Il Giornale dei Biologi - N.6 - Giugno 2021

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Giugno 2021 Anno IV - N. 6

BIOLOGI CON LA FAO

Siglata a Roma la partnership tra l’Ordine Nazionale dei Biologi e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura. D’Anna (ONB): “I nostri iscritti potranno partecipare a progetti internazionali di tutela ambientale”

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Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Una svolta epocale di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO

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Covid, numeri confortanti. Ma preoccupano le varianti di Rino Dazzo

8

Onb e Fao insieme in soccorso del nostro Pianeta di Domenico Esposito

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SALUTE 14

Covid-19. Perché i bambini vincono il virus di Sara Bovio

16

Fumo: durante la pandemia 1,2 milioni di consumatori in più di Emilia Monti

18

Stop al fumo per essere più forti contr il Covid di Domenico Esposito

20

Spesa farmaceutica. 544 milioni di ricetta di Emilia Monti

21

Diabete tipo 2: quasi 4 mln italiani colpiti di Emilia Monti

22

Leucemia, la terapia Car-T funziona di Emilia Monti

24

Superare i ricordi traumatici? C’è il talamo di Pasquale Santilio

25

Degenerazione muscolare: cambio di identità cellulare di Pasquale Santilio

26

Ictus: fattori di rischio e di protezione di Marco Modugno

28

Robotica e serotonina per il post ictus di Pasquale Santilio

29

Biotecnologie per l’intolleranza al glutine di Pasquale Santilio

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L’ormone grelina per combattere il senso di fame di Domenico Esposito

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Parkinson: le varianti di rischio della malattia di Felicia Frisi

INTERVISTE 10

12

Rigenerazione muscoli distrofici Studio italiano ne svela il meccanismo di Chiara Di Martino Farmaco Alzheimer. Rossini: “Cautela sì, ma anche fiducia” di Chiara Di Martino


Sommario 33

Publio Elio Aristide e la malinconia depressiva di Barbara Ciardullo

34

La fibrillazione atriale causa declino cognitivo di Domenico Esposito

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Malattia del sonno: speranza dal vaccino di Domenico Esposito

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Indicizzare i file memorizzati nel Dna di Carmen Paradiso

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La scoperta dell’allergia nel ventesimo secolo di Barbara Ciardullo

38

Rigenerare la safe donor area di Biancamaria Mancini

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Vitamina C, antiossidante per eccellenza di Carla Cimmino

AMBIENTE

INNOVAZIONE 73

Climatizzatori, i consigli salva bolletta dell’Enea di Felicia Frisi

BENI CULTURALI 76

Il castello e il parco di Masino, la sfida (vinta) del Fai di Rino Dazzo

79

Ipogei del Colosseo, nuovo percorso di visita di Pietro Sapia

SPORT 82

Olimpiadi, la boxe italiana è donna di Antonino Palumbo

86

Mazzone dall’abisso ai trionfi con la handbike di Antonino Palumbo

44

Le comunità energetiche in Italia di Gianpaolo Palazzo

88

La speranza di Eriksen in campo dopo il dramma? di Antonino Palumbo

46

L’origine delle foreste pluviali di Sara Bovio

89

Dalla Val di Non a Tokyo. La corsa di Nadia di Antonino Palumbo

48

Consumi ed emissioni nel Belpaese di Gianpaolo Palazzo

90

BREVI

50

Scienziati e comunità per salvare gli impollinatori di Matteo Montanari

54

In difesa dei querceti, il progetto “Resq” di Gianpaolo Palazzo

56

Plastica: addio agli usa e getta di Giacomo Talignani

58

Sri Lanka paradiso perduto? di Giacomo Talignani

60

Antartide, perdiamo i “contrafforti” di Giacomo Talignani

62

L’ecosistema dunale del litorale romano di Daniela Pascucci

70

In Venere veritas: la Nasa sceglie La Sapienza di Michelangelo Ottaviano

71

Forest forward, per la salvaguardia delle foreste di Michelangelo Ottaviano

LAVORO 92

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE 94

Un fattore di rischio genetico nella malattia di Crohn di Valentina Arcovio

98

Covid-19: rischio di ansia e depressione in gravidanza e dopo il parto di Sara Bovio

102 La viamina C essenziale per la salute fisica e mentale Emanuele Rondina

ECM 106 Acido Urico e Malattie Cardiovascolari di Plinio Cirillo


Editoriale

Una svolta epocale di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

S

e qualcuno avesse pronosticato che, macisti, Veterinari, Psicologi che, in un primo al termine del mandato quadrien- momento, erano indicate come le depositarie nale, il Consiglio dell’Ordine Na- del provvedimento legislativo. zionale dei Biologi avrebbe portato

Nell’ultimo anno il Parlamento italiano,

a compimento anche la revisione degli ac- nei provvedimenti adottati per fronteggiare cessi all’Albo professionale, in uno con la riforma della laurea abilitante per i Biologi Italiani, avrei avuto qualche difficoltà a crederci. Tuttavia, i fatti ci confortano ed il disegno di legge, appena licen-

la pandemia virale, ha più Al termine del mandato quadriennale, il Consiglio dell’Onb ha portato a compimento anche la revisione degli accessi all’Albo professionale

volte indicato i Biologi come destinatari di opportunità e di facoltà prima loro precluse. Abbiamo cominciato con l’ottenere

l’equiparazione

dei benefici economici per

ziato dalla Camera dei Deputati, recante la i Biologi ospedalieri in un primo momento riforma delle lauree abilitanti, include anche esclusi, successivamente l’equiparazione dei Biologi nel novero delle professioni sanita- gli specializzandi Biologi a quelli Medici per rie che potranno usufruire di quella oppor- partecipare a concorsi, avvisi pubblici ed intunità. E così la categoria dei Biologi italiani carichi nel Sistema Sanitario Nazionale fin si parifica ancora una volta, in questo ultimo dal terzo anno di specializzazione. Ed ancora scorcio di legislatura, a quella di Medici, Far- una legge che revisiona le piante organiche GdB | Giugno 2021

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Editoriale

anche per i Biologi secondo le necessità alla categorie come i ricercatori delle IRCCS pubstregua di Medici ed Infermieri, che ha con- bliche e private, dei dipendenti delle Agenzie sentito qualche migliaio di assunzioni a vario regionali per l’ambiente e degli Istituti zootitolo nelle Aziende sanitarie locali. Un dato profilattici potranno accedere all’Albo senza eccezionale che ha corroborato le già rosee esame di Stato, ritenendo equipollente la prastatistiche sull’occupazione, che attribuivano tica quinquennale nei rispettivi ambiti lavoai Biologi un incremento percentuale del 14 rativi, si può affermare che una rivoluzione per cento, con un alto indice di occupazio- copernicana è stata e sarà realizzata. ne come categoria professionale più duttile

Quanto alla revisione degli accessi all’Albo,

nel mercato del lavoro. Un successivo

provvedimento

assegnava ai Biologi la possibilità di eseguire, anche fuori dal contesto ospedaliero, test molecolari ed antigienici rapidi anti-Covid anche nelle farmacie, nei laboratori di

l’Ordine sarà protagonista Verrà revisionato l’Albo dell’Onb, che sarà tripartito nelle principali aree professionali, quali nutrizione, ambiente e settore socio-sanitario

per la redazione dei provvedimenti attuativi della legge quadro sulle lauree abilitanti potendo anche ampliare le competenze dei professionisti nei vari settori di impiego professionale oltre che stabi-

analisi e nei centri istituiti in ogni ambito ter- lire quali debbano essere i titoli di studio per ritoriale. Una ulteriore legge ha assegnato ai potervi accedere. Un albo tripartito in Biologi Biologi la possibilità di poter inoculare vacci- Nutrizionisti, con maggiori competenze proni accedendo, come i farmacisti, all’apposito fessionali riconosciute, una sezione per i Biocorso di formazione dell’Istituto Superiore di logi Ambientali, anch’essi con competenze Sanità. Insomma, la piena parificazione della allargate nello specifico settore, una sezione nostra categoria alle altre professioni sanitarie per i Biologi Generali e quelli socio-sanitari quanto ad opportunità e riconoscimenti pro- che completeranno l’indicazione oltre ai perfessionali. Se aggiungiamo che un’altra legge, corsi di studio per accedervi ed ai maggiori all’esame del Parlamento, prevede che intere riconoscimenti professionali. Un lavoro che 4

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Editoriale

tutto il Consiglio dell’Ordine ha perseguito autonomi regionali e la complessa fase elettoper porre fine alla babele dei salti da lauree rale che dovrà garantire la svolta democratica triennali incongrue a lauree magistrali tipiche in piena trasparenza e legittimità. Eppure, solo delle Scienze Biologiche. Una selezione che a dicembre di questo anno si concluderà il mette ordine sia nelle competenze sia nei ti- quarto anno del mandato ricevuto dal Consitoli di studio necessari a catalogare la figura glio dell’Ordine nelle ultime consultazioni. Se del Biologo nelle sue molteplici speciali com- potremo riavere libertà di movimento e di ragpetenze. Ma la forza propulsiva riformatrice gruppamento, inaugureremo tutte le restanti non ha ancora finito di spingere la categoria sedi regionali che diventeranno le sedi degli verso nuove opportunità. Nel mirino ci sono ora le specializzazioni, ovvero l’incremento del numero di posti per gli accessi riservati ai Biologi che intendono specializzarsi, che sarà già patrimonio acquisito nel prossimo anno accade-

ordini territoriali e l’ossatura Nel mirino ci sono ora le specializzazioni, ovvero l’incremento del numero di posti riservati ai Biologi, nonché la possibilità di istituire nuovi percorsi di studio

della Federazione Nazionale degli Ordini Regionali. Resta inoltre la determinazione di un criterio per rintracciare le migliaia di evasori che esercitano abusivamente la professione non essendo iscritti

mico, nonché la possibilità di istituire nuove all’Albo. Una piaga che, laddove incide molto, specializzazioni in ambito sanitario, biotec- peserà sulla vita, l’autonomia e l’autosufficiennologico ed ambientale.

za economica di alcuni ordini regionali, depri-

Resta l’annosa e mai risolta vicenda delle vati di presenze e quindi di risorse economico borse agli specializzandi non medici, che do- finanziarie. Bisogna convincersi che l’Ordine vrà essere anch’essa raggiunta per completa- è un fedele compagno di strada per il Biologo, re il percorso di riqualificazione professionale il punto su quale poter far leva per tutelare la dei Biologi. In altri ambiti organizzativi e for- professione dai nemici quali gli abusivi, e dalle mativi continuerà il processo di decentramen- categorie concorrenti. Una luce che illumina la to territoriale con la preparazione degli ordini strada e ristora gli animi. GdB | Giugno 2021

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Primo piano

COVID, NUMERI CONFORTANTI MA PREOCCUPANO LE VARIANTI Hanno provocato un importante aumento di contagi in paesi ad alta copertura vaccinale come Regno Unito e Israele

di Rino Dazzo

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spedali quasi vuoti, con livelli di occupazione delle terapie intensive e degli stessi reparti ordinari assimilabili di fatto a quelli dell’era pre-Covid. Un totale di circa 55mila positivi in tutta Italia, meno di un quarto rispetto ai 246.270 dello scorso 28 maggio. Una media mensile vicina ai 50 decessi giornalieri, a fronte degli oltre 300 del mese di aprile e dei 175 di maggio. Venti regioni in zona bianca, con una sola – il Molise – che presenta livelli di rischio moderato. Il quadro è rassicurante, insomma. Il peggio sembra essere alle spalle, di pari passo con un incremento della velocità della campagna vaccinale in tutto il paese. Eppure, non è ancora il momento di cantare vittoria. A preoccupare, in questo particolare frangente, sono essenzialmente due varianti che gli esperti ritengono

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possano diventare preponderanti entro la fine di agosto: la variante Delta, ex “indiana”, e la variante Delta Plus, entrambe più contagiose del 40-60% rispetto alla variante Alpha, ex “inglese”. Tutte e due sono partite dall’India. La Delta Plus (o anche AY.1), in particolare, ha subito la stessa mutazione della proteina Spike ritrovata nella variante Beta, ex “sudafricana”, che la rende più trasmissibile e anche più resistente agli anticorpi monoclonali utilizzati per trattare il coronavirus. A destare allarme è soprattutto il fatto che tutte le varianti, la Delta in primis, abbiano provocato un importante aumento di contagi in paesi ad alta copertura vaccinale come Regno Unito e Israele. Ma questo non vuol dire che i vaccini non funzionino. Anzi. Solo una piccolissima percentuale dei vaccinati, poi, ha avuto bisogno di ricorrere a cure ospedaliere,


Primo piano

mentre le percentuali di ricoverati o deceduti non immunizzati sono state di gran lunga superiori. L’Ema, a ogni buon conto, ha chiarito che tutti i vaccini in uso – in particolare Pfizer e AstraZeneca, i più utilizzati al mondo – sono efficaci anche contro le ultime varianti: serve però una copertura completa, con entrambe le dosi, perché quella parziale – solo una dose, senza richiamo – espone a rischi più alti. Ecco perché la situazione va monitorata sempre con grande attenzione. Il Ministero della Salute, nel suo ultimo report settimanale sull’andamento dell’epidemia nel paese, ha ribadito che la strada maestra deve continuare a essere quella del tracciamento e che non è ancora il momento di allentare la guardia: «Vengono segnalati anche in Italia un numero crescente di focolai di varianti del virus SARSCoV-2, in particolare della variante Delta, che presentano una maggiore trasmissibilità e/o la potenzialità di eludere parzialmente la risposta immunitaria. La circolazione della variante Delta - si legge nella relazione - sta portando a un aumento dei casi in altri paesi con alta copertura vaccinale, pertanto è opportuno realizzare un capillare tracciamento e sequenziamento dei casi. È necessario raggiungere una elevata copertura vaccinale e il completamento dei cicli di vaccinazione per prevenire ulteriori recrudescenze di episodi di aumentata circolazione del virus sostenute da varian-

A veicolare i contagi sono stati soprattutto i non vaccinati (bambini e ragazzi, ma anche persone adulte non ancora immunizzate), mentre solo il 30% dei contagiati in questi due paesi aveva ricevuto entrambe le dosi.

© Studio Romantic/shutterstock.com

© angellodeco/shutterstock.com

ti emergenti con maggior trasmissibilità». A queste indicazioni si è aggiunto l’appello della Fondazione Gimbe, secondo cui c’è bisogno di maggior vigore nella gestione della variante Delta, in particolare «attraverso il potenziamento di sequenziamento e contact tracing, l’attuazione di strategie di screening per chi arriva dall’estero, l’accelerazione della somministrazione della seconda dose negli over 60 e nei fragili». Accelerazione che nel mese di giugno si è comunque già registrata e che ha portato a superare la metà della popolazione immunizzata con una dose (il 53,25% al 25 giugno, per un totale di 31.554.362 dosi somministrate) e a raggiungere il 29% della popolazione con copertura vaccinale completa, per un totale di 17.186.924 persone. Dopo aver toccato picchi di 550mila somministrazioni giornaliere, per le prossime settimane – comunque – i dati sono destinati a calare. Questo perché ci sarà minore disponibilità di dosi Pfizer e Moderna, da destinare in massima parte ai richiami degli under 60 e di chi, immunizzato in prima istanza con Vaxzevria (AstraZeneca), sceglierà per la seconda dose un vaccino a mRna, come raccomandato dal Comitato Tecnico Scientifico. La media nazionale di somministrazione delle dosi consegnate rimane piuttosto alta (89,2% su un totale di 54.657.887 fiale), con punte massime in Lombardia (91,3%), Puglia (90,8%) ed Emilia-Romagna (90,6%). Interessanti i dati sulle percentuali di persone non ancora immunizzate per fasce d’età. Solo il 3,27% degli over 90 non ha ricevuto alcuna dose di vaccino, percentuale che sale al 7% tra gli over 80, al 12,7% tra gli over 70 e al 18,94% tra gli over 60. Più si abbassa l’età media, insomma, e più si fa più alto il numero di persone che, anche per convinzione, sceglie di non aderire alla campagna. La partita, dunque, rimane ancora tutta da giocare. Siamo sempre lontani dal traguardo dell’immunità di gregge, vale a dire dalla copertura vaccinale dell’80% della popolazione. A questi ritmi sarebbe raggiunta a metà settembre, anche se le incognite legate alla diffusione di nuove varianti e a riaperture sempre più massicce, con scambi e spostamenti nuovamente sostenuti tra i vari paesi d’Europa e del mondo, potrebbero rivoluzionare il quadro. GdB | Giugno 2021

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Primo piano

Da sinistra, Vincenzo D’Anna, Giuliano Russini, Maria Sorrentino, Maria Helena Semedo, Aruna Gujral, Ariella Glinni, Beth Bechdol, Maurizio Martina.

ONB E FAO INSIEME IN SOCCORSO DEL NOSTRO PIANETA

Avviata una partnership per l’nserimento dei biologi in progetti internazionali legati alla tutela dell’ambiente di Domenico Esposito 8

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biologi italiani coinvolti in progetti internazionali legati alla tutela dell’ambiente, allo sviluppo delle buone pratiche connesse all’agricoltura e all’economia sostenibile. È questo il frutto della partnership varata tra l’Ordine nazionale Biologi e la FAO (Food and Agriculture Organization). Nel corso di un incontro tenutosi a Roma alla presenza di una rappresentanza del CNBA (Coordinamento Nazionale Biologi Ambientali), dell’Ordine nazionale dei Biologi, guidata dal presidente dell’ONB Vincenzo D’Anna, del vicedirettore generale della FAO, Beth Bechdol, e dell’ex Ministro delle politiche agricole e attuale consigliere speciale e vicedirettore generale aggiunto della FAO, Maurizio Martina, si è discusso delle modalità di inserimento dei biologi in questo percorso virtuoso e dei vantaggi che questo tipo di cooperazione sarà in grado di assicurare. «È uno dei progetti professionali più importanti realizzati dal Consiglio dell’Ordine, perché i biologi si riappropriano del contesto che riguarda la tutela dell’ambiente, la salvaguardia delle aree boschive, la lotta alla desertificazione e allo spreco dell’acqua e, soprattutto, l’incentivazione delle tecniche di coltivazione biologica e biodinamica nei Paesi in via di sviluppo - ha dichiarato il presidente


Primo piano

Vincenzo D’Anna, presidente dell’Onb.

Maurizio Martina, consigliere speciale e vicedirettore generale aggiunto della FAO, ex Ministro delle politiche agricole.

D’Anna -. Insieme alla FAO costituiremo un comitato tecnico scientifico che dovrà valutare le modalità attraverso le quali la partnership si potrà realizzare. Questa – aggiunge il numero uno dell’Onb - è una delle tante attività che il CNBA (struttura operativa dell’Ordine che si è fatta promotrice del partenariato, ndr) sta portando avanti, quindi ritengo che sia pienamente recuperato il ruolo e la funzione dei biologi in quello che si prospetta essere il loro futuro campo d’intervento». Beth Bechdol, vicedirettore generale della FAO, lo ha definito «un incontro molto produttivo per capire come procedere verso un’agricoltura sostenibile a lungo termine in tutto il mondo, con l’opportunità di coniugare gli obiettivi della scienza e della biologia attraverso progetti eco-sostenibili, in linea con i principi della FAO». Soddisfatto anche l’ex ministro Maurizio Martina, che ha sottolineato quanto «sia importante che la professionalità e le competenze dei biologi incontrino realtà internazionali come quella della Food and Agriculture Organization, alla quale possono fornire un enorme supporto e aiuto nella realizzazione di obiettivi ambiziosi. Ora c’è bisogno che quest’attività di collaborazione vada avanti in modo operativo». Parla di «protocollo dalla valenza storica», Giuliano Russini, responsabile tecnico scientifico del CNBA. «Sì, perché la salvaguardia e lo studio del pianeta sono nella natura del biologo. La stessa Fao ha riconosciuto il ruolo fondamentale dei biologi, le cui caratteristiche coincidono con i suoi programmi». L’obiettivo è partire quanto prima. Perché non c’è tempo da perdere. «Siamo sempre più in difficoltà, soprattutto per via del depauperamento di risorse naturali come l’acqua – spiega Russini -. Secondo il Rapporto mondiale delle Nazioni unite sullo sviluppo delle risorse idriche 2020, lo scenario rischia di essere inquietante: entro

Beth Bechdol, vicedirettore generale Fao.

Maurizio Martina e Vincenzo D’Anna. «È uno dei progetti professionali più importanti realizzati dal Consiglio dell’Ordine, perché i biologi si riappropriano del contesto che riguarda la tutela dell’ambiente, la salvaguardia delle aree boschive, la lotta alla desertificazione e allo spreco dell’acqua e, soprattutto, l’incentivazione delle tecniche di coltivazione biologica e biodinamica nei Paesi in via di sviluppo», ha dichiarato il presidente D’Anna.

Giuliano Russini, responsabile tecnico scientifico del CNBA.

il 2030 il pianeta potrebbe soffrire a causa della mancanza d’acqua (si stima un calo del 40% dovuto alla crisi climatica e all’aumento dei consumi)». Gli esperti lanciano l’allarme: già quattro miliardi di persone nel globo vivono in condizioni di grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno. E in un futuro prossimo si delinea una crisi idrica senza precedenti. La minaccia, sempre più incombente, si chiama desertificazione. «Che sta interessando anche l’Italia meridionale. E avanza verso il Lazio» rimarca Russini con preoccupazione. «Per il Cnba, che è nato soltanto due mesi fa, il protocollo d’intesa con la FAO è un primo grande passo. Ed è solo l’inizio, perché l’intenzione del Coordinamento è di mettere insieme biologi ambientali terrestri e marini per far sì che questo team porti avanti progetti a livello mondiale» assicura Maria Sorrentino, responsabile organizzativo e della comunicazione del CNBA. Che poi evidenzia quanto sia stata rivalutata la figura del biologo ambientale. «Fino a poco tempo sembrava non avere voce in capitolo. Ora, invece, la FAO ne ha affermato l’importanza, tanto è vero che sarà presente a un convegno che stiamo organizzando in Sardegna sulla conservazione, la tutela e il ripristino delle zone umide». Insomma, biologi italiani in prima linea. Come Carlo Scoccianti, biologo esperto di zone umide, risanamento e assestamento di ambienti ed ecosistemi degradati, che è pronto a mettere a disposizione il ‘modello fiorentino’. Il suo lavoro, negli anni, ha dato vita a vere e proprie opere d’arte ambientali in Toscana: reti ecologiche nel pieno rispetto della natura, un sistema di aree uniche in Italia. «Facciamo tesoro di ogni risorsa, utilizzandola per il bene del territorio e ripristinando gli ecosistemi» spiega. Eccellenze italiane e FAO. Insieme. A difesa di un pianeta che ha tremendamente bisogno d’aiuto. GdB | Giugno 2021

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Intervista

RIGENERAZIONE MUSCOLI DISTROFICI STUDIO ITALIANO NE SVELA IL MECCANISMO Chiara Mozzetto (Istituto di Biologia e patologia molecolari del Cnr) spiega il doppio ruolo delle progenitrici fibro-adipogeniche: una possibile speranza per i pazienti con distrofia muscolare di Duchenne

P

iù comunemente colpisce i bambini e l’aspettativa di vita, pur raddoppiata negli ultimi anni, non supera il terzo decennio: la distrofia muscolare di Duchenne è una malattia rara che colpisce 1 su 5.000 maschi nati vivi (a parte rarissime eccezioni). È la forma più grave delle distrofie muscolari e provoca una progressiva degenerazione dei muscoli a causa dell’alterazione di un gene localizzato sul cromosoma X che contiene le informazioni per la produzione di una proteina: la distrofina. La malattia è caratterizzata da una progressiva distruzione del tessuto muscolare che viene progressivamente sostituito da tessuto fibrotico e adiposo. Si stima che in Italia ci siano 2.000 ammalati, ma il numero include anche le persone affette da distrofia di Becker, una variante più lieve. Attualmente non esiste una cura mirata e, in prospettiva, una speranza per il futuro è rappresentata da uno studio dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del Cnr - pubblicato su Science Advances - che, in estrema sintesi, rivela come cambiare l’identità di una popolazione di cellule muscolari possa promuovere la rigenerazione dei muscoli distrofici. A spiegare

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le implicazioni è Chiara Mozzetto, biologa con un dottorato in Genetica e Biologia Molecolare, oggi strutturata come Ricercatore preso l’IBPM del Cnr. Dottoressa, da dove parte lo studio? La ricerca ha già qualche anno alle spalle, ci lavoro dal 2016. Tutto è partito con uno degli ultimi progetti SIR (Scientific Independence of Young Researcher) finanziati dal Miur e dall’AFM-Telethon, che mi ha consentito di realizzare un sogno: mettere su per la prima volta un laboratorio “tutto mio”. Dapprima in Sapienza, al Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “C. Darwin” come RTD-A e poi al mio passaggio in CNR, anche lo studio è venuto con me. A questi temi mi ero già approcciata durante il mio post-doc, in particolare sulla popolazione delle cellule Fap. Di cosa si tratta? Sono le progenitrici fibro-adipogeniche, note con l’acronimo “Fap”, identificate per la prima volta nel 2010, e rappresentano l’arma a doppio taglio del muscolo scheletrico. Hanno mostrato infatti un duplice ruolo, a seconda dell’ambiente in cui si vengono a trovare: in condizioni fisiologiche rilasciano dei fattori che aiutano le


Intervista

Chi è

C

© Photoroyalty/shutterstock.com

cellule staminali muscolari alla rigenerazione del muscolo. Nel corso della degenerazione, invece, danno origine all’infiltrato adiposo e fibrotico che rimpiazza progressivamente il tessuto muscolare, rendendolo meno funzionale. Nel laboratorio di Pier Lorenzo Puri alla Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, dove mi sono formata, avevamo condotto uno studio sugli inibitori delle HDAC, svelando come i loro effetti benefici fossero ottenuti attraverso la loro azione proprio sui progenitori fibroadipogenici, e che ha portato a un primo clinical trial su pazienti affetti da distrofia muscolare di Duchenne. Qual è stato lo step successivo? Ciò che non era chiaro era il meccanismo attraverso cui potevamo sbloccare la capacità delle Fap di formare nuovo muscolo e bloccare la loro capacità di formare grasso e tessuto fibrotico. Volevamo capire quali fossero gli enzimi epigenetici che potessero mediare questa capacità e se fosse cioè possibile guidare questa popolazione di cellule verso uno dei due destini possibili. In sostanza ci siamo chiesti se potevamo provocare un “cambio di rotta” e, anziché farle contribuire alla degenerazione, accompagnare la loro strada verso la rigenerazione. Con quale risultato? Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule spingendole a formare nuovo tessuto muscolare e bloccando quindi la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose. I geni responsabili dell’acquisizione della capacità di formare nuovo tessuto muscolare sono confinati alla periferia del

Da sinistra, Chiara Mozzetto, Beatrice Biferali e Valeria Bianconi. “Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule spingendole a formare nuovo tessuto muscolare e bloccando quindi la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose”.

hiara Mozzetto si laurea in Scienze Biologiche a La Sapienza nel 2004. Entra nel laboratorio di Pier Lorenzo Puri, con sede in parte alla Fondazione Santa Lucia (Roma) e in parte al Sanford Burnham Prebys Medical Discovery Institute (San Diego). Qui svolge il suo training post-laurea e il percorso di Dottorato in Genetica e Biologia Molecolare, conseguito nel 2009, e ci resta fino al 2010. Dal 2011 al 2013 prosegue il suo Post-Doc a Parigi, nel laboratorio di Slimane Ait-Si-Aili (Univ. Paris Diderot/ CNRS) e rientra in Italia con un Assegno di Ricerca del Cnr presso l’IBCN. Nel 2015 consegue il finanziamento del MIUR, il SIR, e anche un altro finanziamento dell’AIRC, un MyFirst AIRC grant che le consentono di avviare il suo laboratorio.

