cambiare tutto. Sarebbe insensato replicare pari pari l’attuale sistema dei trasporti convertendo semplicemente auto termiche in auto elettriche. L’auto elettrica è solo parte della soluzione, il resto lo faranno car sharing, piste ciclabili e trasporti pubblici. Le città vanno reinventate: se pensiamo di progettare il futuro con le idee che abbiamo scolpite in testa non andremo da nessuna parte. Un sistema dei trasporti materialmente sostenibile deve contemplare l’auto elettrica per54 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

ché (a) consuma 4 volte meno energia dell’auto termica, (b) è possibile alimentare al 100% un’auto elettrica con energie rinnovabili che sono già oggi disponibili (non come il CCS!) e che sono già oggi le più competitive sul mercato, come il fotovoltaico e l’eolico. Ma questo non basta. Oggi ogni auto è ferma per il 97% del suo tempo di vita. Questo non ha senso: domani dovremo avere meno auto, utilizzate molto di più. Questo ci permetterà di consumare meno risorse, perché fabbricheremo e utilizzeremo meno auto, contribuendo a restituire alle nostre città la loro bellezza. Le considerazioni che abbiamo fatto sul trasporto si applicano ad ogni settore industriale ed economico. La Terra è una sorta di astronave con risorse limitate: progresso tecnologico, rinnovamento dei cicli industriali, ripensamento radicale dei paradigmi economici con un approccio circolare e sobrietà (individuale e collettiva) sono le armi che abbiamo a disposizione. Possiamo usarle, se solo lo vogliamo fare. Programmare invece il futuro coi vecchi paradigmi, come quelli che sottendono alle argomentazioni di Mariutti, non ci porta da alcuna parte. C’è un esempio molto calzante che riguarda i carburanti fossili e modalità simili a quelle proposte da Mariutti, cioè dove la cura è risultata peggiore del male. Si tratta delle cosiddette benzine verdi e delle marmitte catalitiche. Negli anni Ottanta, per far fronte al problema dell’inquinamento, si pensò di eliminare il piombo dalle benzine (si era scoperto che il piombo, neurotossico, provocava un calo di QI nei bambini); i carburanti vennero privati del piombo, che funzionava come ottimizzatore di ottani, e questo venne sostituito da antidetonanti organici (additivi ossigenati) di sintesi, come l’etanolo, il metanolo, l’MTBE e l’ETBE. Nel contempo venivano installate nel nuovo parco macchine le marmitte catalitiche, che non sarebbero state compatibili con la benzina al piombo. Grandi vantaggi per l’industria del petrolio e per quella delle automobili, che in pochi anni ebbero un nuovo parco macchine sul mercato, ma non dal punto di vista dell’inquinamento dell’aria perché le marmitte catalitiche entrano in funzione solo quando riscaldate dalla combustione, quindi vanno a regime in mezz’ora (tempo casa-ufficio), e nel frattempo rilasciano come prodotto di combustione le aldeidi (formaldeide, acetaldeide) entrambe classificate come cancerogene,


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e altro. Quindi, procrastinare l’utilizzo dei combustibili fossili significa continuare a minacciare la nostra salute. Evidentemente questo concetto non è ancora abbastanza chiaro per la politica: oggi il settore dei combustibili fossili riceve annualmente quasi 5 mila miliardi di sussidi pubblici diretti e indiretti (fonte FMI). I fossili assorbono il 70% dei sussidi diretti, contro un 20% destinato alle rinnovabili. Basta con la bugia sulle rinnovabili che ricevono fiumi di sussidi e sui fossili che invece si sostengono sul mercato. È una falsità conclamata. Per il punto 2, a prima vista le argomentazioni proposte da Mariutti possono apparire fondate sotto l’aspetto scientifico. Una delle affermazioni più forti dell’intervento è il seguente: “Un caso esemplare: la cattura diretta in atmosfera (della CO2 n.d.r.). La cattura diretta è una tecnologia dall’apparenza pionieristica, ma in realtà molto semplice, che permette di separare l’anidride carbonica dall’aria. Niente di fantascientifico, esistono decine di impianti pilota perfettamente funzionanti in tutto il mondo”. Il fatto che esistano impianti pilota, non significa nulla di concreto, né a breve né a lungo termine. Estrarre CO2 dall’aria è un processo tecnicamente complesso. La sua realizzazione su vasta scala a costi accettabili è lontana decenni dall’essere fattibile, se mai lo sarà. La ragione è semplice: la CO2 in atmosfera è molto, molto diluita. Preso un campione di 1.000.000 di molecole che compongono l’aria (ossigeno, azoto, argon, CO2, ecc.) solo 415 sono molecole di CO2. È facile quindi intuire che si tratta anche di un processo che richiede, tra le altre cose, un notevole consumo energetico. In pratica si consuma energia per limitare i danni del consumo di energia: un’operazione intrinsecamente illogica. Resta poi irrisolto il punto chiave, che dovrebbe stare particolarmente a cuore a chi scrive su un blog del Sole 24 Ore: quello economico. Attualmente l’umanità consuma circa 5 miliardi di tonnellate di petrolio l’anno, un liquido eccezionale da cui si ricavano innumerevoli prodotti utili. Il valore annuale del mercato globale del petrolio greggio ammonta a circa 1500 miliardi di dollari, assumendo il prezzo attuale di 40 dollari al barile. È un mercato immenso e radicato nel sistema economico mondiale; sono stati necessari decenni per metterlo in piedi. Bene, la domanda è: quale sarebbe la prospettiva e il senso economico di

È assolutamente vero che la transizione energetica richiede enormi quantità di materiali, ma questo può essere un problema insormontabile solo se ragioniamo secondo i canoni consolidati. E invece dobbiamo cambiarli totalmente. Le città vanno reinventate e ripensate.

creare un’infrastruttura complessa per catturare un gas che non serve a nulla e che deve essere semplicemente sotterrato? Chi costruisce questa gigantesca infrastruttura e chi la paga? Non bisogna poi dimenticare che (a) la quantità di CO2 che produciamo annualmente (36 miliardi di tonnellate) è oltre 7 volte (!) la quantità di petrolio; (b) una tecnologia per la cattura della CO2 dall’atmosfera o da grandi impianti di emissione (es. centrali termoelettriche) non è disponibile sul mercato. In pratica, si parla di nulla. Esiste un solo modo per risolvere il problema delle emissioni di CO2: lasciare la maggior parte dei combustibili fossili là dove sono e correre velocemente lungo il cammino di una epocale transizione energetica. Lo stoccaggio della CO2 nel sottosuolo ha l’obiettivo di tenere in vita il più possibile l’industria degli idrocarburi, che vede i suoi giorni luminosi ormai alle spalle. La strategia è evidente: darsi una immagine verde per sopravvivere, producendo ad esempio idrogeno dal metano, un’altra idea scientificamente zoppicante per innumerevoli ragioni che non abbiamo lo spazio per illustrare. A parte le insormontabili questioni tecniche, lo stoccaggio della CO2 nel sottosuolo è fuori da ogni logica di transizione energetica, che è ciò di cui abbiamo disperato bisogno. L’idea di continuare a bruciare combustibili fossili per immagazzinare la CO2 nel sottosuolo apparirà un’idea fuori luogo e fuori tempo prima di quanto si possa oggi immaginare, l’ennesimo sperpero di denaro, anche pubblico, per una strada senza uscita.

© Hryshchyshen Serhii /shutterstock.com

Bibliografia 1. N. Armaroli, “Emergenza Energia. Non Abbiamo più Tempo”, Edizioni Dedalo, 2020, ISBN 8822016033. 2. N. Armaroli, V. Balzani, “Energia per l’astronave Terra. Terza Edizione – L’Era delle Rinnovabili” Zanichelli, 2017, ISBN 978-88-08-52087-6. 3. F. Monti, A. Barbieri, N. Armaroli, “Battery Electric Vehicles: Perspectives and Challenges”, Substantia 2019, 3(2), 75-89 4. (a) A Moro, L Lonza, Electricity carbon intensity in European member states: Impacts on GHG emissions of electric vehicles, Transp. Res. D 2018, 64, 5. (b) European Environment Agency, Electric vehicles from life cycle and circular economy perspectives, 2018.

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aggiore durata e resistenza della superficie alle deformazioni permanenti, all’azione dell’acqua senza l’aggiunta di additivi specifici, minori costi di manutenzione e una ridotta sensibilità alla temperatura. L’asfalto modificato con il polverino di gomma ha conquistato molte strade italiane, tanto da poter coprire il tragitto Roma - Milano. I dati forniti da “Ecopneus”, la società senza scopo di lucro, principale operatore nella gestione dei PFU (Pneumatici Fuori Uso) in Italia, parlano per lo scorso anno di un + 63% rispetto al 2019. Guardando ancora più indietro, si è passati dai poco più di cento km posati nel 2010 ai 592 km totali a fine 2020. Già quarantadue Province hanno scelto di rifare le proprie vie sfruttando questa innovazione, mentre tra le Regioni in Emilia-Romagna, Toscana, Piemonte e Trentino Alto- Adige sono state realizzate le esperienze più importanti. «I risultati raggiunti - ha dichiarato il Direttore Generale di “Ecopneus”, Giovanni Corbetta - c’incoraggiano e ci spronano a continuare in questa direzione. Ci siamo impegnati molto negli anni a diffondere una maggiore conoscenza su questa valida applicazione della gomma riciclata, abbiamo attivato e supportato diversi studi scientifici e iniziative, come il progetto Life Nereide co-finanziato dall’UE. Per il 2021 auspichiamo ad una sempre più ampia diffusione di questa

tecnologia anche grazie all’entrata in vigore del nuovo decreto End of Waste che fornirà un importante supporto per aumentare la qualità dei materiali riciclati dai PFU». Le pavimentazioni stradali con leganti in gomma permettono un risparmio energetico e di risorse naturali, dal momento che utilizzano elastomeri recuperati come materiale base. C’è, poi, la riduzione della rumorosità dovuta al rotolamento degli pneumatici e al traffico veicolare. La struttura dei conglomerati “gommati”, oltre a ciò, consente di realizzare pavimentazioni meno “assordanti”, anche su infrastrutture che difficilmente andrebbero d’accordo con altri tipi di manti stradali fonoassorbenti. Tra i vantaggi indiretti abbiamo quello di aver trovato un uso secondario per i PFU, invece di cooperare al loro stoccaggio o allo smaltimento illegale. Ad esempio, per avere un chilometro di manto di usura stradale, spessore quattro cm, in una strada larga dieci metri e confezionato con legante contenente un 20% di polverino di gomma, dosato all’8% sul peso della miscela, si riesce a utilizzare una quantità di Pneumatici Fuori Uso superiore a dieci tonnellate. Gli asfalti modificati hanno ancora costi unitari più alti rispetto ai tradizionali, “imposti” dalla lavorazione del legante bituminoso e dalle più elevate percentuali di bitume richieste. Tuttavia, le analisi sul ciclo vita, portate avanti in tutto il

600 KM DI STRADE IN In Italia, gli asfalti modificati con aggiunta di innovativa e vantaggiosa. Diffusa nel mondo da oltre sessanta

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mondo, hanno dimostrato come le maggiori spese iniziali valgano nel tempo, grazie alla maggiore durata di queste pavimentazioni e ai minori costi di manutenzione. Reggio Emilia, dopo sei anni la pavimentazione presentava «una struttura ancora perfetta, nonostante il quasi dimezzamento dello spessore della pavimentazione rispetto al progetto iniziale senza la necessità di interventi manutentivi di alcun genere. Le analisi effettuate per accertarne lo stato di servizio, hanno previsto ulteriori 18 anni di vita utile senza interventi significativi». L’utilizzo di materie prime seconde, dal polverino di gomma al fresato del vecchio asfalto, ha evitato l’emissione di quaranta tonnellate di CO2 e ridotto i consumi energetici di 70mila kWh, pur essendo una tratta di soli tre chilometri; un risparmio equivalente ai consumi mensili di circa trecento famiglie di Reggio Emilia. L’impegno per l’economia circolare e la cultura del riciclo continua anche con il progetto “Life Nereide”, guidato dal Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa in collaborazione con “Ecopneus”, il Centro di ricerca belga BRRC, l’Istituto di Acustica e Sensoristica “Orso Mario Corbino”, la Regione Toscana e Arpat, Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana. Saranno realizzati almeno quattromila metri di nuove pavimentazioni sperimentali con dodici differenti miscele di conglomerato bituminoso per strati di usura

a bassa emissione sonora. Verranno utilizzati oltre 24mila kg di gomma riciclata e il 30-50% di “vecchio” asfalto. Le pavimentazioni saranno prodotte e posate a temperature inferiori di 30 40° C rispetto ai tradizionali asfalti modificati con gomma proveniente da PFU, abbassando anche del 30% l’emissione di vapori degli Idrocarburi Policiclici Aromatici. È prevista una riduzione dell’inquinamento acustico urbano di almeno 5dB e un aumento per l’attrito del 20%, non trascurabile nella sicurezza stradale. (G. P.).

Il riciclo

“E

copneus” gestisce raccolta, trattamento e recupero di circa duecentomila tonnellate di PFU destinate al riciclo nello sport, nelle infrastrutture, nell’arredo o nel recupero energetico. Dal 2011 al 2020, sono state oltre due milioni le tonnellate raccolte, di cui oltre 130mila sopra il proprio obiettivo fissato dalla legge. Solo nel 2019, grazie all’attività di recupero e riciclo, è stata evitata l’emissione di 371mila tonnellate di CO2 equivalenti (quanto 210mila automobili che percorrono 30mila km in un anno), un consumo di acqua di quasi 1,5 milioni di metri cubi (un volume equivalente al consumo medio giornaliero di oltre sei milioni di cittadini) e un prelievo di materie prime di 337mila tonnellate (pari al peso di 690 treni Frecciarossa).

N GOMMA RICICLATA gomma riciclata rappresentano una soluzione anni, nel nostro Paese sta trovando sempre maggiori conferme

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UN MURO VERDE PER SALVARE L’AFRICA Nuovi fondi per il Great Green Wall, la fascia verde che dal Senegal al Gibuti impedirà la desertificazione e creerà nuovi posti di lavoro

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iuscirà il grande muro verde a salvare le sorti dell’Africa e del Pianeta? È una domanda su cui ci si interroga da anni ma che ora, grazie a nuovi finanziamenti, trova risposte più concrete e verdi, proprio come la speranza. Per primo fu nel 1952 il biologo Richard St. Barbe Baker, durante una spedizione nel Sahara, a proporre l’idea di una “barriera verde”. Una zona di alberi e vegetazione in grado di attraversare l’intera Africa, proprio sotto i deserti del nord, del Sahel e del Sahara, partendo dalla costa occidentale sino a quella orientale. Una linea verde per opporsi all’avanzata del deserto: il biologo la ipotizzò di almeno una cinquantina di chilometri e cinquant’anni dopo, quell’idea divenne sempre più concreta. Riproposta nel 2002, durante il summit straordinario in N’Djamena (Ciad) in occasione della giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità, l’ipotesi di una grande muraglia verde, chiamata The Great Green Wall of the Sahara and the Sahel Initiative (GGWSSI), fu approvata dalla Conferenza dei capi di Stato e di Governo della Comunità degli stati del Sahel e del Sahara in una sessione a Ouagadougou (Burkina Faso) nel 2005 e il muro verde iniziò a diventare realtà. Lo scopo era creare una sorta di fascia in grado sia di contenere l’avanzata del deserto e mitigare gli impatti della crisi climatica, di promuovere una nuova economia basata su terreni dedicati all’agricoltura sostenibile,

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ma anche bacini e impianti energetici. Dai 50 chilometri iniziali il progetto divenne quello di una fascia di 8mila chilometri, largo almeno 15, capace di ripristinare milioni di ettari di terreno arido. Piantare alberi fondamentali per catturare 250 milioni di tonnellate di anidride carbonica e creare un’economia da 10 milioni di posti di lavoro. Un’opera naturale che da progetto dovrebbe essere pronta nel 2030, una fascia green capace di espandersi dal Senegal sino al Gibuti. Oggi però, quindici anni dopo gli inizi, è stata completata solo in piccola parte. Questo muro naturale capace di combattere la siccità e gli impatti del surriscaldamento, ideato per mettere freno al processo di desertificazione del Sahel che dagli anni Settanta in poi si è fatto sempre più lampante, è dunque ancora lontana dall’essere completato. L’Unione africana, che guida i lavori, agli 11 Paesi già coinvolti nel 2007 ha nel tempo aggregato altre nove nazioni per estendere il corridoio verde: oggi Algeria, Burkina Faso, Benin, Camerun, Ciad, Capo Verde, Gibuti, Egitto, Etiopia, Eritrea, Libia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan, Gambia e Tunisia sono tutti coinvolti nel progetto anche se alcuni paesi più di altri, su tutti l’Etiopia, sembrano davvero spingere nella direzione corretta per l’avanzata del “muro”. Attualmente la grande muraglia verde procede a rilento e a macchia di leopardo,