nucleo delle FAP, dove vengono relegate quelle porzioni del genoma non utilizzate dalle cellule. La proteina Prdm16 gioca un ruolo cruciale nel bloccare le regioni di DNA codificanti il potenziale muscolare delle FAP alla periferia nucleare, reclutando su di esse gli enzimi G9a e GLP per mantenerle silenti. Abbiamo provato quindi a sbloccare queste regioni utilizzando un approccio farmacologico volto ad inibire G9a/ GLP: togliendo questo “freno” molecolare questi geni possono essere rilocalizzati dalla periferia verso una parte più attiva del nucleo, sbloccando la capacità delle FAP di formare tessuto muscolare. Ora quale sarà la direzione dello studio? Capire se sfruttare questo meccanismo anche su muscoli già degenerati. Non vogliamo dare false speranze ai familiari di chi soffre di queste patologie, perché per farlo ci vorranno ancora diversi anni e studi più approfonditi. Però non lo nascondo: il nostro sogno è quello. Chi è stato al suo fianco in questo progetto? Al di là delle prime autrici Beatrice Biferali e Valeria Bianconi – due giovani all’epoca appena laureate e oggi Dottori di ricerca, che hanno accettato con coraggio il rischio di affiancarsi a una giovane ricercatrice - il lavoro è stato possibile grazie al coinvolgimento di Giovanna Peruzzi dell’Istituto italiano di tecnologia senza la quale non avremmo potuto isolare le cellule, al supporto per la parte bioinformatica del gruppo dell’Istituto Europeo di Oncologia e dell’IRBM per lo sviluppo delle molecole usate per i trattamenti in vivo. (C. D. M.) GdB | Giugno 2021

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Intervista

FARMACO ALZHEIMER ROSSINI: “CAUTELA SÌ MA ANCHE FIDUCIA” Il responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele di Roma spiega luci e ombre dell’aducanumab

di Chiara Di Martino

A

lle spalle, due decenni di insuccessi nella ricerca di una cura contro l’Alzheimer, una malattia neurodegenerativa che comporta un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Su scala mondiale si registrano quasi 10 milioni di nuovi casi all’anno, e fino a oggi non è stato possibile individuare un farmaco in grado di rallentarne il decorso. Centinaia di trial sono stati condotti su altrettanti composti sperimentali ma nessuno, finora, è riuscito a tracciare una strada diversa. Finora, dicevamo, perché il 7 giugno scorso la Food & Drug Administration ha concesso l’approvazione accelerata per un farmaco, nello specifico un anticorpo monoclonale (aducanumab) di Biogen. La decisione della Fda, seppur connotata ancora da cautela (l’autorità ha infatti richiesto all’azienda farmaceutica un ulteriore trial clinico di fase 4, che definirà l’eventuale permanenza del farmaco sul mercato), apre le porte a una speranza per i malati di Alzheimer e le loro famiglie. Ma, alla luce delle particolari condizioni di approvazione e in attesa dell’eventuale via libera di altre agenzie regolatorie, tra cui l’EMA (cui il dossier è stato sottoposto già diversi mesi fa), il mondo scientifico si

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è già diviso tra fanatici e dubbiosi in merito all’effettivo impatto di questo medicinale che contribuirebbe a rallentare il declino cognitivo dei pazienti allo stadio iniziale della malattia. A darci più di un chiarimento in merito alla possibile svolta celata dietro questo anticorpo è il Professor Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele di Roma, considerato voce autorevolissima nel campo della Neurologia in particolare per quanto riguarda la demenza di Alzheimer. Professore, può darci qualche informazione tecnica prima di passare a una riflessione più ad ampio raggio? Si tratta di un anticorpo ricombinante di derivazione umana che in modo selettivo si attacca a tutte le forme di beta-amiloide presenti nel cervello (inclusa la placca), evitando o in taluni casi eliminando almeno parzialmente quella che si è accumulata. La terapia consiste in una iniezione al mese – da ripetere per circa un anno – per via endovenosa. Il che vuol dire che presumibilmente richiede un uso ospedaliero, e pertanto una organizzazione logistica piuttosto imponente. Il farmaco sembra essere in grado di rallentare il declino cognitivo dei


Intervista

Riferimento italiano della Neurologia

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pazienti che si trovano allo stadio iniziale della malattia. Non è ben chiaro il motivo: probabilmente, perché a quello stadio la riserva neurale è ancora elevata. Volendo dare qualche numero, ne potrebbe beneficiare circa il 10% circa dei pazienti. Che sembra poco, ma non lo è. Solo in Italia, il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre 1 milione, di cui poco più della metà con Alzheimer. Quelli interessati sarebbero perciò circa 100mila. Perché tutte queste ombre sul farmaco? Voglio partire da una riflessione: non dovrebbe essere così, ma anche dietro la comunità scientifica ci sono interessi commerciali, che siano contrari o favorevoli a una determinata novità. La soluzione migliore, in questi casi, è attenersi ai fatti: la Fda ha confermato che aducanumab è in grado di impattare sul deposito delle placche di proteina beta-amiloide. Che, però, è solo un tassello di un mosaico molto più complesso: è infatti uno dei marcatori, uno dei “killer” sospettati di essere alla base di questa patologia, presente in circa il 70% dei malati. Ad ogni modo, per la prima volta si assiste alla riduzione di quei depositi, interferendo con i danni che provocano nel cervello. Ma se le placche di beta-amiloide non sono presenti… Ah, quindi c’è un “ma”… C’è una quota di pazienti – circa un terzo - in cui la beta-amiloide non è presente. In questa nicchia di pazienti non solo sarebbe inutile, ma addirittura dannoso, perché non va dimenticato che questo anticorpo presenta degli effetti collaterali non banali. In circa metà delle

Quanto costerà? Negli Usa è stato stimato un costo annuale a persona di circa 50mila dollari, dovendo includere anche esami diagnostici e di monitoraggio.

econdo il sitoVIA-Top Italian Scientists è al 2° posto nel settore neuroscienze tra i ricercatori italiani operanti in Italia (primo tra quelli anche con impegni clinici): Paolo Maria Rossini, punto di riferimento nella ricerca sull’AlzheiPaolo Maria Rossini. mer, è responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele Roma ed è coordinatore progetto nazionale “INTERCEPTOR” finanziato da AIFA e Ministero della Salute, che da 3 anni (e fino al 2023) si presenta come uno strumento in grado di identificare le forme precoci o prodromiche della malattia tramite l’acquisizione di 7 marcatori per stabilire quali, nei 400 pazienti arruolati, siano più sensibili e specifici per predire la conversione del lieve declino cognitivo in demenza di Alzheimer.

persone alle quali è stato somministrato, sono stati riscontrati un rigonfiamento del cervello dovuto a edema o microemorragie cerebrali, per cui è necessario eseguire periodicamente risonanze magnetiche di monitoraggio. Quanto costerà? Negli Usa è stato stimato un costo annuale a persona di circa 50mila dollari, dovendo includere anche esami diagnostici e di monitoraggio. L’impatto economico potrebbe essere inferiore in sistemi sanitari diversi da quello americano, come per esempio il nostro, ma sarà comunque significativo. Ma c’è un altro “ma”. Cioè? Finora nessun farmaco aveva dato questi risultati; l’ultimo approvato risale al 2003 e, ad oggi, quelli disponibili sono sintomatici, non interferiscono insomma con la progressione della malattia. Non possiamo ignorare che è un passo importante, che sembrava impossibile fino a poche settimane fa. È altamente probabile che non sarà la soluzione definitiva – come accaduto inizialmente con molte altre patologie – ma se non si fa il primo gradino, una scala è impossibile da affrontare. Quindi: cautela sì, ma anche fiducia. GdB | Giugno 2021

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Salute

COVID-19 PERCHÉ I BAMBINI VINCONO IL VIRUS Uno studio del Bambino Gesù, con Università di Padova e Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, ha indentificato caratteristiche immunologiche dei più piccoli che meglio reagiscono all’infezione

di Sara Bovio

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in dall’inizio della pandemia da COVID-19 ci si è domandati come mai i bambini, specie i più piccoli, se infettati dal nuovo Coronavirus SARS CoV-2 si ammalano di meno. In Italia solo il 2,5% dei casi di Coronavirus interessa i bambini sotto 10 anni (che invece rappresentano circa il 10% della popolazione) e nel 90% dei casi i sintomi sono moderati o lievi, oppure completamente assenti. Ora una risposta arriva da uno studio dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma che identifica per la prima volta le caratteristiche immunologiche dei bambini che meglio reagiscono all’infezione da nuovo coronavirus riuscendo a debellarla già dopo la prima settimana. La ricerca, realizzata insieme all’Università di Padova e all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Cell Reports e dimostra come alcuni bambini neutralizzano meglio e prima degli adulti il SARS-CoV-2 . L’indagine del Bambino Gesù ha coinvolto sessantasei pazienti infetti da SARS-CoV-2 di età compresa tra uno e quindici anni ricoverati nel Centro Covid del Bambino Gesù di Palido-

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ro nell’estate del 2020. I pazienti che presentavano condizioni immunitarie primarie o acquisite compromesse, somministrazione recente o attuale di terapie immunosoppressive, o altre malattie che influenzano il sistema immunitario sono stati esclusi dallo studio. La ricerca è stata promossa dal gruppo di studio “CACTUS - Immunological studies in children affected by COVID and acute diseases”, creato da medici e ricercatori del Dipartimento Pediatrico Universitario Ospedaliero del Bambino Gesù nel pieno dell’emergenza sanitaria. Lo studio era nato per capire quale fosse la carica virale e valutare l’eventuale reintroduzione sicura nella popolazione scolastica, a fronte dello sviluppo della risposta immunitaria data dal bambino. La maggior parte dei bambini inseriti nello studio era paucisintomatica a inizio infezione, mentre a una settimana di distanza risultava già asintomatica e clinicamente guarita. Dalle indagini di laboratorio sui campioni di sangue prelevati dai pazienti è emerso come il profilo immunologico di questi bambini era caratterizzato da una grande quantità di linfociti T e B specifici contro SARS-CoV-2 particolar-


Salute

mente vivaci, capaci di riprodursi velocemente una volta entrati in contatto con l’agente patogeno e di produrre un gran numero anticorpi neutralizzanti. Collegata alla grande quantità di anticorpi circolanti è stata riscontrata, già dopo una settimana, una bassissima carica virale (meno di 5 copie virali per microlitro di sangue), tale da annullare di fatto la loro capacità infettiva, dunque la possibilità di contagio, anche in presenza di un tampone ancora positivo. Il dottor Paolo Palma, coordinatore dello studio e responsabile del dipartimento di Immunologia clinica e Vaccinologia del Bambino Gesù, intervistato dall’agenzia di stampa DiRE spiega che: “I bambini hanno una capacità innata di neutralizzare il virus che è conferita dalla presenza di cellule T e B presenti nel loro organismo, ma non tutti i bambini dello studio hanno dato la stessa risposta immunologica nel medesimo tempo, pur presentando pochi e lievi sintomi o persino in assenza di sintomi”. “Una delle ragioni – prosegue il dottor Palma - per cui c’è stata una risposta neutralizzante è che vi sia una correlazione tra pregressi con i beta-coronavirus e una certa quota di cellule linfocitarie già

Lo studio era nato per capire quale fosse la carica virale e valutare l’eventuale reintroduzione sicura nella popolazione scolastica.

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sviluppate, quindi una propensione più rapida nella risposta al SARS-CoV-2. Poi esiste una componente genetica da considerare: il background genetico di un individuo ha rilevanza nel determinare la risposta immunitaria a un virus”. Come evidenzia il dottor Palma, il dato importante che emerge dallo studio è che esiste una correlazione abbastanza evidente tra il numero di copie che un individuo ha a livello nasale e la capacità di infezione di quell’individuo. Il prossimo passo sarà quindi quantizzare il numero di copie del virus nella pratica clinica e ciò permetterà di non dire solo se un soggetto è positivo, ma anche cercare di definire il numero di copie con cui il soggetto è infettato, e pertanto le misure restrittive da applicare a quel soggetto. “Inserire dei criteri più personalizzati sulla base della dinamica virale individuale rappresenta una grossa sfida del futuro e un’esigenza clinica attuale che permetterebbe – conclude il dottor Palma - di svincolarci da tutta una serie di problematiche di gestione del paziente cronico ma anche del bambino che va a scuola”. Sul fatto che la malattia negli adulti presenti il più delle volte un decorso più severo, occorre considerare che in generale i sistemi immunitari dei bambini e degli adulti sono diversi sia per quanto riguarda la loro composizione, sia per la loro reattività funzionale. Incidono poi anche alcuni fattori ormonali: un livello di testosterone più alto, negli adulti, così come le correlazioni tra diabete e obesità sono fattori che possono portare a sviluppare la malattia in modo più severo. Gli autori sostengono che nel prossimo futuro, i risultati del loro studio potranno essere utilizzati per guidare e seguire i trial delle vaccinazioni pediatriche ed elaborare politiche di misure personalizzate di quarantena. Qualora, infatti, si decidesse di testare i bambini sulla base del loro profilo immunologico, oltre che sulla positività al tampone, si potrebbe ipotizzare di personalizzare il periodo di isolamento prima del rientro a scuola, riducendolo potenzialmente ad una settimana. Sul piano delle terapie, conoscere il particolare profilo immunologico del singolo paziente potrebbe consentire, per quelli che presentano sintomi più gravi, di intervenire prima e con farmaci mirati (ad esempio i futuri anticorpi monoclonali), per aiutarli a sconfiggere più facilmente la malattia da SARS-CoV-2. GdB | Giugno 2021

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Salute

FUMO: DURANTE LA PANDEMIA 1,2 MILIONI DI CONSUMATORI IN PIÙ Secondo l’Istituto Superiore di Sanità un ruolo chiave lo hanno avuto le e-cig. Segnali negativi arrivano anche dai più giovani

di Emilia Monti

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li italiani non riescono proprio a resistere al fascino delle “bionde” e nell’annosa battaglia per liberarsi dal pericoloso vizio del fumo non si registrano purtroppo passi in avanti. Anzi. Complice la pandemia e la diffusione delle e-cig il numero dei fumatori è purtroppo tornato a crescere. La pandemia ha infatti significativamente cambiato le abitudini degli italiani rispetto al fumo: dopo una riduzione ad aprile 2020 rispetto a gennaio dello stesso anno (pre lockdown), c’è stato un aumento dei fumatori a maggio 2021, con 1,2 milioni di fumatori in più. Segnali negativi arrivano anche dai più giovani. Non diminuisce, infatti, il numero di giovani consumatori: uno su tre tra i 14 e i 17 anni ha già avuto un contatto con il fumo di tabacco e quasi il 42% con la sigaretta elettronica. Lo dicono i nuovi dati di uno studio longitudinale dell’Istituto superiore di sanità svolto in collaborazione con l’Istituto farmacologico “Mario Negri”. Sono state realizzate 3 survey su un campione (3.000) di 18-74 anni rappresentativo della popolazione italiana secondo le princi-

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pali variabili sociodemografiche nei seguenti tempi: gennaio 2020 (pre lockdown), aprile 2020 (pieno lockdown), novembre 2020 (parziale lockdown), maggio 2021 (parziali riaperture). «Un ruolo chiave nell’aumento dei fumatori - dice Roberta Pacifici, direttore Centro nazionale dipendenze e doping dell’Iss - lo hanno avuto i nuovi prodotti del tabacco (sigarette a tabacco riscaldato, Htp) e le e-cig. Infatti, il loro uso in Italia contribuisce alla iniziazione e alla ricaduta del consumo di sigarette tradizionali e ne ostacola la cessazione, alimentando l’epidemia tabagica». Rispetto all’iniziazione lo studio rileva che a novembre 2020 il 4,7% dei mai fumatori di sigarette tradizionali, ad aprile (durante il lockdown duro) è diventato fumatore. Infatti, mentre il 2,1% di chi non ha mai usato le e-cig è diventato fumatore di sigarette tradizionali, ben dieci volte di più il 19,6% di chi è un utilizzatore di e-cig è diventato anche fumatore. Similmente, mentre il 3,2% di chi non ha mai usato Htp è diventato fumatore, il 19,3% di chi è utilizzatore di Htp è diventato anche fumatore di sigarette tradizionali. Per quello che riguarda le ricadute, si evi-


Dallo studio emerge che dopo una riduzione della percentuale dei fumatori osservato ad aprile rispetto a gennaio (pre lockdown) (21,9% contro 23,3%) ci sia stato un incremento significativo che ha portato al 24% di fumatori a novembre 2020 e a 26,2% a maggio 2021.

quentemente la tipologia ricaricabile, il 22% con serbatoio grande e il 13% usa e getta. Il 67% la usa con liquidi contenenti nicotina. La percentuale di utilizzatori di e-cig pre lockdown era dell’8,1%, è salita al 9,1% ad aprile 2020 ed è rimasta tale sia novembre 2020 che a maggio 2021. Secondo l’indagine campionaria condotta dall’Iss, in collaborazione con la società Explora - centro di ricerca e analisi statistica di Padova - su un campione di 2775 studenti di 14-17 anni frequentanti una scuola secondaria di secondo grado, è emerso che il 37,5% degli intervistati ha già avuto un contatto con il fumo di tabacco e il 41,5% con la sigaretta elettronica. Il 52,5% degli studenti ha iniziato a consumare tabacco o a utilizzare la sigaretta elettronica alle scuole superiori, sebbene il 47,5% di essi abbia iniziato già prima, alle scuole elementari (4,1%) o alle scuole medie (43,4%). Il prodotto utilizzato per la prima volta è stato prevalentemente la sigaretta tradizionale (77,6%) ma c’è anche chi ha iniziato con la sigaretta elettronica (20,1%) o la sigaretta a tabacco riscaldato (2,3%). Questi ultimi dati destano particolare preoccupazione in quanto poco meno di uno studente su quattro sperimenta per la prima volta proprio i prodotti immessi sul mercato nel corso degli ultimi anni e che dovrebbero avere come target di riferimento solamente i fumatori di sigarette tradizionali.

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denzia che Il 17,2% di chi era un ex fumatore di sigarette tradizionali ad aprile durante il lockdown duro, a novembre è tornato a consumare sigarette tradizionali. Anche in questo caso hanno giocato un ruolo importante come fattore di rischio il consumo di Htp e di e-cig. «Nelle condizioni di restrizioni delle libertà e di stress conseguenti alla pandemia, aumentano di oltre 1 milione sia i fumatori che le fumatrici - sottolinea Silvio Garattini, presidente onorario dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri -. A maggio 2021 la prevalenza di fumatori in Italia è del 26,2% (stima di 11,3 milioni) di cui il 25,7% sono maschi (5,5 milioni) e il 26,7% sono femmine (5,8 milioni)». Dallo studio longitudinale emerge che dopo una riduzione della percentuale dei fumatori osservato ad aprile rispetto a gennaio (pre lockdown) (21,9% contro 23,3%) ci sia stato un incremento significativo che ha portato al 24% di fumatori a novembre 2020 e a 26,2% a maggio 2021. Il numero di sigarette fumate al giorno nella rilevazione di maggio 2021 è tornato ad essere come in situazione di pre lockdown, e mediamente di 10,8 sigarette al giorno (11,4 maschi, 10,1 femmine). A maggio 2021 usa regolarmente o occasionalmente la sigaretta elettronica (e-cig) il 9 % della popolazione, con un numero medio di svapate al giorno di 30. Il 65% usa più fre-

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Salute

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Salute

STOP AL FUMO PER ESSERE PIÙ FORTI CONTRO IL COVID I fumatori non solo rischiano di più in caso di contagio, ma hanno anche maggiori probabilità di sviluppare parodontite

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e volete aggiungere alla lista di buoni motivi per smettere di fumare anche il desiderio di preservare il vostro sorriso smagliante, fate pure. Le sigarette mandano letteralmente in fumo la salute di denti e gengive. Tanti italiani ne sono consapevoli, e anche per questo cercano di impegnarsi nel tentativo di porre fine alla propria dipendenza, ma falliscono. Altri, invece, neanche ci provano. È il bilancio, amaro, tracciato dalla Società Italiana di Parodontologia e Implantologia (SIdP) e presentato lo scorso 31 maggio, in occasione della Giornata Mondiale Senza Tabacco. Gli esperti dell’associazione hanno approfittato della vetrina che soltanto giornate di questo genere assicurano all’argomento per riferire i dati di una recente indagine che ha dimostrato come pochi fumatori siano riusciti ad approfittare di una situazione del tutto atipica come quella del lockdown per interrompere la propria dipendenza dalle sigarette. Meno di un italiano su due ha tentato di smettere di fumare per avere uno stile di vita più sano, essere più forte in caso di contagio da coronavirus e per non danneggiare i conviventi non fumatori costretti a quello che viene defini-

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to fumo passivo. Rispetto a questa porzione, però, ce n’è una ben più ampia, rappresentante la maggioranza, che non solo non ha cambiato le proprie abitudini in fatto di sigarette, ma ha addirittura esorcizzato l’ansia e lo stress derivanti dalla pandemia fumando di più. I parodontologi, però, non si stancano di sottolineare che smettere di fumare rappre-


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senta, a maggior ragione in tempo di pandemia, un investimento di salute. Questo perché, è stato dimostrato, i fumatori sono più fragili di fronte al Covid-19. I motivi per porre fine alla propria dipendenza da sigarette prescindono in ogni caso dalla paura del contagio. È noto infatti che le sigarette danneggiano pesantemente la salute orale. Il motivo di quanto appena affermato è da attribuire all’incremento del deposito di placca batterica derivante dall’uso della sigaretta. Ne deriva che i fumatori presentano un rischio due o tre volte più alto rispetto agli altri soggetti di sperimentare parodontite, ovvero l’infiammazione grave delle gengive che provocare anche la perdita dei denti. Il fumo, inoltre, incide negativamente sulla risposta terapeutica, rallentando o peggiorando la guarigione dei pazienti dopo trattamenti o interventi di chirurgia orale. Smettere di fumare non è semplice ma chiedere supporto in questo tipo di percorso aumenta le chance di successo. Gli esperti sono infatti in grado di fornire validi consigli per evitare di ricascare nella trappola: si va dalla respirazione profonda alla proposta di attività piacevoli alternative. Insomma, piccoli trucchi, per evitare di cadere nella solita tentazione: quella di accendere la sigaretta. Luca Landi, presidente della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia, ha spiegato che «i dati raccolti in Italia sui comportamenti durante

I fumatori presentano un rischio due o tre volte più alto rispetto agli altri soggetti di sperimentare parodontite, ovvero l’infiammazione grave delle gengive che provocare anche la perdita dei denti. Il fumo, inoltre, incide negativamente sulla risposta terapeutica, rallentando o peggiorando la guarigione dei pazienti dopo trattamenti o interventi di chirurgia orale. © Voyagerix /shutterstock.com

il lockdown confermano quanto verificato dagli studi internazionali». Sensazioni tipiche di quella fase, quali paura, ansia e stress, sono stati per molti un ostacolo alla cessazione del fumo, perché - spiega l’esperto - «ci si è letteralmente aggrappati alla sigaretta per gestire le emozioni negative: così circa il 30% ha fumato di più, il 15% ha visto ridursi la motivazione a smettere». Secondo il dottor Landi, invece, la potenziale maggiore gravità di Covid-19 nei pazienti fumatori «deve e può essere utilizzata come un’informazione dal grosso impatto emotivo, tale da poter convincere alla cessazione del fumo». Questo, ha chiosato, «è ancora più importante nei pazienti con parodontite che sono fumatori e che stanno manifestando un forte disagio psicoemotivo a causa della pandemia». Dello stesso avviso anche Silvia Masiero, coordinatore commissione editoriale SIdP, che ha affermato come «prendere coscienza della necessità di smettere di fumare è indispensabile per bloccare il progredire della malattia parodontale». A suo dire, «il percorso di cessazione va sostenuto in ogni modo: i parodontologi sono in prima linea per aiutare i pazienti, ora più che mai». L’esperta spiega infatti come si apra adesso una «nuova fase in cui, superato lo stress generato dalla pandemia e dal lockdown forzato, i fumatori potrebbero essere più attenti e ricettivi nei confronti dei messaggi sulla cessazione del fumo e la riduzione del consumo di sigarette». Per smettere di fumare è importante poter contare su una grande motivazione, ma spesso da sola non è sufficiente. Ciò che può risultare decisiva è infatti una personalizzazione dell’approccio alla cessazione. Figure quali l’odontoiatra e l’igienista dentale possono impiegare strumenti oggettivi di valutazione per indicare il cammino di volta in volta più efficace a seconda del paziente che bussa alla loro porta. Non bisogna immaginare percorsi complicati da condurre in porto. Molte volte bastano pochi semplici consigli per aiutare il paziente ad allontanare la tentazione di prendere l’accendino e di fumare anche una sola sigaretta. Ad esempio sforzandosi di rimandare il più a lungo possibile l’appuntamento con la sigaretta; ma anche controllare la respirazione per rilassarsi, bere più acqua e fare qualcosa per distrarsi, come una doccia, una passeggiata, un po’ di attività sportiva, guardare un film o ascoltare la musica, rappresentano validi diversivi per allontanare dalla mente la fatidica sigaretta.(D. E.). GdB | Giugno 2021

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SPESA FARMACEUTICA 544 MILIONI DI RICETTE I dati si riferiscono al 2020 e segnano un -4,6%. Scende del 2% quella in farmacia Ogni cittadino italiano ha ritirato in farmacia in media 17,4 confezioni

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ltre 544 milioni (-4,6%) di ricette, pari in media a 9,14 ricette per ciascun cittadino. Le confezioni di medicinali erogate a carico del Servizio sanitario nazionale sono state un miliardo e 35 milioni (-5,6% rispetto al 2019). Ogni cittadino italiano ha ritirato in farmacia in media 17,4 confezioni di medicinali, di prezzo medio pari a 9,26 euro. Numeri importanti che certificano che la spesa farmaceutica netta del Servizio sanitario nazionale ha fatto registrare nel 2020 un calo del -2% rispetto al 2019, determinato da una diminuzione del -4,6% del numero delle ricette,

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parzialmente compensato da un incremento del valore medio della ricetta, conseguente a un incremento del prezzo medio dei farmaci erogati in regime convenzionale (+0,7%). Sono i dati della spesa farmaceutica diffusi da Federfarma (Federazione nazionale unitaria dei titolari di farmacia) a poche settimane dal Report dell’Aifa. Il calo di spesa si verifica in tutte le Regioni, con l’eccezione di Lombardia, Basilicata e Provincia di Trento, ed è particolarmente evidente nelle Marche (-4,8%), in Piemonte (-4,5%) e Lazio (-4%). Nel 2020 le ricette sono state oltre 544 milioni, pari in media a 9,14 ricette per ciascun cittadino.

«Le farmacie - sottolinea Federfarma - continuano a dare un rilevante contributo al contenimento della spesa - oltre che con la diffusione degli equivalenti e la fornitura gratuita di tutti i dati sui farmaci Ssn - con lo sconto per fasce di prezzo, che ha determinato nel 2020 un contenimento della spesa netta di oltre 320 milioni di euro, ai quali vanno sommati oltre 62 milioni di euro derivanti dalla quota dello 0,64% di cosiddetto pay-back, posto a carico delle farmacie a partire dal primo marzo 2007 e sempre prorogato, volto a compensare la mancata riduzione del 5% del prezzo di una serie di medicinali. A tali pesanti oneri si è aggiunta, dal 31 luglio 2010, la trattenuta dell’1,82% sulla spesa farmaceutica, aumentata, da luglio 2012, al 2,25%. Tale trattenuta aggiuntiva ha comportato, per le farmacie, un onere quantificabile nel 2020 in circa 157 milioni di euro. Complessivamente, quindi, il contributo diretto delle farmacie al contenimento della spesa, nel 2020, è stato di circa 540 milioni di euro». Le quote di partecipazione a carico dei cittadini sono calate del 5,6% rispetto al 2019, con un’incidenza media del 14,9% sulla spesa lorda, con punte che arrivano fino al 19,2% della Campania e al 18,9% del Veneto. La riduzione dell’incidenza del ticket è legata alla rimodulazione o alla soppressione del ticket sui farmaci, adottato da alcune Regioni nel 2020. Complessivamente i cittadini hanno pagato oltre 1.458 milioni di euro di quote di partecipazione sui farmaci, di cui oltre il 72% dovuto alla differenza di prezzo rispetto al valore di rimborso, avendo richiesto un farmaco più costoso. È aumentata di circa un punto percentuale a livello medio nazionale l’incidenza dei farmaci inseriti nelle liste di riferimento Aifa a seguito della scadenza del brevetto del farmaco di marca. A livello nazionale l’incidenza delle confezioni di farmaci a brevetto scaduto sul totale delle confezioni erogate in regime di Ssn, nel mese di dicembre 2020, è stata pari all’83,29% (era l’82,4% nel dicembre 2019). (E. M.)


Salute

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ono quasi 4 milioni gli italiani colpiti da diabete di tipo 2 e secondo le stime un altro milione e mezzo non sa di averlo. È l’allarme lanciato in occasione del lancio della nuova campagna “Pronto Diabete”, che punta a spingere i pazienti a visite periodiche per tenere sotto controllo la malattia e le sue complicanze. Il diabete di tipo 2 è la forma più diffusa, riguarda oltre il 90% dei casi, ed è una patologia cronica caratterizzata da un eccesso di zuccheri nel sangue, iperglicemia, che può causare frequenti complicanze cardiovascolari e renali, come lo scompenso cardiaco, prima causa di ospedalizzazione per le persone con diabete in Italia, o l’insufficienza renale, ovvero malattia renale diabetica, che colpisce il 40% dei pazienti. Per una corretta gestione della malattia occorre attuare una strategia terapeutica aggiornata da controlli periodici ma non è semplice coinvolgere un così grande numero di malati. «La campagna “Pronto Diabete” intende favorire lo scambio esperienziale tra diabetologi e medici di medicina generale finalizzato ad una gestione più efficace ed efficiente della cronicità del diabete», spiega Agostino Consoli, presidente eletto della Società italiana di diabetologia (Sid), «rendere ottimale la gestione della malattia significa estendere a tutti i pazienti le recenti tecniche di educazione e di empowerment, i metodi più sensibili e appropriati per lo screening delle complicanze, le terapie farmacologiche disponibili che consentano da un lato di raggiungere in sicurezza un controllo metabolico ottimale e dall’altro servano da presidio per la prevenzione delle complicanze cardiache, vascolari e renali: un processo complesso che richiede una gestione integrata della persona con diabete fondata su una efficace ed efficiente interconnessione tra lo specialista diabetologo e il medico di medicina generale in un percorso di lungo periodo». «Solo attraverso una gestione sinergica tra specialista e medico di medicina generale è possibile trovare la giu-

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DIABETE TIPO 2: QUASI 4 MLN ITALIANI COLPITI Secondo le stime, un milione e mezzo di persone non sanno di averlo Scompenso cardiaco e complicanze renali i rischi gravi

sta sintesi, utile al miglioramento dello standard di cura, il nostro obiettivo finale, che mette al centro il benessere del paziente»sottolinea Paolo Di Bartolo, presidente dell’Associazione medici diabetologi (Amd). «Se il medico di medicina generale è il principale depositario della salute dell’assistito, il diabetologo può e deve giocare un ruolo imprescindibile nel trattamento dei pazienti più complessi: questo circolo virtuoso è pienamente attuabile solo condividendo appieno le strategie di educazione e le terapie». La campagna intende anche sensibilizzare l’opinione pubblica sull’approc-

cio attuale nella gestione della cronicità diabetica che si è spostata dalla cura della malattia conclamata alla prevenzione delle complicanze.. «L’attività di prevenzione è il cuore della medicina generale ed è per questo che abbiamo voluto offrire queste consulenze all’interno delle strutture di medici di medicina generale. Il medico curante può dare innanzitutto un contributo fondamentale nella identificazione dei pazienti bisognosi di una consulenza specialistica» dichiara Gerardo Medea, responsabile nazionale Area metabolica della Società italiana medicina generale (Simg). (E. M.) GdB | Giugno 2021

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Salute

LEUCEMIA, LA TERAPIA CAR-T FUNZIONA Tre piccoli pazienti sono stati trattati con le cellule geneticamente modificate prodotte presso l’Officina farmaceutica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma

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è un precedente che accende una luce piena di speranza nella insidiosa battaglia contro la leucemia linfoide acuta a precursori B-cellulari (Lla-Bcp) che fino ad ora si è dimostrata refrattaria a tutte le terapie convenzionali. La terapia con cellule Car-T ottenute a fresco, grazie a una innovativa produzione automatizzata ha portato a registrare un risultato positivo su tre bambini. I tre piccoli pazienti sono stati trattati con le cellule geneticamente modificate prodotte presso l’Officina farmaceutica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma attraverso un sistema automatizzato, sviluppato nell’ambito del progetto CAR-T Italia. Il progetto è stato promosso dal Parlamento, che ha destinato 10 milioni di euro al Ministero della Salute, al fine di mettere a disposizione questo nuovo approccio terapeutico sul territorio nazionale. Per tutti e tre i bambini sono ora maturati i tempi necessari alla valutazione della risposta al trattamento ed è stata documentata la remissione completa della malattia. «La ricerca sulle terapie avanzate ha un valore strategico, al fine di poter offrire ai cittadini le migliori possibilità di cura. I risultati di questo importante progetto sono un passo avanti significativo in questa direzione e ci confermano come sia fondamentale continuare a investire sulla ricerca», sottolinea il Ministro della Salute, Roberto Speranza. «Come coordinatore del progetto e respon-

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sabile del gruppo dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù sono particolarmente felice per questo risultato. La decisione del Parlamento italiano, cui tutti noi ricercatori afferenti al progetto siamo straordinariamente grati, d’investire in un campo così innovativo trova così una concreta realizzazione terapeutica che sarà certamente seguita da altre applicazioni in malati affetti da differenti patologie oncologiche», dichiara il professor Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia del Bambino Gesù e presidente del Consiglio Superiore di Sanità. Il «Progetto di ricerca su cellule Car-T per patologie ematologiche maligne e per tumori solidi» è condotto dagli Irccs della Rete Alleanza contro il Cancro (Acc) sulla base dell’ordine del giorno della Camera dei Deputati del 30 dicembre 2019, che ha delineato il percorso attuativo per lo sviluppo di queste nuove terapie. Il progetto è finalizzato a comprendere meglio i meccanismi che regolano l’efficacia o l’eventuale tossicità associata all’impiego di questa forma innovativa d’immunoterapia, a sviluppare questo approccio terapeutico anche per pazienti affetti da neoplasie solide e ad identificare i processi produttivi capaci di rendere disponibili queste terapie per il maggior numero possibile di pazienti. Il progetto è in fase avanzata di realizzazione e sono stati trattati i primi tre bambini affetti da Lla-Bcp, su cui i trattamenti convenzionali non avevano sortito i risultati attesi. Su uno dei tre bambini aveva addirittura fallito anche


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Illustrazione 3d di una cellula CAR T che interagisce con una cellula tumorale.

Il sistema automatizzato consente di produrre in sole due settimane più lotti di cellule Car-T contemporaneamente all’interno dello stesso ambiente.

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una procedura di trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche. I tre piccoli pazienti sono stati inclusi nel nuovo protocollo di trattamento sperimentale e trattati con cellule che sono state geneticamente modificate, per esprimere un recettore chiamato Car (Chimeric Antigen Receptor) diretto verso il bersaglio tumorale CD19. Il sistema automatizzato consente di produrre in sole due settimane più lotti di cellule Car-T contemporaneamente all’interno dello stesso ambiente, di ridurre il personale necessario alla manifattura, di contenere il rischio di contaminazione dei prodotti e di generare procedure altamente standardizzate e, quindi, riproducibili, limitando notevolmente i costi di produzione. Grazie alle caratteristiche di questo approccio, la terapia si rende più accessibile anche per i pazienti affetti dalle forme più aggressive di malattia. Nei tre casi è stato possibile ottenere un numero di cellule Car-T largamente superiore alla dose necessaria per la prima fase del trattamen-

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to, consentendo di congelare parte delle cellule prodotte, per gli eventuali trattamenti futuri di consolidamento. Una capacità di scorta, che dimostra la fattibilità e l’efficienza del processo produttivo. Nei tre pazienti l’infusione del prodotto a fresco è stata ben tollerata, facendo registrare come effetto collaterale solamente febbre, dovuta al rilascio di molecole infiammatorie (le citochine) da parte delle cellule Car-T. Già due settimane dopo l’infusione, nei tre bambini è stata accertata la remissione completa della malattia. Si tratta di risultati preliminari estremamente promettenti, a conferma di come la nuova piattaforma di cellule Car-T dimostri una notevole efficacia contro le forme refrattarie di Lla-Bcp, pur essendo stata testata soltanto al livello di dose più basso, come previsto dalla fase I di sperimentazione. Lo studio proseguirà con la valutazione di altri due livelli di dose e con l’attivazione della fase II, nella quale si impiegherà la dose raccomandata, identificata nella fase I. (E. M.) GdB | Giugno 2021

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SUPERARE I RICORDI TRAUMATICI? C’È IL TALAMO Identificati i meccanismi cerebrali alla base della rielaborazione dei ricordi di esperienze traumatiche vissute nel passato

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noto che i traumi cerebrali recenti sono elaborati in modo diverso da quelli accaduti in un lontano passato, tuttavia le evidenze scientifiche che possano dimostrare questa differenza a livello neuronale, non sono mai state identificate. Il tema è stato predominante nel lavoro di ricerca “A thalamo- amygdalar circuit underlying the extinction of remote fear memories” pubblicato su Nature Neuroscience a cura del team del Politecnico di Losanna guidato dal professor Johannes Graff. Tra gli autori, anche Bianca Silva, oggi all’Istituto di neuroscienze del Cnr presso 24 GdB | Giugno 2021

Humanitas Research Hospital di Milano. La ricercatrice ha identificato i meccanismi cerebrali alla base della rielaborazione dei ricordi di esperienze traumatiche avvenute molto tempo prima. Il gruppo di lavoro ha scoperto le ragioni specifiche nel cervello dei topi responsabili della riprogrammazione dei ricordi traumatici, osservando che esse sono effettivamente diverse a seconda che il trauma sia avvenuto di recente o molto tempo prima e ha altresì notato che potevano agevolare la diminuzione dei sentimenti di ansia e stress associati ai ricordi traumatici di lunga durata

migliorando l’attività di una regione primitiva del cervello chiamata nucleo reuniens. La ricercatrice ha spiegato: «I ricordi traumatici sono così carichi emotivamente che sono difficili da “cancellare” o estinguere. In questo studio, è la prima volta che qualcuno ricerca l’estinzione della paura a livello del circuito cerebrale per ricordi traumatici di lunga durata. Eravamo particolarmente interessati a studiare i ricordi traumatici cosiddetti “remoti”, cioè risalenti ad un lontano passato, perché essi sono i più difficili da eradicare e sono frequentemente la causa di disturbo da stress post traumatico». Il nucleo reuniens del talamo è dunque l’area cerebrale che permette la diminuzione del carico emotivo dei ricordi traumatici a lungo termine. Ecco come il team di studiosi è arrivato a questo importante risultato: «Un topo traumatizzato esprime la sua paura restando immobile - argomenta Bianca Silva - Dopo varie sessioni di terapia da esposizione in cui il topo rivive il ricordo di paura in un contesto rassicurante, il topo riacquista sicurezza e mobilità normale. In questo studio, un gruppo di topi ha ricevuto la terapia 1 giorno dopo il trauma, mentre un altro gruppo ha ricevuto la terapia 30 giorni dopo. Gli scienziati hanno così scoperto che 1 giorno dopo il trauma era attiva una via corticoamigdalare diretta, ma dopo 30 giorni era attiva una via indiretta, radicata nel nucleo reuniens. L’attività nei reuniens raggiunge un picco poco prima che il topo smetta di esprimere paura. È come se l’attività nei reuniens anticipasse la fine dell’immobilità: quando abbiamo manipolato l’attività dei reuniens, abbiamo visto che era davvero importante per regolare la paura. Potenziando, infatti, l’attività di questi neuroni, i topi esprimevano meno paura, mentre quando l’abbiamo inibita, i topi ne esprimevano di più». (P. S.).


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e cellule osservate dallo studio condotto dall’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche, sono le progenitrici fibro- adipogeniche, meglio conosciute con l’acronimo FAP, e rappresentano l’arma a doppio taglio del muscolo scheletrico. Queste cellule, infatti, in condizioni fisiologiche rilasciano dei fattori che aiutano le cellule staminali muscolari alla rigenerazione del muscolo. Nel corso della degenerazione che si verifica nei tessuti affetti da distrofia muscolare di Duchenne, invece, le FAP generano l’infiltrato adiposo e fibrotico che rimpiazza progressivamente il tessuto muscolare, determinandone una minore funzionalità. La ricerca, condotta dal team di Chiara Mozzetta insieme alle biologhe Beatrice Biferali e Valeria Bianconi, prime autrici del lavoro, è stata pubblicata su Science Advances e realizzata con il sostegno del programma Scientific Independence of young Researchers del Ministero dell’istruzione, università e ricerca (Miur) e dell’AFM- Telethon. Ha spiegato Chiara Mozzetta: «Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule riuscendo a spingerle a formare nuovo tessuto muscolare e bloccando quindi la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose. Sapevamo da studi precedenti che le FAP sono capaci di acquisire diverse identità a seconda dell’ambiente in cui si vengono a trovare e in questo lavoro abbiamo capito come riconvertirle in cellule in grado di partecipare alla rigenerazione muscolare, piuttosto che alla degenerazione». Le ricercatrici hanno rivelato che, i geni responsabili dell’acquisizione della capacità di formare nuovo tessuto muscolare sono confinati alla periferia del nucleo delle FAP, dove vengono relegate quelle porzioni del genoma che non sono utilizzate dalle cellule. La studiosa del Consiglio na-

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DEGENERAZIONE MUSCOLARE: CAMBIO D’IDENTITÀ CELLULARE La ricerca, pubblicata su Science Advances, consentirebbe un approccio farmacologico per patologie come la distrofia muscolare di Duchenne

di Pasquale Santilio zionale delle ricerche ha così specificato: «La proteina Prdm 16 gioca un ruolo cruciale nel bloccare le regioni di DNA codificanti il potenziale muscolare delle FAP alla periferia nucleare, reclutando su di esse gli enzimi G9a e GLP per mantenerle silenti. Abbiamo provato, quindi, a sbloccare queste regioni utilizzando un approccio farmacologico volto ad inibire G9a/GLP, riuscendo a dimostrare che togliendo questo “freno” molecolare, questi geni possono essere rilocalizzati dalla periferia verso una parte più attiva del nucleo, sbloccando la capacità delle FAP di formare tessuto muscolare».

Lo studio potrebbe aprire la strada verso un approccio di tipo farmacologico per quelle patologie, come la distrofia muscolare di Duchenne, in cui le FAP contribuiscono alla degenerazione muscolare. A tale ricerca hanno collaborato gruppi dell’Università Sapienza di Roma, dell’Istituto italiano di tecnologia di Roma, dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, della Freie Università di Berlino e l’Irbm Science Park SpA di Pomezia, società italiana operante nel settore della biotecnologia molecolare, della scienza biomedicale e della chimica organica. GdB | Giugno 2021

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Salute

ICTUS: FATTORI DI RISCHIO E DI PROTEZIONE I ricercatori dell’Università di Rotterdam hanno analizzato 39mila persone, cercando di individuare nel sangue marcatori del pericolo o elementi protettivi di Marco Modugno

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ictus è causato dall’occlusione o la rottura di un’arteria nel cervello, con conseguenze che possono portare al decesso o lo sviluppo di disabilità più o meno gravi. In Italia circa un milione di persone convivono con gli esiti invalidanti di un ictus. Si stima che modificando stile di vita si potrebbe ridurre il rischio fino all’80% dei casi. Dei ricercatori dell’Università di Rotterdam, ha analizzato i dati di oltre 39mila persone, cercando di individuare nel sangue, marcatori del pericolo o elementi protettivi, così da ottenere un profilo di rischio più preciso. Lo studio, pubblicato su Neurology, ha identificato 10 composti-spia più promettenti: il colesterolo «cattivo» Ldl e i trigliceridi, si confermano pericolosi così come anche il piruvato, la sua presenza in quantità, aumenta la probabilità di ictus del 13%. Al contrario l’aminoacido istidina, presente in carne, uova,

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latticini e cereali, sembra proteggere e in grado di ridurre del 10% il rischio di ictus. «L’istidina può essere trasformata in istamina, così da favorire la dilatazione dei vasi sanguigni e la riduzione della pressione arteriosa e dell’infiammazione: non sorprende quindi che possa essere un indicatore di un minor rischio di ictus», afferma Dina Vojinovic, coordinatrice dell’indagine. «Un analogo marcatore di basso rischio è il colesterolo “buono” Hdl: più è abbondante, più si abbassa il pericolo». Come spiega Massimo Del Sette, vicepresidente della Società Italiana di Neurologia e membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Lotta all’Ictus Cerebrale (ALICe Italia), «Esistono 3 cause principali di ictus ischemico: può verificarsi per cardioembolia, dove è causato quasi sempre dalla fibrillazione atriale; per una trombosi di un vaso con aterosclerosi; infine p u ò dipendere da malattie dei piccoli vasi cerebrali. A monte di gran parte di queste cause note di ictus, ci sono fattori di rischio modificabili fra cui appunto il colesterolo alto, ma anche il fumo, la sedentarietà, la dieta scorretta». Uno stile di vita poco sano aumenta il rischio di pressione


alta, diabete, ipercolesterolemia e da qui all’ictus il passo è breve, specifica Del Sette: “I diversi fattori di rischio non si sommano, ma moltiplicano il pericolo in modo esponenziale. In un soggetto iperteso può non essere indispensabile ricorrere ad analisi strumentali per valutare lo stato delle carotidi, in un fumatore con la pressione e la glicemia alta diventa raccomandabile. Nella valutazione del rischio, devono rientrare anche l’età, il genere e la familiarità per la malattia: offrono un quadro più preciso del grado di pericolo». Modificare le proprie abitudine aiuta molto: “Tutti sappiamo quali sono le regole di una vita sana, metterle in pratica è difficile” - ammette il neurologo – “Bisogna individuare il proprio peggior nemico e concentrarsi su quello. Cambiare abitudini può non bastare e si deve r i c o rrere ai farmaci. D i queste terapie multiple, spesso prescritte dal cardiologo o dal diabetologo, dovrebbe tenere le fila il medico di famiglia. Esiste anche la possibilità di intervenire chirurgicamente, in casi molto selezionati, la scelta non è semplice e va valutata con atten-

Lo studio, pubblicato su Neurology, ha identificato 10 composti-spia più promettenti: il colesterolo «cattivo» Ldl e i trigliceridi, si confermano pericolosi così come anche il piruvato, la sua presenza in quantità, aumenta la probabilità di ictus del 13%. Al contrario l’aminoacido istidina, presente in carne, uova, latticini e cereali, sembra proteggere e in grado di ridurre del 10% il rischio di ictus.

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Salute

zione, caso per caso” conclude Del Sette. I casi di ictus nel mondo sono impressionanti: quasi 14 milioni di casi e 6 milioni di morti annue. In Italia è una minaccia molto seria: ogni anno si registrano 150mila nuove vittime, 1/3 non sopravvive entro un anno dall’evento, e un altro terzo deve convivere con disabilità importanti. La prevenzione può svolgere un ruolo chiave, così come la tempestività dei soccorsi: esistono terapie per l’ictus, ma «il tempo è cervello» prima si arriva, più sono efficaci. Questa malattia non è conosciuta bene, come osserva Massimo Del Sette: «Il grande difetto dell’ictus è che non dà dolore, come accade con l’infarto. Molti non riconoscono i sintomi». I segnali compaiono improvvisamente e sono inequivocabili: non vedere bene o una parte degli oggetti, non muovere bene braccia o gambe; avere la bocca storta; non sentire più o in maniera diversa un arto; non riuscire a coordinare i movimenti o stare in equilibrio; non riuscire a parlare perché incapaci di articolare bene, scegliere o comprendere le parole; mal di testa violenti e localizzati. La prima cosa da fare è chiamare il 112/118 o recarsi al Pronto soccorso: “Le ultime linee guida per la gestione dell’ictus dell’Italian Stroke Organization, sottolineano che il numero di pazienti candidabili alle procedure per “riaprire” la circolazione cerebrale interrotta è aumentato enormemente: le terapie per la fase acuta dell’ictus si sono evolute moltissimo” sottolinea Del Sette. Quando un coagulo o un trombo occludono un vaso sanguigno nel cervello, due sono le strade da intraprendere: scioglierlo con farmaci “trombolisi” o rimuoverlo meccanicamente, con la tecnica detta “trombectomia”. “La finestra temporale di intervento è aumentata dalle 3 ore dall’inizio dei sintomi di qualche anno fa alle circa 4 ore e mezza di oggi, inoltre l’intervallo entro cui si hanno i migliori risultati varia da individuo a individuo perché il danno matura in maniera diversa nei differenti cervelli», puntualizza il neurologo. «Oggi abbiamo tecniche diagnostiche avanzate e possiamo valutare nel singolo paziente se c’è ancora spazio per agire. Se si riconosce uno dei sintomi dell’ictus: anche in chi ha una finestra di intervento più ampia vale la regola per cui prima si inizia la terapia, migliore sarà l’esito e minori le disabilità residue», conclude Del Sette. GdB | Giugno 2021

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ROBOTICA E SEROTONINA PER IL POST ICTUS Lo studio, pubblicato su Progress in Neurobiology, evidenzia un possibile ruolo dell’ormone nel percorso di neuroriabilitazione

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i deve alla pluriennale collaborazione tra l’Istituto di neuroscienze dell’Area della ricerca di Pisa del Consiglio nazionale delle ricerche, l’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, la nascita di un nuovo studio traslazionale finalizzato a trasferire i risultati provenienti dalla ricerca di base alla pratica clinica ponendo così nuove basi per la terapia riabilitativa in seguito a ictus. La ricerca ha testato l’efficacia di un approccio combinato tra la riabilitazione robotica e 28 GdB | Giugno 2021

la modulazione della serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) su un modello di ischemia cerebrale in corteccia motoria. Sara Conti, prima autrice e, al tempo dello studio, dottoranda dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna nell’area di ricerca coordinata da Silvestro Micera, ha così spiegato: «Grazie alla collaborazione con Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa, abbiamo potuto utilizzare un modello transgenico che consente di attivare selettivamente le cellule cerebrali che producono serotonina somministrando un farmaco attraverso un’iniezione. L’attivazione della

serotonina aumenta la plasticità cerebrale nelle aree adiacenti alla lesione ischemica, rendendole più recettive al rimodellamento delle connessioni che viene guidato dalla riabilitazione». Proprio in virtù di questo connubio tra aumento della plasticità cerebrale ed esercizio fisico riabilitativo, gli autori hanno ottenuto un recupero funzionale delle capacità motorie, misurato non solo attraverso test comportamentali, ma anche utilizzando parametri di cinetica e cinematica del movimento. Il ricorso a questi test ha dimostrato che, il movimento non solo migliora, ma torna ad essere comparabile alle performance precedenti la lesione ischemica. Tuttavia, la ricerca è andata anche oltre. Matteo Caleo, dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche, ha dichiarato: «Per rendere lo studio veramente traslazionale e facilmente adattabile alla pratica clinica, abbiamo replicato i risultati ottenuti con il modello transgenico usando un farmaco già approvato per l’uso sull’uomo, il Buspirone. Questo farmaco agisce aumentando l’efficacia della serotonina mediante il legame con il recettore specifico (5HT1A) ed ha un effetto più mirato rispetto ai comuni farmaci, per esempio gli SSRI. Ciò ne diminuisce gli effetti collaterali e aspecifici». La combinazione tra il farmaco Buspirone e la riabilitazione robotica ha permesso di replicare i risultati ottenuti attraverso l’utilizzo del modello transgenico, rendendo questa strategia terapeutica più facilmente applicabile alla pratica clinica. Proprio per questo motivo lo studio proseguirà senza fermarsi qui: gli autori stanno, infatti, testando e, nel contempo, monitorando metodi sempre meno invasivi e maggiormente mirati tali da associare a protocolli riabilitativi personalizzati al fine di massimizzare il recupero motorio determinato dalla lesione ischemica. (P. S.).


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auro Rossi, dell’Istituto di scienze dell’alimentazione del Consiglio nazionale delle ricerche, nel suo libro pubblicato su Elsevier offre una panoramica su diversi approcci biotecnologici, che consentiranno ulteriori ricerche mirate al miglioramento della qualità della vita di coloro che sono affetti da intolleranza al glutine. Tale intolleranza, che comprende sia la malattia celiaca (MC) che la sensibilità al glutine non celiaca (NCGS), attualmente è considerata una condizione eterogenea con diversi livelli di sensibilità. I primi capitoli del libro riguardano le recenti scoperte sui possibili agenti scatenanti oltre al glutine. In particolare, all’insorgenza del processo infiammatorio nella NCGS possono concorrere altri componenti alimentari, così come un disequilibrio del microbiota intestinale (disbiosi) è stato associato all’intolleranza al glutine. Pertanto, viene offerto un quadro dettagliato dei diversi stimoli ambientali che influenzano la composizione del microbiota come fattore predisponente per l’insorgenza di MC. Ad oggi, i pazienti intolleranti devono necessariamente seguire una dieta GF. Tuttavia, permangono problematiche legate alla qualità nutrizionale dei prodotti GF. Le molteplici strategie agronomiche, genetiche e biotecnologiche vengono discusse in un’altra sezione della pubblicaz¬ione dove, nello specifico, si parla delle modalità di preservazione dei benefici per la salute derivanti dal consumo di grano anche nei pazienti intolleranti. Il 2015, grazie ad una rivoluzione biotecnologica, ha segnato il passaggio verso una nuova generazione di prodotti GF; è il caso di un pane GF che è stato ottenuto per la prima volta attraverso l’utilizzo di farina di frumento trattata tecnologicamente, successivamente, commercializzato. Questo nuovo prodotto nasceva

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BIOTECNOLOGIE PER L’INTOLLERANZA AL GLUTINE La biotecnologia per nuove ricerche nel libro “Biotechnological Strategies for the Treatment of Gluten Intolerance”

dall’applicazione della tecnologia microbica a lievitazione naturale insieme a enzimi fungini idrolitici. Nel contempo, le nuove norme dell’Unione Europea hanno aperto la strada a riconsiderare l’alimentazione per i soggetti intolleranti in modo meno stringente. A tal proposito, una sezione del libro è dedicata ai nuovi approcci di detossificazione del grano con la descrizione di due strategie enzimatiche su farina di frumento, la transamidazione e l’idrolisi, e all’approccio genetico in ambito agronomico, come il metodo CRISPR/Cas9. L’ampia conoscenza dei meccanismi patogenetici della MC, sta con-

sentendo anche lo sviluppo di strategie non dietetiche per il recupero della tolleranza al glutine. Nell’ultima sezione del libro vengono considerati diversi studi clinici relativi agli effetti positivi di formulazioni probiotiche o di loro metaboliti, rivelatisi efficaci nel bloccare passaggi specifici del processo patogenetico. Concludendo, le strategie biotecnologiche attualmente disponibili pongono in evidenza nuove soluzioni che possono già essere considerate come valide alternative alla classica dieta GF per la maggior parte, se non ancora per tutti, i pazienti intolleranti al glutine. (P. S.). GdB | Giugno 2021

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L’ORMONE GRELINA PER COMBATTERE IL SENSO DI FAME La Fondazione Mediterranea G.B. Morgagni ha indagato il ruolo dell’ormone come possibile cura per il contrasto dell’obesità

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ormone grelina per combattere l’obesità. È proprio su questo argomento che si è sviluppato un nuovo importante studio della Fondazione Mediterranea G.B. Morgagni, operante nel settore della ricerca per lo sviluppo delle tecnologie in medicina e chirurgia, pubblicato sulla rivista “International Journal of Obesity”. La ricerca, che ha modificato alcuni risultati già riportati nella letteratura scientifica internazionale sull’obesità, è importante a maggior ragione considerando l’impatto sulla società di questa condizione. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, un italiano su dieci è obeso; l’incidenza del sovrappeso nella popolazione ha visto un incremento negli ultimi trent’anni pari al 30%, mentre l’obesità, con i suoi tre gradi, ha fatto segnare un preoccupante +60%. Si tratta di numeri allarmanti anche per la tenuta del sistema sanitario nazionale, con un costo che oscilla tra il 4 e il 10% visto che in pre-

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senza di obesità aumentano anche le possibilità che le malattie infettive sfocino in conseguenze gravi per il paziente. Al riguardo è la World Obesity Federation ad individuare nell’obesità una delle cause più frequenti di comorbilità nei soggetti morti per coronavirus; essa, infatti, si accompagna spesso e volentieri a condizioni come ipertensione, diabete, carcinoma gastrico e ad un sistema immunitario meno efficiente. Basta questa premessa a far comprendere il potenziale della ricerca che ha esaminato il ruolo dell’ormone grelina, noto per stimolare il senso di fame, e presente nel fondo dello stomaco umano e nelle cellule del pancreas. Non ha nascosto la sua soddisfazione il professor Sergio Castorina, responsabile scientifico della Fondazione Mediterranea G.B. Morgagni, sottolineando come la pubblicazione dei risultati di questo studio confermi «l’importanza della ricerca di base di cui ci occupiamo quotidianamente, su cui poi si struttura la ricerca applicata a livello mondiale». Di re-


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cente, ha osservato Castorina spiegando l’oggetto dello studio, «sull’International Journal of Obesity, abbiamo pubblicato i risultati della nostra ricerca, provando che il numero e la densità delle cellule che secernono l’ormone grelina nel fondo gastrico (parte dello stomaco) non aumentano nei pazienti obesi». Ad avvalorare ulteriormente la bontà dello studio, l’elevato numero di pazienti coinvolti, 49, superiore a quelli che hanno preso parte ad altri studi di questo tipo. Castorina ha continuato: «Abbiamo dimostrato una iperplasia delle fibre muscolari lisce (cioè involontarie), mai descritta nello stomaco dei pazienti obesi. Infine, con il nostro studio certifichiamo che le cellule che secernono grelina, pur non aumentando in numero, risultano iperattive, cioè secernono più ormone attivo». I risultati ottenuti sono frutto del lavoro innovativo e di squadra condotto dai ricercatori della Fondazione Morgagni, con la dottoressa Tonia Luca e l’endocrinologo Vincenzo De Geronimo che hanno collaborato con il team

Un italiano su dieci è obeso; l’incidenza del sovrappeso nella popolazione ha visto un incremento negli ultimi trent’anni pari al 30%, mentre l’obesità, con i suoi tre gradi, ha fatto segnare un preoccupante +60%.