Progetto del Great Green Wall

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con progetti arenati in alcuni Paesi e altri che invece per fortuna corrono più velocemente. Recentemente a fare il punto sulla situazione è stato un report dell’UNCCD (la Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione) sostenendo che solo 4 milioni di ettari sui 100 milioni previsti sono stati recuperati e più della metà di questi sono stati portati avanti dall’Etiopia, prima della classe in questa difficile operazione. Ad oggi, stima il report, altri 18 milioni di ettari sono in lavorazione e vedranno presto la luce. Purtroppo, però, a quindici anni dalla partenza dei progetti, siamo ben lontano dai 10 milioni di posti di lavoro previsti: si parla di appena 335 mila nuove occupazioni, con l’Etiopia a beneficiarne maggiormente e il Ciad fanalino di coda (ha piantato “solo” 1,1 milioni di piante contro 16,6 milioni degli etiopi). In un mondo sempre più globalizzato e collegato e in un Pianeta che soffre sempre di più dell’innalzamento delle temperature e degli effetti della crisi climatica, con conseguente perdita di habitat e biodiversità, è apparso però chiaramente come questo progetto debba continuare per l’influenza che potrà avere su tutta la Terra. Anche per questo durante l’ultimo One Planet Summit for Biodiversity i potenti del mondo si sono riuniti e hanno deciso di finanziare ulteriormente la Grande muraglia verde nel tentativo di accelerare i lavori. In primis a esporsi è stata la Banca europea per gli investimenti che ha

Per primo fu nel 1952 il biologo Richard St. Barbe Baker, durante una spedizione nel Sahara, a proporre l’idea di una “barriera verde”. Una zona di alberi e vegetazione in grado di attraversare l’intera Africa, proprio sotto i deserti del nord, del Sahel e del Sahara. © Ekaterina Kondratova /shutterstock.com

annunciato un importante impegno economico dell’istituto per sostenere il progetto. Si tratta di un’accelerazione che porterà, come annunciato in Francia dal presidente Emmanuel Macron durante il meeting sulla biodiversità, ad una iniezione di fondi per 14,3 miliardi di dollari fino al 2025, tanti sono gli investimenti su cui potrà contare il progetto, anche se secondo le previsioni dell’UNCCD servirebbero almeno 33 miliardi di dollari per completare l’intera opera. Tutti i paesi africani coinvolti e quelli che finanziano l’opera, sono però convinti che nonostante i ritardi (solo il 4% è stato realmente realizzato) gli sforzi porteranno a programmi locali e intensificazione del verde in modo tale da mitigare la crisi climatica, tagliare la fame, creare posti di lavoro e ridurre i conflitti. La Francia, nel frattempo, si è fatta garante che gli impegni siano rispettati e che i nuovi fondi possano realmente aiutare i piccoli agricoltori. Oltre alla piantumazione, i progetti includono l’installazione di sistemi di irrigazione, lo sviluppo di infrastrutture resistenti al clima, come ad esempio strade e opere che possano proteggere da inondazioni, e anche impianti per l’espansione dell’energia solare. Un muro verde speranza che, ci si auspica, grazie ai nuovi fondi potrà trovare una iniezione di fiducia per la realizzazione concreta di un progetto che potrebbe davvero salvare tantissime vite umane, oltre che la fragile biodiversità del territorio. (G. T.). Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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a contaminazione del cosiddetto “oro blu” è diffusa e rilevante in gran parte del territorio italiano. Il “Rapporto nazionale pesticidi nelle acque” dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ci racconta che nel biennio 2017 - 2018 sono stati analizzati 35.023 campioni per un totale di 2.538.390 misure analitiche. Rispetto ai due anni precedenti, il numero di campioni è costante, ma aumenta del 29% la ricerca analitica. Sale anche la quantità delle sostanze cercate, che nel 2018 sono 426, rispetto alle 398 del 2016. Nonostante sia migliorata l’adeguatezza del monitoraggio, rimane una difformità fra il Nord e il Centro-Sud, dove le indagini sono in genere meno indicative in termini sia di rete sia di sostanze controllate. È necessario, secondo l’Ispra, una particolare prudenza nell’interpretazione del Rapporto. Lo studio ha incontrato molte difficoltà per le disomogeneità ancora presenti nei monitoraggi regionali, nelle frequenze di campionamento, ma anche nei limiti di quantificazione analitici. Il volume di ottantasei pagine è frutto di un lavoro che ha visto collaborare tutte le componenti del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, predisposto dall’Ispra sulla base delle informazioni trasmesse da Regioni e Province autonome, che attraverso le Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente eseguono le indagini sul territorio e le analisi di laboratorio.

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4.775 punti di campionamento e 16.962 campioni hanno potuto far emergere che nelle acque superficiali ci siano pesticidi nel 77,3% dei 1.980 punti di monitoraggio; in quelle sotterranee nel 32,2% dei 2.795 punti. Le concentrazioni controllate sono, di solito, frazioni di µg/L (parti per miliardo), però gli effetti nocivi possono rivelarsi pure con numeri molto bassi. Delle citate 426 sostanze ricercate ne sono state trovate 299. Gli insetticidi sono quelli più presenti, a differenza del passato, quando erano gli erbicidi. L’aumento dei primi si deve al maggior numero di elementi rintracciati, ma anche ad una selezione più specifica, sorvegliando gli utilizzi sul territorio. Complessivamente, la maglia nera va alla pianura padano-veneta, soprattutto perché ci sono molte attività legate all’agricoltura e per la specifica situazione idrologica dell’area, ma anche poiché nelle regioni settentrionali le indagini sono, in linea di massima, più rappresentative. 415 punti di monitoraggio (21% del totale), nelle acque superficiali, hanno concentrazioni superiori ai limiti ambientali. Le sostanze che più volte hanno causato il superamento sono gli erbicidi glifosate e il proprio metabolita AMPA, il metolaclor e i fungicidi dimetomorf e azossistrobina; nelle acque sotterranee, 146 punti (il 5,2% del totale) sono al di sopra dei parametri consentiti. Nella classifica dei più presenti, “vincono” nuovamente gli erbicidi glifosate e AMPA, il bentazone, i metaboliti atrazina desetil desiso-


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I SEGRETI CONTENUTI NELLE ACQUE

Su 426 sostanze inquinanti cercate nelle reti idriche, ne sono state trovate 299. Gli insetticidi le più diffuse

propil e i fungicidi triadimenol, oxadixil e metalaxil. Alcuni individuati con maggior frequenza (come il glifosate, AMPA) non vengono, tuttavia, ancora ricercati in diverse zone del nostro Paese e questa situazione, in attesa di una completa sistemazione della rete nazionale, rende impreciso ogni confronto fra le situazioni delle singole regioni. La frequenza complessiva di pesticidi, riferita ai punti di monitoraggio, indica un aumento graduale della diffusione territoriale, nel periodo 2009 - 2018, con una connessione diretta all’estensione della rete e al numero di quelli esaminati. Nelle acque superficiali la percentuale di punti con presenza di pesticidi è cresciuta di circa il 25%, in quelle sotterranee suppergiù il 15%. Guardando alle vendite di prodotti fitosanitari, si nota che nel 2018 hanno raggiunto le 114.396 tonnellate; dal 2009 al 2018 si è avuta una concreta diminuzione delle quantità messe in commercio, segnale di un inferiore impiego delle sostanze chimiche nei campi, della scelta di tecniche per la difesa fitosanitaria a minor impatto e di come l’agricoltura biologica si stia potenziando. Diminuiscono anche le vendite per unità di Superficie Agricola Utilizzata (SAU): la media nazionale corrisponde a 4,3 kg/ha. Decisamente al di sopra di questi dati si collocano: Veneto, Trento, Campania, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia. Le cifre del biennio evidenziano la presenza di miscele nelle acque con un numero medio di quattro sostanze e un massimo di cinquantasei

in un singolo campione. La contaminazione da pesticidi è un fenomeno composito e complesso da prevedere per il grande numero di elementi impiegati e per la pluralità delle “strade” che possono seguire nell’ambiente. Si deve tener conto che l’uomo, come altri organismi, è spesso esposto a “unioni” di sostanze chimiche di cui non si conosce la composizione e non si può valutarne ancora il rischio. Sarebbe meglio, dunque, per l’Ispra portare avanti un «approccio più cautelativo in fase di autorizzazione». (G. P.).

Le indagini Ispra hanno riguardato 4.775 punti di campionamento e 16.962 campioni. Nelle acque superficiali sono stati trovati pesticidi nel 77,3% dei 1.980 punti di monitoraggio. In quelle sotterranee sono stati individuati nel 32,2% dei 2.795 punti analizzati © Irina Kozorog /shutterstock.com

I dati sulle violazioni

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elle acque superficiali il più rilevante numero di superamenti è per il glifosate e il suo metabolita AMPA, superiori agli Standard di Qualità Ambientale rispettivamente nel 21,7% e nel 54,3% dei siti controllati. Si segnala per frequenza l’erbicida metolaclor e il proprio metabolita metolaclor-esa sopra i limiti nel 3,3% e nel 5,3% dei siti, nonché dei fungicidi dimetomorf e azossistrobina superiori ai limiti nel 1,7 e 1,4% dei casi. Nelle acque sotterranee il numero più alto di casi non conformi, pari al 3%, è dato dal fungicida carbendazim. Anche nelle acque sotterranee è stata trovata la presenza di glifosate e AMPA superiori ai limiti nel 2% e nel 1,6% dei casi. Considerevole la presenza dell’erbicida bentazone (1,7%) e dei metaboliti di erbicidi atrazina desetil desisopropil (1,4%).

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NEL 2020 ACCELERA LA CRISI CLIMATICA Quello appena trascorso è stato, insieme al 2016, l’anno più caldo mai registrato da Copernicus di Giacomo Talignani

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l 2020 sarà ricordato senza dubbio per la pandemia che ha stravolto il mondo, ma c’è un altro allarme che dovremmo davvero ascoltare. Quello da poco trascorso è stato infatti, insieme al 2016, l’anno più caldo mai registrato da quando esistono le rilevazioni. Non solo: chiude un decennio di temperature bollenti, come mai si era visto prima. I sei anni più caldi della storia si sono verificati tutti dal 2015 in poi. Dall’anno dell’Accordo di Parigi, si contano tutti e tre gli anni più caldi di sempre (2016, 2019, 2020). Così, mentre il mondo è ovviamente impegnato nel tentativo di sconfiggere la crisi sanitaria legata alla pandemia, il Pianeta ci manda segnali inequivocabili sull’accelerazione della crisi climatica. A registrare ancora una volta il record di caldo nel mondo è stato fra i primi il servizio europeo Copernicus, che ha ricordato come il primato arrivi al termine di un decennio di temperature fuori dalla media. Il 2020 ha registrato un aumento della temperatura media di 1,25°C rispetto all’era pre-industriale, proprio come il 2016, sostiene il servizio europeo Copernicus sul cambiamento climatico (C3S). La temperatura media globale durante è stata di circa 14,9° C, oltre 1,2° C al di sopra della media tra il 1850-1900. Il nuovo primato, il 2020 lo condivide con il 2016, ma allora entrò in azione El Niño, fenomeno natura-

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le per cui l’acqua calda superficiale nell’Oceano Pacifico tropicale può aumentare le temperature globali (mentre la Niña fa l’ opposto). Secondo l’Omm El Niño allora contribuì nel 2016 a un rialzo tra lo 0,1 e lo 0,2°C alla temperatura globale. «È abbastanza evidente che, senza l’impatto di El Nino e de La Nina sulla temperatura di anno in anno, il 2020 sarebbe l’anno più caldo mai registrato» ha detto, per esempio, Zeke Hausfather, climatologo presso il Breakthrough Institute. Queste temperature sopra la media, come quelle del 2020, contribuiscono in maniera costante e, talvolta impercettibile durante le nostre vite quotidiane, a cambiare le sorti del Pianeta. Mutano gli equilibri dei mari, dall’influenza sulle barriere coralline sino a quella su nutrienti ed ecosistemi; cambiano le dinamiche dei poli, con i ghiacci che si sciolgono sempre più rapidamente; riducono gli habitat naturali o li modificano; favoriscono il rilascio di metano e gas serra ben più potenti in atmosfera della CO2 nel momento in cui si scioglie il permafrost; partecipano a condizionare la vita degli esseri umani sia ad alta quota che sulle coste, dove preoccupa l’innalzamento dei livelli del mare. Insomma: sconvolgono le basi del nostro futuro proprio sotto i nostri occhi. A volte lo fanno in modo lampante, come nell’Artico e nella Siberia sempre più caldi, o nelle aree del mondo, dall’Australia al


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sud est asiatico sino all’America del Sud, dove il surriscaldamento globale si è fatto sentire in maniera sempre più pressante tra incendi, uragani, alluvioni e fenomeni meteo devastanti. Il nuovo record, quello del 2020, ci racconta in sostanza un mondo sempre più bollente che sta cambiando velocemente. Così ci ritroviamo, come ha detto Carlo Buontempo direttore del Copernicus Climate Change Service (C3S), con «le temperature eccezionalmente calde nell’Artico e nella Siberia settentrionale», addirittura 6 gradi sopra la media del trentennio 1980-2010. Quello dell’innalzamento delle temperature è un problema che colpisce qualunque Paese del mondo. L’Europa del progresso non ne è esente: 0,4 gradi rispetto al 2019 e conseguenze sia sulla salute delle persone che sull’economia. Mentre cerchiamo di correre ai ripari con politiche per abbassare le emissioni di gas serra e tentare di abbandonare i combustibili fossili a favore di energie rinnovabili e soluzioni green, le temperature continuano inesorabilmente a crescere. In parte sono calate le emissioni nell’anno del Covid per via di limitazioni e lockdown: ma si tratta di un effetto effimero se non si prenderanno misure a lungo termine. Secondo Vincent-Henri Peuch del Copernicus atmosphere monitoring service (Cams) «fino a quando le emissioni globali nette non si ridurranno a zero, la Co2 continuerà ad ac-

Il 2020 registra un aumento della temperatura media di 1,25°C rispetto all’era pre-industriale, proprio come il 2016, sostiene il servizio europeo Copernicus. La temperatura media è stata di circa 14,9° C, oltre 1,2° C al di sopra della media tra il 1850-1900. © Skylines/shutterstock.com

cumularsi e a determinare ulteriori cambiamenti climatici». E ulteriori cambiamenti climatici significano ulteriori sconvolgimenti delle nostre vite. Anche per Buontempo è evidente dunque «l’urgenza di ridurre drasticamente le emissioni per prevenire impatti climatici negativi in futuro». Oggi scienziati, esperti del clima, ricercatori e studiosi continuano ad avvertirci sempre dello stesso problema, che però tra pandemia e crisi economica non viene messo sullo stesso piano di altre “emergenze”. Eppure «non abbiamo tempo da perdere per garantire una giusta transizione verso un futuro a zero emissioni» sottolinea ad esempio Matthias Petschke, responsabile della Direzione Spazio (Dg Defis) della Commissione europea, che chiede di «mantenere gli impegni presi nell’ambito del nostro Green Deal europeo». A breve, si attendono per l’anno appena concluso nuovi dati sulle stime esatte delle medie delle temperature, ma la maggior parte degli esperti concorda che quello del 2020 potrebbe davvero essere l’anno del record di caldo. Talmente tanto che al Circolo Polare Artico, che noi accostiamo mentalmente sempre e solo al gelo, nel 2020 gli incendi hanno rilasciato ben 244 mega tonnellate di anidride carbonica. Una quantità record che contiene l’ennesimo messaggio in bottiglia della Terra agli umani: fare qualcosa per invertire la rotta prima che sia troppo tardi. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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I GHIACCIAI ALPINI POTREBBERO SCOMPARIRE ENTRO IL 2100 Indicatori chiave del cambiamento climatico, mostrano come negli anni il nostro Pianeta si stia trasformando

di Michelangelo Ottaviano

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ghiacciai di montagna sono indicatori chiave del cambiamento climatico che da anni a questa parte sta trasformando il nostro pianeta. La maggior parte degli studi dei ricercatori nel campo evidenzia scenari terrificanti per quello che sarà il surriscaldamento delle catene montuose nei prossimi anni. In particolare, una tra le previsioni meno incoraggianti è quella che emerge dalla ricerca degli esperti della Aberystwyth University, in Galles, realizzata in collaborazione con l’International Centre for Theoretical Physics di Trieste. Lo studio, pubblicato sulla rivista ClimateDynamics, ri-

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vela che il 92% degli oltre quattromila ghiacciai Alpini rischia di scomparire entro il 2100. Le Alpi, come riportato nell’analisi, tra la fine del XIX e l’inizio del XXI secolo hanno subito un riscaldamento doppio rispetto alla media delle catene montuose globali, e i dati raccolti prevedono un incremento della velocità di riscaldamento dei rilievi più elevati che si protrarrà fino alla metà del XXI secolo, indipendentemente da quale sarà il futuro scenario climatico. Secondo le stime, il riscaldamento atmosferico più forte si manifesterà proprio in questa decade se lo scenario di emissione dei gas serra rimarrà

immutato. Al contrario, in uno scenario di riduzione delle emissioni, si arriverà ad una stabilità solo alla metà del secolo. Nel corso dello studio, il team di ricercatori ha creato un modello dei ghiacciai alpini, calcolando le condizioni in cui i ghiacciai sarebbero in equilibrio, ossia non a rischio scioglimento. Il parametro attraverso cui è possibile misurare questa condizione e verificare un’ipotetica (ma purtroppo non così tanto) riduzione di volume, è definito come Equilibrium Line Altitude (ELA), l’altitudine della linea di equilibrio ambientale. I modelli forniti stimano una perdita di volume dei ghiacciai del 65-80% tra l’inizio del XXI secolo e il 2100, se si presenterà uno scenario di bassa emissione di gas serra; dell’80-90% in un moderato scenario di emissione; e la quasi completa scomparsa dei ghiacciai in uno scenario ad alta emissione. Mutamenti di tale veemenza colpiranno in primis gli ecosistemi alpini, e la perdita relativamente grande di volume potrebbe avere un impatto profondo sul deflusso dell’acqua dei fiumi. A questi rapidi cambiamenti sono inevitabilmente connessi anche dei forti rischi socio-economici, come il declino del turismo o l’impatto sugli impianti di energia idroelettrica. Sarà via via più difficile lo stoccaggio e il deflusso dell’acqua, e la diminuzione delle risorse idriche disponibili per le attività umane, in particolare durante la stagione estiva, sarà un problema con cui fare i conti. Per impedire che ciò accada è necessario un intervento organizzato e coordinato tra scienziati e istituzioni. In merito, gli esperti hanno sottolineato la necessità di ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera per stabilizzare le temperature al di sotto della soglia stabilita nell’accordo di Parigi del 2015. L’Italia, anche in un momento così delicato, non può trascurare i suoi obblighi verso l’ambiente, e la sua corsa in direzione della conversione verso la green economy non deve arrestarsi proprio ora.