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dell’Università Politecnica delle Marche, diretto dal professore Saverio Cinti, insieme ai colleghi dell’Università di Catania con il professore Daniele Condorelli. Adesso il lavoro prosegue, concentrando gli sforzi sullo studio del tessuto adiposo, ritenuto vero e proprio organo capace di fornire nozioni fondamentali. A questo proposito, la dottoressa Tonia Luca ha confermato la volontà di «osservare le diverse modificazioni del tessuto adiposo nei pazienti obesi ed in quelli sani», così da «fare emergere i meccanismi infiammatori che spesso si manifestano nei pazienti obesi e che incidono sul tasso di mortalità. Il paziente obeso, infatti, quasi sempre va incontro a malattie cardiovascolari, sviluppa diabete e molto spesso carcinoma gastroesofageo». Accanto alla ricerca, prosegue di pari passo la formazione continua in medicina mediante l’organizzazione di corsi ECM e giornate formative destinate a medici, infermieri e operatori sanitari. La palese dimostrazione dell’impegno della Fondazione nel tentativo di trasferire più adeguatamente ed efficacemente i progressi delle conoscenze, ottenute grazie alla ricerca, alla pratica medica quotidiana e valutare l’efficacia di nuovi approcci terapeutici sui pazienti. A spiegare il modus operandi della Fondazione Mediterranea G.B. Morgagni è stato il suo presidente, il professore Salvatore Castorina, secondo il quale «la ricerca e la formazione» rappresentano «il motore del progresso e dello sviluppo del singolo e della società in generale». Castorina ha aggiunto: «Si fa ricerca per acquisire nuove conoscenze che possano trovare applicazioni concrete nella vita di tutti i giorni ed essere utili al benessere economico ed al miglioramento della qualità della vita». Il presidente ha poi rivolto un appello a supportare questa prestigiosa realtà scientifica catanese, siciliana e italiana, riconosciuta a livello internazionale, lanciando la campagna 5x1000. Per donare sarà sufficiente apporre il codice fiscale 03617060870 sull’area dedicata al sostegno delle associazioni non lucrative di utilità sociale. Si tratta di un gesto importante affinché la ricerca non subisca una battuta d’arresto. Il motivo lo ha spiegato lo stesso presidente Castorina: «Con i soli finanziamenti aziendali, la Fondazione Morgagni non è in grado si sostenere tutte le spese da investire. Chiediamo, se reputate valido il nostro lavoro, di sostenerci per guardare insieme al futuro e partecipare concretamente alla sua costruzione». (D. E.). GdB | Giugno 2021

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PARKINSON: LE VARIANTI DI RISCHIO DELLA MALATTIA Nello studio di Cnr e Neuromed, pubblicato su Molecular Neurodegeneration, identificati ventisei geni, sedici dei quali associati per la prima volta alla patologia

di Felicia Frisi

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a ricerca sul Parkinson è impegnata su diversi fronti terapeutici e predittivi. Sul rischio di ammalarsi, l’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” del Cnr di Napoli e l’Irccs Neuromed hanno condotto una ricerca che ha evidenziato come alcune varianti genetiche rare, se presenti simultaneamente, possano esercitare un ruolo importante nell’aumentare significativamente l’eventualità che insorga la patologia. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Molecular Neurodegeneration, ha preso in esame i dati genetici di due tipologie di pazienti: quelli ap-

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partenenti a famiglie nelle quali la malattia di Parkinson è ricorrente e quelli in cui la patologia era comparsa senza che ci fosse familiarità (cosiddetti casi “sporadici”). Inoltre, gli autori del lavoro hanno approfondito la ricerca esaminando, sia su tessuti umani che su modelli animali, l’espressione genica (il processo di trascrizione dell’informazione genetica in proteine funzionali). Cinque dei geni studiati sono risultati particolarmente espressi in neuroni dopaminergici della Substantia Nigra la cui degenerazione è la causa principale del morbo di Parkinson. Si tratta del più ampio studio genetico realizzato su pazienti italiani

affetti da morbo di Parkinson utilizzando metodiche di sequenziamento di ultima generazione. «Abbiamo potuto identificare varianti correlate al rischio di Parkinson in ventisei geni, sedici dei quali non erano stati precedentemente associati alla malattia. E abbiamo potuto riscontrare anche come la maggior parte di questi geni siano coinvolti in “pathways” importanti per la funzionalità del sistema dopaminergico la cui degenerazione porta allo sviluppo della patologia», dice Alessandro Gialluisi, ricercatore del Dipartimento di epidemiologia e prevenzione del Neuromed, primo autore del lavoro. Un risultato importante dello studio è che le varianti esaminate possono avere una sorta di effetto cumulativo. «La presenza contemporanea di due o più di queste varianti rare si è rivelata associata con un aumento della probabilità di sviluppare il Parkinson nel 20% dei pazienti. Possiamo parlare di un ‘carico’ di mutazioni crescente che, in futuro, potrebbe portarci a valutare il rischio di malattia proprio attraverso l’individuazione del numero di varianti dannose presenti nel DNA di una persona», spiega Teresa Esposito, ricercatrice del Cnr-Igb e responsabile del Laboratorio Cnr presso il Neuromed, ultimo autore dello studio. «Questi risultati appaiono promettenti nella prospettiva di perfezionare le tecniche di diagnostica molecolare rivolte a individuare precocemente le persone a rischio elevato. Saranno naturalmente necessari altri studi da un lato per aumentare il numero di pazienti diagnosticabili e dall’altro per comprendere e sviluppare potenziali approcci terapeutici, primi fra tutti quelli basati su sviluppi farmacologici e di medicina rigenerativa. Ciò che possiamo pensare, per un futuro più vicino, è un esame genetico che tenga conto del carico di varianti dannose presenti nel genoma di un individuo», conclude Antonio Simeone, Direttore del Cnr-Igb.


Salute

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ublio Elio Aristide nasce nella Misia, regione dell’Asia Minore nel 117 d.C.; appartenente ad una famiglia benestante comincia sin da fanciullo ad avere maestri privati e per la sua agiata condizione economica frequenta le scuole di retorica, dove insegnano i migliori docenti di quel tempo. Diventa un mirabile oratore, grazie alle sue abili doti di eloquio e scrive moltissimo, affrontando i generi più disparati, dimostrando anche di avere una solida e vasta cultura letteraria, che esibisce durante i suoi continui viaggi in tante città, portando avanti le istanze della seconda sofistica. L’esistenza e la professione di Aristide sono però condizionate da un male psichico, mutevole e insidioso, una specie di nevrosi, unita ad una grave forma di ipocondria, che lo tormenta per tutta la vita. E le sue condizioni di salute peggiorano prima di un viaggio a Roma. Aristide comincia ad avere atteggiamenti caratterizzati da una costante apprensione per la salute e dalla eccessiva tendenza a sopravvalutare i minimi disturbi. Questa forma di nevrosi ipocondriaca lo spinge verso la malinconia, che temporizza i suoi giorni in maniera abbastanza monotona. Per trovare la guarigione, Aristide trova ricovero a Pergamo nel santuario di Asclepio, che era considerato la divinità protettrice della scienza medica. Aristide si affida alla pratica della incubazione, una terapia fondata sulla meticolosa registrazione ed interpretazione dei sogni. Il lungo soggiorno della durata di quasi 17 anni conduce Aristide ad avere una fede assoluta, quasi vicino al fanatismo e alla superstizione nel dio guaritore, che addirittura elegge come governatore della propria vita: non solo sul piano medico ma anche quello professionale. Di questa sua degenza restano come testimonianze le 5 orazioni sacre. La sua morte avviene a Smirne nel 189 d.C. Nelle 5 orazioni sacre, più un frammento di una sesta, denominati Discorsi sacri, Aristide lascia una sorte di diario dell’esperienza medico-religiosa avuta nel santuario di Asclepio, esperienze che segnano profondamente la sua vita: i sogni, le terapie,

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PUBLIO ELIO ARISTIDE E LA MALINCONIA DEPRESSIVA La pratica della incubazione, fondata sulla meticolosa registrazione ed interpretazione dei sogni, lo porta verso una fede assoluta nel dio guaritore

le speranze ed i timori del malato sono annotati con minuzioso entusiasmo: dai digiuni alle purgazioni, dai cibi alle bevande assunte o espulse, e via dicendo. Infatti, in un brano della seconda orazione sacra Aristide racconta come la “peste antonina” si sia abbattuta improvvisamente sulla sua casa, decimando servi e animali da soma. Lui stesso ne rimane contagiato gravemente, ma poi si riprende, grazie ad un clistere di miele attico ed altre cure mediche. Aristide però non si pone la domanda cosa abbia provocato la comparsa della pestilenza e come si sia diffusa; nello stesso brano descrive come questo virus abbia portato anche alla morte il più nobile dei suoi figli adottivi: arriva addirittura a concludere che questa dolorosa perdita sia stata una sorta di scambio, decisa dal dio Asclepio, per la sua stessa vita. In realtà, la guarigione, che per Aristide vive e considera come un dono divino della divinità e, di conseguenza, come predestinazione ad una missione, gli consente di raggiungere una

tenace e fruttuosa ripresa della propria attività d retore. Ancora oggi, in pieno XXI secolo, la scienza medica e biologica cercano, con ricerche appropriate e mirate, di porre in essere cure atte a migliorare le condizioni di chi vive drammaticamente momenti di crisi nevrastenica, che portano alla facile irritabilità, all’autoisolamento e alla malinconia depressiva, la stessa malattia che colpì Aristide. Intanto, riviste scientifiche, mass media cartacei e radiotelevisivi ed internet ci informano quotidianamente che negli stati, dove il contagio da covid19 ha conosciuto una virulenza rilevante e ha costretto intere popolazioni a chiusure forzate le malattie nevrasteniche hanno trovato accentuazione, colpendo individui non solo di età avanzata ma anche di età adolescenziale. Non mancano episodi di violenza di gruppo o singola, per cui la ricerca rimane con i suoi risultati l’unica arma per debellare una malattia che tormenta molto l’essere umano. (B. C.). GdB | Giugno 2021

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LA FIBRILLAZIONE ATRIALE CAUSA DECLINO COGNITIVO Lo studio multidisciplinare: genesi demenza causato da alterazioni transitorie ma ripetute del microcircolo cerebrale

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a fibrillazione atriale causa declino cognitivo e demenza, anche in assenza di eventi clinici conclamati, quali il classico ictus cerebrale. Lo si evince da una ricerca condotta da un team multidisciplinare composto da cardiologi e ricercatori dell’ospedale Molinette della Città della Salute e dell’Università di Torino di cui fanno parte Matteo Anselmino, Andrea Saglietto e Daniele Canova, e da una squadra di ingegneri del Politecnico di Torino, composto da Luca Ridolfi e Stefania Scarsoglio. Il lavoro è stato pubblicato su Europace, la rivista

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scientifica internazionale di aritmologia cardiaca e nella Newsletter della Società Europea di Cardiologia. Lo studio ha consentito di analizzare per la prima volta nell’uomo gli effetti esercitati dalla fibrillazione atriale, ovvero la più comune tra le aritmie cardiache, sul flusso sanguigno nei piccoli vasi cerebrali. Attraverso l’impiego di una metodica conosciuta col nome di spettroscopia quasi infrarossa (Nirs), piccole sonde applicate sulla cute della fronte del paziente esaminato permettono infatti di ottenere informazioni sul flusso sanguigno a livello del cervello.

Coinvolti nelle ricerche circa cinquanta pazienti con fibrillazione atriale afferenti alla Cardiologia universitaria dell’ospedale Molinette. Gli studi hanno consentito di dimostrare come durante l’aritmia si verificano delle alterazioni transitorie ma ripetute del flusso per quanto concerne il microcircolo cerebrale. Proprio queste riduzioni critiche dell’afflusso di sangue al cervello, per quanto transitorie, possono portare a lungo termine alla genesi della demenza. Lo ha chiarito il direttore della Cardiologia universitaria, Gaetano Maria De Ferrari, dicendosi convinto che questi episodi contribuiscano «più in generale al deficit cognitivo associato alla fibrillazione atriale». Le alterazioni della circolazione cerebrale registrate dalla spettroscopia quasi infrarossa in corso di fibrillazione atriale tendono a sparire al ripristino del normale ritmo cardiaco mediante una cardioversione elettrica. A questo proposito, il professor Anselmino ha spiegato come oggi, per i pazienti con fibrillazione atriale, sia disponibile «una tecnica molto efficace nel mantenere il ritmo sinusale a lungo termine come l’ablazione transcatetere». Adesso l’obiettivo è capire se mediante questo approccio «sia possibile ridurre il declino cognitivo in questa popolazione di pazienti». Anselmino ha proseguito evidenziando come, considerando che la fibrillazione atriale aumenta con l’aumentare dell’età è lecito attendersi un raddoppio dei casi di fibrillazione atriale entro il 2050. Basta questo dato per rendere «evidente quanto sia stato importante capire i meccanismi che legano la fibrillazione atriale alla demenza, al fine di poter ottimizzare le strategie terapeutiche e minimizzare il deficit cognitivo correlato all’aritmia, con enormi potenziali ricadute sulla qualità della vita e la gestione dell’assistenza socio-sanitaria dei pazienti». (D. E.).


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n nuovo promettente vaccino contro la malattia del sonno. Un siero, quello contro i tripanosomi, una famiglia di parassiti associati a malattie devastanti tanto negli esseri umani quanto negli animali, che potrebbe migliorare la vita di milioni di persone. Basta questa premessa a chiarire quanto siano elevate le attese - e le speranze - dopo la pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature di uno studio inerente un nuovo candidato vaccino contro il parassita Trypanosoma vivax in un modello murino. A condurre la ricerca sono stati gli scienziati del Wellcome Sanger Institute, che hanno messo nel mirino il parassita responsabile della tripanosomiasi animale africana (AAT), una malattia che colpisce il bestiame in Africa e in Sud America. Il Trypanosoma vivax viene trasmesso dalle mosche tse-tse ed è strettamente correlato al Trypanosoma brucei, capace di infettare anche la specie umana provocando sintomi quali stanchezza cronica, debolezza e febbre. Il team di ricercatori, oltre ad analizzare il genoma di Trypanosoma vivax, ha anche identificato sessanta proteine della superficie cellulare che potrebbero rivelarsi obiettivi vaccinali praticabili. Gli autori dello studio hanno inoltre scoperto che la proteina IFX si è dimostrata capace di conferire immunità contro il parassita in quasi tutti gli esemplari di topo sottoposti a vaccinazione. Il prossimo passo sarà quello di effettuare nuovi test sul bestiame, popolazione animale che quando entra a contatto con questo parassita viene pesantemente colpita. Andrew Jackson, dell’Università di Liverpool, coautore dell’articolo pubblicato su Nature, non ha nascosto la sua soddisfazione per l’importante risultato conseguito: «Per anni è stato considerato quasi impossibile lo sviluppo di un vacci-

Trypanosoma. © Kateryna Kon/shutterstock.com

MALATTIA DEL SONNO: SPERANZE DA UN VACCINO Il siero mette nel mirino la tripanosomiasi animale africana: risultati incoraggianti dai test sui topi

no efficace contro i tripanosomi per via dei sofisticati meccanismi immunoprotettivi che si sono evoluti nel tempo. Siamo molto contenti di aver superato i primi rilevanti ostacoli in un modello murino». Michael Pearce, esponente della Global Alliance for Livestock Veterinary Medicines, ha sottolineato come la tripanosomiasi rimanga ancora oggi una delle «principali sfide di salute per il bestiame e gli allevatori in Asia, Africa e Sud America». Il motivo principale della difficoltà di fare i conti con la tripanosomiasi africana - nota ai più con l’espressione malattia del sonno -, ha spie-

gato Pearce, è determinata dal fatto che «le opzioni per il controllo e il trattamento di questa problematica sono molto limitate e la resistenza ai farmaci attualmente disponibili continua ad aumentare». Prima dello scoppio dell’emergenza coronavirus, la tripanosomiasi rappresentava un grave problema sanitario, tanto da collocarsi al terzo posto dopo l’AIDS e la diarrea grave. «Questi nuovi risultati», però, ha chiosato l’esperto, aprono adesso alla «possibilità di uno sviluppo di vaccini efficaci, il che sarebbe estremamente importante per la salute umana e animale». (D. E.). GdB | Giugno 2021

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Salute

INDICIZZARE I FILE MEMORIZZATI NEL DNA Il Mit e la North Carolina State University spiegano come eticchette e anteprime aiutino a immagazzinare i dati che il mondo sta accumulando sul Dna

za di 3.000 nucleotidi, (equivalente a circa 100 byte) in cui sono state salvate 20 immagini, sono stati ricercati i dati. Questa sperimentazione risente ancora dei costi elevati per scrivere dati sul Dna. Oggi si scrivono circa 100 byte di dati ma le capsule possono contenere file delle dimensioni di un gigabyte».

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ue studi realizzati negli Stati Uniti, pubblicati sulle riviste Nature Materials e Nature Communications rispettivamente dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e dalla North Carolina State University, hanno evidenziato come le etichette e le anteprime dei file aiutino a ritrovare i dati memorizzati sul Dna più velocemente. «Abbiamo bisogno di nuove soluzioni per immagazzinare le enormi quantità di dati che il mondo sta accumulando - spiega Mark Bathe, docente di bioingegneria al Mit -. Il Dna ha una densità che è mille volte superiore a quella di una memoria flash e ha pure un’altra proprietà di grande interesse, e cioè che una volta realizzato il polimero di Dna, non consuma energia. Si può scrivere sul Dna e archiviarlo per sempre». Per estrarre le immagini e i testi immagazzinati nelle molecole della vita la tecnica più utilizzata è quella della Pcr: la reazione a catena della polimerasi. Questa tecnica di biologia molecolare che consente di copiare sequenze di Dna o Rna utilizza un’esca che si lega all’etichetta del Dna. Una volta che l’esca, la sequenza di nucleotidi, chiamata premier, entra in azione avviene il riconoscimento grazie all’enzima polimerasi che inizia a produrre un nuovo filamento di Dna utilizzando come modello quello esistente. Questo filamento viene poi letto e sequenziato. Molto spesso accade che la sequenza di nucleotidi si lega a filamenti diversi in maniera non specifica. Per ov36 GdB | Giugno 2021

viare a questo problema i ricercatori della North Carolina State University, grazie alla modifica di alcuni parametri della Pcr, hanno creato una strategia che permette di aprire i file per intero o solo in parte. I parametri che possono essere modificati sono: la temperatura a cui avviene la reazione e la concentrazione del Dna o dei reagenti nel campione analizzato. Questa tecnica ha consentito di salvare quattro immagini nel Dna in formato Jpeg per poi poterne recupere le anteprime o i file interi ad alta risoluzione. Per il momento sono stati archiviate solo immagini, ma come ha spiegato il ricercatore Kevin Volkel «questa tecnologia è compatibile anche con altri tipi di file». Una tecnica diversa è stata messa a punto dai ricercatori del Mit che hanno provato ad a incapsulare ogni file in una particella di silice della grandezza di sei millesimi di millimetro, inserendo come etichetta una breve sequenza di Dna. In questo modo il premier riconosce il contenuto del file leggendo l’etichetta come un codice a barre. «Al momento – spiega il ricercatore James Banal - abbiamo una velocità di ricerca di 1 kilobyte al secondo. In sequenze di Dna della lunghez-

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di Carmen Paradiso


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ebbene le reazioni allergiche fossero già conosciute nell’antichità, fino agli inizi del ventesimo secolo nessuno ne intendeva la natura. Anche se la scienza medica aveva dimostrato che queste reazioni allergiche erano provocate dall’ esposizione a sostanze estranee, pur non provocando danni, i meccanismi responsabili dei sintomi non vennero chiariti fino al 1903. Infatti, lo studioso W.P. Dunbar ipotizzò che le febbri da “pollini” non fossero dovute semplicemente all’irritazione istintiva da essi causata, ma che nello scatenamento dei sintomi intervenisse una tossina. Lo stesso studioso allora preparò una “antitossina” chiamata “pollatina” contro la febbre del fieno. Tuttavia, inalata attraverso lo spray nasale, non causò alcun effetto curativo; anzi, in alcuni pazienti provocò reazioni violente, che lo stesso Dunbar attribuì alla presenza del siero di cavallo utilizzato per predisporre il composto. Tanti furono gli studiosi che si dedicarono a ricerche, come i francesi Richet e Portier, sull’origine del carattere urticante provocato dai morsi dei celenterati del plancton marino. Pensarono a questo punto di preparare un vaccino a protezione dei pescatori, facendolo derivare da un estratto con glicerina, ma non risultò positivo nei cani che fungevano da cavie, specialmente dopo l’inoculazione della prima dose. Successivamente, somministrata la seconda dose, alcuni cani morivano mentre altri sopravvivevano. Lo stesso Richet chiamò questo processo “anafilassi”, cioè allontanamento della protezione, in contrapposizione alla “profilassi” che, invece, induce alla protezione. Dopo ricerche mirate sull’ipersensibilità conseguente a dosi elevate di antigeni estranei, anche batterici, come i sieri impiegati sulla immunizzazione dal tetano e difterite, Pirquet allora propose di sostituire il termine di anafilassi con allergia, che significa cambiamento di stato, per definire qualsiasi reazione anomala acquisita dall’organismo verso un’infezione o sostanze antigeniche.

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LA SCOPERTA DELL’ALLERGIA NEL VENTESIMO SECOLO Anche se la scienza aveva dimostrato che le reazioni erano provocate dall’esposizione a sostanze estranee, i meccanismi responsabili dei sintomi vennero chiariti dopo il 1903

di Barbara Ciardullo Nel 1923 altri studiosi, come Cooke, proposero il termine “atopica” per designare quella forma di allergia caratterizzata da febbre di fieno e da asma, che si manifestano in gruppi di individui, che dimostrano sensibilità verso proteine presenti nell’ambiente. Il termine di anafilassi verrà riservato alle reazioni allergiche molto elevate e anche mortali, come lo shock anafilattico. Si svilupparono, in seguito, altre ricerche che portarono alle attuali informazioni e conoscenze sull’asma. Nel 1910 anche lo studioso Dale, attraverso una ricerca sulla segale cornuta, scoprì in questa graminacea la presenza di una sostanza che chiamò “istamina”, che riesce a significare i segni caratteristici della reazione allergica. Quanto scoper-

to da Dale rimase senza seguito, finché lo scienziato C.F.Cole dimostrò che una certa quantità di istamina risulta presente negli organi vitali e che, a causa della distruzione di una proteina analoga all’istamina o alla degenerazione di cellule lese, si forma una sostanza anch’essa simile all’istamina, responsabile delle manifestazioni allergiche. Quest’ultima osservazione rendeva ragione anche alle reazioni che avvengono per effetto del sole, del calore e del freddo. Tale scoperta creò entusiasmo nel mondo scientifico e ci fu una corsa verso la ricerca per scoprire vaccini che fossero in grado di attenuare e tenere sotto controllo la sintomatologia allergica ed i progressi a tal punto saranno notevoli. E ancora si continua. GdB | Giugno 2021

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RIGENERARE LA SAFE DONOR AREA La nuova frontiera nel trapianto di capelli

di Biancamaria Mancini

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a zona occipitale del cuoio capelluto contiene follicoli geneticamente resistenti alla degenerazione androgenetica che conduce alla calvizie, ed è per questo che i calvi mantengono spesso intatta la densità capillare a livello della corona occipitale. Tale zona è pertanto chiamata “safe donor area” ed è utilizzata durante la procedura di autotrapianto di capelli come zona da cui prelevare le unità follicolari destinate all’innesto nella zona diradata ricevente. Il prelievo follicolare occipitale conduce ad un esito cicatriziale locale, e in quel punto non sarà più possibile la crescita di capelli. Anche se la tecnica FUE (Follicular Unit Extraction) ha permesso di minimizzare al massimo la visibilità del prelievo in zona donatrice, rimane il problema dell’esaurimento delle scorte follicolari. La perdita in loco del follicolo diventa quindi un limite davvero importante nel momento in cui la zona ricevente da riempire è maggiore di quella donatrice, o nel caso in cui si voglia riutilizzare più volte la donor area per successivi autotrapianti tricologici. Infatti, nelle aree in cui è stata prelevata l’unità follicolare, il tessuto diventa irreversibilmente cicatriziale senza possibilità alcuna di rigenerazione follicolare spontanea. Il processo di cicatrizzazione, ovvero la rapida formazione di tessuto fibrotico dove si era causata una ferita, avviene in natura come meccanismo vitale per ottenere in breve tempo il ripristino dell’integrità cutanea aumentando le possibilità di sopravvivenza dell’organismo. Il costo di tale sopravvivenza è però la perdita della differenziazione del tessuto rimarginato, ovvero la perdita della struttura biologica originaria e degli organuli annessi. Le cicatrici infat-


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ti, differiscono dalla normale pelle sana perché mancano di follicoli piliferi, di ghiandole sebacee, contengono fibre di matrice extracellulare ormai dense e parallele e non più “a cesto” con conseguente perdita della normale elasticità e forza della pelle in quel punto. La disfunzione tissutale correlata alla cicatrizzazione rimane oggi una delle principali sfide sanitarie. Un gruppo di ricercatori, guidato dal dottor Mascharak, ha appena pubblicato uno studio straordinario in cui si ha l’ambizioso obiettivo di far guarire le ferite senza esiti cicatriziali, ovvero rigenerando completamente il tessuto leso senza la perdita di differenziazione, come avviene per alcuni invertebrati o nel feto durante la gestazione. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, ha così scoperto che la cicatrizzazione fibrotica è dovuta a una specifica popolazione di fibroblasti cutanei ENF (Engrailed-1 lineage–negative fibroblasts) che attivano l’espressione del gene Engrailed-1 (En1) inseguito allo stimolo meccanico. E’ proprio l’attivazione di En1 che genera in loco dal 40 al 50% circa dei fibroblasti cicatriziali. L’intuizione dei ricercatori è stata quella di inibire l’espressione di En1 nelle cellule cutanee murine (usando la delezione genetica o l’inibizione di piccole molecole) dove era stata causata una lesione, e di osservare la risposta cutanea post ferita. I risultati hanno mostrato che la pelle nei topi non formava più cicatrici post lesione, ma si rigenerava, ovvero si ripristinava per intero completa di follicoli, ghiandole sebacee e matrice extracellulare a cesto. Lo studio ha infine dimostrato che il principio

La zona occipitale del cuoio capelluto contiene follicoli geneticamente resistenti alla degenerazione androgenetica che conduce alla calvizie. Tale zona è pertanto chiamata “safe donor area” ed è utilizzata durante la procedura di autotrapianto di capelli. © esatyusuf/shutterstock.com

attivo farmacologico verteporfina, genera una inibizione YAP bloccando En1 e promuove la riparazione mediante ENF ottenendo la rigenerazione della pelle in 30 giorni con il recupero completo. La verteporfina è un aminoacido derivato della porfirina, finora utilizzato nell’ambito della terapia fotodinamica nel trattamento della degenerazione maculare senile. I geni YAP ed En1 sono quindi ad oggi indicati come possibili bersagli molecolari per prevenire le cicatrici. Inoltre tali studi inducono a pensare che gli ENF residui nella pelle postnatale dei mammiferi mantengono una capacità di rigenerazione della pelle se la propensione meccanica alla fibrosi può essere bloccata. Questa scoperta ha implicazioni traslazionali per le decine di milioni di pazienti che ogni anno sviluppano cicatrici e altre fibrosi. Il prossimo passo, nel tentativo di trovare la via per la rigenerazione cutanea post ferita, è ora progettare un altro studio preclinico sui suini e poi passare alla sperimentazione effettiva sull’uomo. Attualmente quindi, non è ancora possibile applicare tali studi sull’uomo, infatti non ci sono ancora le conoscenze necessarie sui possibili effetti collaterali e anche l’alto costo del farmaco (1700 euro a flacone) potrebbe essere un limite importante. Se tali risultati si confermassero ottimali anche nell’uomo, in ambito tricologico si avrebbe la possibilità di rigenerare i follicoli delle aree donatrici non avendo più nessun limite tecnico al rinfoltimento.

Bibliografia

- Shamik Mascharak et al.: “Preventing Engrailed-1 activation in fibroblasts yields wound regeneration without scarring” Science 23 Apr 2021: Vol. 372

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a Vitamina C è un potente antiossidante che riduce lo stress ossidativo, attraverso un processo di donazione/ trasferimento di elettroni riduce le specie instabili di ossigeno, azoto e radicali di zolfo e genera altri antiossidanti es. l’alfa- tocoferolo (vitamina E). Alcuni studi con plasma umano hanno dimostrato che la Vit C: 1) aiuta a prevenire la perossidazione lipidica indotta dai radicali perossido, favorisce l’assorbimento di ferro, calcio e acido folico; 2) è essenziale per la sintesi delle immunoglobuline, indispensabili per la produzione di interferone e per la soppressione della produzione di interleuchina-18, fattore regolatore nei tumori maligni; 3) facilita l’escrezione degli ormoni steroidei e gioca un ruolo importante sulla biosintesi di collagene; 4) è anche un cofattore enzimatico per le lisil e prolil idrossilasi (enzimi chiave per la stabilizzazione e la croce -legame delle fibre di collagene di tipo I e III); 5) ha un ruolo importante nella cascata di segnalazione intracellulare che porta alla proliferazione dei fibroblasti. Se applicata localmente, la Vit C può neutralizzare le specie reattive dell’ossigeno (ROS), che si innescano quando ci si espone alla radiazione solare, fattori ambientali (fumo e inquinamento), molti studi infatti evidenziano che la Vit C è efficace nel trattamento dell’iperpigmentazione, dei melasmi e delle macchie solari, ha infatti la capacità di interferire con il sito attivo della tirosinasi (enzima che limita la melanogenesi). La tirosinasi catalizza l’idrossilazione della tirosina in 3,4-diidrossifenilalanina (DOPA) e porta alla produzione di una molecola precursore della melanina, inoltre, la Vit C favorisce la differenziazione cellulare dei cheratinociti e migliora la coesione dermo-epidermica. Recenti articoli sostengono che la Vit C agisca sui meccanismi epigenetici. Infatti il processo di metilazione del DNA è una modificazione epigenetica ereditaria, coinvolta nel silenziamento genico. L’esposizione alle radiazioni UV, ad esempio, può alterare il processo di metilazione, portando al silenziamento di geni coinvolti nei processi di differenziazione cellulare e di apoptosi, che dopo l’esposizione ai raggi UV previene l’insorgenza di tumori maligni (es.melanoma). La vitamina C agisce come cofattore enzimatico nella biosintesi di collagene, carnitina, tirosina e ormoni peptidici, stimola la produzione di mielina, la maturazione e la differenziazione dei neuroni.

VITAMINA C ANTIOSSIDANTE PER ECCELLENZA Agisce come cofattore enzimatico, stimola la produzione di mielina, la maturazione e la differenziazione dei neuroni di Carla Cimmino

Tratto da “Vitamin C: One compound, several uses. Advances for delivery, efficiency and stability”, di Amanda Costa Caritá, Bruno Fonseca-Santos, Jemima Daniela Shultz, Bozena Michniak-Kohn, Marlus Chorilli, Gislaine Ricci Leonardi.

La più grande sfida nell’utilizzo di Vit C è mantenere la stabilità, essendo facilmente degradabile in ambiente acquoso, ad alto pH, in presenza di ossigeno e ioni metallici, tutto ciò è accompagnato da un cambiamento di colore nelle formulazioni, che diventano gialle. Per limitare questi processi sono state sviluppate diverse strategie, tra cui: controllo della presenza di ossigeno durante la formulazione e lo stoccaggio; basso pH e riduzione del contenuto di acqua utilizzando formulazioni anidre/non acquose; mentre l’aggiunta di conservanti come gli antiossidanti e gli agenti antichelanti (es. l’acido ferulico e il metabisolfito di sodio) ne prevengono la degradazione della Vit C. La costante dielettrica e la viscosità, in quanto proprietà chimico-fisiche possono influire sulla stabilità. Le formulazioni a viscosità più elevata e i sistemi emulsionati multipli offrono una maggiore protezione contro l’ossidazione. Nel 2011, Ahmed et al. attraverso studi sulla cinetica della fotolisi della Vit C nelle formulazioni in crema, hanno mostrato che l’umettante presente nelle creme può influenzare la fotostabilità della Vit C; buoni risultati di stabilità sono stati ottenuti in presenza di acido palmitico e glicerina nella formulazione. Le proprietà schiarenti della Vit.C sono alla base delle formulazioni di prodotti destinati all’uGdB | Giugno 2021

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so quotidiano, ma questa vitamina è altamente suscettibile all’ossidazione, specialmente nei sistemi a base d’acqua e se esposti all’aria. Sebbene i derivati della Vit C siano stati sviluppati con maggiore stabilità, la loro efficacia e il maggior costo di formulazione hanno portato l’industria cosmetica a ridurne la quantità nei prodotti finali. Inoltre, è difficile dar vita a prodotti finiti che mantengano la loro stabilità inalterata nel tempo, visto che le formulazioni contengono molta acqua, è proprio questa che risulta essere il reagente chiave per l’instabilità di alcuni principi attivi nelle emulsioni, ed ecco che si hanno cambiamenti di colore. Nuove strategie come l’utilizzo di solventi appropriati (es.glicole) per formare una fase, olio di silicone come fase oleosa o un altro olio con una sensazione leggera, sono alternative all’instabilità della Vit C a contatto con l’acqua. La Vit C è solubile in solventi poliolici, come glicole propilenico, glicole butilenico, glicole esilenico, glicerina, glicoli polietilenici, glicereth-7, glycereth-26, ethoxydiglycol ed etanolo. Quando si utilizza un di questi solventi per emulsioni non acquose mostrano una minore permeabilità all’ossigeno e non trasportano acqua, il che impedisce reazioni di scolorimento nella formulazione. Questi solventi poliolici, un’appropriata fase oleosa e tensioattivi combinati insieme, possono formare due fasi immiscibili che danno come risultato un’emulsione non acquosa o anidra che è stabile al calore. Due studi condotti da Eeman et al, 2014 e 2016 hanno confrontato gli studi di stabilità delle formulazioni di riferimento a base acquosa e delle emulsioni non acquose/anidre contenenti Vit C. La stabilità della Vit C è stata valutata visivamente e utilizzando un sistema UPLC. Le formulazioni di riferimento commerciali a base d’acqua hanno mostrato una significativa evidenza di scolorimento associato all’ossidazione, sebbene la formulazione di glicerina in silicone abbia mostrato solo un leggero effetto di ingiallimento a 42 GdB | Giugno 2021

I fumatori presentano un rischio due o tre volte più alto rispetto agli altri soggetti di sperimentare parodontite, ovvero l’infiammazione grave delle gengive che provocare anche la perdita dei denti. Il fumo, inoltre, incide negativamente sulla risposta terapeutica, rallentando o peggiorando la guarigione dei pazienti dopo trattamenti o interventi di chirurgia orale. © Kunstzeug /shutterstock.com

50 °C. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che i sistemi non acquosi/anidro possono stabilizzare livelli di Vit C fino al 10% per un periodo di tempo molto più lungo rispetto a un benchmark commerciale a base di acqua. Sono state apportate alcune modifiche alla molecola di Vit C per migliorarne la stabilità. Un’opzione è legare i sali ionici alla molecola, tra i complessi più noti vi sono l’ascorbil 2-fosfati, che sono formulati con sali di sodio (SAP) o magnesio (MAP) e sono di carattere idrofilo. L’introduzione di un gruppo fosfato nella seconda posizione dell’anello ciclico della molecola è efficace contro l’ossidazione. Tuttavia, questi derivati non hanno attività antiossidante diretta e devono essere convertiti, in vivo, per reazione enzimatica in acido L-ascorbico, nonostante siano più stabili, presentano una minore permeabilità attraverso la pelle rispetto all’acido ascorbico Un altro derivato, l’acido ascorbico 2-glucoside (AA-2G) è stato studiato da Lin et al, 2016. È noto che il gruppo ossidrile del carbonio 2 dell’acido ascorbico influenza direttamente la sua attività farmacologica, allo stesso modo, questo sito è responsabile del processo di degrado. La molecola AA-2G ha un glucosio coniugato nell’idrossile di carbonio-2. Questo legame si traduce in una maggiore stabilità della molecola (protezione contro la degradazione ad alte temperature, pH e ioni metallici). Quando applicato localmente, l’AA-2G viene idrolizzato da una α-glucosilasi cellulare e viene convertito in acido L-ascorbico. In questo studio, l’AA-2G è stato incorporato in una microemulsione, e i risultati indicano che il sistema ha una permeabilità maggiore rispetto alle emulsioni commerciali e alla capacità sbiancante per la pelle Un’altra possibilità è l’utilizzo di derivati lipofili dell’acido ascorbico, quali: l’ascorbil 6-palmitato (AA-Pal) e l’acido tetra-isopalmitoil ascorbico (IPAA). Nel 2012, Maia Campos et al. hanno verificato la stabilità chimica e l’efficacia clinica dell’IPAA nelle formulazioni dermatologiche. Le formulazioni sviluppate hanno mostrato stabilità chimica da 6 a 12 mesi e studi clinici, eseguiti con tecniche non invasive sulla pelle di volontari umani, hanno indicato effetti idratanti sullo strato corneo e sull’epidermide vitale. Sulla Vitamina C e sul suo potere antiossidante c’è ancora molto da scoprire, ma la sfida maggior sta nel rendere stabili le formulazioni che la contengono, in questo caso la ricerca sta facendo passi da gigante.


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isparmio in bolletta, guadagno sull’energia prodotta e agevolazioni fiscali. I tre vantaggi economici si possono trovare nel vademecum dedicato alle comunità energetiche, frutto della collaborazione tra Enea, l’Agenzia per l’Energia e lo Sviluppo Sostenibile di Modena (Aess) e l’Università di Bologna. Il documento, scaricabile gratuitamente (https://www.enea. it/it/seguici/pubblicazioni/pdf-volumi/2021/ opuscolo-comunita-energetica.pdf), spiega con un linguaggio chiaro quali siano i benefici ambientali, fornendo risposte agli interrogativi che fanno da titolo ai diversi capitoli: what, che cosa è la comunità energetica; how come se ne crea una; why perché; where dove sono; which quale supporto possono dare alla comunità; who chi le costituisce. Partiamo dall’obiettivo comune per tutte: autoprodurre e dare energia rinnovabile con prezzi accessibili ai propri membri. Se cittadini, attività commerciali, imprese e altre realtà territoriali si mettono insieme, tramite la volontaria adesione ad un soggetto giuridico, possono generare, consumare e scambiare elettricità in maniera collaborativa. Ne hanno già sperimentato i vantaggi, a Napoli e a Magliano Alpi (CN), senza dimenticare l’esperienza di Pinerolo (TO) con l’inaugurazione, il 14 maggio scorso, del primo condominio italiano operativo in regime di autoutilizzo collettivo. In tal modo, ognuno

diventa protagonista attivo e viene definito prosumer, parola inglese che indica l’utente con il ruolo passivo di consumatore (consumer) e quello, invece, da primo attore nelle differenti fasi del processo di produzione (producer). Si può beneficiare, quindi, non soltanto di un’individuale libertà energetica, ma anche di tornaconti per il portafoglio. Ciascuno ha un proprio impianto, utilizza ciò che gli serve e immette in una rete locale l’esubero per scambiarlo con gli altri, altrimenti resta la via dell’accumulo e della restituzione nel momento più idoneo. Sono due i tipi di comunità che possono nascere: quella rinnovabile, basata sul principio di autogestione tra gli aderenti e sull’esigenza che si trovino nelle vicinanze degli impianti, può gestire elettricità, calore, gas, ma da fonti rinnovabili; quella di cittadini, la quale non contempla entrambi i principi d’indipendenza e prossimità e può amministrare solo la corrente elettrica. Enea, per incoraggiare e favorire in Italia lo sfruttamento in comune delle fonti rinnovabili, ha messo in piedi “Recon” (Renewable Energy Community ecONomic simulator), uno strumento disponibile on-line (https://recon.smartenergycommunity.enea.it/), per analisi preparatorie di tipo energetico, economico e finanziario nell’ambito residen-

LE COMUNITÀ ENERGETICHE IN ITALIA Online il vademecum dell’ENEA per illustrare al mondo le comunità energetiche come strumento di transizione ecologica e di contrasto ai cambiamenti climatici

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ziale. Dopo aver raccolto informazioni sugli utilizzi, le caratteristiche delle apparecchiature e alcune valutazioni legate all’investimento, si possono calcolare resa energetica, impatto ambientale, autoconsumo e condivisione dell’energia nelle comunità rinnovabili; quantificare, in aggiunta, flussi di cassa e principali indicatori economici e finanziari (valore attuale netto, tasso interno di rendimento, tempo di ritorno dell’investimento, ecc.), studiando differenti tipologie per finanziare l’investimento e gli incentivi previsti dalle leggi. «Nell’ambito della Divisione smart energy del Dipartimento tecnologie energetiche e fonti rinnovabili dell’Enea abbiamo maturato competenze - afferma Stefano Pizzuti, responsabile del Laboratorio Smart Cities and Communities - che ci consentono di rendere disponibili alle comunità interessate un insieme di piattaforme urbane di condivisione di dati e di servizi per il monitoraggio di infrastrutture pubbliche ad alto consumo di energia. Inoltre, siamo in prima linea nel campo dell’Internet of things, dei Big data e della Blockchain per migliorare l’efficienza energetica, la competitività, l’accettabilità sociale, la penetrabilità nel mercato e soddisfare al meglio i bisogni di comunità, cittadini, amministrazioni pubbliche e imprese». Rendere “intelligente” un’abitazione è facile attraverso l’energy box, un dispositivo che comunica con i sensori e attuatori installati in

casa, raccoglie i dati e li trasmette, per mezzo della connessione internet, ad una piattaforma. Lì i risultati sono esaminati per dare suggerimenti all’utente e permettergli di cambiare le proprie abitudini, limitando gli sprechi. Dobbiamo, ci ricorda ad esempio la guida dell’Enea, spegnere gli apparecchi elettrici, monitor, tv, computer e console per videogiochi, perché possiamo avere un risparmio dell’11% circa in bolletta; usiamo, poi, lavatrice e lavastoviglie a pieno carico, laviamo a basse temperature e regoliamo il termostato del climatizzatore. «Il nostro intento - conclude Piero De Sabbata, responsabile del Laboratorio cross technologies per distretti urbani e industriali dell’Enea - è favorire un vero e proprio cambio di paradigma verso un sistema sociale ed energetico bottom up in cui l’iniziativa parte da cittadini, istituzioni e aziende che si riuniscono in gruppi di comunità e autoconsumo, dove le parole d’ordine sono decentramento, collaborazione, partecipazione, con vantaggi in termini di maggiore sfruttamento dell’energia, flessibilità della rete, risparmi in bolletta e benefici ambientali per le minori emissioni di gas serra». (G. P.).

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utto iniziò con un gigantesco boato causato dall’impatto dell’asteroide di Chicxulub (nell’attuale Messico) in seguito al quale, circa 66 milioni di anni fa, scomparvero i dinosauri e i grandi rettili marini, così come un gran numero di altri vertebrati. Ma a subire le conseguenze dell’evento non furono solo le specie animali, anche la vita vegetale fu profondamente colpita: il 45% delle specie di piante presenti in quella che oggi è la Colombia si estinse e le foreste tropicali subirono grandi modificazioni con l’esplosione delle piante da fiore che divennero dominanti su felci e conifere. È quanto afferma uno studio condotto dai ricercatori dello Smithsonian Tropical Research Institute (STRI) di Panama e pubblicato sulla rivista Science che fa luce sulle origini delle moderne foreste pluviali e potrebbe aiutare gli scienziati a capire come queste foreste risponderanno in futuro a un clima in rapido cambiamento. «Abbiamo esaminato – spiega Mónica Carvalho, primo autore dello studio e borsista presso l’Università del Rosario in Colombia - oltre 50.000 campioni di pollini fossili e più di 6.000 fossili di foglie per determinare da quali piante erano formate le foreste, prima e dopo l’impatto». Sulla base delle prove fossili il team di ricercatori ha scoperto che le foreste nel periodo cretaceo avevano un aspetto molto diverso da quello di oggi. I dinosauri avrebbero vagato attraverso foreste di felci e conifere. Solo circa la metà della flora era costituita da piante da fiore.

«Gli alberi crescevano molto distanti tra loro e tanta luce raggiungeva il suolo della foresta» aggiunge Carvalho. Gli scienziati hanno provato a ricostruire cosa potrebbe essere successo subito dopo l’impatto di Chicxulub. La fotosintesi si sarebbe in gran parte arrestata per circa un secolo poiché la polvere dell’impatto e la cenere dei numerosi incendi innescati dai detriti in fiamme avrebbero intasato l’atmosfera impedendo ai raggi solari di raggiungere la superficie. Le grandi quantità di polveri nell’atmosfera avrebbero fatto scendere le temperature medie ai tropici da circa 27°C prima dell’impatto a 5° C dopo. Nel complesso, c’è stata una perdita del 45% nella diversità delle piante tropicali che ha richiesto un periodo di ricostruzione di quasi sette milioni di anni. A prosperare, dopo questa fase di ripresa, furono le angiosperme, piante più fitte e rigogliose, in cui i raggi del sole facevano maggiormente fatica a penetrare. Le foreste divennero allora oscure, umide e ricche di biodiversità come lo sono oggi. L’esplosione delle piante da fiore ha avuto anche una serie di altre conseguenze sull’ecosistema. L’analisi delle tracce di predazione lasciate dagli insetti sulle foglie mostrano che prima di Chicxulub gli insetti sembravano essere molto mirati nei loro gusti, con comunità concentrate su uno o due tipi di piante, mentre dopo l’impatto diventarono molto più generalisti. Inoltre, la grande quantità di frutta che alcune piante producono, può aver contribuito a favorire la

L’ORIGINE DELLE FORESTE PLUVIALI Su Science uno studio sull’impatto sulla Terra dell’asteroide che 66 milioni di anni fa avrebbe provocato anche l’estinzione dei dinosauri 46 GdB | Giugno 2021


diversificazione tra le nuove specie che stavano nascendo, soprattutto tra i mammiferi. Tra le piante da fiore, le leguminose in particolare divennero molto abbondanti, il che avrebbe avuto conseguenze sul contenuto di azoto nell’aria. Le leguminose ospitano nelle loro radici batteri simbionti che attraverso il processo di fissazione dell’azoto atmosferico rendono i composti di questo elemento disponibili per le biosintesi microbiche e per le piante. Ma attraverso quali meccanismi la caduta dell’asteroide può aver provocato queste trasformazioni delle foreste? Gli autori dello studio provano a identificare tre possibili ragioni di questi cambiamenti. La prima riguarda la scomparsa dei dinosauri erbivori. Calpestando e mangiando la vegetazione bassa, i dinosauri avevano contribuito a mantenere gli spazi aperti e a far penetrare la luce: con la loro estinzione la foresta sarebbe stata più libera di crescere e svilupparsi in tutte le direzioni. Una seconda spiegazione è che l’asteroide si è schiantato su un ambiente marino poco profondo caratterizzato da un sedimento ricco di fosfati fertilizzanti che con l’impatto sarebbero stati ampiamente dispersi sui terreni in tutti i tropici dando un vantaggio alle piante da fiore che prosperano in ambienti ricchi di nutrienti, al contrario delle conifere e delle felci che preferiscono terreni poveri di nutrienti. La terza teoria è che le conifere siano state relativamente più colpite dall’impatto dell’asteroide, con tassi di estinzione più alti rispetto

“Sulla base delle prove fossili il team di ricercatori ha scoperto che le foreste nel periodo cretaceo avevano un aspetto molto diverso da quello di oggi. I dinosauri avrebbero vagato attraverso foreste di felci e conifere.

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alle piante da fiore. Le piante da fiore avrebbero reagito meglio grazie a una maggiore varietà morfologica e fisiologica che permette loro di crescere come alberi, arbusti, piante acquatiche ed erbe, rispetto alle conifere che crescono in genere più lentamente come alberi. Oggi le foreste pluviali tropicali sono hotspot di biodiversità e svolgono un ruolo importante nei sistemi climatici del mondo. Contribuiscono anche a contrastare i cambiamenti climatici poiché assorbono dall’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, il principale gas serra responsabile del riscaldamento climatico, e aiutano il pianeta ad adattarsi agli inevitabili cambiamenti del clima, innescati dalle attività umane. Le foreste però oggi sono purtroppo sotto minaccia. Carvalho ritiene che l’impatto di Chicxulub potrebbe essere visto come un evento analogo alle diffuse estinzioni che avvengono ai nostri giorni a causa del cambiamento climatico, dello sviluppo e di altre attività umane. «Si prevede – afferma la ricercatrice - che circa il 50% delle specie di piante tropicali saranno in pericolo entro la fine del secolo. Dopo la grande estinzione di Chicxulub alla fine del Cretaceo, ci sono voluti sette milioni di anni per recuperare questo tipo di perdita di diversità». Appare quindi evidente che senza un cambio di rotta si rischia di perdere in modo irreversibile un patrimonio fondamentale del nostro pianeta, in termini di biodiversità, ecosistemi e lotta ai cambiamenti climatici, e che è il risultato di 66 milioni di anni di evoluzione. (S. B.)

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CONSUMI ED EMISSIONI NEL BELPAESE Peggiora l’indice della transizione energetica. L’economia italiana indietro nelle tecnologie a basse emissioni di carbonio

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a canzone di Rino Gaetano, “Spendi spandi effendi”, pubblicata nel 1977, conferma ancora oggi la propria modernità. Se negli anni ’70 del Novecento per il cantautore calabrese a poter spendere era l’effendi, vocabolo turco che significa signore, ma era anche un titolo ufficiale di funzionari della cancelleria sultaniale, stavolta basta consultare l’analisi trimestrale del sistema energetico italiano a cura dell’Enea. Si capirebbe subito come i dati sui consumi di energia, dopo il calo record del 2020 (-10%) causato dalla pandemia, grazie alla forte crescita di marzo (+15%), nel primo trimestre 2021 siano risaliti. Secondo le stime dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile l’impiego di prodotti energetici estratti o ricavati direttamente da risorse naturali è stato di circa 43 Mtep (un milione di tonnellate equivalenti di petrolio), su dell’1,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Spostandoci su base mensile, i numeri sono stati inferiori al 2020 in gennaio e febbraio (-4% circa) e superiori a marzo (+15%), primo mese che fu penalizzato dall’emergenza sanitaria. La ripresa ferma una serie di variazioni negative: dopo il crollo del secondo trimestre (oltre il 20% in meno guardando agli stessi mesi del 2019), nella seconda metà dell’anno si erano registrati cali attorno al 6%. Nelle prime settimane di quest’anno la richiesta è andata in su, sebbene ci sia stata una variazione ancora negativa del prodotto interno lordo (-1,4% rispetto al primo trimestre 2020). A spingere verso il segno positivo ci ha pensato il clima più rigido e la produzione industriale (+8%), in particolare quella dei beni più energivori. Una notizia non di poco conto se si pensa che «nel confronto internazionale, come emerge dalla rilevazione campionaria Eurostat, le imprese italiane anche nel 2020 hanno sperimentato - si legge nell’analisi - un livello di prezzi più elevato, in particolare rispetto ai paesi della moneta unica, per tutte le fasce di consumo, fatta eccezione per quella più alta corrispondente a 70.000 - 150.000 KWh». Nel secondo semestre, in corrispondenza con la ripresa delle attività economiche, prendendo a riferimento «la classe di consumo 500-2.000 KW all’anno il prezzo pagato dalle imprese italiane è in maggiorazione del 15%, e dopo quello della Germania è il più alto tra tutti quelli dei paesi dell’Unione Europea». Il minore utilizzo nei trasporti (-0,7 Mtep tendenziale), con una mobilità su valori molto inferiori a quelli prima del Covid - 19, tuttavia è stato

Nel 2020 le nuove immatricolazioni di auto ibride sono state pari a circa 222mila (più del doppio rispetto al 2019). Siamo già a oltre 120mila, invece, nei primi tre mesi del 2021, tre volte in più delle 35mila avute nello stesso periodo dello scorso anno. Le vendite di auto elettriche (pure e plug in), quasi 30mila nel trimestre iniziale del 2021, sono più che triplicate guardando al lasso di tempo corrispondente del 2020, quando si fermavano poco sopra le 8.300 unità. La quota di mercato per elettriche e ibride è cresciuta in fretta dal 2% del 2015 - 2016 a quasi il 7% nel 2019, arrivando al 20% nel 2020, risultato favorito dalle scelte degli italiani, che hanno sfruttato gli incentivi per la mobilità sostenibile. © Daniliuc Victor /shutterstock.com

controbilanciato proprio dalle maggiori necessità industriali e civili (complessivamente +1 Mtep), oltre che dagli usi non energetici. Riguardo alla produzione, si è ampliata la generazione da gas naturale (+3%) e quella dal carbone (+10% circa, dati parziali), pur se molto al di sotto del 2019. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili (Fer) è in rialzo del 6%, grazie soprattutto all’idroelettrico (+1,4 TWh, +16% tendenziale) e all’eolico (+0,4 TWh, +7%), mentre la produzione da solare fotovoltaico è al -4%, ma siamo agli inizi dell’anno nella stagione invernale. Sebbene con una contrazione nel petrolio (-9% tendenziale, -1,2 Mtep) sono in rimonta gas naturale (+1 Mtep, +5%), rinnovabili (+0,4 Mtep, +5%), importazioni nette di elettricità (+0,15 Mtep, +6%). Rivanno, inoltre, i consumi di carbone (+17% secondo dati parziali), che restano, in ogni caso, non in linea con quelli del primo trimestre 2019. L’indice sintetico della transizione energetica (Ispred, Indice Sicurezza energetica, Prezzi Energia e Decarbonizzazione) è in flessione del 18% rispetto al quarto trimestre 2020. Francesco Gracceva, il ricercatore Enea che ha coordinato la preparazione del documento, spiega che «le cause del peggioramento congiunturale dell’Ispred sono la ripresa dei consumi, l’innalzamento degli obiettivi europei per la salvaguardia del clima, ma anche i segnali di una ripresa delle emissioni di CO2 (+0,2% nel primo trimestre). Tutto ciò comporta un sostanziale allontanamento della traiettoria di decarbonizzazione del sistema. Un altro segnale negativo si registra sul fronte sicurezza, dove permangono la forte criticità nel settore della raffinazione e gli alti costi per la gestione in sicurezza del sistema elettrico. Sul lato prezzi, invece, si conferma la positiva riduzione della forbice fra l’Italia e il resto d’Europa per l’elettricità e per il gas naturale, sia all’ingrosso che al dettaglio». Quello dell’indice Ispred, purtroppo, non è l’unico campanello d’allarme. L’Italia sta perdendo terreno in settori sempre più strategici come quello delle tecnologie a bassa emissione di carbonio rispetto a grandi Paesi come Germania, Francia e Spagna, ma anche di dimensioni più ridotte come Danimarca, Olanda, Austria, Svezia e Belgio. «Ad esempio, Germania, Francia, Austria e Svezia - sottolinea Gracceva - si stanno sempre più specializzando nel campo delle batterie e della mobilità elettrica, comparto nel quale abbiamo un indice di specializzazione dello 0,6, rispetto all’1,4 della Germania e dell’1,8 di Giappone e Corea. L’unico settore ad alta specializzazione del nostro Paese è il solare termico». (G. P.). GdB | Giugno 2021

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SCIENZIATI E COMUNITÀ PER SALVARE GLI IMPOLLINATORI Il progetto Life4pollinators guidato dall’Università di Bologna punta a favorire, nell’area mediterranea, la conservazione degli insetti impollinatori e delle piante entomofile di Matteo Montanari 50 GdB | Giugno 2021