Ambiente

I

n natura il colore media numerose interazioni tra e all’interno delle specie di animali e piante, e gli impatti antropici hanno avuto a lungo importanti influenze sull’evoluzione del colore di questi. Gli abusi dell’uomo per esigenze commerciali sulla flora e la fauna di un determinato ambiente esercitano una forte pressione selettiva sui tratti delle specie, a volte anche maggiore della selezione naturale. Lo studio condotto dagli esperti del Kunming Institue of Botany e dell’Università di Exeter, pubblicato sulla rivista scientifica Current Biology, ha raccontato il caso della Fritillaria delavayi, una pianta tipica dei monti Hengduan, in Cina. Le varie popolazioni di quest’erba, usata nella medicina cinese da più di duemila anni, hanno sviluppato la capacità di variare il colore delle foglie in corrispondenza del loro ambiente locale. La F. delavayi è un’erba perenne, che ha foglie solo in giovane età e produce un solo fiore l’anno: le piante adulte fioriscono in estate e muoiono ogni anno in inverno. Il colore delle foglie varia tra le popolazioni dal grigio al marrone fino al verde, e le colorazioni grigie e marroni appaiono ben mimetizzate al contrario degli individui verdi. Sono necessari oltre 3.500 individui per raccogliere 1 kg di bulbi, e ciò ha generato un aumento del prezzo e della pressione del raccolto. La risposta ai pericoli che possono ledere alla sua sopravvivenza, è una tecnica di difesa chiamata “camuffamento”. Solitamente viene usata dalle piante contro gli animali, ma alcune ricerche sulle popolazioni dello Yunnan nordoccidentale hanno evidenziato pochi segni di erbivori, escludendo così nemici naturali della Fritillaria. La divergenza di colore e l’adattamento locale per il camuffamento forniscono la prova della selezione differenziale tra le popolazioni. Analizzando i colori delle foglie e delle rocce in otto popolazioni della Cina sudoccidentale, è stata riscontrata

una significativa divergenza cromatica tra le popolazioni. Gli esperti hanno quindi approfondito l’associazione tra la corrispondenza dello sfondo, basata sulle distanze di colore tra le foglie e gli sfondi locali, e la potenziale pressione del raccolto, stimata attraverso due parametri: l’intensità e la difficoltà. Ciò ha fatto emergere una relazione significativa tra la distanza del colore e l’intensità dell’azione dell’uomo. Come previsto, le piante sembrano mimetizzarsi meglio nelle popolazioni con raccolti più pesanti e in quelle

in cui è più facile estrarre il bulbo. La risposta definitiva è giunta attraverso una serie di test al computer, dove ai soggetti è stato chiesto di riconoscere la F. delavayvi il più rapidamente possibile in ciascuna delle diapositive, simulando il processo di raccolta. Gli esseri umani guidano l’evoluzione delle popolazioni attraverso la raccolta commerciale, ma in generale è la prova che il nostro comportamento ha un impatto devastante sulla biodiversità, ed è arrivato addirittura a condizionare il cambiamento di una specie. (M. O.).

FRITILLARIA DELAVAYI LA PIANTA CHE SI NASCONDE Lo studio condotto dagli esperti del Kunming Institue of Botany e dell’Università di Exeter, spiega come il vegetale cinese si memetizzi per non essere raccolta dall’uomoW

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Innovazione

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“BEATRIX” PER VEDERE I MOSAICI GENETICI Lo studio è dei ricercatori del Cnr- Nano, del Cnr- In e della Scuola normale superiore di Pisa. Aiuterà la ricerca su malattie come autismo, epilessia e deficit cognitivi

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Beatrix il nome della nuova tecnica per generare e poi rivelare un mosaico genetico, una condizione tipica di alcune patologie del neurosviluppo anche gravi e associata all’insorgenza tumorale. È stata realizzata dai ricercatori dell’Istituto nanoscienze (Cnr- Nano) e dell’Istituto neuroscienze (Cnr- In) del Consiglio nazionale delle ricerche e della Scuola normale superiore di Pisa all’interno del Laboratorio Nest. Lo studio, finanziato da Telethon e dalla Regione Toscana, è stato pubblicato su Nature Communications. Gian Michele Ratto del Cnr- Nano, coordinatore del team di studio, ha spiegato: «Il 66 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

mosaicismo è la condizione in cui all’interno di un organo sono presenti diversi patrimoni genetici che vengono espressi contemporaneamente. Il risultato è un mosaico di caratteristiche che in alcuni casi sono innocue, come nei vegetali i fiori bicolori o il pelo a chiazze tricolori nel gatto calico, mentre quando si verifica nel cervello causa spesso conseguenze gravi: patologie genetiche come la sindrome di Rett, la displasia corticale focale o l’epilessia legata al gene PCDH19. Queste malattie sono caratterizzate da autismo, epilessia e deficit cognitivi. Anche le fasi iniziali dello sviluppo di un tumore sono caratterizzate dalla presen-

za di mosaicismo genetico, con sottoinsiemi di cellule che esprimono oncogeni frammiste in un tessuto normale». Beatrix è il primo strumento molecolare per visualizzare questi mosaici genetici nelle cellule in vivo e studiarne le caratteristiche in malattie neurologiche e oncologiche. Il ricercatore del Cnr- Nano, ha così proseguito: «Abbiamo potuto modificare il patrimonio genetico di una frazione di neuroni della corteccia cerebrale e identificare il genoma di ogni cellula grazie alla presenza di una proteina fluorescente. Le cellule normali sono rosse mentre quelle che portano la mutazione sono verdi. La presenza di queste proteine permette di studiare la fisiologia delle due popolazioni di neuroni, quelle normali e quelli “malati” nel cervello in vivo». Lo studio della fisiologia e patologia di malattie correlate a mosaico genetico è ora possibile «Quando questo strumento viene applicato su cellule diverse dei neuroni, siamo in grado di creare il mosaicismo genetico potenzialmente associato allo sviluppo tumorale. In questo modo si potrà studiare il comportamento di singole cellule tumorali durante lo sviluppo delle fasi iniziali della proliferazione e metastasi», ha concluso il dott. Ratto. La creazione di Beatrix è consentita dalla duplice competenza all’interno del Laboratorio NEST nell’ambito della ingegneria genetica e delle tecniche di microscopia ed elettrofisiologia in vivo. Claudia Lodovichi di Cnr- In di Padova ha fornito una collaborazione importante, dirigendo lo studio del mosaicismo genetico nel bulbo olfattivo. La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Telethon, che ogni anno promuove la settimana di sensibilizzazione a sostegno della ricerca scientifica sulle malattie genetiche rare. (P. S.).


Innovazione

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a rilevazione del diabete mellito attraverso la tradizionale tecnica del prelievo di gocce di sangue, in alcune persone affette da anemie, insufficienza renale o patologie legate alla sintesi dell’emoglobina nel sangue, può rappresentare un problema. Così, dall’esigenza di implementare nuovi strumenti diagnostici da utilizzare in tutti quei casi in cui non è possibile misurare la tradizionale emoglobina glicata, è nato l’innovativo biosensore realizzato da ricercatori dell’Istituto per la microelettronica e i microsistemi del Cnr di Roma, in collaborazione con i colleghi del Department of Mechanical Engineering della Johns Hopkins University di Baltimora. Il sensore, presentato sulla rivista Advanced Healthcare Materials, sfrutta le potenzialità di una matrice disordinata di nanofili di silicio rivestiti di argento. Annalisa Convertino (Cnr- Imm), tra i firmatari dello studio, ha spiegato: «L’applicazione biomedica dei nanomateriali in ambito diagnostico è una delle più grandi novità scientifiche degli ultimi anni. Grazie all’intrinseca capacità di interagire su scala nanometrica con sistemi biologici, quali ad esempio virus, batteri, cellule, proteine e Dna, i nanomateriali sono capaci di “catturare” e tradurre informazioni chimico- fisiche non rilevabili attraverso una diagnostica tradizionale. Se utilizzati come sensori, hanno le potenzialità di individuare nei fluidi biologici la presenza di molecole marcatrici o frammenti di Dna in concentrazioni molari molto basse, favorendo così l’elaborazione di nuove metodologie per una diagnosi precoce delle malattie e per l’individuazione e la valutazione di terapie farmacologiche personalizzate». Negli ultimi anni l’albumina glicata è emersa come un valido indicatore glicemico alternativo estremamente utile non solo in presenza di patologie ematologiche, ma anche nell’analisi e

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UN BIOSENSORE PER LA DIAGNOSI DEL DIABETE MELLITO La rilevazione della patologia grazie a uno strumento per identificare un nuovo indicatore glicemico

di Pasquale Santilio

nel controllo dei cambiamenti rapidi della glicemia, ad esempio, dopo l’inizio o la modifica di una terapia. La ricercatrice ha aggiunto: «Il biosensore sfrutta la sinergia tra la ridotta dimensionalità dei nanofili e la loro disposizione disordinata. In questo modo, infatti, da un lato le biomolecole di albumina glicata contenute in un campione biologico sono efficacemente intrappolate nella matrice di nanofili, dall’altro si aumenta l’interazione del campo elettromagnetico presente tra le nanostrutture e le biomolecole, amplificando così la risposta del biosensore».

Il team che ha realizzato il biosensore è costituito, oltre che da Annalisa Convertino, da Valentina Mussi e Luca Maiolo per Cnr Imm, e da Ishan Barman e Debadrita Paria per la Johns Hopkins University. I risultati della ricerca aprono la strada ad una metodologia diagnostica del diabete mellito rapida, predittiva ed utilizzabile in tutti quei casi per i quali non è possibile applicare la diagnostica tradizionale. Il lavoro è stato finanziato dal Ministero degli affari esteri nell’ambito del Programma di cooperazione scientifica e tecnologica ItaliaUsa 2019- 2021. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Innovazione

UNA NUOVA TECNOLOGIA PER LO STUDIO DELLA PROGERIA Identificate le alterazioni del Dna che causano l’invecchiamento prematuro Il progetto prende il nome di Sammy Basso, testimonial per la ricerca sulle laminopatie

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emergono malattie cardiovascolari tipiche degli anziani. L’Istituto nazionale di genetica molecolare “Romeo ed Enrica Invernizzi”, l’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare, l’Istituto di tecnologie biomediche e l’Istituto di genetica molecolare del Cnr, hanno realizzato SAMMY- seq, una tecnologia in grado di identificare le alterazioni del Dna che causano la progeria, la sindrome che fa invecchiare i bambini precocemente. La tecnologia prende il nome dal 26enne Sammy Basso, paziente testimonial per la ricerca sulle laminopatie. Lo studio è stato pubblicato su Nature Communications.

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a sindrome dell’invecchiamento prematuro è una rara malattia genetica che colpisce un bambino su 48 milioni. È causata da una mutazione del gene LMNA, che produce la proteina Lamina A, importante per la struttura e il funzionamento delle cellule. I pazienti affetti da questa patologia nascono sani, ma dopo il primo anno di vita manifestano un’accelerazione dei processi di invecchiamento tali da determinare l’assottigliamento della pelle, la perdita di forza dei muscoli, il calo del grasso sottocutaneo. Inoltre, nei primi 20 anni di vita

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Come altre “laminopatie”, la sindrome dell’invecchiamento prematuro presenta delle mutazioni in una specifica proteina del nucleo, la Lamina A. Chiara Lanzuolo, ricercatrice dell’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr e responsabile del Laboratorio di Chromatin and Nuclear Architecture all’Ingm, ha spiegato: «In ogni cellula del nostro organismo solo una piccola parte del Dna viene “letta” e “tradotta” in proteine essenziali per il corretto funzionamento della cellula. La diversità di lettura delle informazioni è determinata dall’accessibilità del Dna, che è impacchettato da proteine che ne regolano l’attivazione formando la cromatina. La cellula regola l’utilizzo del suo Dna esponendo le sequenze da tradurre, cioè quelle utili alla cellula in uno specifico momento della sua vita e nascondendo mediante compattazione le altre sequenze, ovvero, quelle che non servono in quel dato momento. La Lamina A modella la forma del Dna ed è fondamentale in questo processo. Nei pazienti affetti da invecchiamento prematuro, la Lamina A produce una proteina tronca, la progeria, che provoca una distorsione nella forma del Dna». I team di studio, unendo competenze di biologia molecolare e biologia computazionale, hanno realizzato la SAMMY- seq, una tecnologia innovativa basata sul sequenziamento del Dna mirata a classificare la struttura in base ad alcuni parametri chimico- fisici della molecola. Utilizzando questa tecnologia sulle cellule dei pazienti colpiti da progeria, sono state identificate delle alterazioni della struttura tridimensionale del Dna che sono all’origine del suo malfunzionamento. «L’alterazione della struttura del Dna delle cellule porta a errori nella regolazione dell’espressione dei geni e, di conseguenza, andando incontro a una disfunzione cellulare che termina in un blocco della proliferazione», così hanno argomentato i ricercatori. (P. S.).


Beni culturali

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arà Procida la Capitale italiana della cultura per l’anno 2022. Con lo slogan “La cultura non Isola”, la cittadina del Golfo di Napoli si è aggiudicata la vittoria, superando le candidate Ancona, Bari, Cerveteri, L’Aquila, Pieve di Soligo (Treviso), Taranto, Trapani, Verbania Lago Maggiore e Volterra. “La terra isolana è luogo di esplorazione, sperimentazione e conoscenza, è modello delle culture e metafora dell’uomo contemporaneo. Potenza di immaginario e concretezza di visione ci mostrano Procida come capitale esemplare di dinamiche relazionali, di pratiche di inclusione nonché di cura dei beni culturali e naturali”, recita il dossier presentato dall’amministrazione comunale dell’isola alla commissione esaminatrice dei progetti. La nomina si è tenuta alla presenza di Dario Franceschini, Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, che nella cerimonia di apertura ha spiegato come quello appena trascorso sia stato «un anno complicato per tutti. Stiamo cercando di sostenere in ogni modo le attività culturali e turistiche e la designazione della capitale italiana della cultura per il 2022 è un segnale per il futuro, per la ripresa. Nel 2022 saremo tornati alla normalità e la cultura e il turismo torneranno importanti e fortissimi come lo erano prima della pandemia. L’ideazione della capitale italiana della cultura, che risale al 2014, determina un percorso di valorizzazione di tutte le città al di là della vincitrice, mettendo in moto un meccanismo virtuoso e attrattivo, come per i candidati all’Oscar». Nel documento di proclamazione viene spiegato come tra le ragioni della scelta di Procida ci sia un contesto Consigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.