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ife4pollinators (https://www.life4pollinators.eu/en) è un progetto europeo del programma LIFE (sottoprogramma: Governance and Information) per favorire, nell’area mediterranea, la conservazione degli insetti impollinatori e delle piante entomofile, un binomio fondamentale per la conservazione della biodiversità e la salute degli ecosistemi, purtroppo minacciati dal crescente impatto della pressione antropica. Capofila di progetto è l’Università di Bologna, con i suoi Dipartimenti BIGEA, DISTAL e il Sistema Museale di Ateneo - Orto botanico, che insieme ad altri partner italiani ed europei gestiranno per 4 anni le attività previste, per un valore complessivo di oltre 2 milioni di Euro. Ne parliamo con le biologhe Marta Galloni e Giovanna Dante, rispettivamente Prof.ssa associata di Botanica sistematica e assegnista di ricerca presso il Dip. BIGEA. Marta, raccontaci qual è l’obiettivo principale del progetto? Il progetto LIFE4POLLINATORS il cui titolo completo è “Involving people to protect wild bees and other pollinators in the Mediterranean”, ha come obiettivo la conservazione degli impollinatori selvatici e la riduzione del loro declino, aumentando la consapevolezza dei cittadini e dei portatori di interesse chiave. Quali sono i paesi coinvolti nel progetto? Il progetto, che è stato cofinanziato per il 55% dal fondo LIFE nel 2018, coinvolge quattro paesi dell’Unione Europea: Spagna, Grecia, Slovenia e Italia; e sette beneficiari: l’Università di Bologna come coordinatore, il CREA-AA (Centro di Ricerca Agricoltura e Ambiente), la Coldiretti, l’Università di Vigo, l’Università dell’Egeo, il CSIC- Imedea delle Isole Baleari ed E-Zavod società privata di consulenza e comunicazione slovena. Chi sono i principali impollinatori selvatici in Europa ed in particolare nell’area mediterranea? Gli impollinatori selvatici nell’area geografica del progetto, sono rappresentati principalmente dagli imenotteri apoidei di cui si contano circa 2000 specie per lo più solitarie, oltre alla ben nota ape domestica, tuttavia anche altri insetti, come le vespe, i sirfidi e bombilidi (ditteri), i lepidotteri diurni e notturni e persino i coleotteri, rivestono un ruolo molto rilevante per l’impollinazione nei nostri climi. Che impatto hanno gli impollinatori selvatici a livello ecosistemico? Gli impollinatori selvatici oltre ad essere fonGdB | Giugno 2021

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damentali per l’impollinazione delle piante spontanee, sono necessari anche per la produzione di frutta e verdura,. E’ stimato che circa l’80% delle specie coltivate alle nostre latitudini e il 78% delle piante a fiore spontanee si affida all’impollinazione entomofila. Inoltre è stato dimostrato come la diversità degli insetti impollinatori determini frutti più numerosi e di migliore qualità. Il declino degli impollinatori selvatici per questo rappresenta un pericolo non solo per l’ambiente ma anche per la sicurezza alimentare. Puoi quantificare anche a livello economico l’impatto del servizio d’impollinazione offerto dagli impollinatori? Le stime indicano che il valore del servizio di impollinazione si aggira intorno ai 14 miliardi euro l’anno. In questi ultimi anni è stato osservato un drastico declino delle popolazioni selvatiche degli impollinatori in diverse regioni europee. Esiste un fattore geografico legato a questo fenomeno o la stima dipende dalla qualità e quantità dei dati raccolti sul campo? Il declino degli impollinatori in Europa è purtroppo ben dimostrato, tuttavia i dati disponibili sono frammentari e incompleti, riguardano prevalentemente api e farfalle e spesso non includono una valutazione dello stato di conservazione delle specie. La Lista Rossa Europea delle api riporta 1965 specie di api selvatiche, la maggioranza delle quali è presente solo nel bacino Mediterraneo, che infatti è considerato un hotspot per la biodiversità, pur essendo l’area meno monitorata. Quali sono le causi principali del declino in atto? Il declino è principalmente dovuto all’in52 GdB | Giugno 2021

tensificazione e all’aumento dell’agricoltura, all’uso dei pesticidi, al cambiamento degli usi del suolo, alla distruzione degli habitat naturali, all’introduzione delle specie invasive, al cambio climatico e all’espansione dell’apicoltura non sostenibile. Le recenti invasioni di specie di piante e insetti alloctone invasive che origine hanno? Gli insetti alieni vengono introdotti per lo più involontariamente attraverso il commercio internazionale, derrate alimentari, legname piante ornamentali e talvolta anche con merci non biologiche, come il caso della zanzara tigre probabilmente introdotta dal sud est asiatico in Italia negli anni ’90 attraverso il commercio dei copertoni usati. Sebbene anche le piante aliene possano essere introdotte in modo involontario tramite il trasporto di semi o propaguli attaccati a navi cargo, è purtroppo ancora frequente l’introduzione volontaria di specie botaniche a scopo ornamentale, che possono in seguito assumere carattere invasivo. Parliamo ora con Giovanna del progetto. Quali sono gli step e le pratiche che intendete applicare? Attraverso azioni di informazione, disseminazione e formazione cercheremo di aumentare il livello di conoscenza e di consapevolezza tra i cittadini e di cambiare i comportamenti dei portatori di interesse chiave: gestori di parchi urbani e giardini botanici, giardinieri, manutentori del verde pubblico e privato, i florovivaisti, le autorità locali e regionali, i gestori di aree protette e dei siti Natura2000, gli agricoltori e apicultori delle aree bersaglio. Il progetto prevede anche delle azioni pilota in Emilia Romagna in collaborazione con l’assessorato all’Agricoltura della Regione per sperimentare un nuovo indicatore di biodiversità per lo Sviluppo Rurale che utilizzi gli impollinatori invece degli uccelli (attualmente è in uso il Farmland Bird Index – FBI – non sempre facilmente applicabile) e per proporre un nuovo marchio per i prodotti agricoli “amici degli impollinatori” agli agricoltori che aderiscano ad un codice di condotta. Questo codice è stato redatto attraver-


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so un processo partecipativo tra il comitato scientifico del progetto e alcuni rappresentanti degli agricoltori (Coldiretti). Al momento sono in corso di finalizzazione le azioni preliminari nelle quali si è elaborato il materiale di base: guide per il riconoscimento di piante e insetti target, vari manuali di buone pratiche, il sito internet e una piattaforma per la raccolta di dati, i codici di condotta e i metodi per la valutazione e il monitoraggio degli effetti, impatti e risultati delle attività proposte. Raccontaci la novità dell’approccio Citizen Science e come questo venga declinato nell’ambito del vostro progetto Il metodo della Citizen Science o scienza partecipata, coinvolge le persone nella raccolta di dati, in questo modo vengono condivise conoscenze e si promuove la consapevolezza dei partecipanti su temi specifici. Noi prevediamo di organizzare azioni di informazione, disseminazione e formazione, che sono nello specifico: - eventi di monitoraggio collettivo chiamati miniBioblitz - workshop per agricoltori e apicoltori - incontri per la formazione dei gestori di aree protette e autorità competenti - formazione ai gestori di parchi urbani e giardini botanici, giardinieri, manutentori del verde pubblico e privato, florovivaisti - progetto di educazione ambientale per le scuole secondarie Quali sono le principali ricadute che vi attendete dal progetto? Ci aspettiamo di aumentare la consapevolezza dei cittadini e di indurre un’apertura verso un cambio nei loro comportamenti. Infatti se i portatori di interesse coinvolti inizieranno ad adottare le buone pratiche da noi suggerite, le minacce per gli impollinatori saranno ridotte e il loro declino contrastato. Possono essere coinvolti nel progetto biologi che si occupano a livello professionale di ambiente? E che vantaggi possono ricavare dal progetto? Sono previsti degli incontri di formazione, nella forma

Gli impollinatori selvatici nell’area geografica del progetto, sono rappresentati principalmente dagli imenotteri apoidei, oltre alla ben nota ape domestica, vespe, sirfidi e bombilidi (ditteri), lepidotteri diurni e notturni e persino i coleotteri, rivestono un ruolo molto rilevante per l’impollinazione nei nostri climi. © mar_chm1982 /shutterstock.com

di workshop di una giornata, con chi lavora nel campo della conservazione della natura: gestori di aree protette, amministratori locali, associazioni ambientaliste e di educazione ambientale, tecnici naturalisti e della conservazione della natura. Verranno illustrati i materiali prodotti, con un focus sull’identificazione degli impollinatori target, le minacce all’interno delle aree protette e le possibili buone pratiche da promuovere. Una formazione approfondita su queste tematiche, non sempre adeguatamente affrontate nel corso dei piani di studio dei biologi, può essere strategica anche a livello professionale visto l’interesse crescente delle istituzioni europee ed anche locali per le azioni e i progetti che riguardano la salvaguardia della biodiversità e nello specifico la conservazione degli insetti impollinatori. Inoltre i biologi possono aderire alle nostre proposte di Citizen Science come esperti volontari partecipando ad esempio ai bioblitz, che saranno svolti in Emilia Romagna, Toscana e Lombardia (n.d.r. quest’ultimo già svolto nel giugno 2021 in collaborazione con la Regione Lombardia). Invito quindi tutti i colleghi a tenere sott’occhio il sito del progetto per partecipare e seguire gli eventi proposti. © Daniel Prudek/shutterstock.com

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IN DIFESA DEI QUERCETI IL PROGETTO “RESQ” Il progetto è co-finanziato dalla Direzione generale Agricoltura, alimentazione e sistemi verdi della Lombardia nell’ambito del bando per il finanziamento di progetti in campo forestale di Gianpaolo Palazzo 54 GdB | Giugno 2021

© David Dennis/shutterstock.com


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ono ecosistemi piccoli, frazionati, ma con un enorme valore sociale e ambientale. Le foreste planiziali lombarde hanno un nuovo paladino al loro fianco: il progetto “ResQ”, che sta aiutando i ricercatori a capire il rapporto tra gli “affaticamenti” climatici - biotici e le caratteristiche genetiche individuali nella farnia. Chiamata con il nome di Quercus robur, secondo la nomenclatura binomia, introdotta dal naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (Råshult 1707 - Uppsala 1778), è un albero simbolo, poiché ha un potenziale economico ed è anche una delle specie più adatte per avviare piani per impedire il cambiamento climatico. L’aumento delle temperature, la siccità estiva, una maggiore ripetitività e violenza degli eventi meteorici intensi, la diffusione di piante non autoctone e fitopatie spesso riconducibili a nuovi patogeni, hanno contribuito difatti sensibilmente a far diminuire i boschi di farnia. Il progetto, di durata triennale, è coordinato dalla prof.ssa Paola Nola del Dipartimento Scienze della Terra e dell’Ambiente dell’Università degli Studi di Pavia, in collaborazione con l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Cnr di Firenze, con il prof. Francesco Ripullone della Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari ed Ambientali presso l’Università degli Studi della Basilicata ed è finanziato dalla Regione Lombardia. Obiettivo principale del progetto si legge sul sito dedicato è «individuare sia le cause che favoriscono il deperimento, sia le caratteristiche fenotipiche e genotipiche dei singoli alberi che lo rallentano, al fine di fornire strumenti per contrastare tale fenomeno particolarmente diffuso nelle aree protette della pianura lombarda». Gli studi sul deperimento forestale vengono portati avanti connettendo diversi ambiti di ricerca: i punti di vista ecologico, eco-fisiologico e dendroecologico sono aggregati alle indagini dendrogenomiche. Le attività sono state svolte presso il Parco del Ticino, nella località Geraci di Motta Visconti (MI), nella riserva naturale orientata “La Fagiana”, Magenta, frazione Pontevecchio (MI) e nel Parco delle Groane, boschi di Sant’Andrea di Lazzate (MB). Hanno lavorato a stretto contatto cinque gruppi di ricerca interessati al progetto, provenienti dall’Università degli Studi di Pavia, della Basilicata e dall’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del Cnr. Tra le questioni analizzate ci si è chiesti se l’indebolimento della quercia sia «dovuto alla genetica degli individui, oppure è legato

Il Parco del Ticino è il primo regionale in Italia, istituito nel 1974 per volontà popolare. Costituito da 47 Comuni e tre Province (Varese, Milano e Pavia), si estende su di un territorio di oltre 92.000 ettari con zone boscate, agricole e urbanizzate. La Valle del Ticino nel 2002, per «l’intuizione e la lungimiranza che ha dimostrato nell’arduo impegno di conciliare la vitalità dell’ambiente naturale con le esigenze umane», è stata insignita del marchio MAB (Man and Biosphere) da parte dell’UNESCO. Il Parco delle Groane, nato nel 1976, dal 1984 dispone di un Piano Territoriale per disciplinare l’uso delle aree. Nel 2019, dopo l’approvazione del nuovo statuto da parte di Regione Lombardia, ha inglobato il parco locale d’interesse sovracomunale (PLIS) della Brughiera Briantea, la Riserva Naturale della Fontana del Guercio e altri territori. © Isacco/shutterstock.com

al microambiente in cui si è insediata la pianta» e se «la disponibilità idrica nel sottosuolo o gli effetti di eventi climatici estremi di questi ultimi anni condizionano il deperimento». Per ciascun sito sono state scelte 25 coppie di piante, mente ogni accostamento è stato compiuto con due alberi spazialmente vicini (fino a 25 metri di distanza) e simili per dimensioni, distinguibili come uno sano (“non deperiente”) e uno in avanzato stato di deperimento (“deperiente”). «La deperienza - scrivono i ricercatori - è stata valutata da due osservatori analizzando la trasparenza della chioma. Una volta selezionati gli individui sono stati marcati e georeferenziati in modo da garantirne la reperibilità per ogni fase del progetto e per eventuali utilizzi futuri in base ai risultati del progetto. Su ogni coppia sono state, quindi, svolte le indagini e sono stati raccolti i dati e i campioni necessari alle fasi successive di laboratorio: sono stati prelevati campioni dendrocronologici, sono stati registrati i dati relativi alle due piante interessate (altezza, diametro, chioma..), sono stati raccolti i dati relativi alla competizione, sono state raccolte le foglie per lo studio genomico e per l’indagine fitopatologica ed è stata svolta una caratterizzazione microstazionale della vegetazione». Su ogni farnia gli elementi raccolti riguardano: gli anelli di accrescimento annuale, «che registrano gli effetti degli agenti stressogeni e danno informazioni sulle risposte climatiche ed ecofisiologiche della specie, a livello di individuo; il microambiente e il fenotipo dell’individuo, in particolare le caratteristiche legate alla capacità degli alberi di resistere ai patogeni, per fornire una caratterizzazione ecologica multidimensionale di ogni individuo; un approfondito campionamento del genoma della specie indagata, attraverso le più avanzate tecniche di next generation sequencing, alla ricerca dei geni che conferiscono resistenza alle avverse condizioni ambientali». I tanti approcci conoscitivi portati avanti serviranno a scoprire chi possa resistere o sia in grado di reagire, su base sia fenotipica sia genotipica, agli stress ambientali, quelle pressioni sull’ambiente, dovute, ad esempio, alle temperature estreme o a precipitazioni molto più intense. Quegli alberi rappresenteranno una fonte di germoplasma in situ, «base fondamentale per la conservazione e la propagazione di materiale forestale che garantisca la maggiore probabilità di resistenza alle fisiopatie e agli altri fattori di rischio collegati ai cambiamenti climatici». GdB | Giugno 2021

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ell’anno delle emergenze per un nuovo usa e getta, scatta il divieto ai vecchi monouso. Dal 3 luglio infatti in tutta Europa, come vuole la direttiva Sup (Single use plastic) decisa ormai due anni fa, scatterà lo stop alla messa in commercio di diversi prodotti di plastica monouso, dai piatti sino ai bastoncini per palloncini. Nel frattempo, però, mentre sorgono le prime polemiche sui dettagli della direttiva che mettono per esempio in difficoltà l’Italia, un altro problema è alle porte: l’inquinamento causato da un nuovo usa e getta, ovvero tutte quelle mascherine che usiamo per proteggerci dalla pandemia ma che, se accidentalmente disperse in ambiente, creano enormi danni agli ecosistemi vista sia la quantità sia la composizione di un prodotto fatto principalmente di fibre sintetiche. Mentre il problema mascherine è di nuova natura, e si stanno studiando vari sistemi nel caso saremo costretti a continuare a portarle, come per esempio dispositivi di protezione biodegradabili o riutilizzabili, o ancora una posa capillare di cestini e mezzi per il recupero, il problema dei monouso di plastica potrebbe invece trovare una prima soluzione con l’avvio della legge europea. Gli Stati membri dovranno garantire infatti che determinati prodotti in plastica monouso non siano più immessi sul mercato comunitario: saranno vietati i cotton-fioc, posate, piatti, cannucce, palette, bastoncini per palloncini realizza-

ti in plastica, contenitori alimentari in polistirolo espanso ed altri. Per facilitare questo passaggio, la commissione europea ha dettato alcune linee guida e come ha ricordato il vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo Frans Timmermans «la riduzione della plastica monouso aiuta a proteggere la salute delle persone e del pianeta. Le norme UE rappresentano una pietra miliare nell’affrontare il problema dei rifiuti marini. Stimolano anche la nascita di modelli di business sostenibili e ci avvicina a un’economia circolare in cui il riutilizzo precede l’usa e getta». Uno dei problemi insorti con la nuova direttiva è però il fatto che saranno vietati anche prodotti in plastica biodegradabile. In generale, tutto ciò che non può essere completamente riciclato e recuperato, trova dei paletti: i polimeri plastici biodegradabili e/o a base biologica sono considerati plastica ai sensi della direttiva e questo crea un problema per tutte quelle aziende e realtà impegnate nella produzione e lo sviluppo di bioplastiche. Il divieto nasce dal fatto che non c’è ancora una garanzia che certifichi come uno specifico prodotto, nel lungo periodo, sia correttamente biodegradabile nell’ambiente marino senza causare danni all’ambiente. Da qui, dunque, il divieto precauzionale anche ai prodotti biodegradabili. Una scelta che potrebbe però avere un impatto sull’economia italiana, dato che il primo produttore di bioplastiche in Europa è proprio l’I-

PLASTICA: ADDIO AGLI USA E GETTA TRA DIVIETI E POLEMICHE Dal 3 luglio stop alla messa in commercio dei monouso L’Italia della bio plastica teme però i dettagli dell’Europa 56 GdB | Giugno 2021


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talia. Sul tema sono intervenuti diversi esponenti politici, fra cui il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti che aveva indicato che per l’Italia «si potrebbe pensare di porre una riserva sull’entrata in vigore della direttiva che riguarda anche settori tipo quello della carta che oggettivamente non mi sembrano così negativi sotto l’aspetto ambientale come quello della plastica», sosteneva. Critiche espresse poi anche dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Dopo le iniziali polemiche però il ministro Cingolani, che aveva espresso preoccupazione in particolare sia per le ricadute economiche sia per le incertezze della direttiva come quelle relative a materiali misti (per esempio plastica e carta), ha spiegato che «l’accordo con Bruxelles è già trovato. Il problema non c’è, grazie a un’interlocuzione più tecnica che politica, che fa bene a tutti. L’accordo è che si continueranno a rivedere le linee guida in funzione delle nuove soluzioni tecnologiche, ed è stato riconosciuto il fatto che, se ho un bicchiere di carta che è il 90% carta e il 10% plastica, non me lo pesano come tutto

Dal 3 luglio infatti in tutta Europa, come vuole la direttiva Sup (Single use plastic) decisa ormai due anni fa, scatterà lo stop alla messa in commercio di diversi prodotti di plastica monouso, dai piatti sino ai bastoncini per palloncini. ©

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plastica, ma riconoscono che c’è solo il 10%. Quando io ho parlato con il vicepresidente Timmermans, ci siamo confrontati con la massima serenità e abbiamo convenuto senza alcun contrasto - ha spiegato - siamo tutti d’accordo che la plastica vada ridotta. Non esiste discussione su questo punto». In attesa di conoscere se ci saranno, nel tempo, nuovi sviluppi legati all’applicazione della direttiva, per i cittadini e i consumatori sarà invece importante sapere quali prodotti non circoleranno più in commercio, sempre tenendo presente che nel frattempo - dai prodotti di cartone a quelli di bambù - la distribuzione sta cercando alternative che abbraccino un reale cambiamento sempre più green. Fra i principali prodotti da tener presente, come detto, addio dunque a posate, piatti, cannucce, palette, bastoncini per palloncini, tazze, contenitori per alimenti e bevande in polistirolo e prodotti in plastica oxo-degradabile. Per altri prodotti in plastica invece, come attrezzi da pesca, sacchetti di plastica monouso, bottiglie, alcuni contenitori per bevande e alimenti per il consumo immediato, pacchetti e involucri, filtri per tabacco, articoli sanitari e salviettine umidificate, si applicano misure diverse che andranno comunque verso la «limitazione del loro uso e la riduzione del loro consumo», con schemi di responsabilità per il produttori basati sul principio di «chi inquina paga». (G. T.).

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SRI LANKA PARADISO PERDUTO? Quello avvenuto al largo di Colombo, dove una nave cargo in fiamme ha rilasciato tonnellate di sostanze chimiche e di plastica, potrebbe essere uno dei peggiori disastri ecologici di sempre

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a vita di migliaia di specie minacciata da miliardi di minuscole palline. Non solo, anche di acidi, sostanze chimiche, idrocarburi e materiale di vario tipo altamente inquinante. Quella avvenuta in Sri Lanka tra la fine di maggio e inizio giugno, con le parole delle Nazioni Unite, è una tragedia mondiale, un “disastro ecologico per il Pianeta”. La nave Mv X-Press Pearl, dopo un incendio durato 13 giorni al largo di Colombo è semi affondata e ha rilasciato in acqua gigantesche quantità di inquinanti. In particolare, miliardi di minuscole palline, dette “nurdles”, plastic pellet o lacrime di sirena, microsfere di plastica che erano destinate all’industria per la produzione di oggetti in

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plastica e che ora si ritrovano - si stima più di 3 miliardi di pezzi- fra coste, spiagge e fondali. Plastica che ha già ucciso tartarughe, pesci, forse anche cetacei e molluschi e che secondo gli ambientalisti locali farà danni enormi ai delicati ecosistemi dello Sri Lanka in futuro. A tentare di ripulire le coste sono già intervenuti centinaia di operatori tra volontari, attivisti, personale dell’esercito e del Mepa (Marine Environment Protection Authority), ma la situazione sembra di difficilissimo controllo. Mentre prosegue l’inchiesta sull’accaduto, con l’arresto preventivo del comandante della nave, il russo Vitaly Tyutkalo, cresce la preoccupazione per il futuro dell’ecosistema al largo sia della costa ovest, che di quella sud ed est, dove


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a causa delle correnti si sono riversati centinaia di inquinanti, tra cui acido nitrico e idrossido di sodio. Sostanze chimiche che mettono a rischio le zone costiere tra Colombo e Negombo, ricche di mangrovie, le spiagge turistiche del sud e persino i parchi nazionali della costa sud-est. Secondo la biologa marina Asha de Vos e la sua associazione Oceanswell inoltre le palline, proprio a causa del moto ondoso, continueranno a riversarsi nel tempo in varie zone dello Sri Lanka, mettendo a rischio per esempio la vita delle affascinanti e simboliche tartarughe marine, di cui il paese ospita cinque specie sulle sette conosciute. A rischio sono anche le barriere coralline del paese, già fragili per inquinamento da plastica e crisi climatica, e non è chiaro fino a quanto l’intervento di ripristino dell’uomo sarà utile per poterle salvare. Secondo alcuni esperti dell’Università dello Sri Lanka, «le barriere coralline sono particolarmente sensibili agli aumenti prolungati della temperatura dell’acqua di mare e ai cambiamenti del valore del pH. Nello scenario attuale, la fuoriuscita di acido nitrico può causare aumenti di temperatura e cambiamenti di pH dell’area, aumentando i rischi di sbiancamento e morte dei coralli». Terribili poi anche le immagini e i primi dati raccolti sulla moria di diversi uccelli marini. Inoltre, dalle testimonianze di alcuni pescatori, che hanno tirato su le ultime reti prima dei divieti (anche in zone lontano dall’incidente) si è scoperto che molte reti erano ricoperte da fibre sintetiche e altri materiali: questo indica

Quella avvenuta in Sri Lanka tra la fine di maggio e inizio giugno, con le parole delle Nazioni Unite, è una tragedia mondiale, un “disastro ecologico per il Pianeta”. La nave Mv X-Press Pearl, dopo unincendio durato 13 giorni al largo di Colombo è semi affondata e ha rilasciato in acqua gigantesche quantità di inquinanti. © A_Lesik /shutterstock.com

che i fondali della zona sono zeppi di materiali inquinanti provenienti dalla nave bruciata. In particolare, a preoccupare ci sono diversi contenuti dei 1.486 container che erano a bordo, come per esempio quelli “tossici” di 81 container che contenevano alcuni prodotti chimici per cosmetici oppure lingotti di piombo. «I danni all’ecosistema marino sono incalcolabili» ha detto Hemantha Withanage, direttore esecutivo del Center for Environmental Justice dello Sri Lanka. Lungo miglia e miglia, per oltre 100 chilometri, la pesca è stata inoltre sospesa: un divieto precauzionale che mette a rischio oltre 4.300 famiglie. «La maggior parte delle persone - spiegano dai villaggi - vive con un pasto al giorno. Quanto tempo possiamo andare avanti così? O il governo ci permette di pescare o ci deve dare un risarcimento». Mentre si inizia a parlare di calcoli per il risarcimento degli abitanti delle zone costiere, tiene banco l’emergenza ambientale di cui ora si sta occupando anche l’Onu. Secondo il coordinatore delle Nazioni Unite in Sri Lanka, Hanaa Singer-Hamdy, il disastro ecologico della nave andata a fuoco «minaccia la vita degli ecosistemi e i mezzi di sussistenza della popolazione nelle aree costiere». Nel frattempo, recuperata la “scatola nera”, il registratore con i dati della nave, si sta tentando di fare chiarezza sulle cause dell’incendio e sono state aperte più indagini sull’incidente. I media locali, in attesa di analisi più approfondite, riportano che sarebbero già 50 le tartarughe morte recuperate e almeno otto i delfini, senza contare centinaia di altri piccoli organismi marini. Per quanto riguarda le 300 tonnellate di petrolio a bordo, sembra invece per ora scongiurata la fuoriuscita, considerando anche che buona parte potrebbe essere bruciata durante l’incendio. Resta però il problema di riuscire a rimuovere al più presto i resti della nave e recuperare altri container che potrebbero contenere sostanze pericolose: ma nelle ultime settimane è stato impossibile operare a causa dei monsoni e delle alluvioni che hanno fatto vittime e devastato diverse parti del Paese. In tutto questo complicato contesto, mentre lo Sri Lanka chiede 40 milioni di dollari di danni agli operatori della nave, si temono anche le future ripercussioni turistiche di un paradiso marino, quello delle coste dello Sri Lanka, che oggi “piange” e rischia di rimanere profondamente ferito per lunghissimo tempo. (G. T.). GdB | Giugno 2021

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aggiù, lontano dai nostri occhi, tutto cambia. Enormi masse, piattaforme grandi quanto uno stato, tonnellate di ghiaccio accumulate in migliaia di anni, si sgretolano, si trasformano, si spostano. Molti di questi cambiamenti che riguardano l’Antartide sono fisiologici, altri dettati dalle conseguenze di fenomeni - come la crisi climatica - che hanno accelerato questi cambiamenti soprattutto negli ultimi vent’anni. Queste modifiche, in un Pianeta sempre più caldo, non hanno solo un impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità del polo, ma presto - e si parla di qualche decina di anni - potrebbero avere effetti tangibili sulle vite di tutti gli abitanti del Pianeta, per esempio a causa dell’innalzamento dei livelli del mare. L’Antartide, infatti, si sta sgretolando più velocemente del previsto. A maggio le cronache mondiali hanno raccontato come una superficie di 4.320 chilometri quadrati, un iceberg chiamato A-76, si sia staccato dalla piattaforma di ghiaccio Ronne Ice Shelf e cominciando ad andare alla deriva. Si stima sia l’iceberg più grande del mondo e vaga nel mare di Weddell. Monitorato dalla British Antarctic Survey e dalle immagini del satellite europeo Sentinel 1 (Copernicus) questa enorme piattaforma che ha una superficie grande quanto Maiorca nelle Baleari, è solo una delle ultime gigantesche masse di ghiaccio che si sono staccate.