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PROCIDA ELETTA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2022 Il ministro Franceschini: «la cultura e il turismo torneranno importanti e fortissimi come lo erano prima della pandemia»

di Pietro Sapia*

locale, regionale, pubblico e privato ben strutturato. Gli aspetti patrimoniali e paesaggistici del luogo hanno uno straordinario valore e la dimensione sociale e di diffusione tecnologica sono rilevanti per tutte le realtà delle piccole isole del Mediterraneo. Secondo la commissione giudicante, “il progetto potrebbe rappresentare un modello per sistemi sostenibili e di sviluppo culturale delle realtà isolane e costiere del paese”. Grande entusiasmo è stato espresso anche da Raimondo Ambrosino, sindaco di Procida. «Siamo onorati e

facciamo i complimenti a tutte le altre città di cui abbiamo studiato dossier e proposte culturali – commenta Ambrosino -. La cultura può essere per noi e loro uno straordinario detonatore del piano strategico di rilancio. È un’opportunità storica per una piccola isola che senz’altro coglieremo lavorando sodo per rendere orgogliosa l’Italia di questa bella scelta. Procida è metafora di tante comunità che hanno riscoperto entusiasmo ed orgoglio per i propri territori – conclude – e che vogliono riscattare le proprie terre». Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Sport

OLIMPIADI E TANTO ALTRO: LO SPORT SFIDA IL COVID Calendario fitto di grandi eventi nel 2021, complici anche i rinvii delle grandi manifestazioni causati dalla pandemia di Antonino Palumbo

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e la immaginate un’Olimpiade senza l’Italia? Senza il Tricolore che sventola, senza l’inno di Mameli che ci fa sentire un po’ nostre le imprese memorabili degli atleti azzurri? È questo il rischio scongiurato nei giorni scorsi dal Consiglio dei Ministri, che ha approvato un decreto legge sull’autonomia del Coni e allontanato la sospensione “sub judice” del Comitato olimpico italiano. Che, tradotta, avrebbe costretto gli atleti del nostro Paese qualificati per i Giochi di Tokyo (23 luglio-8 agosto) a gareggiare da indipendenti, senza il Tricolore e senza inno. Come i kuwaitiani Fehaid Aldeehani e Abdullah Al-Rashidi a Rio 2016, il sudanese Guor Maker e tre atleti delle Antille Olandesi a Londra 2012. Rinviata l’anno scorso causa Covid, l’Olimpiade numero 32 resta comunque legata all’evoluzione della pandemia. Qualche giorno fa era filtrato un rumor secondo il quale il Giappone sarebbe stato intenzionato a rinunciare ai Giochi per candidarsi a organizzare la prima edizione disponibile, nel 2032. Una indiscrezione smentita dal governo di Tokyo, tramite il vicecapo di gabinetto Manabu Sakai. E il premier Yoshihide Suga ha detto che il governo sta considerando speciali misure

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anti-Covid per ospitare le Olimpiadi con un livello affidabile di sicurezza. Anche il presidente del comitato olimpico Thomas Bach ha assicurato che i Giochi si faranno e non esiste al momento un piano B, non escludendo però di pensare a una riduzione del numero degli spettatori. Contagi e timori condizionano anche il cammino verso i Campionati europei di calcio, i primi in modalità itinerante, anch’essi rinviati lo scorso anno. Fanno rumore le parole di Karl Heinz Rummenigge, amministratore delegato del Bayern Monaco, secondo cui il presidente della UEFA Aleksander Ceferin si starebbe chiedendo se, in virtù della pandemia, non sia il caso di far svolgere gli Europei in una sola nazione, piuttosto che prevedere gare in diversi Paesi del vecchio continente. Così facendo, si potrebbe sfruttare un protocollo sanitario molto più scrupoloso e funzionale a quelle che sono le esigenze sanitarie del momento. Parole che, secondo gli addetti ai lavori, potrebbero preludere a un effettivo ripensamento da parte dei massimi organi politici Uefa e a una revisione del torneo con una formula più contenuta dal punto di vista logistico, magari con stadi ubicati nelle vicinanze gli uni dagli altri. Ad oggi, comunque, confermate le dodici città


prescelte: Roma, Londra, Monaco di Baviera, Amsterdam, Bilbao, Copenaghen, Dublino, Glasgow, Budapest, Bucarest, San Pietroburgo e Baku. Gara inaugurale all’Olimpico di Roma, semifinali e finale a Wembley (Londra). Gli Europei inizieranno venerdì 11 giugno e si concluderanno domenica 11 luglio. Tra i grandi eventi rinviati nel 2020 e slittati ulteriormente ci sono invece i Mondiali di atletica indoor, che dopo una prima riprogrammazione al prossimo marzo sono stati definitivamente spostati al 2023. Salve, invece, le competizioni iridate delle discipline invernali. Dal 7 al 21 febbraio prossimi Cortina d’Ampezzo ospita i Mondiali di sci alpino, con grandi speranze azzurre sia in campo femminile (Sofia Goggia in discesa libera, Federica Brignone in Super G, Marta Bassino in gigante), sia in quello maschile (Dominik Paris e Christof Innerhofer in discesa libera). Dorothea Wierer è la punta di diamante dell’Italia ai Mondiali di biathlon in programma a Pokljuka (Slovenia) dal 9 febbraio, così come Federico Pellegrino resta l’alfiere azzurro per lo sci di fondo, che celebrerà la sua rassegna iridata a Oberstdorf (Germania) a partire dal 23 febbraio. Dalle nevi alle navi, anzi ai catamarani, quelli che inseguono il successo finale nella Coppa America di vela (6-21 marzo). A sfidare i detentori di New Zealand saranno i vincitori della Prada Cup, attualmente in corso, con il sorprendente Ineos Team UK qualificato direttamente in finale (13-22 febbraio) e con Luna Rossa e American Magic costrette a un ulteriore confronto per non essere eliminate. A proposito di acqua, la Coppa del Mondo di tuffi (18-23) aprile sarà un crocevia importante per la nazionale italiana, a caccia dei pass per

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Sport

Rinviata l’anno scorso causa Covid, l’Olimpiade numero 32 resta comunque legata all’evoluzione della pandemia. Contagi e timori condizionano anche il cammino verso i Campionati europei di calcio, i primi in modalità itinerante, anch’essi rinviati lo scorso anno.

partecipare ai Giochi con più atleti possibili. Annullati gli Europei di Zagabria, gli appassionati di pattinaggio artistico proveranno a consolarsi con i Mondiali di Stoccolma (2228 marzo) e il World Team Trophy 2021 di Osaka (15-18 aprile). Aperta dalle Classiche di primavera, a maggio la stagione del ciclismo entra nel vivo con i Grandi Gigi: torna nella sua classica collocazione il Giro d’Italia (8-30 maggio), seguito dal Tour de France (26 giugno-18 luglio) e dalla Vuelta a Espana (14 agosto-5 settembre). A fine maggio ci sono anche i Mondiali di mountain bike in Olanda, a settembre la rassegna iridata e quella continentale su strada, a ottobre i Mondiali su pista. Oltre agli Europei senior, gli appassionati di calcio non vorranno perdersi neppure un minuto degli Europei U21, in programma dal 31 maggio al 6 giugno. E c’è da giurarsi che la stessa platea perderà più di un’ora di sonno per la Coppa America (11 giugno-10 luglio). Orari più “miti” per chi seguirà gli Europei di tiro con l’arco, programmati dal 21 maggio al 6 giugno ad Antalya, in Turchia, e i Mondiali di Giugno, dal 6 al 13 giugno a Budapest, in Ungheria. Olimpiadi, ma anche Universiadi (17-29 agosto) e Paralimpiadi (24 agosto-5 settembre) nel cuore dell’estate, mentre a settembre ci sono i Mondiali di calcio a 5 e quelli di canottaggio e gli Europei di tennistavolo. Non abbiamo dimenticato il nuoto: dal 2 al 7 novembre gli Europei in vasca corta a Kazan, in Russia, a dicembre i Mondiali di Abu Dhabi, rinviati nel 2020. Sperando che il Covid non continui a guastare le “feste” e la vecchia quotidianità che tanto manca, a sportivi e non. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Sport

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Il calciatore brasiliano Maicon.

DI UN’ALTRA CATEGORIA CAMPIONI TRA I DILETTANTI L’arrivo del brasiliano Maicon al Sona (Serie D) è solo l’ultima storia di grandi calciatori che hanno riscoperto a fine carriera l’abbraccio della provincia

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on saranno i fasti del Bernabeu e l’indimenticabile notte del Triplete. Non troverà il boato di San Siro, a Milano, né quello dell’Olimpico di Roma. Ma un pallone è sempre un pallone e una partita resta sempre una partita. Tant’è, il fascino della provincia colpisce ancora e l’ultimo calciatore in ordine di tempo a “ripartire” dai Dilettanti, a 39 anni, è il brasiliano Maicon Douglas Sisenando, per tutti Maicon. Ha firmato per il Sona, club che milita nel girone B della Serie D, e che si affiderà ai suoi piedi buoni, alla sua esperienza internazionale e al suo fisico da corazziere

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per rincorrere le posizioni di vertice. L’ex nazionale verdeoro, campione di tutto con l’Inter di Mourinho, è pronto ad affrontare la nuova avventura con l’entusiasmo di un ragazzino. Così come, in passato, hanno fatto diversi suoi colleghi più o meno noti. Fino all’arrivo di Maicon, era stato il suo connazionale Matuzalem il calciatore dal passato più illustre a “esplorare” il mondo dei dilettanti. Brasiliano di Natal, 233 presenze e 10 gol in Serie A, ha chiuso la sua carriera con due stagioni nel Monterosi (Serie D). Per lui 28 presenze, 3 gol e altrettanti mesi di squalifica per una reazione poco edificante dopo un’espulsio-

ne. Altro brasiliano, altra giramondo. Jedaias Capucho Neves, meglio noto come Jeda, ex attaccante di Cagliari e Lecce, negli ultimi anni non ha tentennato di fronte alle lusinghe del Vimercate (Eccellenza lombarda) prima e del Muggiò (Promozione lombarda) poi. A Lecce, ma anche a Roma, ha lasciato il segno anche Francisco Govinho Lima, che grazie a una straordinaria longevità calcistica e all’arte di adattarsi si è messo al servizio dell’Otranto di Eccellenza pugliese a 45 anni e dell’Atletico Aradeo di Promozione pugliese a 46. Poche presenze, per poco più di una ventina di minuti, per l’argentino Sergio Almiron nell’Acireale, in Serie D, tre anni e spiccioli fa. È ancora in attività, invece, l’ex juventino Ruben Olivera, 37 anni passato anche da Atletico Madrid, Sampdoria, Genoa, Lecce, Fiorentina e Brescia. La Serie D l’ha scoperta nel 2017, quando è tornato al Latina dal Quito (Ecuador). Poi una stagione all’Aprilia, una all’Ostia Mare e infine il ritorno all’Aprilia, con la fascia di capitano al braccio. Una Supercoppa italiana in bacheca (con la Juventus), decine di presenze in A con Perugia, Piacenza, Reggina, Catania e Brescia, Davide Baiocco ha continuato a “mordere” caviglie e dettare i tempi del gioco fino a 42 anni. All’alba degli “anta” si è cimentato con la D con le maglie di Akragas e Siracusa, quindi ha guidato il Palazzolo e il Biancavilla nei rispettivi tornei di Eccellenza. Christian Riganò in “A” è arrivato tardi, a 31 anni, riportando nel massimo campionato la Fiorentina a suon di gol nel 2004. Applaudito anche ad Empoli, Messina e Siena (e in Spagna al Levante), il centravanti siciliano di Lipari si è poi adattato alle serie minori – dall’Eccellenza alla Seconda categoria - con sempre minore piglio atletico ma immutato senso del gol. Pallonetti millimetrici, astute zampate (anche da terra), colpi di testa, calci piazzati: “Dio perdona, Riga-nò”, oltre ogni categoria. (A. P.)


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C’

è vita sugli “Anta”? Naturalmente si, visto che i 40 (anni) sono i nuovi 20 - per citare una commedia romantica - e il concetto di “mezza età” è ormai da tempo obsoleto. Ma che vita sportiva cercano, oltre i 30, campioni come Roger Federer e Serena Williams, icone assolute del tennis contemporaneo tanto da meritare l’appellativo di Re e Regina? Per quanto continueranno a giocare, a che livello e con quali obiettivi? Roger Federer vuole l’oro alle Olimpiadi di Tokyo, che - salvo ulteriori colpi del Covid - dovrebbero chiudersi nel giorno del suo compleanno, l’8 agosto. Non ha mai vinto i Giochi, nel singolare. Quando è riuscito a salire sul gradino più alto del podio a cinque cerchi, lo svizzero l’ha fatto nel doppio, assieme al connazionale Stan Wawrinka. È successo ai Giochi di Pechino, che l’8 agosto 2008 l’avevano visto portabandiera elvetico nella cerimonia d’apertura. Un re, però, non è nato per accontentarsi. E King Roger ha una gran voglia di aggiornare il palmares di tornei dello Slam vinti, 20, gli stessi di Rafa Nadal. Un numero che rischia di diventare tabù, visto che il 2020 è stato l’anno della doppia operazione al ginocchio, che ha compromesso la sua attività ben prima dell’emergenza Covid. Federer ha disputato solo l’Australian Open, perdendo in semifinale contro Novak Djokovic. A Melbourne, tre anni fa, l’ultimo trionfo in uno Slam. All’Australian Open, quest’anno, ha invece rinunciato per privilegiare la famiglia. Secondo i protocolli, infatti, avrebbe avuto due alternative: lasciare la famiglia per cinque settimane oppure portare la moglie Mirka e quattro figli in Australia, con la prospettiva di dover affrontare (a differenza sua) 14 giorni di quarantena in una stanza. Non c’è ancora l’ufficialità sulla data e la location del ritorno in campo, ma voci ben informate parlano del torneo

Sport

Serena Williams e, sullo sfondo, Roger Federer durante un’esibizione di beneficenza nel 2010 a Melbourne.

TENNIS, LA REGINA E IL RE SUL PIANETA “ANTA” Roger Federer e Serena Williams verso il 40° compleanno Ma è ancora presto per smettere. Le ambizioni rimangono intatte

Atp 250 di Doha, in Qatar, dall’8 al 13 marzo. I tanti “adepti” di Roger si sono già salvati la data. Serena Williams festeggerà 40 anni il 26 settembre. Con la speranza di aver già centrato il suo grande obiettivo, ovvero il titolo del Grande Slam numero 24. L’ultimo risale al 2017 ed è stata la sua impresa più grande, visto che era incinta di Olympia e non l’aveva detto neppure al suo allenatore. Dopo quel successo, sono arrivate quattro sconfitte in finale, equamente divise tra l’erba di Wimbledon e il cemento di New York. “Amo il tennis, amo la competizione, finché sentirò di

essere brava a farlo, lo farò” è il suo mantra. Dovesse aggiungere un altro Slam al suo palmares, eguaglierebbe Margaret Smith Court, dominatrice tra il 1960 e il 1975 con 24 titoli nel singolare, 19 nel doppio e nel 19 doppio misto. La prima chance per la Regina del tennis, attualmente numero 11 della classifica WTA, sarà l’Australian Open al via l’8 febbraio. Principale avversaria, Ashleigh Barty, padrona di casa e numero 1 al mondo. Ferma, però, da febbraio. Forse un segno del destino, che Serena cercherà di sfruttare per diventare la più grande di sempre. (A. P.) Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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Brevi

LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

ONCOLOGIA Cancro al seno: anticorpo monoclonale blocca metastasi

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n anticorpo monoclonale è in grado di bloccare lo sviluppo delle metastasi ossee provocate dal cancro al seno. Lo hanno individuato i ricercatori dal Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, in collaborazione con gli studiosi dell’Inserm di Lione, dell’Institut Curie di Parigi e dell’Università di Amburgo. La ricerca, eseguita attraverso screening esteso sul genoma di numerosi pazienti, indica nella proteina integrina alfa5 il fattore maggiormente coinvolto nei processi di metastasi ossea, responsabili di recidive del tumore alla mammella. L’anticorpo monoclonale Volociximab, frapponendosi tra la proteina della cellula tumorale e la fibronectina presente nelle ossa, si è dimostrato capace di fermare la propagazione del tumore, senza alcun effetto tossico. Il Volocixamab è un farmaco già testato, può dunque essere applicato immediatamente in ambito terapeutico.

SPORT L’esercizio salvaguarda i tessuti

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l segreto per prevenire l’infiammazione cronica che provoca il deperimento dei tessuti? Un po’ di attività fisica, regolare e costante. Gli studiosi della Duke University hanno esaminato l’effetto dell’esercizio fisico sui muscoli, confermandone l’effetto benefico e protettivo anche in questo particolare ambito. L’infiammazione insorge quando il sistema immunitario reagisce alla presenza di batteri o in caso di danni tessutali: sarcopenia e artrite sono classici esempi di malattie che possono provocare infiammazioni croniche. Analizzando con l’ausilio di una piattaforma ingegnerizzata delle cellule muscolari in coltura, i ricercatori statunitensi hanno verificato come una molecola prodotta dai linfociti B e T sia tra i responsabili di diversi tipi di atrofia muscolare e come un regime di esercizio fisico quotidiano, simulato con delle scariche elettriche, abbia benefici effetti antinfiammatori.


Brevi

SALUTE Un videogame trova precocemente la sclerosi multipla

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un videogame e serve a individuare precocemente i segni di disfunzione cognitiva nella sclerosi multipla, prima ancora dei classici test. Si chiama Progetto “Visual-Attentional” e lo hanno ideato i ricercatori dell’Università di Verona. Il videogioco è in grado di testare alcune tra le principali funzioni cognitive e si è dimostrato subito efficace su 51 pazienti di cui è stato accertato un principio di deterioramento cognitivo e che avevano risposto correttamente ai comuni test carta-matita.

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RICERCA Per la lettura il cervello ha adattato una funzione antica

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a scrittura è un’invenzione relativamente recente, di circa cinquemila anni fa, tanto che il cervello umano non ha ancora sviluppato strutture dedicate specificamente alla lettura. Lo sostengono i ricercatori della SISSA, autori di uno studio effettuato sottoponendo ai volontari una serie di simboli e immagini. Gli studiosi, attraverso una serie di esperimenti, hanno dimostrato come non ci siano differenze nel modo in cui si riconoscono oggetti concreti o simboli astratti. Per leggere, insomma, si utilizza lo stesso approccio della comune esperienza visiva, riconoscendo caratteristiche, strutture e ricorrenze. Un’area della corteccia che si attiva maggiormente durante la lettura, in effetti, c’è: il giro fusiforme sinistro. Nel suo funzionamento, tuttavia, sembra entrare in gioco una funzione antica e comune ad altri primati come i babbuini, che è stata riadattata.

INNOVAZIONE Terapia genica per la distrofia ereditaria della retina

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ia libera in Italia alla prima terapia genica per il trattamento della distrofia retinica ereditaria, una malattia rara finora considerata incurabile e che provoca la perdita quasi totale della vista sin dalla tenera età. L’Aifa ha infatti approvato la somministrazione del farmaco prodotto Luxturna che in sede di sperimentazione ha dato risultati confortanti. La distrofia ereditaria della retina è legata a mutazioni genetiche di entrambi gli alleli del gene RPE65 e il farmaco in questione si è mostrato capace di migliorare il funzionamento delle cellule responsabili della malattia, correggendo le alterazioni. La certificazione per la somministrazione di Luxturna è stata ottenuta dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma. Il paradigma per questo tipo di terapia genica è piuttosto complesso e coinvolge varie discipline mediche.

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI ANALISI DEI SISTEMI ED INFORMATICA “ANTONIO RUBERTI” DI ROMA Scadenza, 3 febbraio 2021 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno Senior per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Biomatematica” da svolgersi presso l’Istituto di Analisi dei Sistemi ed Informatica “Antonio Ruberti” – UOS GEMELLI del CNR che effettua ricerca nell’ambito del progetto “Analisi del Biofilm e Resistenza Antibiotica in pazienti Neurolesi” ABRAN” per la seguente tematica: “Analisi bioinformatica su dati di Next Generation Sequencing con particolare riguardo alla trascrittomica e alla metagenomica”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI PISA Scadenza, 4 febbraio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di una borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti all’Area scientifica “Scienze Biologiche / Agrarie e Veterinarie” da usufruirsi presso l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR di Pisa, nell’ambito del Contratto Chiesi-Farmaceutici prot.1196 del 22/06/2020. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. 76 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI VERBANIA Scadenza, 8 febbraio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze dell’Ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR, sede secondaria di Verbania, nell’ambito dei progetti “IdroLIFE LIFE15 NAT/ IT/000823”, “IdroLIFE LIFE15 NAT/IT/000823 – contributo Fondazione Cariplo” “INTERREG SHARESALMO”, “Indagini sulle sostanze pericolose nell’ecosistema del Lago Maggiore”, “Indagini Limnologiche del Lago Maggiore”, “Indagini Ittiofauna Lago Maggiore” e “ITTIORTA”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI CRISTALLOGRAFIA DI CATANIA Scadenza, 8 febbraio 2021 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 (uno) Assegno Post-Dottorale per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Medicinal Chemistry” da svolgersi presso l’Istituto di Cristallografia – Sede Secondaria di Catania del CNR che effettua ricerca Biomedica nell’ambito del Contratto di Ricerca Collaborativa stipulato tra il CNR-IC e la Fidia Farmaceu-

tici S.p.A. in data 26/11/2020 per la seguente tematica: “Meccanismi di cicatrizzazione ed angiogenici del coniugato Acido Ialuronico con Carnosina e ruolo di ioni metallici”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NANOSCIENZE DI PISA Scadenza, 10 febbraio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Biofisica” da usufruirsi presso la Sede Primaria di Pisa dell’Istituto NANO del CNR, nell’ambito del Progetto DECODE-EE “Developmental and epileptic encephalopathies: epidemiology, comorbidities, molecular diagnosis, personalized management, and costs analysis”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOMEMBRANE, BIOENERGETICA E BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI DI BARI Scadenza, 10 febbraio 2021 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di N. 1 assegno Tipologia B) “Assegni Post Doc” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Biomediche” conferito dall’Istituto di Biomembrane, Bioenergetica e Biotecnologie Molecolari CNR di Bari. Per


Lavoro

informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE APPLICATE E SISTEMI INTELLIGENTI “CAIANIELLO” DI NAPOLI Scadenza, 11 febbraio 2021 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 “Assegno Professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica “Fisica” da svolgersi presso la sede dell’Istituto di Scienze Applicate e Sistemi Intelligenti “Eduardo Caianiello” del CNR nell’ambito del Progetto “SHARID ARS01_01270, dal titolo “Innovative Devices For SHAping the RIsk of Diabetes” per la seguente tematica: “Analisi tossicologiche e funzionali in vivo di dispositivi planari e nanostrutturati”. Per informazioni: www. cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI PISA Scadenza, 18 febbraio 2021 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Neuroscienze” da svolgersi presso l’Istituto di Neuroscienze del CNR sede di Pisa nell’ambito del programma di ricerca Persona, Bando Salute Regione Toscana, “PERSonalized rObotic NeurorehAbilitation for stroke survivors”) per la seguente tematica: “Sviluppo di modelli computazionali per lo studio della plasticità neurale in seguito ad ischemia cerebrale”. Per informazioni: www.cnr. it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE

E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI MESSINA Scadenza, 22 febbraio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “SCIENZE DEL SISTEMA TERRA E TECNOLOGIE PER L’AMBIENTE” da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine (IRBIM) Sede di Messina nell’ambito del Progetto DTA.AD002.441 - Progetto di Ricerca H2020 “Controlling mIcRobiomes CircuLations for bEtter food Systems”. Per informazioni: www. cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA E L’ANALISI DELL’ECONOMIA AGRARIACONCORSO Scadenza, 1° febbraio 2021 Selezione pubblica, per titoli ed esame-colloquio in modalità telematica, finalizzata al conferimento di un assegno di ricerca per laureati della durata di ventiquattro mesi, sulla tematica «Uso di un sistema Rover per il monitoraggio on-time, ai fini della riduzione dei fattori di stress biotici e abiotici critici per la produzione di uva», nell’ambito delle attività previste su Progetto denominato «LIFE WINEgROVER», attuazione del Bando della Commissione Europea LIFE19 ENV/IT/000339. Gazzetta Ufficiale n. 3 del 12-01-2021. UNIVERSITÀ DI FERRARA Scadenza, 6 febbraio 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di scienze chimiche, farmaceutiche ed agrarie. Gazzetta Ufficiale n. 6 del 22-01-2021.

UNIVERSITÀ DI MILANO Scadenza, 10 febbraio 2021 Procedura di selezione, per titoli e discussione pubblica, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni, settore concorsuale 05/B2 - Anatomia comparata e citologia, per il Dipartimento di bioscienze. Gazzetta Ufficiale n. 7 del 26-012021. ESTAR TOSCANA - AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA PISANA Scadenza, 11 febbraio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica per le attività della sezione a valenza dipartimentale laboratorio di chimica ed endocrinologia a supporto delle sindromi Lipodistrofiche non HIV correlate dell’Azienda ospedaliero universitaria Pisana. Gazzetta Ufficiale n. 3 del 12-01-2021. AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE SANTI PAOLO E CARLO DI MILANO Scadenza, 14 febbraio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica e/o microbiologia e virologia, a tempo pieno e indeterminato, per la s.c. laboratorio di analisi chimico-cliniche e di microbiologia. Gazzetta Ufficiale n. 4 del 15-01-2021. ESTAR TOSCANA - ISTITUTO PER LO STUDIO, LA PREVENZIONE E LA RETE ONCOLOGICA Concorso, 25 febbraio 2021 Concorso pubblico unificato, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di epidemiologia, area di sanità pubblica. Gazzetta Ufficiale n. 7 del 26-01-2021. Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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L’associazione tra cicli mestruali irregolari e lunghi e il rischio di DT2 Da Harvard una ricerca sul collegamento: incidono in peggio anche fattori quotidiani come la dieta sregolata e una scarsa attività fisica

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e caratteristiche del ciclo mestruale, soprattutto come questo cambia nel corso della vita, e alcune abitudini quotidiane delle donne possono rivelarsi indicatori del rischio di contrarre il diabete di tipo 2 (DT2). A questa indicazione sono arrivati alcuni studiosi, autori di una ricerca coordinata dal Dipartimento di Nutrizione della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital, ospedale collegato alla scuola di medicina di Harvard, e l’Huazhong University of Science and Technology di Wuhan, nella provincia cinese dell’Hubei. Lo studio, intitolato “Associations of Menstrual Cycle Characteristics Across the Reproductive Life Span and Lifestyle Factors with Risk of Type 2 Diabetes” [1], firmato da Yi-Xin Wang, Zhilei Shan, Mariel Arvizu e altri, è stato pubblicato su “JAMA Network Open”. Il principale risultato della ricerca risiede nell’emersione di un’associazione tra cicli mestruali lunghi e irregolari con un maggiore rischio di diabete di tipo 2, soprattutto nelle donne obese o in sovrappeso, o la cui quotidianità è caratterizzata da una dieta squilibrata e da uno scarso o del tutto assente esercizio fisico. I risultati della ricerca confermano come il ciclo mestruale sia un indicatore fondamentale per la salute

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delle donne e ricordano che lo stile di vita, in particolare la qualità dell’alimentazione e dell’attività fisica, può essere determinante nell’esposizione a varie tipologie di disturbi o malattie. Rispetto al rischio specifico per il diabete di tipo 2 gli interventi sullo stile di vita possono rivelarsi importanti per ridurne l’impatto nelle donne con un ciclo mestruale anomalo. Yi-Xin Wang e colleghi hanno sviluppato uno studio prospettico di coorte su 75.546 donne, con un’età media di 37,9 anni: la popolazione era composta da infermiere statunitensi in premenopausa i cui dati relativi alla salute generale sono stati raccolti attingendo al database di uno studio di seconda generazione sulla salute degli infermieri, il “Nurses’ Health Study 2”, relativi al periodo 1993-2017. Questo studio prospettico, che è nel frattempo arrivato alla terza generazione, segue le donne regolarmente con questionari di aggiornamento ogni due anni. Rispetto alle donne che avevano riferito di avere cicli mestruali regolari, tra quante hanno riferito di avere sempre cicli mestruali irregolari è emersa una maggiore probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2: in particolare il rischio è apparso aumentato del 32% nella fascia di età 14-17 anni, del 41% rispetto al periodo tra i 18 e i 22 anni, e del 66% tra i 29 e i 46 anni. Il rischio, inoltre, è apparso aumentare nel gruppo di donne che hanno indicato una durata normale del ciclo

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di almeno 40 giorni. Rispetto alle donne la cui durata normale del ciclo è stata indicata tra i 26 e i 31 giorni, nella stessa fascia di età, la probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2 aumentava in questo caso del 37% nella fascia di età 18-22 anni e del 50% nella fascia 29-46 anni. Lo studio si inserisce nella produzione scientifica che affronta le possibili associazioni tra fattori di rischio e il diabete, una condizione che, ricordano gli autori, è spesso equiparata a un’epidemia globale. Secondo l’International Diabetes Federation (IDF), il diabete ha colpito 463 milioni di adulti di età compresa tra 20 e 79 anni nel 2019 e si prevede che aumenterà del 51%, toccando la quota di 700 milioni entro il 2045. Entro quella data, si stima che l’11,1% delle donne in tutto il mondo avrà il diabete. Ma il dato preoccupante riguarda la metà di quei 463 milioni di adulti: si tratta di individui che vivono senza la consapevolezza della condizione e sono quindi ad alto rischio di sviluppare gravi complicanze legate al diabete. Secondo la nona edizione del rapporto “IDF Diabetes Atlas” pubblicato dall’IDF [2], circa 4,2 milioni di adulti sarebbero morti a causa del diabete e delle sue complicanze nel 2019, una cifra che equivale a un decesso ogni otto secondi. A livello globale, l’11,3% dei decessi è dovuto al diabete; quasi la metà di questi decessi riguarda persone di età inferiore ai 60 anni. Il diabete di tipo 2 è quello più comune; è dunque fondamentale provare a individuare in modo sempre più preciso le caratteristiche degli individui a rischio e sviluppare strategie per promuoverne la prevenzione. Anche l’altra condizione sotto osservazione nello studio di Yi-Xin Wang e colleghi è diffusa. I cicli mestruali dilatati e irregolari sono molto comuni tra le donne, in una percentuale di circa il 20%. Diversi studi [3, 4] hanno già approfondito l’esistenza di associazioni tra questa condizione e lo sviluppo di malattie croniche importanti. Uno studio [5] recente firmato, tra gli altri, anche da Yi-Xin Wang e Mariel Arvizu, ha indagato l’associazione

tra regolarità e durata del ciclo mestruale durante la vita riproduttiva e il rischio di mortalità prematura. Le donne della popolazione osservata che hanno riferito una durata abituale del ciclo di 40 o più giorni nei periodi 18-22 anni e 29-46 anni, hanno mostrato maggiori probabilità di morire prematuramente rispetto alle donne che hanno riportato una durata normale del ciclo di 26-31 giorni nelle stesse fasce di età. Queste relazioni si rafforzano per i decessi legati a malattie cardiovascolari, con un rischio di mortalità prevedibilmente più elevato quando ai fattori di rischio si aggiunge l’abitudine al fumo. La regolarità del ciclo mestruale va dunque tenuta sotto osservazione e considerata un indicatore prezioso della salute attuale e futura in ogni periodo della vita della donna. Studi precedenti avevano già segnalato l’associazione tra uno squilibrio del ciclo mestruale e la resistenza all’insulina [6, 7], una caratteristica chiave nelle prime fasi della patogenesi del diabete di tipo 2. Ma non esistono prove scientifiche che collegano i cicli mestruali irregolari al DT2. Già nel 2001, sempre presso i laboratori della Harvard School of Public Health, era stata sviluppata una ricerca [8] che si domandava se cicli mestruali lunghi o altamente irregolari potessero essere usati come marker del rischio di diabete mellito di tipo 2. Era emerso che, rispetto all’intera popolazione femminile osservata, le donne con cicli mestruali lunghi o altamente irregolari avevano rivelato un rischio significativamente maggiore di sviluppare diabete di tipo 2 e che non era possibile spiegare completamente l’incidenza aumentata di rischio attraverso l’obesità. Da queste incertezze rispetto al collegamento ha preso le mosse lo studio di Yi-Xin Wange colleghi, che aveva l’obiettivo di valutare le associazioni tra le caratteristiche del ciclo mestruale di una donna e il rischio di diabete di tipo 2 in diversi momenti della vita riproduttiva. Contemporaneamente la ricerca è stata diretta a verificare la Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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misura in cui questa associazione viene modificata da fattori legati allo stile di vita. Si tratta di fattori [9] che sono abitualmente collegati al rischio di diabete di tipo 2 – sovrappeso, abitudine del fumo, dieta, scarsa attività fisica. Il rischio di sviluppare diabete, calcoli biliari, ipertensione, malattie cardiache e ictus aumenta con la gravità del sovrappeso sia nelle donne che negli uomini. A parità di età, gli individui con un indice di massa corporea (BMI) pari o superiore a 35 hanno circa 20 volte maggiori probabilità [10] di sviluppare diabete. E le donne in sovrappeso ma non obese (con un BMI compreso tra 25,0 e 29,9) hanno anche una probabilità significativamente maggiore di sviluppare ipertensione, alti livelli di colesterolo e malattie cardiache. Una ricerca del 2018 [11], prendendo in esame una popolazione composta da infermiere attraverso i dati del medesimo studio “Nurses’ Health Study”, aveva osservato l’incidenza sul rischio di DT2 della generale qualità della vita: era emerso come sia numerosi turni di lavoro notturno sia lo stile di vita malsano si rivelavano associati a un rischio più elevato di diabete di tipo 2. Analogamente, diversi studi osservazionali hanno anche identificato associazioni tra cicli Incidenza cumulativa grezza del diabete di tipo 2 (T2D) in base alla regolarità e alla durata del ciclo mestruale durante mestruali irregolari e un rischio più elevato di l’età adulta media. Grafico dello studio di Yi-Xin Wang, Zhilei Shan, Mariel Arvizu e altri. insulino resistenza [12] e diabete gestazionale. Per osservare il cambiamento del rischio di DT2 in base al cambiamento dei modelli del ciclo mestruale durante l’intera vita riproduttiva, la ricer- trattare i disturbi comuni dell’ovulazione; le donne che vi ca ha seguito la popolazione osservata suddividendo le avevano fatto ricorso per più di due mesi durante ciascurilevazioni in tre periodi di interesse. Le tre fasce di età na fascia di età sono state incluse in una categoria di esporispetto a cui è stato chiesto di indicare la regolarità e la sizione separata. Una simile classificazione ha permesso durata del ciclo mestruale sono state, per ciascuna donna, agli autori di seguire queste donne in modo specifico su dai 14 ai 17 anni, dai 18 ai 22 anni e dai 29 ai 46 anni. tutto l’arco della vita riproduttiva: come già segnalato in Dalla popolazione sono state escluse le donne che nel- studi precedenti [13], hanno segnalato gli autori, l’uso la seconda fascia di età avevano ricevuto una diagnosi di di contraccettivi orali nella adolescenza e nella prima età cancro, diabete, malattia coronarica o ictus, o avevano già della vita adulta è apparso associato a un maggior rischio raggiunto la menopausa. Rispetto alla regolarità del ciclo di diabete di tipo 2. mestruale, è stata seguita la seguente classificazione: molI ricercatori del team di Harvard hanno poi verificato regolare (se l’inizio del ciclo coincideva al massimo con to che l’associazione tra il ciclo mestruale irregolare e il 3-4 giorni di scarto rispetto al periodo previsto), regolare rischio di DT2 sembrava essere più forte tra le donne in (entro 5-7 giorni dal periodo previsto), solitamente irre- sovrappeso o obese, che seguivano una dieta squilibrata e golare, sempre irregolare. facevano poca attività fisica. I dati sui fattori relativi allo stile di vita e alla saluÈ emersa anche un’interazione additiva del sovrapte sono stati aggiornati ogni 2-4 anni. Lo stile di vita è peso e dell’obesità, e dell’inattività fisica e della dieta di stato valutato sommando il punteggio per ogni singolo bassa qualità. L’eccesso di rischio relativo di diabete di fattore di rischio (1 o 0 a seconda che il rischio fosse alto tipo 2 dovuto all’interazione tra cicli mestruali irregolari o meno). Gli autori hanno tenuto conto anche dell’uso e lunghi e il punteggio complessivo di uno stile di vita di contraccettivi orali, poiché spesso vengono usati per malsano è stato rispettivamente di 0,73 nella fascia 18-22 80 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021