Ogni due anni in media, in maniera fisiologica, questo fenomeno si ripete. Per gli esperti è qualcosa che è nella normalità del comportamento dei ghiacci, e non sempre è detto che ci sia una relazione con la crisi climatica, ma secondo i ricercatori i cambiamenti che avvengono nella criosfera potrebbero portare l’Antartide a mutare sempre più velocemente e, proprio a causa delle temperature, a portare alcuni ghiacciai al punto di non ritorno. Uno di questi, dei ghiacciai che secondo gli esperti stanno toccando il “punto di non ritorno”, è Pine Island. Insieme al vicino Thwaites, questi due ghiacciai sono due di quelli più importanti dell’Antartide occidentale per volume di ghiaccio e potenziale impatto sull’innalzamento del livello dei mari del mondo. Entrambi accelerano il loro processo di distaccamento e disgregazione, facendo temere per i possibili impatti sugli oceani. Da soli sono i potenziali responsabili di circa il 10% del continuo aumento del livello del mare globale. Recenti ricerche ci dicono ora che questi due ghiacciai stanno avanzando celermente il loro possibile processo di disgregazione per via di fenomeni collegati. Ad aprile, i ricercatori della Northumbria University, hanno parlato per Pine Island di punto di non ritorno e le dinamiche che coinvolgono questo ghiacciaio grande come due terzi del Regno Unito sembrano - anche a causa degli

ANTARTIDE, I “CONTR

Preoccupa il ritmo sempre più rapido con che “contengono” i grandi ghiacciai, tra cui di Giacomo 60 GdB | Giugno 2021


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effetti del surriscaldamento - ormai irreversibili. Nei secoli, lo scioglimento di questo ghiacciaio sostengono gli esperti - potrebbe infatti portare a un collasso della calotta glaciale occidentale innalzando i mari di oltre tre metri. Una nuova ricerca dell’Università di Washington e del British Antarctic Survey, pubblicata su Science Advances, aggiunge che Pine Island e Thwaites potrebbero finire per rilasciare in acqua tonnellate di ghiaccio molto prima di quanto previsto da modelli e simulazioni. In particolare, il problema di Pine Island sembra essere legato alle piattaforme che lo circondano. Queste sono da considerare come un “contrafforte curvo di una chiesa”, spiegano i ricercatori, in sostanza come le travi e i sistemi che permettono per esempio a Notre Dame di reggersi in piedi, se volessimo fare un esempio. Le piattaforme che fanno da contrafforte si stanno assottigliando, secondo la nuova ricerca, molto velocemente negli ultimi tre o quattro anni: calano da decenni, ma dal 2017 ad oggi il ritmo è più rapido, preoccupante. Se finissero per disgregarsi, soprattutto a causa di correnti d’acqua più calde che le fanno assottigliare, la potenziale assenza di queste piattaforme contenitive potrebbe contribuire al collasso di Pine Island e di Thwaites. «Potremmo non avere il lusso di aspettare lenti cambiamenti su Pine Island. Le cose potrebbero effettivamente andare molto più velocemente del previsto»

Queste modifiche, in un Pianeta sempre più caldo, non hanno solo un impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità del polo, ma presto - e si parla di qualche decina di anni - potrebbero avere effetti tangibili sulle vite di tutti gli abitanti del Pianeta. © PhotoAdventure Studio /shutterstock.com

ha spiegato l’autore principale della ricerca Ian Joughin, glaciologo dell’University of Washington, Applied Physics Laboratory. «I processi finora studiati in questa regione stavano portando a un collasso irreversibile, ma a un ritmo abbastanza misurato. Le cose però potrebbero essere molto più brusche e veloci se perdiamo il resto di quella piattaforma di ghiaccio». Le previsioni dei ricercatori sostengono che Pine Island contenga circa 180 trilioni di tonnellate di ghiaccio: se fossero rilasciate in mare si tradurrebbero nell’innalzamento globale degli oceani di circa 0.5 metri. Se entrambi i ghiacciai finissero per collassare poi potrebbero innalzare i livello dei mari di diversi metri nel corso dei secoli. Sebbene per ora la situazione sia ancora parzialmente stabile, è il ritmo a preoccupare: per vent’anni lo scioglimento delle piattaforme ha accelerato muovendosi verso il mare da 2,5 chilometri l’anno a 4 chilometri, poi la velocità si è stabilizzata per un decennio e ora è ripresa e accelera notevolmente, ci dicono le immagini satellitari. Come chiosa Joughin, dunque, è necessario continuare ad osservare questa accelerazione. «Non è ancora catastrofica a questo punto. Ma se il resto di quella piattaforma di ghiaccio si rompe e se ne va, allora gli impatti si faranno davvero sentire per tutti».

, PERDIAMO AFFORTI”

cui si disgregano le piattaforme di ghiaccio Pine Island. Senza di loro, si rischia il collasso Talignani GdB | Giugno 2021

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L’ECOSISTEMA DUNALE DEL LITORALE ROMANO Cosa rimane dell’originario sistema dunale costiero nel comune di Fiumicino, in provincia di Roma di Daniela Pascucci*

Focene (Roma).

L’

habitat costiero del litorale romano è di tipo sabbioso e originariamente era ricoperto per tutta la sua estensione dal sistema dunale. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso incomincia il fenomeno erosivo della costa, causato dalla creazione di sbarramenti e dal prelievo di sabbia e altri materiali dal bacino del Tevere, mentre anche la vegetazione che cresce sulla duna incomincia progressivamente a scomparire a causa della pressione antropica (ad es. eccessivo calpestio e/o sbancamento della duna, pulizia meccanica delle spiagge, distruzione del cordone dunale per scopi edilizi). Inizia così la fine dell’ecosistema dunale costiero, ovvero dell’ultimo baluardo naturale di difesa della costa dall’erosione, mentre noi ancora non lo avevamo capito. Di questo originario sistema dunale nel Comune di Fiumicino sono rimasti ora solo alcuni cordoni dunali visibili nelle località “Riserva di Coccia di Morto” e “Zona Radar” a Focene Sud, “Mare Nostrum”, tra Focene Nord e Fregene Sud, “Bocche di Leone” a Maccarese, nel tratto costiero *

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Biologa ambientale.

settentrionale di Passoscuro ed infine in località “Ospedale Bambin Gesù” a Palidoro (Fig. 1). E’ interessante osservare come si siano conservati solo questi sistemi dunali ubicati in prossimità delle foci dei corsi d’acqua, probabilmente perché le aree umide sono instabili e non balneabili, e quindi non poterono essere sfruttate dall’uomo come invece accadde alle restanti porzioni dunali sul territorio comunale. Ora queste aree sono inserite all’interno della Riserva Naturale Statale del Litorale Romano (R.N.S.L.R.), istituita con Decreto del Ministero dell’Ambiente del 29 marzo 1996, visto il loro elevato valore naturalistico e quindi sono totalmente protette dalla

Fig. 1 – Comune di Fiumicino - Località del litorale con cordoni dunali ancora visibili.


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© NoyanYalcin/shutterstock.com

legge. Si deve inoltre osservare che i cordoni dunali ancora presenti non solo assumono un’importanza rilevante per il loro alto valore naturalistico e paesaggistico, ma rappresentano anche una componente importante della nostra identità culturale, quali cittadini di questo territorio che si affaccia sul mare. Essi sono però anche gli ecosistemi più vulnerabili e più seriamente minacciati di estinzione a livello planetario; urge pertanto seria cura e controllo a che ciò che resta non vada mai più perduto, per noi che abitiamo questi luoghi e per tutte le generazioni future. Struttura e formazione della duna costiera La definizione che si può dare al termine “duna” è quella di essere un corpo sabbioso di origine eolica, perché si forma per l’azione del vento a contatto con il terreno. Le dimensioni delle dune possono variare da qualche metro fino anche a 100 metri di altezza. Si trovano dune nei deserti ed anche dune fossili, come quelle del Delta del Po, che rappresentano l’antico confine tra terra e mare, prima che il Po, con il trasporto dei detriti, determinasse l’avanzamento della linea di costa. In Italia le dune sono soprattutto quelle che si osservano lungo le

coste sabbiose e basse (Fig. 2) e sono costituite soprattutto da sedimenti fini incoerenti portati dai fiumi e dal moto ondoso che trasporta e rideposita i sedimenti secondo le principali correnti marine. La formazione delle dune quindi dipende dal bilancio tra la sabbia continuamente trasportata dal vento e quella sottratta dal vento stesso, ma anche da altri fattori (ad es. mareggiate). Se il bilancio è positivo, cioè la sabbia apportata è maggiore di quella sottratta, si formano le dune, viceversa si ha l’erosione della costa. In generale, si può dire che maggiore è la forza del vento, maggiore è l’apporto di sabbia e quindi anche l’altezza delle dune. Lungo la coste occidentale della Sarde-

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso incomincia il fenomeno erosivo della costa, causato dalla creazione di sbarramenti e dal prelievo di sabbia e altri materiali dal bacino del Tevere. © Catarina Belova /shutterstock.com

Fig. 2 – Duna costiera a Passoscuro.

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Fig. 3 – Azione del vento sulla duna priva di vegetazione.

gna, che è molto ventosa, le dune possono raggiungere anche i 20 metri di altezza; più imponenti sono le dune delle coste Atlantiche, perché queste sono di gran lunga più ventose. Lungo il Litorale Romano, invece, l’intensità del vento non è molto elevata, pertanto le dune non sono né alte, né profonde, ma si presentano come lievi ondulazioni del terreno. Le dune quindi subiscono spostamenti lenti, man mano che il vento spinge in salita la sabbia fino alla cresta. In questo modo il lato sopravvento subisce un decremento, mentre il lato sottovento, su cui la sabbia ricade per gravità, viene ad accrescersi (Fig. 3). Nel sistema eolico tipico del Litorale Romano, la presenza di vegetazione sulle dune ha un ruolo importante nel mantenimento delle dune stesse, poiché rallenta il vento e favorisce la deposizione di sabbia rispetto all’erosione. Le piante inoltre con il loro apparato radicale trattengono la sabbia che si è depositata, favorendone quindi l’accumulo in dune. Il duo pianta-apparato radicale quindi lavora in sinergia (Fig. 4), perché mentre il corpo vegetale in superficie ostacola

Fig. 4 – Schema dell’accumulo di sabbia ad opera della vegetazione dunale.

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il vento e fa ricadere la sabbia, l’apparato radicale la mantiene ferma nel punto in cui essa è ricaduta. Se non ci fossero le piante, non si sarebbero mai formate le dune lungo le nostre coste e quindi non si sarebbe mai evoluto questo meraviglioso ecosistema dunale costiero. Visto quanto sopra illustrato, dal punto di vista ecologico è perciò lecito affermare che, là dove manca la vegetazione lungo le nostre coste, è assente anche la dune ed il vento è quindi libero di trasportare la sabbia fino al prossimo ostacolo, che non è più una pianta, ma il primo muro di confine con la spiaggia, che di solito è quello del lungomare. Le piante che crescono sulla duna sono quindi specie vegetali autoctone e protette, che possono vivere solo in questo ecosistema e che hanno una importanza fondamentale nel tutelare la linea di costa e quindi nel far si che venga preservato dall’erosione e mantenuto nel tempo questo spazio fisico in cui anche noi viviamo, che chiamiamo “territorio” e che invece andrebbe definito più propriamente come “patrimonio territoriale”. Ambiente dunale costiero L’ambiente costiero, e quello dunale nello specifico, rappresentano un sistema molto articolato e complesso, poiché in uno spazio ristretto si viene a verificare il repentino passaggio dall’ecosistema marino a quello terrestre. Pertanto esso può ben rappresentare un confine tra due mondi completamente diversi, nel quale rileviamo forti gradienti ambientali in funzione della distanza dalla costa (Fig. 5). La concentrazione della materia organica, dei nutrienti e dell’acqua dolce, nonché la compattazione del suolo, incrementano con l’aumentare della distanza dal mare, mentre si riduce progressivamente l’inten-

Fig. 5 – Gradienti ambientali in funzione della distanza dalla costa-


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Fig. 6 – Zonazione della duna costiera.

sità dell’aerosol, della salsedine e del vento verso l’entroterra. Nelle mie attività di monitoraggio dei corsi d’acqua dolce lungo il litorale romano ho potuto però osservare da anni che si sta verificando il fenomeno della risalita del cuneo salino, ovvero dell’ingressione di acque salate nelle falde acquifere sottocosta. Questo fenomeno ha probabilmente una origine antropica, dovuta all’eccessivo sfruttamento delle acque sotterranee rispetto alla loro capacità di ricarica, che avviene quando l’acqua meteorica si infiltra nel terreno e scorre nel sottosuolo. In prossimità della battigia non possono crescere piante, poiché l’azione delle mareggiate è molto intensa e frequente e perché intrisa di acqua salata. Qui osserviamo però l’accumulo di detriti (troppo spesso anche rifiuti di origine antropica!) ad opera delle mareggiate stesse, così come gusci di conchiglie, legnetti, alghe, animali morti, ossia sostanze da decomporre e che sono fonte di cibo per molte specie di insetti ed invertebrati che vivono sul bagnasciuga. Un po’ più distante dal mare, dove solo le mareggiate più forti possono arrivare e dove si è accumulato nel tempo uno strato più spesso di detrito fertile, si incomincia a formare la duna. Una caratteristica più eviden-

Fig. 7 – Ravastrello marino.

Fig. 8 – Erba cali (Salsola kali).

Fig. 9 – Euforbia delle spiagge.

te della duna è la zonazione delle comunità vegetali, poiché a partire dalla parte più alta della battigia verso l’interno si osservano 4 fasce principali o biocenosi (Fig. 6). Ciascuna fascia è caratterizzata da specifiche condizioni ambientali e dalla presenza di specie vegetali proprie: 1) Duna mobile: sono piccoli accumuli di sabbia in cui si trovano piante con ciclo biologico breve (Fig. 7-8-9). Esse germinano a fine inverno con stadio vegetativo di

Le dune subiscono spostamenti lenti, man mano che il vento spinge in salita la sabbia fino alla cresta. In questo modo il lato sopravvento subisce un decremento, mentre il lato sottovento, su cui la sabbia ricade per gravità, viene ad accrescersi © Pinky Kaempfer /shutterstock.com

Fig. 10 – Gramigna delle spiagge (Elymus farctus = Agropyron junceum).

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circa 2 mesi, in cui fioriscono, producono semi e seccano; i semi restano quiescenti fino all’autunno. Si tratta di un adattamento per resistere alla precarietà dell’habitat soggetto al forte vento e alle mareggiate più intense. Benché pioniere, queste piante costituiscono un primo ostacolo al vento e così la sabbia incomincia ad accumularsi. 2) Duna embrionale: ad una certa distanza dal mare e lontano dalle mareggiate si trova la Gramigna delle spiagge (Fig. 10) (Elymus farctus = Agropyron junceum), pianta perenne, della stessa famiglia botanica del mais e del riso, dalle foglie grigiastre e dalla spiga simile a quella del grano, adatta alla vita sulla sabbia (psammofila) e resistente al vento, con lunghi rizomi che strisciano sulla sabbia e sotto di essa, compattandola. Poiché la pianta è perenne, l’occupazione del suolo diventa stabile. Il vento, passando attraverso la gramigna, rallenta e lascia cadere i granelli di sabbia che trasporta. Si formano quindi piccoli accumuli di sabbia, che sono embrioni delle dune, e la vegetazione modella e costruisce il proprio ambiente. 3) Duna primaria: quando le dune embrionali hanno raggiunto una certa consistenza ed una certa distanza dal mare, compare un’altra Graminacea, l’Ammofila (Ammophila littoralis) (Fig. 11), che si riconosce facilmente perché ha ciuffi piuttosto alti e fitti, di colore giallastro, mentre le spighe sono poco appariscenti. L’Ammofila può essere definita un edificatore di dune, perché ha radici fitte, profonde e ramificate, che trattengono molto

Fig. 11 – Ammofila (Ammophila littoralis) e particolare della spiga-

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Da in alto a sinistra,fig. 12 - Camomilla marina (Anthemis maritima); fig. 13 – Calcatreppola marina (Eryngium maritimum), fig. 14 – Finocchio di mare (Echinophora spinosa); fig. 15 – Erba medica marina (Medicago marina); Fig. 16 – Vilucchio di mare (Calystegia soldanella).

bene la sabbia e contrastano appieno l’erosione, mentre ogni qualvolta il vento ricopre di sabbia la pianta, essa è stimolata ad accrescersi. Così la sabbia che arriva è subito immobilizzata e la duna si preserva ed aumenta in altezza. Al riparo dell’Ammofileto possono crescere specie più delicate, con fioriture vistose, come la Camomilla marina (Anthemis maritima) (Fig. 12), la Calcatreppola marina (Eryngium maritimum) (Fig. 13), Da sopra, fig. 17 – Gigli di mare (Pancratium maritimum); fig. 18 – Ononide (Ononis variegata); fig. 19 – Crucianella (Crucianella maritima).


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Da sopra, fig. 20 – Stracciabraghe o Salsapariglia (Smilax aspera); fig. 21 Caprifoglio (Lonicera implexa); fig. 22 - Cisto marino (Cistus incanus); fig. 23 - Asparago costiero (Asparagus aphyllos).

il Finocchio di mare (Echinophora spinosa) (Fig. 14), l’Erba medica marina (Medicago marina) (Fig. 15) e il Vilucchio di mare (Calystegia soldanella) (Fig. 16). Dietro l’Ammofila (retroduna) il vento è sufficientemente smorzato da far si che si accumuli un suolo più ricco di sostanze nutritive in cui si sviluppano il Giglio di mare (Pancratium maritimum) (Fig. 17), l’Ononide (Ononis variegata) (Fig. 18) e la Crucianella (Crucianella maritima) (Fig. 19). 4) Duna consolidata: è la duna della fascia più interna, a poche decine di metri dal mare, in cui gli effetti del vento e dell’erosione sono quasi assenti. Anche qui l’Ammofila è la specie predominante, ma con individui di minori dimensioni ad accrescimento lento, perciò la copertura del suolo è maggiore. Qui possono crescere i primi cespugli di macchia mediterranea, che rafforzano definitivamente la duna, che quindi non si sposta, né si modifica più sotto l’azione del vento. Il vento comunque sferza ancora le foglie dei cespugli, che crescono fitti e compatti, con una forma aerodinamica, cioè più bassi verso il mare e più alti verso terra. La duna consolidata, in sezione,

Fig. 24 – Pino domestico (Pinus pinea).

ha una forma triangolare, detta “cuneo dunale”, che è indice di un adattamento, perché offre una minore resistenza al vento che spira dal mare. I cespugli della duna sono rappresentati dalle specie sempreverdi Leccio (Quercus ilex), Corbezzolo (Arbutus unedo), Lentisco (Pistacia lentiscus), Ginepro (Juniperus spp.), insieme con alcune liane, quali lo Stracciabraghe o Salsapariglia (Smilax aspera) (Fig. 20), il Caprifoglio (Lonicera implexa) (Fig. 21), il Cisto marino (Cistus incanus) (Fig. 22) e l’Asparago costiero (Asparagus aphyllos, più duro e spinoso di quello comune) (Fig. 23). Alle spalle della duna consolidata cresce il bosco di Leccio, ma con aspetto di foresta. Può essere presente anche la pineta, costituita da esemplari di pino domestico (Pinus pinea) (Fig. 24). 5) Depressioni interdunali: corrispondono a fasi in Da sopra, fig. 25 – Giunco nero cui l’accrescimento (Juncus acutus); fig. 26 - Iris giallo dei cordoni dunali è (Iris pseudacorus); fig. 27 - Rospo stato più lento, così smeraldino (Bufo viridis). si è creata una de-

L’Ammofila può essere definita un edificatore di dune, perché ha radici fitte, profonde e ramificate, che trattengono molto bene la sabbia e contrastano appieno l’erosione, mentre ogni qualvolta il vento ricopre di sabbia la pianta, essa è stimolata ad accrescersi. © JeanLucIchard/shutterstock.com

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Ambiente

Fig. 28 – S.I.C. Isola Sacra a Fiumicino.

pressione anziché una collinetta. In queste depressioni a seguito degli apporti meteorici si formano spesso degli stagni di acqua dolce in cui si trova una flora ed una fauna diversa da quella della duna. In queste aree umide infatti si trovano specie vegetali ed animali particolari e rare, quali il Giunco nero (Juncus acutus) (Fig. 25), l’Iris giallo © Mariusz Hajdarowicz/shutterstock.com

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(Iris pseudacorus) (Fig. 26) e il Rospo smeraldino (Bufo viridis) (Fig. 27). Le zone umide interdunali stanno scomparendo, perché bonificate per essere utilizzate dall’uomo. Lungo il litorale di Fiumicino si trova un Sito di Importanza Comunitaria (S.I.C.) denominato Isola Sacra (IT 6030024) (Fig. 28), con superficie di 26 ha e situato in prossimità del Vecchio Faro alla foce del Tevere. Si tratta di una depressione dunale periodicamente inondata, importante dal punto di vista floristico per la presenza di una prateria a Salicornie perenne (Fig. 29). La perdita dei sistemi naturali è sempre un degrado, non solo ambientale, ma anche culturale, perché si sono perse le fasi “di contatto” con il territorio. Si è perso il paesaggio e quindi si è persa anche l’identità


Ambiente

locale. Desidero far osservare che le località del territorio del Comune di Fiumicino che affacciano sul mare e indicate nella precedente Fig. 1, tutte tra l’altro recanti ancora e fortunatamente la presenza di cordoni dunali relittuali, sono anche tutte accomunate dall’avere una economia locale legata alla pesca ed al turismo. Ritengo che sia necessario quindi “presentarsi” a chi viene a trovarci non solo con uno sfondo estetico da ammirare, cioè con un “bel paesaggio costiero”, ma anche con una espressione viva e dinamica di una cultura profondamente radicata sul territorio. Nella corretta gestione delle risorse ambientali non dobbiamo dimenticare l’importanza di questi ecosistemi naturali, ovvero le dune costiere del litorale romano, che ancora esistono e “resistono” sul nostro territorio, anche alla luce di quanto possono essere i costi della loro perdita, per noi e soprattutto per le generazioni future.

Non possiamo lasciare che la casualità degli eventi, che fino ad oggi ha indirizzato la gestione delle risorse ambientali a livello globale, si trascini via pure il buono che è restato. La valutazione degli ecosistemi dunali deve portare non solo al loro mantenimento, ma anche al loro ripristino su tratti costieri sempre più ampi, al fine di poter contribuire non solo alla salvaguardia di importanti habitat, ma anche alla ricostruzione di quanto si è perso, attraverso le conoscenze e le competenze proprie della nostra professione.

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Fig. 29 – Salicornia (Salicornia europaea).

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Ambiente

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IN VENERE VERITAS: LA NASA SCEGLIE LA SAPIENZA Il progetto a cui l’ateneo romano ha fornito un contributo determinante per la realizzazione è stato scelto dalla NASA per l’esplorazione di Venere

di MIchelangelo Ottaviano

I

l pianeta Venere ha costantemente suscitato grande interesse nella comunità scientifica. Chiamato anche stella della sera o stella del mattino, poiché visibile soltanto poco dopo il tramonto o poco prima dell’alba, è stato da sempre considerato come il pianeta cugino della Terra per dimensioni, massa e distanza dal Sole molto simili. Per motivi tuttora sconosciuti, Venere ha però intrapreso un percorso evolutivo molto diverso da quello del nostro pianeta. Anche se studi recenti hanno svelato l’ipotesi di un passato

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del pianeta molto più simile a quello della Terra, al contrario di quel che si pensava fino a poco tempo fa, Venere è diventato uno dei luoghi più inospitali del sistema solare. La sua densa atmosfera, composta in gran parte di anidride carbonica e nubi di acido solforico, ha una pressione al suolo 90 volte maggiore di quella terrestre e temperature medie di 460 °C. Tuttavia, attualmente gli unici dati globali sulla sua superficie e struttura interna sono stati forniti dalla sonda Magellan della NASA, ormai più di 25 anni fa, nel 1994-95.

Ma proprio in questo mese, la stessa NASA ha annunciato la missione spaziale VERITAS, un progetto che vede coinvolto in maniera determinante il gruppo di ricerca dell’università di Roma La Sapienza. La navicella sarà lanciata tra il 2026 e il 2028, e ospiterà a bordo una strumentazione molto sofisticata finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI) a cui ha contribuito il gruppo di ricercatori dell’ateneo romano. Il team Sapienza, coordinato da Luciano Iess (Co-Lead dell’esperimento di gravità), è composto da giovani ricercatori del Centro di Ricerca Aerospaziale Sapienza (CRAS), del Dipartimento di Ingegneria meccanica aerospaziale (DIMA) e del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Elettronica e Telecomunicazioni (DIET). I ricercatori del CRAS-DIMA (Gael Cascioli, Fabrizio De Marchi, Paolo Racioppa), hanno condotto, attraverso simulazioni numeriche, la definizione dell’esperimento di gravità, dedicato alla determinazione della struttura interna del pianeta. I ricercatori del DIET (Roberto Seu e Marco Mastrogiuseppe, Co-Lead del radar VISAR) hanno contribuito allo sviluppo di tecniche di elaborazione dei dati del radar ad apertura sintetica, con lo scopo di individuare la presenza di processi geologici superficiali recenti. Gaetano di Achille, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, completa la partecipazione italiana con le competenze sulla struttura geologica del pianeta. VERITAS si propone di dare una risposta alle molte domande della comunità scientifica riguardanti non solo l’evoluzione passata, ma anche quella presente e futura, in particolare ricercando la presenza di vulcani attivi e di processi dinamici superficiali, quali la tettonica a placche. VERITAS sarà inoltre in grado di determinare la composizione e struttura interna del pianeta, fornendo ulteriori indizi per la comprensione non solo dei pianeti rocciosi, ma anche di una classe di esopianeti con caratteristiche simili.


Ambiente

K

ierkegaard diceva che la vita può essere capita solo all’indietro, ma deve essere vissuta in avanti. Senza entrare nel dettaglio filosofico, ma senza nemmeno trasformare il celebre aforisma ad una mera lezione di vita, si può facilmente comprendere il senso più superficiale: bisogna andare avanti facendo tesoro delle esperienze senza commettere gli stessi errori. In questa prospettiva filo-esistenzialista, i trattamenti riservati alla Terra sono un esempio di ciò che l’uomo ha capito guardandosi alle spalle. Ora, è chiamato a gran voce da madre natura a vivere in avanti proteggendola. Un esempio tra i tanti può esser fatto con il problema della deforestazione e della conversione delle foreste in terreni di produzione, che riguarda in particolare le aree tropicali e subtropicali. Le foreste intatte sono fondamentali per il benessere della Terra: riducono la possibilità di salto di specie da parte di virus e batteri ospitati dalle popolazioni animali che le abitano, assorbono il 26% delle emissioni umane di CO2, preservano la biodiversità e tanto altro ancora. Solo per questo dovrebbero essere messe al centro delle politiche di tutto il mondo, ma a riguardo i dati non sono per nulla incoraggianti. Un recente rapporto del WWF ha rilevato la perdita di oltre 43 milioni di ettari di foresta nelle sole aree tropicali e subtropicali negli ultimi 13 anni, mentre il Living Planet report del 2020 parla di un calo del 68% delle popolazioni animali di quasi ogni classe dal 1970. Fortunatamente è lo stesso WWF a muoversi in questa direzione. La più grande organizzazione mondiale per la salvaguardia del pianeta ha infatti lanciato la piattaforma Forests Forward, che mira a coinvolgere tutti gli stakeholder, aziende, comunità e organizzazioni, per proteggere e migliorare la gestione di 150 milioni di ettari di foreste entro il 2030. Far convergere gli interessi di imprese e società per fermare la defore-

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FOREST FORWARD, PER LA SALVAGUARDIA DELLE FORESTE La piattaforma del Wwf nata per tutelare la biodiversità terrestre, che negli ultimi 13 anni registra una perdita di 43 milioni di ettari nelle sole aree tropicali e subtropicali

stazione e la conversione è un obiettivo concreto. Gli investitori di tutto il mondo sono i soggetti principali per mettere in pratica nuovi approcci capaci di accrescere i benefici legati alla produttività ecologica. Affrontare contestualmente una delle più grandi sfide del nostro tempo è un traguardo risolutivo e vantaggioso per tutti. Il programma Forests Forward supporterà le aziende offrendo soluzioni rigorose per il miglioramento della salute delle foreste, del clima e delle comunità locali. Inoltre, verranno appositamente progettate strategie sostenibili per le aziende responsabili

della catena di approvvigionamento con prodotti o imballaggi che possono avere un impatto sull’ambiente. Infine, lavorerà con gli enti forestali per lo sviluppo di strategie di risanamento e di implementazione delle capacità benefiche delle aree più a rischio. Tra le prime aziende ad aderire alla piattaforma ci sono gruppi come Hp, Ikea, International Paper Company, Sofidel, Suzano. Questa adesione è una presa di coscienza importantissima, ma è solo un piccolo passo. La transizione ecologica può avvenire solo camminando tutti insieme. (M. O.). GdB | Giugno 2021

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Innovazione

L’

estate è entrata nel pieno e ad alleviare i disagi del solleone entrano in gioco i climatizzatori. L’afa viene messa alla porta. Ma, presto, i consumi presenteranno il conto in bolletta. Con l’inizio della stagione estiva, l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) fornisce una serie di indicazioni pratiche per raffrescare le proprie abitazioni in modo efficiente, con un occhio all’impianto di climatizzazione per migliorare il comfort, risparmiare in bolletta e salvaguardare l’ambiente. Anzitutto, attenzione alla classe energetica. La scelta del climatizzatore rappresenta un requisito chiave per diminuire i consumi ed evitare brutte sorprese in bolletta. Indipendentemente dalla tecnologia, sono sempre da preferire i modelli in classe energetica superiore alla A in quanto, oltre a una riduzione delle emissioni di CO2 in atmosfera, consumano molto di meno. Scegliendo ad esempio un modello in classe “A+++” potremo spendere per l’energia elettrica circa il 30 - 40% di meno di quanto spenderemmo con un modello di classe “B”. Preferire gli inverter. In un condizionatore con sistema di controllo inverter, la velocità di rotazione del compressore viene regolata costantemente e questo permette di avere prestazioni ottimali in qualsiasi condizioni di impiego adeguando la potenza frigorifera e termica erogata all’effettiva necessità. Questi modelli costano di più di quelli on-off, ma consumano meno. Attenzione alla posizione in fase di installazione. L’effetto-barriera di una tenda o un divano blocca la diffusione dell’aria fresca. Evitare di lasciare porte o finestre aperte. Non raffreddare troppo l’ambiente sotto i 24-26 gradi e attenzione all’umidità che fa percepire maggiormente il caldo. In questo caso, basta attivare la funzione deumidificazione. Coibentare i tubi del circuito refrigerante all’esterno dell’abitazione e assicurarsi che il corpo esterno non sia esposto al sole e alle intemperie.