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anni e 0,68 nella fascia 29-46 anni. Gli studiosi hanno verificare che osservando la regolarità del ciclo su tutto l’arco della vita riproduttiva, il rischio di diabete di tipo 2 è stato più forte tra le donne che hanno costantemente segnalato cicli irregolari e quelli la cui durata del ciclo è cambiata da meno di 32 giorni a 32 giorni o più. Le associazioni tra cicli mestruali irregolari e lunghi nella metà dell’età adulta (29-46 anni) e un maggior rischio di diabete di tipo 2 persistevano, inoltre, in tutte le categorie di BMI. Ad oggi, fanno notare gli autori della ricerca, esistono alcuni studi che non hanno riportato alcuna associazione tra cicli lunghi o irregolari e rischio di diabete di tipo 2. Ma i risultati di Yi-Xin Wang e colleghi sembrano concordare con la preponderanza delle prove che avevano già invece individuato l’associazione. Era per esempio successo con lo studio di Solomon e colleghi sviluppato sulla stessa coorte di popolazione: gli autori allora avevano dimostrato che le donne con cicli lunghi e altamente irregolari di età compresa tra 18 e 22 anni avevano un rischio elevato di diabete di tipo 2, dopo 6 anni di follow-up. Un altro studio condotto, invece, su circa 120mila donne in post-menopausa, tra i 50 e i 79 anni, ha rilevato che le donne con cicli mestruali irregolari durante la maggior parte della loro vita sperimentano un rischio maggiore di diabete di tipo 2. Gli autori del gruppo di Harvard nel tirare le conclusioni segnalano come i risultati ottenuti siano interessanti perché, probabilmente per la prima volta, l’associazione congiunta tra la disfunzione del ciclo mestruale e uno stile di vita malsano con il rischio di diabete di tipo 2. L’eccesso di rischio di disfunzione del ciclo mestruale combinato con sovrappeso o obesità è risultato maggiore del rischio calcolato come somma del rischio di ogni singolo fattore. Tuttavia, questa associazione non dipendeva completamente dal BMI. Ecco perché, ricordano, è importante includere la disfunzione del ciclo come fattore di rischio per il diabete di tipo 2 anche tra le donne con un normale indice di massa corporea. La significativa interazione additiva tra le caratteristiche del ciclo e il BMI suggerisce che il profilo di rischio ormonale e infiammatorio osservato tra le donne con cicli lunghi o irregolari è ulteriormente esacerbato dal sovrappeso e dall’obesità, rendendo le strategie di gestione del peso particolarmente importanti come azione di prevenzione per queste donne. Una riflessione a parte è stata fatta sull’applicazione dell’associazione individuata. L’associazione tra cicli mestruali irregolari lungo tutta la vita e un maggior rischio a lungo termine di diabete di tipo 2, in particolare tra le donne con stili di vita malsani, dovrebbe impegnare gli operatori sanitari a considerare le caratteristiche del ciclo mestruale durante l’arco della vita riproduttiva come un segno indipendente quando viene

valutato il rischio metabolico dei pazienti e vengono indicati potenziali interventi sullo stile di vita per prevenire lo sviluppo del DT2. (S. L.).

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Scienze

La tempistica del trattamento e il rischio di mortalità nei tumori Uno studio valuta la relazione tra gli intervalli di tempo che separano diagnosi e intervento in quattro tra i più comuni tipi di cancro

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a valutazione della relazione tra l’inizio del trattamento e la sopravvivenza in una coorte di pazienti con tumori comuni è l’oggetto di un recente studio sviluppato da ricercatori del Brigham and Women’s Hospital di Boston, nel Massachusetts, collegato alla Harvard T.H. Chan School of Public Health, e dell’IRCCS Humanitas Cancer Center di Rozzano (Milano). La ricerca [1], pubblicata su “Jama Network Open” e firmata da Eugene B. Cone, Maya Marchese, Marco Paciotti e altri, aveva l’obiettivo principale di approfondire l’associazione tra lo slittamento dell’inizio del trattamento per i tumori più comuni e la mortalità. La premessa del lavoro è dettata dalla contingenza: gli autori hanno spiegato fin dal principio come l’approfondimento di una simile relazioni sia apparso urgente proprio per il contesto di risorse sanitarie limitate, a disposizione durante la pandemia da coronavirus in atto. Gli autori hanno più volte sottolineato come il tempo “ottimale” per l’accesso a un trattamento sia un tema ancora sotto-esplorato e spesso le raccomandazioni sulla possibilità di differire le terapie contro il cancro sono spesso basate sull’opinione dei singoli esperti. Lo studio è stato sviluppato su una popolazione composta da oltre due milioni di pazienti con cancro al seno e alla prostata, con tumore polmonare non-a piccole cellule e con cancro al colon. I dati sono stati raccolti nel National Cancer Database: erano relativi a pazienti con i quattro tipi più comuni di tumore, che avevano affrontato la malattia tra il 2004 e il 2015. Gli effetti della tempistica tra la diagnosi e l’inizio del trattamento sono stati valutati con una classificazione del tempo in intervalli compresi tra gli 8 e i 60 giorni, tra i 61 e i 120 giorni, tra i 121 e i 180 giorni e oltre i 180 giorni. La mortalità per tutte le cause è stata invece valutata a cinque e a dieci anni. Il risultato principale sta nella conferma che la mortalità è apparsa generalmente più elevata in caso di ritardo nel trattamento, con valori differenti in base al tipo e allo

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stadio del cancro. E questo si è verificato sia nella stima a cinque anni che in quella a dieci. La ricerca conferma, dunque, l’importanza di un trattamento tempestivo del cancro, a dispetto di quanto previsto dalle linee guida in vigore con la pandemia [2]. La condizione di emergenza ha travolto i sistemi sanitari di tutti i Paesi. Forniture, terapie e personale sono stati oggetto di una improvvisa redistribuzione: l’obiettivo prioritario è apparso concentrarsi sulla domanda più urgente, quella pandemica. Da un lato il contrasto alla diffusione del virus, dall’altro una forma di protezione verso i pazienti con patologie rilevanti, che si è cercato di non esporre al contagio. Anche le cure oncologiche sono state in molti casi rinviate in base a linee guida che, più o meno ovunque, suggerivano di valutare l’urgenza o la differibilità di un trattamento [3, 4, 5]. Il contesto è chiaramente complesso. Il cancro, mentre la pandemia procede, rimane una delle principali cause di morte a livello globale [6] e un intervento precoce può migliorare i risultati nei pazienti. Precedenti studi [7, 8] hanno evidenziato che gli sforzi per accelerare la diagnosi di cancro sintomatico possano avere benefici per i pazienti in termini di miglioramento sia della sopravvivenza che della qualità della vita, anche se tali benefici variano tra i diversi tipi di tumore. Una ricerca del 2019 del Cleveland Clinic’s Taussig Cancer Institute [9] aveva evidenziato che un tempo diagnosi-trattamento prolungato di oltre 6 settimane fosse associato a un aumento assoluto del 13% della mortalità a 5 anni nel carcinoma polmonare non a piccole cellule di stadio I e a un aumento assoluto del 9% nel carcinoma del pancreas allo stadio I. In coerenza con i risultati di altre ricerche precedenti, lo studio di Cone e colleghi ha verificato un’associazione tra il peggioramento della mortalità e un ritardo nell’intervento chirurgico nel carcinoma mammario ad uno stadio iniziale. Inoltre l’associazione con la sopravvivenza è più enfatica nelle prime fasi dei tumori studiati. La popolazione osservata, complessivamente 2.241.706


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individui, aveva un’età media di 63 anni (le donne rappresentavano il 56,6%). Il 52% della coorte aveva il cancro al seno; il 38,1% era affetto da cancro alla prostata; il 5,8% aveva ricevuto una diagnosi di tumore polmonare non-a piccole cellule; il 4,1% aveva il cancro al colon. Il tempo medio per l’inizio del trattamento è stato registrato in 32 giorni per il cancro alla mammella, 79 giorni per il cancro alla prostata, 41 giorni per quello al polmone e 26 giorni per quello al colon. Nel corso dell’indagine, i pazienti con cancro del colon hanno mostrato l’associazione più pronunciata tra la mortalità e un aumento del tempo frapposto fra la diagnosi e l’avvio del trattamento. Con un tumore allo stadio III, per esempio, la mortalità prevista a 5 anni è stata del 38,9% con un intervallo tra diagnosi e trattamento di 61-120 giorni e del 47,8% con un intervallo di 181-365 giorni. Nel caso di tumore al polmone allo stadio I il tempo incide in maniera leggermente meno importante: la mortalità a 5 anni è stata calcolata nel 47,4% con un intervallo diagnosi-cura compreso tra i 61 e i 120 giorni e del 47,6% con intervallo 181-365. Alcune variazioni sono emerse anche negli stadi successivi della patologia. Quando questo tipo di tumore era al secondo stadio, l’intervallo da 61 a 120 giorni era associato a una mortalità del 62% (stima a 5 anni) e dell’81,2% (stima a 10 anni). Per il cancro del polmone allo stadio I gli studiosi spiegano di aver osservato aumenti assoluti dal 4% al 6,2% della mortalità a 5 anni per i gruppi la cui tempistica diagnosi-trattamento era stata di 8-60 giorni. L’effetto è apparso maggiore sulla mortalità a 10 anni. In caso di cancro alla prostata la mortalità a 5 anni è risultata del 12,8% se associata con un intervallo di 61-120 giorni e del 14,1% se l’intervallo era di 181-365 giorni. I

tassi di mortalità previsti si sono rivelati inferiori nei pazienti trattati entro 60 giorni (rispettivamente, del 4,9% a 5 anni e del 17,3% a dieci anni). Nel cancro al seno allo stadio I gli effetti della distanza diagnosi-trattamento hanno subito le seguenti variazione di associazione: una mortalità prevista a 5 anni dell’11% con intervallo 61-120 giorni rispetto a una mortalità del 15,2% con intervallo 181-365 giorni. Gli autori hanno segnalato, inoltre, una differenza non significativa nei ritardi del trattamento e nel conseguente eventuale peggioramento delle aspettative di sopravvivenza nei pazienti con carcinoma polmonare allo stadio II, per cui è stata invece registrata la più alta mortalità per tutte le cause per qualunque degli intervalli diagnosi-trattamento presi in considerazione. In generale, l’aumento dell’intervallo e lo stadio avanzato sono stati associati a una maggiore mortalità prevista in tutti i tumori. Per esempio, nel caso di tumore alla mammella allo stadio III e di un intervallo tra diagnosi e cura di 181-365 giorni, la mortalità prevista è del 32,7%. Se il carcinoma mammario è allo stadio 0 e la tempistica per il trattamento è di 8-60 giorni, la mortalità risultava al 9,6%. Il gruppo di ricerca ha segnalato che la sopravvivenza per il cancro alla prostata è, invece, risultata meno associata alla tempistica: la mortalità prevista a 5 anni, per tumore ad alto rischio, è risultata del 12,6% con intervallo di 61-120 giorni e del 14,1% con intervallo di 181-365 giorni. Diversi studi precedenti hanno già esaminato quanto la tempistica dilatata sia associata in modo negativo alla sopravvivenza per il cancro al seno, in particolare se allo stadio II e III: una recente revisione sistematica, per esempio, ha segnalato come il trattamento chirurgico Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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dovrebbe idealmente avvenire a meno di 90 giorni dalla diagnosi e la chemioterapia a meno di 120 giorni dalla diagnosi [10]. Per il cancro del colon è stato osservato che un ritardo di 60 giorni è stato associato a un aumento compreso tra lo 0,9% e il 4,6% della mortalità a cinque anni per tutte le cause quando il tumore è allo stadio I. Quando il tumore è invece allo stadio III la mortalità a 5 anni ha mostrato un aumento compreso tra il 3,2% e il 6%. La ricerca di Cone e colleghi segnala differenze significative nella mortalità quando la terapia viene ritardata, anche per i pazienti con tumore allo stadio I, sebbene la dimensione dell’effetto sia minore a livello clinico. Il contesto pandemico ha reso queste valutazioni più che mai urgenti. Ma, come spiegano gli autori più volte nella pubblicazione, le decisioni sul rinvio di eventuali trattamenti, chirurgici o chemioterapici, sono spesso dipese da valutazioni soggettive, contingenti e determinate da variegati fattori esterni. Le raccomandazioni dell’American College of Surgeons e della Society of Surgical Oncologists per affrontare il trattamento del cancro al colon durante la pandemia di COVID-19 prevedono, per esempio, di continuare a ope© Blue Planet Studio/shutterstock.com

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rare su masse maligne note, rinviando il trattamento per polipi o tumori polmonari con dimensioni inferiori a due centimetri. L’urgenza, sottolineano gli autori, potrebbe essere dovuta al fatto che il cancro del colon è soggetto a intervalli diagnostici particolarmente lunghi tra i sintomi e la possibilità della diagnosi, il che aumenta il tempo totale tra l’incidenza del cancro e il trattamento. L’aumento del tempo per intervenire sul cancro alla prostata è stato associato a tassi di mortalità inferiori rispetto agli altri tumori esaminati. Tuttavia, ricordano gli autori, i risultati per il cancro alla prostata ad alto rischio sono di particolare interesse. La maggior parte degli studi precedenti non ha trovato alcuna associazione tra risultati clinici e ritardi nella terapia definitiva per il carcinoma prostatico localizzato. E sulla scorta di simili valutazioni le linee guida del National Comprehensive Cancer Network hanno raccomandato che il trattamento per il cancro alla prostata a rischio intermedio può essere evitato durante la pandemia o rinviato fino a sei mesi in caso di una malattia con classe di rischio maggiore. Nello studio di Cone e colleghi è stato incluso però anche il carcinoma alla prostata a basso rischio, includendo così


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nell’analisi anche un gruppo di pazienti che solitamente viene considerato meno a rischio e che dovrebbe mostrare un aumento minimo e non significativo della mortalità con il ritardo del trattamento. Lo studio ha riscontrato differenze di mortalità per tutte le cause del 2,2% a 5 anni e del 4,6% a 10 anni tra i pazienti ad alto rischio che sono stati trattati rapidamente rispetto a quelli in attesa da 4 a 6 mesi, periodo ritenuto ammissibile da diverse indicazioni centrali per l’emergenza pandemica, e differenze dello 0,9% a 5 anni e 2,4% a 10 anni per pazienti a rischio intermedio simili. Questi risultati suggeriscono che esiste un limite alla durata del differimento del trattamento che fornisce risultati accettabili: è questa la considerazione che gli autori sperano possa essere utile agli urologi in contesti eccezionali, non solo quelli dell’attuale pandemia. La ricerca conferma che per tutti i tumori studiati vi è l’evidenza che un intervallo di tempo tra la diagnosi e il trattamento più breve è associato a una mortalità inferiore. I risultati - questa la conclusione - suggeriscono di conseguenza un’associazione indiretta tra il differimento del trattamento e la mortalità, che potrebbe non diventare evidente per anni. Comprendere l’impatto della tempistica sulla sopravvivenza è fondamentale per allocare le risorse in modo efficiente, soprattutto quando sorgono limitazioni imprevedibili, a causa di pressioni esterne come pandemie o di fattori interni come mancanza di fondi, carenza di personale o vincoli della catena di approvvigionamento. L’obiettivo è non vanificare i passi avanti fatti nel corso degli ultimi decenni. Il tasso di mortalità per cancro del colon-retto è diminuito del 54% dal 1970 al 2017 [11], anche grazie al cambiamento dei modelli di valutazione nei fattori di rischio, alla diffusione della pratica di screening e trattamenti migliori. Dopo aver raggiunto il picco nel 1989, il tasso di mortalità femminile per cancro al seno è poi diminuito del 40% fino a 19,8 ogni 100.000 nel 2017. Questo cambiamento arriva a seguito di un processo fatto di progresso scientifico nella diagnosi e nelle cure, di maggiore prevenzione, di una sempre più diffusa consapevolezza: la stima è di 375.900 decessi per cancro al seno in meno di quanto ci si sarebbe aspettato se il tasso di mortalità fosse rimasto al suo picco. Nel periodo 2013-2017, il tasso di mortalità è diminuito dell’1,3% ogni anno. [11] Nel 2012 una ricerca [12] aveva verificato che una donna su 10 aspettava almeno, forse più, di 60 giorni per iniziare il trattamento dopo una diagnosi di cancro al seno. Tra le pazienti in stadio avanzato, questa attesa è stata associata a un significativo aumento del 66% del rischio di morte globale e dell’85% del rischio di morte correlata al cancro al seno. Se la ricerca di Cone e colleghi appare particolarmente

attuale in questo contesto pandemico, i risultati dovrebbero essere osservati per costruire strategie di risposta alle future emergenze, per esempio, generate da catastrofi naturali o limitazioni temporanee. (S. L.).

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L’ormone dello stress: il cortisolo Sue funzioni, ruolo negli stati di tensione e nell’alimentazione e l’influenza di alcuni nutrienti sulla sua concentrazione plasmatica

di Giada Fedri

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l cortisolo è un ormone prodotto dalla corteccia surrenale dove, sia la formazione che la secrezione sono regolate dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) [1]. L’asse HPA segue un ritmo circadiano pertanto, i livelli di cortisolo saranno alti al mattino e bassi la sera [1]. Gli ormoni steroidei come il cortisolo si legano ai recettori dei glucocorticoidi presenti in quasi tutti i tessuti, per questo sono in grado di agire su molteplici target, influenzando il sistema nervoso, immunitario [2], cardiovascolare [3], respiratorio, riproduttivo, muscolare scheletrico e tegumentario [4]. Il cortisolo agisce inoltre sull’umore, sul comportamento, sull’appetito e sulla percezione del dolore [5], motivi per cui è universalmente conosciuto come l’”ormone dello stress”. Infatti, la sua produzione aumenta in condizioni di stress psico-fisico come attività fisica intensiva o prolungata, interventi chirurgici, avvenimenti particolarmente stressanti o problemi personali. Questi fattori possono portare a una concentrazione eccessiva e prolungata dell’ormone in questione, causando la comparsa di disturbi metabolici come la resistenza all’insulina, l’aumento cronico della pressione sanguigna, anomalie nella rigenerazione ossea e nella sintesi di collagene, oltre che carenze di nutrienti. Il cortisolo ha il ruolo di preparare l’organismo a stress fisici e mentali agendo in modo multidirezionale su numerosi processi fisiologici come il metabolismo delle proteine, dei carboidrati e dei grassi e partecipando alla regolazione dell’equilibrio idrico ed elettrolitico, della pressione sanguigna, della temperatura corporea, della mineralizzazione delle ossa, della risposta infiammatoria e della funzione immunitaria [6]. Il corpo elabora gli input stressanti e suscita una risposta a seconda del grado della “minaccia”, attivando il sistema nervoso autonomo simpatico (SNS) responsabile della risposta di “lotta o fuga” e della relativa ca-scata di risposte ormonali e fisiologiche. Il cortisolo migliora l’attività del glucagone, dell’adrenalina e di altre catecolamine. L’amigdala è responsabile dell’elaborazione della paura, dell’eccitazione e degli stimoli emoti-vi per determinare la risposta appropriata: quando stimolata, invia un segnale di stress all’ipotalamo [7], che a sua volta attiva il SNS e le ghiandole surrenali che rilasciano un’ondata di catecolamine,

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come l’adrenali-na. Ciò si traduce in effetti come aumento della frequenza cardiaca e della frequenza respiratoria. Se gli sti-moli continuano e l’organismo continua a percepire la minaccia, l’ipotalamo attiva l’asse HPA: il cortisolo viene rilasciato dalla corteccia surrenale e consente al corpo di continuare a rimanere in uno stato di allerta. In risposta, quest’ormone tende a inibire le funzioni corporee non indispensabili nel breve periodo, garantendo il massimo sostegno agli organi vitali, per questo motivo il cortisolo induce un aumento della gittata cardiaca e riduce anche le difese immunitarie al fine di diminuire di conseguenza, le reazioni infiammatorie [4] inducendo l’apoptosi dei linfociti T pro-infiammatori, sopprimendo la produzione di anticorpi dei linfociti B e riducendo la migrazione dei neutrofili durante l’infiammazione. Livelli anormali e cronici di cortisolo possono compromettere il sistema immunitario e la risposta infiamma-toria, portando a condizioni debilitanti come il morbo di Addison (ipocortisolismo) [8] e il morbo di Cushing (ipercortisolismo) [9]. Quest’ultima, spesso di origine iatrogena (pazienti sottoposti ad una terapia cronica con cortisonici) ha sintomi che spaziano tra ipertensione, fragilità capillare, assottigliamento della cute, dif-ficoltà di cicatrizzazione delle ferite, irsutismo, osteoporosi, immunodepressione, alterazioni del ciclo me-struale nelle donne, calo della libido, edema, infezioni ricorrenti, alterata tolleranza glucidica, osteoporosi, cefalea, depressione , acne, diabete secondario e psicosi [10]. Inoltre, compromette lo stato fisico causando dislipidemia, aumento di peso con perdita di massa musco-lare e osteoporosi [11], con ripercussioni sulla ridistribuzione del grasso corporeo e obesità, solitamente di grado lieve-moderato e con manifestazione estetiche caratteristiche. L’adipe in eccesso si concentra preva-lentemente sul tronco (obesità di tipo tronculare) e non sugli arti che appaiono spesso più sottili, sulla regio-ne cervicale (gibbo di bufalo), tra le scapole, intorno alle guance e nella regione temporale, determinando in tal modo la così detta “faccia lunare”. Al contrario l’insufficienza surrenalica e quindi carenza di cortisolo, no-ta anche come malattia di Addison e


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causata principalmente da processi autoimmuni [12], infezioni, maligni-tà o emorragia surrenale [13] provoca affaticamento, perdita di peso, ipotensione e iper-pigmentazione del-la pelle [14]. E’ chiaro quindi che il cortisolo gioca un ruolo chiave nel metabolismo e nel controllo del peso, è quindi bene tenerlo sotto controllo perché se da un lato può facilitare il dimagrimento dall’altro riduce le masse mu-scolari e rallenta il metabolismo basale. L’azione principale è di indurre l’aumento della glicemia, i glucocor-ticoidi come il cortisolo infatti, aumentano la disponibilità di glucosio nel sangue agendo su fegato, muscoli, tessuto adiposo e pancreas. Nel fegato aumenta la gluconeogenesi favorendo il catabolismo proteico prin-cipalmente a carico dei muscoli scheletrici, dove le cellule muscolari riducono l’assorbimento e il consumo di glucosio, aumentano la degradazione delle proteine e diminuiscono la sintesi del glicogeno [15]. Infine, il cortisolo agisce sul pancreas per diminuire l’insulina e aumentare il glucagone, che a sua volta aumenta la glicogenolisi, la gluconeogenesi, la chetogenesi epatica, la lipolisi e diminuisce la lipogenesi. Se tutte queste fonti di energia prodotte in risposta ad uno stato di stress non vengono sfruttate a breve termine verranno accumulate, principalmente sotto forma di grasso concentrato nella zona addominale. Il cortisolo inoltre aumenta la ritenzione di acqua e sodio favorendo la ritenzione idrica, ed è per questi motivi che, quando sregolato, può intaccare le caratteristiche fisiche sia accelerando la degradazione delle miofibrille muscolari e favorendo l’accumulo di adipe, sia causando stanchezza generalizzata e stimolando la sensazione di fame. Diversi studi infatti, dimostrano la correlazione tra fattori di stress, abitudini alimentari , obesità [16], [17] e la secrezione di cortisolo. E’ chiaro che già i disturbi alimentari in se siano caratterizzati da un alterato rapporto con il cibo e da atteg-giamenti sregolati per numerosi motivi, sia fisici che psicologici, ma che ruolo ha lo stress sui comportamenti alimentari? Precedenti studi hanno dimostrato che il 70% dei normopeso aumenta l’assunzione di cibo a fronte di stress, mentre il restante 30% mangia

meno [18], [19]. Il mangiare indotto dallo stress e la reattività del cortisolo potrebbero essere correlati: i glucocorticodi influenzano la secrezione e l’attività di una serie di ormoni [20] tra cui insulina, grelina e leptina responsabili a loro volta, insieme al cortisolo stesso, dei com-portamenti alimentari [21]. Esistono prove in modelli animali, così come nell’uomo, che un livello elevato di glucocorticoidi basali può portare a un aumento del consumo di cibo [22], [23] mentre al contrario, bassi livelli di tali ormoni siano associati a una ridotta assunzione [24]. Un’altra possibile spiegazione dell’esigenza di mangiare di più sotto stress può essere proprio l’alterazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) [25], che può portare all’invio di informazioni alterate al cervello e alla resistenza dei segnali di adiposità in diverse aree del corpo, con il risultato di fallire i processi di regolazione dell’equilibrio energetico e del comportamento alimentare. E’ infatti dimostrato uno squilibrio del sistema asse HPA-leptina [26] nell’obesità, dove la regolazione dei sistemi neuroendocrini, compresa la concentrazione di cortisolo, potrebbe avere ruoli modulatori dell’azione della leptina [27], ed è anche per questo che gli individui obesi risultano più vulnerabili allo sviluppo di schemi alimentari irregolari indotti dallo stress. E’ ovvio che per ottenere la perdita di peso intenzionale è necessario restringere l’apporto calorico, ma qual è il metodo più efficace nei casi di obesità? Numerosi studi dimostrano come una dieta particolarmente restrittiva porti a una perdita di peso di successo a breve termine ma non mantenuta nel tempo. Alcuni studi dichiarano che il 30-64% di chi si sottopone ad una dieta ferrea riprende addirittura più peso di prima [28]. Inoltre, aver seguito una dieta in passato risulta un fattore predittivo di aumento di peso e più a lungo venivano seguiti i partecipanti, più peso avevano riguadagnato [28]. L’ipotesi è che le diete falliscono perché aumentano gli indicatori di stress, e individuano proprio le diete troppo restrittive come causa di fallimento. Infatti, la ricerca suggerisce forti legami tra stress e aumento di peso attraverso aumenti di cortisolo regolati dalla attivazione prolungata dell’asse HPA e conseguente resistenza all’insulina [29], [30]. Per definizione, la dieta è un atto di restrizione e questa privazione suscita emozioni negative, sia per la resistenza alla tentazione che per la sensazione di avversione fisica di essere affamati: prove scientifiche associano alla dieta conseguenze emotive negative come depressione, ansia, diminuzione dell’autostima, nervosismo e irritabilità [31]. Tra i principali colpevoli emergono l’atteggiamento maniaIl Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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cale nel monitorare l’apporto calorico e le grammature e l’uso compulsivo di diari alimentari, vissuti come malessere frequente e ripetitivo creando un fattore di stress cronico con conseguenze negative sulla salute. I ricercatori hanno da tempo constatato che il digiuno e la fame siano associati ad un aumento di cortisolo [32], che a sua volta influisce sull’appetito. De Sa et al. [33] hanno dimostrato che la somministrazione orale di questa sostanza ha amplificato la reattività alla presentazione di immagini di alimenti con alto indice glicemico e che non c’era un tale effetto in caso di rappresentazioni piacevoli non alimentari. Oltre all’impegno nel riuscire a far vivere serenamente e con approccio positivo l’introduzione della dieta, esistono alimenti in grado di “collaborare” nella regolazione l’omeostasi degli ormoni steroidei. Una serie di fattori dietetici ed endogeni influiscono sul mantenimento di un livello appropriato di glucosio nel sangue. Come abbiamo detto, il cortisolo agisce sulla quantità di glucosio attivando le riserve di glicogeno epatico, riducendo l’ossidazione del glucosio, la stimolazione della lipolisi e l’intensificazione della gluconeogenesi e contribuendo allo sviluppo di insulino-resistenza, dislipidemia, ipertensione e obesità. Inoltre, un eccesso di cortisolo altera il trasporto attivo degli ioni calcio attraverso le membrane cellulari e riduce il suo assorbimento nel tratto gastrointestinale portando a calciuria, ed agisce sulla regolazione termica per prevenire il surriscaldamento dell’organismo [34]. Come ben sappiamo, la dieta è efficace solo se accompagnata da attività fisica. L’integrazione di alcuni aminoacidi come il triptofano, precursore della serotonina, può portare ad una riduzione dell’aumento del livello di cortisolo indotto dall’esercizio [35], così come le giuste quantità di fosfatidilserina e acido fosfatidico [36]. Anche l’acido γ-amminobutirrico (GABA) influenza il controllo ormonale del cortisolo: riducendo la secrezione di corticoliberina (ormone di rilascio della corticotropina, CRH), un ormone polipeptidico ipotalamico e neurotrasmettitore coinvolto nella risposta allo stress, innesca una serie di cambiamenti ormonali consecutivi che portano alla stimolazione della secrezione di cortisolo da parte della corteccia surrenale. Oligoelementi come litio, vitamina B 6 , vitamina B 12 e acido folico, influiscono sull’accelerazione dell’attività del sistema GABAergico [37] e l’aminoacido taurina ha la capacità di stimolare il recettore GABA [38]. L’influenza dell’acido ascorbico sul livello del cortisolo è stata ampiamente studiata. Brody et al. [39] hanno dimostrato che l’assunzione di 3 grammi di vitamina C al giorno porta a un recupero più rapido del cortisolo dopo la risposta allo stress psicologico acuto, ma non riduce la concentrazione complessiva di questo ormone. Negli atleti, l’integrazione con alte dosi di acido ascorbico (1000–1500 mg / giorno) durante il periodo 88 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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precedente l’inizio degli allenamenti di resistenza ha ostacolato la crescita dei livelli di cortisolo ed ha contribuito alla riduzione del dolore muscolare e al miglioramento dell’efficienza dei processi rigenerativi. Un effetto simile è stato osservato durante l’integrazione con dosi elevate di vitamine B1, B2 e niacina, coinvolte nel metabolismo e nella produzione di cortisolo [40]. L’esercizio fisico come fattore di stress aumenta la secrezione di cortisolo, processo che può essere limitato integrando la dieta degli atleti con magnesio: dopo 14 giorni di integrazione, il livello di cortisolo non aumentava in risposta all’esercizio fisico [41]. C’è da dire, che non tutti gli studi sono allineati e che l’impatto della supplementazione di magnesio sui livelli di cortisolo negli atleti non è chiaro e necessita di ulteriori indagini. Un altro gruppo di integratori ampiamente promossi sono quelli a base di estratti vegetali. La melissa ad esempio, è una delle piante più comunemente associate alla limitazione degli effetti dello stress tuttavia, si discute se uno dei meccanismi d’azione comprenda la diminuzione dei livello di cortisolo da parte dei composti attivi contenuti nella pianta [42]. Certa è invece l’azione dei componenti del tè verde sulla concentrazione plasmatica di cortisolo, che inibiscono l’attività dell’11β-idrossisteroide deidrogenasi di tipo 1 (11β-HSD1) che partecipa alla conversione del cortisone in cortisolo [43], così come il tè nero arricchito con teaflavina e il caffè verde [44], che riducono la scarica di cortisolo causata dallo stress. In realtà, diversi studi suggeriscono che la caffeina stimoli la produzione di cortisolo da parte delle ghiandole surrenali anche attraverso meccanismi epigenetici ereditari [45] e che il meccanismo d’azione in relazione ai livelli di cortisolo sia dipendente dal sesso. Negli uomini infatti si osserva un’attività del sistema nervoso centrale mentre nelle donne, si verificano ulteriori reazioni periferiche [46]. Infine, Miyake et al. ha dimostrato che l’integrazione con L -ornitina riduce il livello di cortisolo sierico, limita la sensazione di rabbia e nervosismo e migliora la qualità del sonno e l’affaticamento [47]. Conoscere a fondo l’assetto ormonale in risposta allo stress e come questo possa essere regolato e guidato, è di fondamentale importanza per preservare lo stato di salute e contribuire al benessere generale.


Scienze

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Ecm Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 3 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.

Il sistema integrato della Sicurezza Alimentare Dalla normativa alle indagini alimentari, dal Controllo Qualità al Controllo Ufficiale, la One Health è la strategia vincente

di Vincenza Castiglia*

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li alimenti che quotidianamente ingeriamo possono essere contaminati da sostanze chimiche o essere veicolo di agenti eziologici, e dunque costituire un rischio per la nostra salute. La Sicurezza Alimentare ha l’obiettivo di far pervenire sulle nostre tavole alimenti sicuri, dal cui consumo non consegua alcun danno per la salute. L’EU persegue tale obiettivo da anni; potremmo dire concretamente dal 2002 con l’introduzione del Reg. UE 178/2002, grazie al quale il focus del controllo si estende dal

Box 1.

Biologo Nutrizionista e Consulente in Sicurezza Alimentare e Sistemi di Gestione Qualità. Quality Assurance Manager. *

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prodotto finito all’intera filiera produttiva con l’obbligo della tracciabilità/rintraccabilità (vedi box1) ed ha istituito l’ EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, con sede a Parma. Qualche anno dopo, altri regolamenti hanno contribuito ad attenzionare il settore relativo alla produzione, confezionamento e distribuzione alimentare, come i Reg. UE 852/2004 (sull’igiene dei prodotti alimentari), 853/2004 (alimenti di origine animale), 1935/2004 (MOCA- Materiali e oggetti a contatto con alimenti), 2073/2005 (criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari), 1169/2011 (etichettatura e presentazione dei prodotti), per citarne alcuni. Tali regolamenti costituiscono norme di tipo “orizzontale” ossia applicabili a tutte le aziende coinvolte nella produzione, confezionamento, e distribuzione di alimenti (e bevande). Il loro scopo è armonizzare il mercato europeo e si distinguono dalle norme europee di tipo “verticale” che specificano i requisiti delle singole matrici e settori di produzione, ad esempio il Reg. UE 1337/2013 declina i dettami del Reg.1169/2011 allo specifico settore delle carni fresche, refrigerate o congelate di animali della specie suina, ovina, caprina e di volatili. I consumatori odierni risultano più esigenti nella richiesta di garanzie di sicurezza su ciò che mettono nel carrello: come è infatti emerso dalle ultime indagini INRAN condotte nel nostro paese riguardo alle etichette dei prodotti alimentari (grafico G2); il 43% dei soggetti dichiara di leggerle spesso o sempre, abitudine più diffusa tra le donne (55%) che tra gli uomini (28%). Le informazioni che vengono lette più frequentemente (spesso o sempre) risultano essere, nell’ordine, la scadenza del prodotto (74%), le modalità di conservazione (44%), le modalità d’uso (41%), la provenienza del prodotto (37%), l’elenco degli ingredienti (34%), il contenuto in nutrienti (26%), il tipo di additivi presenti (24%), tutte le informazioni riportate (23%). (rif. Laura D’Addezio, Marisa Capriotti, Antonella Pettinelli, Aida Turrini)1. Ancora, tra il 9 e il 26 aprile 2019, (e nel Novembre 2019


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di un alimento al momento dell’acquisto sono la provenienza, la sicurezza alimentare, il sapore e i valori nutrizionali. Il prezzo riveste minore importanza rispetto alla media europea; come per gli altri europei, la televisione è la principale fonte di informazione in fatto di sicurezza alimentare. poco meno di un terzo degli italiani intervistati ritiene che le informazioni inerenti alla sicurezza alimentare siano troppo tecniche e complesse. fra gli italiani vi è una consapevolezza limitata di come funzioni il sistema di sicurezza alimentare dell’UE. per gli italiani la fonte di preoccupazione più diffusa legata all’alimentazione sono i residui di antibiotici, ormoni e steroidi nelle carni, l’utilizzo di additivi, come coloranti, conservanti o aromi utilizzati in alimenti o bevande e l’igiene dei prodotti alimentari e gli inquinanti

Grafico 2: Risposte degli individui alla domanda “Quali informazioni legge sulle etichette degli alimenti e con quale frequenza?” (valori percentuali).

nei paesi in fase di preadesione) su iniziativa dell’EFSA, sono stati intervistati de visu a domicilio e in madre lingua circa 27 655 cittadini dei 28 Stati membri dell’UE provenienti da diverse fasce sociali e demografiche. Questa indagine speciale Eurobarometro, (metodologia delle indagini Eurobarometro standard)2 fornisce informazioni in termini di: • interesse generale dei cittadini europei per la sicurezza alimentare, compresi i fattori che influenzano le decisioni relative agli alimenti, principali canali di informazione sui rischi alimentari, cambiamenti nel comportamento e opinioni sulla complessità della comunicazione riguardante rischi alimentari; • consapevolezza e percezione dei rischi in materia di sicurezza alimentare, fiducia nelle diverse fonti di informazione e comprensione del sistema di sicurezza alimentare dell’UE. In figura 1 sono riportati i risultati emersi, in merito all’opinione degli intervistati sulla sicurezza Alimentare, a livello nazionale ed europeo. Alla luce del confronto tra la percezione dei rischi alimentari dei cittadini italiani rispetto a quella dei cittadini degli altri Paesi UE, si può concludere che: • per gli italiani i fattori più rilevanti nella scelta

Sopra, figura 1. Sotto, box 2.

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ambientali nei pesci, nella carne e nei prodotti lattiero- caseari. • per quanto riguarda le fonti di informazione sui rischi alimentari, gli italiani si fidano maggiormente di scienziati, associazioni dei consumatori e produttori. Or dunque una fetta di consumatori più esigenti ed attenti non rende per nulla semplice operare nella sicurezza alimentare per un OSA (Operatore del Settore Alimentare). Di fatto oltre ai requisiti cogenti, l’OSA deve esaudire anche i requisiti attesi dai consumatori, i cosiddetti requisiti qualità. Per tanto nel settore della Sicurezza Alimentare operano diverse figure professionali, chiamate in ottica “One Health” a collaborare al fine di minimizzare il rischio alimentare. Nessuna attività umana, si conviene ricordare, ha un rischio zero. Il rischio zero non esiste; dunque bisogna agire rendendo il rischio accettabile, riducendo quanto più possibile l’entità degli eventuali danni per la salute del consumatore e limitando le probabilità di accadimento. Ne consegue che alla base della sicurezza alimentare vi è l’analisi del rischio (box 2), composta dalle fasi di: • valutazione • gestione • comunicazione E allora quali sono gli strumenti operativi della Sicurezza Alimentare? Sono diversi e sono strettamente interconnessi tra loro: Controllo Qualità e SGQ, CU, Regolamenti, indagini e studi scientifici. Controllo qualità e sistemi di gestione qualità Abbiamo già citato i regolamenti europei, che assieme alle direttive e alla normativa nazionale, definiscono i requisiti cogenti e delineano i limiti, ma anche linee guida, entro cui l’OSA può operare, partendo dal prerequisito fondamentale della qualità igienico sanitaria. La Qualità di un prodotto o di un servizio è rappresentata dalle caratteristiche che gli consentono di soddisfare le attese di chi lo utilizza. Non esiste un livello “assoluto” di qualità: sono le esigenze degli utilizzatori a definire di volta in volta le caratteristiche che 92 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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il prodotto o il servizio (trasporto, vendita di alimenti) deve possedere per soddisfarli. Il livello di qualità richiesto dal cliente deve essere raggiunto in modo costante nel tempo, attraverso la standardizzazione dei processi, motivo per cui è necessario che siano coinvolte tutte le funzioni aziendali, e si parla sempre più frequentemente di Garanzia della Qualità e di Sistemi Gestione Qualità (SGQ). La qualità non è un fatto solamente tecnico, e non è una prerogativa esclusiva del settore alimentare. Ha aspetti organizzativi e gestionali e va a coinvolgere tutta l’azienda, compresa la direzione che deve avere una precisa politica e ne deve curare l’attuazione, anche considerando lo stretto rapporto esistente tra qualità ed efficienza aziendale (e quindi profitto). Il sistema qualità aziendale consente di “far leggere” ad esterni ed interni alla struttura come riusciamo ad eseguire tutte le attività procedurate. Per controllare che tali requisiti di qualità siano garantiti, nelle aziende vigila il “Controllo Qualità”, formato da uno o

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più esperti (dipende dal contesto aziendale). L’obiettivo del CQ è di garantire che un’organizzazione abbia la capacità di soddisfare le richieste o le aspettative espresse da clienti, associazioni di categoria, enti di controllo e qualsiasi altra parte coinvolta nei processi aziendali, e nel contempo garantire la sicurezza del prodotto. Per tanto, le attività che rientrano nel settore alimentare sono obbligati ad implementare il sistema HACCP. Ecco dunque che il CQ e il sistema HACCP sono strumenti attraverso cui la Sicurezza Alimentare riesce a concretizzare il suo fine ultimo: garantire l’assenza di pericolo derivante dal consumo degli alimenti. Controlli ufficiali e Reg. Ue 625/2017 Dal momento, però, che il CQ è spesso interno all’azienda, si rendono necessari controlli di terza parte degli enti preposti, chiamati a vigilare sul corretto operato dell’OSA. Si tratta dei controlli ufficiali, la cui importanza è sottolineata dal Reg. EU 625/2017 (chiamato anche RCU) del 15 marzo 2017, “relativo ai controlli ufficiali e alle altre attività ufficiali effettuati per garantire l’applicazione della legislazione sugli alimenti e sui mangimi, delle norme sulla salute e sul benessere degli animali, sulla sanità delle piante nonché sui prodotti fitosanitari”. Il cambiamento più importante introdotto dal RCU è l’estensione del campo di applicazione dei controlli ufficiali all’intero settore agroalimentare. Se le regole sui controlli ufficiali erano verticalizzate attraverso regolamenti e direttive, il RCU con l’estensione del campo di applicazione ai settori solo parzialmente inclusi nel Reg. UE 882/2004, crea un unico quadro giuridico. Inoltre include tra i nuovi settori anche la sanità e il benessere animale. Bisogna considerare che un animale che non vive nel benessere si ammala più facilmente e può succedere che: • l’animale ammalato viene trattato con farmaci i cui residui possono passare nel latte, nelle uova o nella carne che consumiamo; • non viene curato e allora saranno gli agenti patogeni a inquinare i prodotti che consumiamo. In breve: la qualità e sicurezza degli alimenti di origine animale, di fatti, passa anche attraverso il benessere animale poiché lo stato patologico degli animali da reddito esita in importanti conseguenze sull’alimentazione umana e su qualità e sanità dei prodotti di origine animale (zoonosi, infezioni tossinfezioni e intossicazio-

ni alimentari). Il RCU stabilisce norme atte a prevenire, eliminare o ridurre il livello di rischio per l’uomo, per gli animali ma anche per le piante in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione. Introduce regole generali al fine di creare un quadro uniforme per la certificazione ufficiale tra gli Stati membri. Proprio per effetto del nuovo campo di applicazione e l’inclusione di settori non coperti dalla legislazione alimentare, la gamma di destinatari non è più limitata agli operatori del settore alimentare (OSA). Di fatti la terminologia utilizzata dal RCU per i destinatari è di operatori economici. I controlli ufficiali, ora, si estendono anche alla fase di e-commerce. Possiamo dedurre per tanto che con il reg. 625/2017, i controlli ufficiali acquisiscono un’importanza tale da contribuire all’applicazione di fatto della sicurezza alimentare, di cui diventano utile strumento, in grado di migliorare anche l’operatore economico/OSA. Enti istitutivi, dati scientifici, inchieste sui consumi e abitudini alimentari della popolazione Alla luce di quanto esposto, appare evidente che inchieste ed indagini come quelle citate ad inizio, consentono di raccogliere dati utili ai fini della definizione del rischio correlato al consumo di un alimento. È noto che alcuni degli alimenti che circolano sul mercato non siano tra i più salutari, soprattutto se “ultra processati”3. Tuttavia è bene sempre considerare il reale consumo di tali alimenti “incriminati” in relazione anche con quelle che sono le abitudini e gli stili

Figura 2.

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di vita della persona che li acquista e consuma. La tossicità di una sostanza, inclusi i contaminanti e residui, è in funzione del tipo di sostanza ma anche della dose assunta e della durata dell’esposizione. Così come la disponibilità di informazioni delle tecnologie industriali, ma anche domestiche, utilizzate (tecniche e modalità di conservazione, cottura, preparazione ecc) consentono una più attenta valutazione del rischio. Tra questi strumenti rientrano: • Gli studi di indagine come quelli del CREA, (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) il cui Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione ha avviato il IV Studio sui consumi alimentari in Italia (IV SCAI), sviluppando un sistema per condurre un’indagine campionaria finalizzata alla raccolta dei dati sui consumi alimentari della popolazione italiana, con le metodiche armonizzate raccomandate dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA). Il CREA, facendo parte degli Enti della Cooperazione come da Art. 36 della legge istitutiva dell’EFSA, è impegnato a realizzare lo studio nell’ambito del programma EU-Menu (Rif. OCEFSA-DATA-2014-02-Lot 1- CT03; Lot 2-CT05), i cui dati sono ancora in attesa di essere notificati. • Gli studi “tossicologici” condotti dalle commissioni dell’EFSA, quando vi sono perplessità sulla sicurezza di un qualsiasi ingrediente o materiale che entra nella filiera alimentare. • La valutazione del rischio ambientale (VRA) che esamina le ripercussioni sull’ambiente dovute, ad esempio, all’introduzione di piante geneticamente modificate (OGM), all’uso di determinate sostanze negli alimenti, nei mangimi e nei prodotti fitosanitari ovvero all’introduzione e alla diffusione di organismi nocivi ai vegetali. La normativa europea prevede che l’EFSA svolga una VRA in ambiti specifici, quali OGM e pesticidi. L’EFSA valuta anche i rischi per la salute umana e animale derivanti dai contaminanti chimici o dai pericoli microbiologici che possono essere presenti nell’ambiente e pertanto entrare nella filiera alimentare. La VRA aiuta i responsabili delle politiche e gli organi normativi a prendere decisioni ri94 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

spettose dell’ambiente. Le risultanze di tali indagini e studi costituiscono un input per la normativa alimentare. Le interconnessioni tra i vari strumenti citati, or dunque, si manifestano chiaramente. Le contaminazioni degli alimenti, che siano di tipo fisico, chimico o biologico, hanno sempre come possibili fonti l’ambiente (aria, suolo, acque), materiali e macchinari, le piante, gli animali e l’uomo (operatore). (figura 2). Per questo nella sicurezza alimentare operano diverse figure professionali, organizzate in team multidisciplinari ed in ottica One Health4. La Sicurezza Alimentare risulta fondata su un sistema integrato che coinvolge con diversi gradi di responsabilità le istituzioni, i produttori, i fornitori, i distributori, i consulenti (interni o esterni all’organizzazione) e i consumatori. Infatti un’industria è responsabile dei requisiti legali ed igienico- sanitari del prodotto che immette sul mercato a proprio marchio, ma il consumatore è tenuto ad adottare altrettante buone pratiche igienico-sanitarie durante le fasi di acquisto, trasporto, conservazione e preparazione. Inoltre ogni aspetto che riguarda la filiera produttiva di un alimento diviene oggetto di studio della sicurezza alimentare, che spazia dalla produzione primaria, secondaria terziaria e quaternaria fino agli aspetti regolatori (etichettatura, marketing) e certificazioni (di prodotto o di processo). In conclusione se quando parliamo di One Health, ci riferiamo ad un approccio alla salute che tenga conto della stretta connessione tra la salute dell’uomo e quella del mondo animale e del ruolo dell’ambiente su entrambi, ne consegue che la strategia One Health sia l’unica garanzia per la sicurezza alimentare e il suo principale strumento d’azione.

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Anno IV - N. 1 gennaio 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

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Nasce il Consorzio Italiano per la genotipizzazione e la fenotipizzazione del virus Sars-CoV-2

Gennaio 2021 Anno IV - N. 1

Hanno collaborato: Nicola Armaroli, Fiorella Belpoggi, Vincenza Castiglia, Barbara Ciardullo, Carla Cimmino, Chiara Di Martino, Domenico Esposito, Giada Fedri, Felicia Frisi, Elisabetta Gramolini, Sara Lorusso, Biancamaria Mancini, Enrico Mariutti, Marco Modugno, Emilia Monti, Michelangelo Ottaviano, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo, Stefania Papa, Carmen Paradiso, Pasquale Santilio, Pietro Sapia, Giacomo Talignani. Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione giovedì 28 gennaio 2021. Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it.

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Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano l’Ordine né la redazione. Immagine di copertina: © BaLL LunLa/www.shutterstock.com

96 Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021


Contatti

Informazioni per gli iscritti Si informano gli iscritti che gli uffici dell’Ordine Nazionale dei Biologi forniranno informazioni telefoniche di carattere generale nei seguenti orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00. Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Ordine Nazionale dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@peconb.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata. Si ricorda che, in virtù delle disposizioni di Governo attualmente in vigore finalizzate a contrastare la diffusione del Coronavirus, al momento, e fino a nuova comunicazione, non è possibile recarsi presso gli uffici dell’ONB per richiedere documenti o informazioni.

CONSIGLIO DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI Vincenzo D’Anna – Presidente E-mail: presidenza@peconb.it Pietro Miraglia – Vicepresidente E-mail: analisidelta@gmail.com Pietro Sapia – Consigliere Tesoriere E-mail: p.sapia@onb.it Duilio Lamberti – Consigliere Segretario E-mail: d.lamberti@onb.it Gennaro Breglia E-mail: g.breglia@onb.it Claudia Dello Iacovo E-mail: c.delloiacovo@onb.it Stefania Papa E-mail: s.papa@onb.it

UFFICIO TELEFONO Centralino Anagrafe e area riservata Ufficio ragioneria Iscrizioni e passaggi Ufficio competenze ed assistenza Quote e cancellazioni Ufficio formazione Ufficio stampa Ufficio abusivismo Ufficio legale Consulenza fiscale Consulenza privacy Consulenza lavoro Ufficio CED Presidenza e Segreteria Organi collegiali

06 57090 200 06 57090 237 - 06 57090 241 06 57090 220 - 06 57090 222 06 57090 210 - 06 57090 223 06 57090 202 06 57090 214 06 57090 216 - 06 57090 217 06 57090 207 - 06 57090 239 06 57090 205 - 06 57090 225 06 57090 288 protocollo@peconb.it consulenzafiscale@onb.it consulenzaprivacy@onb.it consulenzalavoro@onb.it 06 57090 230 - 06 57090 231 06 57090 227 06 57090 229

Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi Andrea Morello Marco Rufolo Erminio Torresani Il Giornale dei Biologi | Gennaio 2021

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