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CLIMATIZZATORI, I CONSIGLI SALVA BOLLETTA DELL’ENEA Tenere d’occhio la classe energetica e le indicazioni sul corretto utilizzo degli impianti Preferire gli inverter e non abbassare la temperatura al di sotto dei 24 gradi

Usare il timer e la funzione “notte” per ridurre al minimo il tempo di accensione dell’apparecchio e aumentare il comfort. Inoltre, consentono di accendere e spegnere il climatizzatore anche a distanza e di tenerlo in funzione per il solo periodo di tempo in cui se ne ha realmente bisogno. La funzione “notte” o “sleep” regola, nelle ore notturne, la temperatura dell’ambiente in funzione di quella corporea. Attenzione alla pulizia e alla corretta manutenzione. I filtri dell’aria e le ventole devono essere ripuliti alla prima accensione stagionale e almeno ogni due settimane, perché si tratta del luogo

dove più di frequente si annidano muffe e batteri dannosi per la salute, tra i quali il pericoloso batterio della legionella. Chiedere a un tecnico di effettuare una diagnosi energetica dell’edificio è il primo passo utile per valutare lo stato dell’isolamento termico di pareti e finestre e l’efficienza degli impianti di climatizzazione. La diagnosi suggerirà gli interventi da realizzare valutandone il rapporto costi-benefici. Infine, informarsi su incentivi e detrazioni fiscali. Il vademecum dell’ENEA è disponibile sulla pagina web https://www.efficienzaenergetica.enea. it/detrazioni-fiscali.html. (F. F.) GdB | Giugno 2021

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DELEGAZIONE REGIONALE LOMBARDIA

WEBINAR CINOFILIA 17 giugno 2021 24 giugno 2021 1° luglio 2021 http://lombardia.ordinebiologi.it lombardia@onb.it

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Webinar Organizzato dalle Delegazioni Regionali ONB Toscana-Umbria, Emilia Romagna-Marche, Piemonte,Liguria e Valle d’Aosta e Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Viterbo

Consulente per la certificazione dei prodotti biologici. Trasformazione, Commercio ed Etichettatura. DATA GIORNATE: 15-16-24 Giugno 2021 06 Luglio 2021 RICHIESTO IL PATROCINIO A: Mipaaf PATROCINATO DA:

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Beni culturali

IL CASTELLO E IL PARCO DI MASINO, LA SFIDA (VINTA) DEL FAI Tra Torino e Milano c’è un antico maniero diventato nei secoli un’elegante dimora. Saloni, arredi, libri, giardini e un grande labirinto

di Rino Dazzo

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Beni culturali

H

a circa mille anni, ma non li dimostra. Anzi, dopo l’imponente operazione di recupero cominciata nel 1988, quando il FAI (Fondo Ambiente Italiano) lo ha acquistato da Luigi Valperga di Masino grazie alla donazione congiunta di Fiat, Cassa di Risparmio di Torino e Maglificio Calzificio Torinese, è tornato a nuova vita. È il Castello di Masino, la sontuosa dimora che, assieme al suo meraviglioso Parco, domina la pianura del Canavese da una collina antistante la Serra d’Ivrea. È qui, a due passi da Torino e a un’oretta da Milano, che è sepolto il primo re d’Italia, Arduino. Qui sono custoditi oltre 25mila volumi, preziose opere d’arte, saloni e affreschi di rara bellezza che fanno di questo antico maniero, trasformato nei secoli in incantato luogo di villeggiatura, uno dei castelli più visitati e ammirati d’Italia. La storia del Castello e del Parco di Masino inizia ufficialmente nel 1070, anno in cui è contenuta la prima attestazione della fortificazione, posseduta sin dalle origini dai Valperga, nobile casato del Canavese discendente, secondo tradizione, da Arduino di Ivrea, che per 12 anni dal 1002 al 1014 – primo nella storia – poté fregiarsi del titolo di re d’Italia. A poco a poco i Valperga trasformarono il maniero fortificato in una residenza dall’aspetto aristocratico, quindi in un’elegante dimora romantica, dove

Dopo l’imponente operazione di recupero cominciata nel 1988, quando il FAI (Fondo Ambiente Italiano) lo ha acquistato da Luigi Valperga di Masino grazie alla donazione congiunta di Fiat, Cassa di Risparmio di Torino e Maglificio Calzificio Torinese, è tornato a nuova vita.

di frequente erano ospitati ambasciatori, artisti e personaggi storici. Nel XVII e nel XVIII secolo, in particolare, il Castello di Masino ha assunto l’aspetto che ha recuperato da poco, quando saloni e salotti sono stati affrescati e arredati in modo sempre più massiccio e sfarzoso (su tutti, merita una menzione lo straordinario Salone da Ballo) e quando sono stati realizzati appartamenti privati e camere da riservare agli illustri ospiti, oltre che ai proprietari. Nel ‘700, poi, ha assunto la sua fisionomia il parco, dominato da un ampio viale alberato e segnato da ampie radure e scorci pittoreschi che in primavera, nel periodo della fioritura, assumono un aspetto unico. Un lussureggiante parco all’inglese ideale per passeggiate, giochi e pic-nic, dove fanno bella mostra i giardini all’italiana dei Cipressi e delle Rose, oltre all’immenso Prato di Eufrasia e al tempietto neogotico. Tipicamente settecentesco è il labirinto di siepi, inaugurato nel 1753 e che ancora oggi è il secondo più grande d’Italia, superato solo dal labirinto della Masone di Fontanellato. È stato ricostruito di recente seguendo il progetto originale, utilizzando oltre duemila piante di carpini tagliate con eccezionale regolarità. Per chi non dovesse venire a capo del rompicapo, niente paura: al centro c’è una torretta sopraelevata che consente di vedere dov’è l’uscita. Il Castello e il Parco di Masino sono la soluzione ideale per una passeggiata per tutta la famiglia, anche perché offrono spunti e motivi d’interesse diversi. Gli appassionati di cultura e di antichi volumi possono sbizzarrirsi nella biblioteca, gli amanti dei panorami suggestivi possono usufruire delle terrazze panoramiche (quella degli Oleandri ospita una deliziosa caf-

© elitravo/shutterstock.com

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La storia del Castello e del Parco di Masino inizia ufficialmente nel 1070, anno in cui è contenuta la prima attestazione della fortificazione, posseduta sin dalle origini dai Valperga, nobile casato del Canavese.

personaggio straordinario. Pittrice, patriota, giornalista, educatrice, fuggì con Mazzini per via dei suoi sentimenti antiaustriaci e si ritrovò senza un soldo. Visse a Parigi facendo acquerelli e firmandosi “Princesse ruinee”. Partecipò alle Cinque Giornate di Milano, all’impresa di Roma, inventò il corpo delle crocerossine, creò delle scuole per bambini e bambine. Lo confesso, sono molto legato a lei». E proprio alla principessa, di cui il 5 luglio ricorre il 150mo anniversario della morte, sono spesso dedicati concerti, letture e appuntamenti. Sono tanti gli eventi organizzati presso il Castello e il Parco di Masino, la guida completa è consultabile all’indirizzo: https://fondoambiente.it/luoghi/castello-e-parco-di-masino/ eventi. Per tutta l’estate è possibile visitare Castello e Parco di Masino il mercoledì, giovedì e venerdì dalle 11 alle 22 e il sabato e la domenica dalle 11 alle 19. L’ingresso è gratuito per gli iscritti FAI, un biglietto intero costa 14 euro, ridotto (6-18 anni) 7 euro, i bimbi fino a 5 anni non pagano. Raggiungere il Castello di Masino è semplicissimo: da Milano è a 5 minuti circa dal casello autostradale di Albiano sulla A4, da Torino è a 15 minuti dall’uscita Scarmagno sulla A5.

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fetteria che offre tutte le specialità e le prelibatezze tipiche del Canavese), gli appassionati di storia hanno l’opportunità di avventurarsi tra passaggi segreti e camere dall’aspetto antico, mentre per i bambini ci sono il Museo delle Carrozze, la Torre dei Venti, la caccia al tesoro e altri ambienti dedicati. L’intero territorio del sito, inoltre, è accessibile ai disabili cognitivi grazie al progetto “Bene FAI per tutti”. Ma il castello è unico anche perché rimanda a personaggi che hanno fatto la storia. L’appartamento di Madama Reale, ad esempio, è così chiamato perché fu fatto costruire alla fine del ’600 dal conte Carlo Francesco I di Masino per Giovanna Battista di Savoia Nemours, reggente di Casa Savoia, ed è abbellito da uno splendido letto a baldacchino impreziosito da rare e meravigliose sete. Tantissime, poi, sono le opere d’arte che evocano il nome di Cristina Trivulzio di Belgiojoso d’Este, come ha raccontato Marco Magnifico, vicepresidente FAI, in un servizio mandato in onda da Geo: «Quando abbiamo acquisito il castello c’era da mettere ordine tra 5mila pezzi d’arredamento. Per fortuna ogni sala era ricca di inventari e molti oggetti, opere e arredi erano legati alla principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Fu un

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Beni culturali

Castello di Masino, affreschi.

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Beni culturali

L’

esperienza di visita al Colosseo si amplia di un nuovo percorso turistico. Vengono aperti gli ipogei, con una passerella lunga 160 metri. Sono 15mila i metri quadrati di superficie che sono stati al centro del restauro reso possibile grazie all’impegno finanziario del Gruppo Tod’s, dopo settemila giornate di lavori. Si tratta di una seconda tranche di lavori, dopo il primo restauro visibile anche dall’esterno. «Ricordo che quando, diversi anni fa, ho cominciato il mio primo mandato da Ministro, Tod’s aveva già avviato questa importante operazione. Rimasi allibito e indignato nel vedere che, di fronte a un’impresa italiana impegnata a destinare una somma così importante alla tutela del patrimonio culturale del Paese, invece del plauso generale si sollevassero polemiche. È stata questa ragione che mi ha spinto poi a proporre le norme sull’Art Bonus al Parlamento, che le ha approvate convintamente introducendo un’agevolazione fiscale per chi dona in cultura capace di portare in pochi anni oltre mezzo miliardo di euro». Così il Ministro della cultura, Dario Franceschini, durante il suo intervento in occasione della conferenza stampa di presentazione dei lavori di restauro degli ipogei dell’Anfiteatro Flavio. «L’intervento di recupero e valorizzazione degli ipogei - ha aggiunto Franceschini - è stato reso possibile anche dalle straordinarie professionalità dei tecnici del parco archeologico del Colosseo. Un grande lavoro tecnico che dimostra come, anche in questo caso, si possa coniugare la conservazione del patrimonio con le tecnologie e con la ricerca, arrivando anche a osare». Il Ministro ha annunciato che il 29 e il 30 luglio prossimi il Governo italiano Il Governo porterà sull’arena del Colosseo il tavolo del G20 della Cultura, dove i delegati saranno accolti dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e «il mondo vedrà che l’Italia ha deciso Consigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.

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IPOGEI DEL COLOSSEO NUOVO PERCORSO DI VISITA È l’esito della seconda fase del restauro finanziato dal Gruppo Tod’s Franceschini: “Qui porteremo il G20 della Cultura il 29 e il 30 luglio prossimi

di Pietro Sapia

di ospitare un simile incontro nel luogo più la identifica nel mondo». «Grazie alle risorse pubbliche – ha conlcuso Franceschini – partiranno poi i lavori per coprire gli ipogei, restaurati grazie a Tod’s, e fare un’arena che consentirà di ammirare il Colosseo dal centro, come avveniva fino alla fine dell’Ottocento. È una grande operazione. Abbiamo bisogno di orgoglio in queste settimane di ripartenza. Il nostro popolo ha sempre dato il meglio di sé nei momenti di difficoltà. Lo hanno dimostrato i nostri predecessori nell’immediato dopoguerra, quando si sono rimboccati le maniche in un Paese diviso e dilaniato portandolo in pochi anni a es-

sere una potenza industriale. Torneremo a dimostrarlo ora, e sono felice che ciò avvenga nel nome della cultura».È stato «un lavoro molto complesso - ha detto la direttrice del Parco archeologico Alfonsina Russo - i cui risultati sono ancora in corso di studio» ma che «testimonia tutto ciò che avvenne sotto alla grande arena dell’Anfiteatro, dalla sua inaugurazione nell’80 d.C. fino all’ultimo spettacolo nel 523». «Al mondo delle imprese grandi e forti – ha dichiarato Diego Della Valle, ad del Gruppo Tod’s - dico che non è più il momento di chiedere cosa può fare il Governo per noi, ma cosa possiamo fare noi per gli altri». GdB | Giugno 2021

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DIETRO LE QUINTE DI UN GIARDINO ZOOLOGICO: ATTIVITÀ QUOTIDIANE E PROGRAMMATE

14 luglio 2021 Ore 10:00-18:00 www.onb.it


DELEGAZIONE REGIONALE SICILIA

“Prelievi per finalità diagnostiche, acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche” Il Corso si svolge ai sensi della direttiva DIRP/III/BIQU/OU10014 / 2002 e delle note prot. DIRS/3/4296 del 17/11/2004, prot. 9316 del 16/11/2011, prot. 23770 del 22/05/2020. Il corso in oggetto è pertanto autorizzato dal Servizio Formazione Assessorato Salute Dipartimento ASOE con prot. 34844 del 08/10/2020 e prot. 41975 del 20/11/2020

Seconda edizione: 28-31 luglio 2021 Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia Via Gino Marinuzzi 3 Palermo Aula Magna Isz della Sicilia - Gazebo esterni drive-in tamponi dell’Istituto

http://sicilia.ordinebiologi.it GdB | Giugno 2021

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Sport

OLIMPIADI, LA BOXE ITALIANA È DONNA In attesa di un ripescaggio che potrebbe evitare uno storico “0” maschile ai Giochi, l’Italia si gode la qualificazione di Irma Testa, Giordana Sorrentino, Angela Carini e Rebecca Carini a Tokyo 2021

di Antonino Palumbo 82 GdB | Giugno 2021


Sport

A

Casa Italia è “Lei” che indossa i guantoni. Per la prima volta nella storia olimpica del pugilato, non c’è nessuna atleta azzurro qualificato per le competizioni maschili dei Giochi di Toyo. A meno di un ripescaggio per Salvatore Cavallaro, dunque, a tener alto l’onore dell’Italia saranno infatti quattro ragazze: Giordana Sorrentino, Angela Carini, Irma Testa e Rebecca Nicoli. Sono loro a raccogliere un testimone passato da Nino Benvenuti, Patrizio Oliva, Massimo Stecca e Roberto Cammarelle, solo per citare alcuni dei pugili azzurri che in un secolo hanno portato l’Italia al quarto posto del medagliere olimpico della disciplina e incollato agli schermi milioni di telespettatori. Saranno loro a rimediare al primo, clamoroso flop della boxe maschile tricolore a partire dai primi pugni a “cinque cerchi” di Anversa 1920. Giordana Sorrentino, Angela Carini e la veterana Irma Testa hanno conquistato la qualificazione per le Olimpiadi di Tokyo al torneo preolimpico di inizio giugno, sul ring parigino della Grand Dome di Villerbon-sur-Yvette. La prima a riuscirci è stata Giordana Sorrentino, alias Caterpillar, 21enne di Fiumicino tesserata per il Centro Sportivo Carabinieri, che nei quarti di finale nella categoria 51 kg ha sconfitto, in un match tiratissimo, l’esperta e ostica serba Nina Radovanovic (3-2). Giordana era fra quante avevano iniziato il torneo preolimpico di Londra nel 2020, sospeso in corsa. Poi ha dovuto prendere a pugni il Covid lo scorso ottobre e rimettersi in sesto per inseguire nuovamente il sogno olimpico. Si è avvicinata alla boxe grazie al fratello, che la praticava in adolescenza, ma la disciplina è nel DNA di famiglia: era pugile il nonno paterno, è pugile il cugino Emanuele Della Rosa. Nel palmares della boxeur di Fiumicino anche due titoli italiani élite, nel 2018 a Pescara (cat. 57 kg) e nel 2019 a Roma (54 kg). Nella stessa giornata, 5 giugno, è arrivata anche la qualificazione alle Olimpiadi di Angela Carini, 22enne poliziotta napoletana che vive e si allena a Marcianise, nella categoria welter (69 kg). La vicecampionessa mondiale dei 64 kg ha dettato legge nel testa a testa dei quarti di finale con la francese Emilie Sonvico, dominando dall’inizio alla fine e venendo premiata dai giudici con un secco 5-0. Anche per Angela, il pugilato è una tradizione di famiglia: il fratello Antonio, due anni più grande, è stato infatti pugile dilettante a livello nazionale nei kg 69. L’oGdB | Giugno 2021

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Sport

Rebecca Nicoli.

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Salvatore Cavallaro. L’unico rappresentante maschile della boxe italiana alle prossime Olimpiadi potrebbe essere Salvatore Cavallaro, che però dovrebbe essere ripescato.

Mossely, un “tonfo” che la portò alla tentazione di smettere definitivamente con il pugilato. Per fortuna è tornata sui suoi passi. Chi era tornata delusa dal preolimpico di Villerbon-sur-Yvette è Rebecca Nicoli, classe 1999, cresciuta fra Milano e Pavia. I sacrifici fatti dopo l’intervento all’anca destra di novembre sembravano non dover ricevere il meritato premio, ma l’atleta lombarda ha “agganciato” l’obiettivo in extremis a Parigi, sconfiggendo la greca Nikoleta Pita nello spareggio dei pesi leggeri (60 kg). Ultima chance sfruttata a meraviglia, dunque, dopo la sconfitta ai quarti di finale contro la fortissima britannica Caroline Dubois. Protagonista agli Assoluti lo scorso anno e argento agli Europei U22, Rebecca stava per salire sul ring al preolimpico di Londra nel marzo 2020 quando - a 10 ore dalf suo match - il torneo è stato interrotto a causa del Covid. Ha saputo aspettare, con pazienza, e meritarsi la qualificazione per i Giochi, inseguendo il suo grande sogno di poter “addirittura” vincere l’oro. E pensare che fino al 2016, prima del trasferimento con la famiglia da Milano a Pavia, la sua grande passione erano i tuffi. La boxe l’ha scoperta grazie a un volantino passatole dalla mamma. Se n’è innamorata subito. E battendo la campionessa italiana Youth ha capito di poter ambire a grandi traguardi.

Fonte: Coni

biettivo olimpico era rimasto solo un’utopia a Rio 2016, perché la Carini era nell’ultimo anno delle Youth - 17/18 anni - e non c’era la sua categoria di peso. Prima di partire per il torneo francese, l’atleta delle Fiamme Oro ha detto al padre: «Vado a Parigi e prendo il pass olimpico». Non si può certo dire che non sia una di parola, lei che da dilettanti ha comunque disputato un centinaio di match disputati con appena undici sconfitte e nessun pareggio. Ventitreenne di Torre Annunziata (Napoli), Testa è stata cinque anni fa la prima pugile italiana a disputare un’Olimpiade. Già argento ai Giochi giovanili di Nanjing nel 2014, campionessa europea dei pesi piuma due anni fa in Spagna, Irma ha scoperto il pugilato grazie alla sorella maggiore Lucia, già campionessa italiana, per poi rimanere l’unica rappresentante della noble art in famiglia. Dopo Nanjing è arrivata la chiamata in Polizia, oltre all’interessamento dell’Esercito. Al preolimpico francese “Butterfly” non ha deluso le attese, battendo nel quarto di finale la croata Nikolina Cacic, entrando fra le prime quattro e raggiungendo al check-in per Tokyo le compagne d’azzurro Sorrentino e Carini. In Giappone, Irma vorrà riscattare il deludente esordio olimpico di Rio 2016, che la vide soccombere contro la pugile francese Estelle


DELEGAZIONE REGIONALE SICILIA

“Prelievi per finalità diagnostiche, acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche” Il Corso si svolge ai sensi della direttiva DIRP/III/BIQU/OU10014 / 2002 e delle note prot. DIRS/3/4296 del 17/11/2004, prot. 9316 del 16/11/2011, prot. 23770 del 22/05/2020. Il corso in oggetto è pertanto autorizzato dal Servizio Formazione Assessorato Salute Dipartimento ASOE con prot. 34844 del 08/10/2020 e prot. 41975 del 20/11/2020

Prima edizione: 21-24 Luglio 2021 Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia Via Gino Marinuzzi 3 Palermo Aula Magna Isz della Sicilia - Gazebo esterni drive-in tamponi dell’Istituto

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MAZZONE DALL’ABISSO AI TRIONFI CON LA HANDBIKE Tetraplegico dall’età di 19 anni, l’atleta pugliese ha affrontato la disabilità come una sfida. Prima è salito due volte sul podio nel nuoto alle Paralimpiadi di Sidney, poi è diventato l’azzurro più medagliato nel paraciclismo

S

e un giorno vi guardate allo specchio e vi rendete conto che siete ingrassati, nulla è ancora perduto: potreste diventare campione d’Europa, del Mondo, di Olimpia. Non è un’equazione, sia chiaro, e del resto non tutti sono Luca Mazzone, il 50enne fenomeno pugliese della handbike che nelle scorse settimane ha collezionato l’ennesimo en-plein di medaglie d’oro ai Campionato del mondo di paraciclismo a Cascais, in Portogallo. Una piacevole e mai scontata abitudine, quella dello Zanardi Puglia, nato a Terlizzi (Bari) e vissuto tre volte, se consideriamo la sua vita precedente la disabilità e poi la feconda parentesi nel nuoto paralimpico, che lo ha visto vestirsi d’argento alle Paralimpiadi di Sidney 2000 nei 50 e nei 200 metri stile libero e salire due volte sul podio sia agli Europei, sia ai Mondiali. La tripletta è iniziata con il successo nella staffetta (Team Relay) orfana del convalescente Alex Zanardi ma forte di Luca Mazzone,

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Luca Mazzone.

Diego Colombari e Paolo Cecchetto, che hanno regalato al ct Mario Valentini la medaglia d’oro numero 100. Alle loro spalle, staccati di 17”, il trio spagnolo formato da Israel Rider Ibanez, Sergio Garrote Munoz e Luis Miguel Garcia-Marquina Cascallana. Un successo dedicato anche al “faro” Zanardi e al Circolo Canottieri Aniene, società di appartenenza di Mazzone. Luca si è ripetuto, d’autorità, anche nella cronometro con una prestazione che ha sorpreso anche lo stesso atleta pugliese: l’iberico Garrote Munoz, secondo classificato, ha pagato ben 36 secondi. Stesso rivale nella prova in linea, conclusa da Mazzone con quattro secondi di vantaggio sullo spagnolo e oltre due minuti sul francese Florian Jouanny. «Ripetersi non è mai facile, il ciclismo è uno sport imprevedibile – racconta Luca Mazzone - elementi come il sole o il vento possono essere condizionanti. In questi due anni non ho pensato minimamente a riposarmi, ho seguito gli stessi programmi di allenamento di sempre. Lo scorso settembre ho ricomincia-


to la preparazione in palestra, con l’incognita delle gare». Già, perché Mazzone non gareggiava da ventuno mesi, dal triplete ai Mondiali di Emmen nei Paesi Bassi. Unica parentesi, sfortunata, il Campionato italiano a Marina di Massa, in Toscana, lo scorso aprile con tanto di problema muscolare alla spalla sinistra. «Forse questo anno sabbatico ha accresciuto in me la grinta e l’amore per la competizione. E alla soglia dei cinquant’anni ho capito che mi devo allenare meglio» riflette Luca. Il pluricampione iridato e olimpico è sempre stato uno sportivo. Da ragazzo amava praticare l’atletica, la boxe e il body building, quando toglieva il camice da garzone nella polleria del padre. Da buon pugliese nato sul mare, ovviamente, amava anche i tuffi. E fu proprio l’impatto su uno scoglio, dopo un tuffo a Giovinazzo, a cambiare la sua vita. Alla tetraplegia Luca Mazzone ha reagito a modo suo: sfidandola. “Ho sempre avuto passione per lo sport e spirito agonistico: mi hanno aiutato a non farmi sopraffare dal destino che

“Di Zanardi ce n’è uno solo e tra l’altro Alex è ancora il primatista di medaglie olimpiche. Certo, con 18 medaglie d’oro e tre d’argento credo di essere diventato anch’io un recordman a livello di podi iridati. Lui mi ha insegnato a essere pignolo”.

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Sport

ho dovuto fronteggiare” ricorda. Nella sua seconda vita, da nuotatore paralimpico, ha vinto numerosi titoli italiani nei 50, 100 e 200 metri stile libero e due medaglie d’argento ai Giochi di Sidney 2000, sfiorando poi il podio più volte sia ad Atene 2004, sia a Pechino 2008. Poi si è fermato per tre anni, è diventato papà e ha conseguito il diploma da ragioniere. Finché... «Un giorno mi sono visto ingrassato e ho pensato di rimettermi in forma con la handbike, che usavo in alternativa al nuoto. Ho deciso di partecipare a qualche gara e grazie a spalla e braccia forti e un buon motore sono arrivati anche lì i successi». Sulla scia di Alex Zanardi, Luca Mazzone ha superato il “maestro” per numero di medaglie. Ma si schermisce riconoscendo all’ex pilota di Formula 1, diventato icona della handbike e dello sport paralimpico, gli enormi meriti della sua ascesa: «Di Zanardi ce n’è uno solo e tra l’altro Alex è ancora il primatista di medaglie olimpiche. Certo, con 18 medaglie d’oro e tre d’argento credo di essere diventato anch’io un recordman a livello di podi iridati. Lui mi ha insegnato a essere pignolo sul mezzo meccanico, a curare ogni dettaglio, dal grasso sul cuscinetto alla vite da limare per risparmiare un decimo grammi». Il talento di Luca, però, è la base di tutto: «Il mio segreto? Direi testa dura e braccia lunghe, muscoli forti e spalle larghe». Da perfetto campione, Luca Mazzone cura con grande zelo anche l’alimentazione. «Sto attento in primis a non eccedere carboidrati. Mi alleno con le braccia, il mio consumo calorico non è come quello di un ciclista. Tante volte non ci accorgiamo che durante la giornata, senza volerlo, assumiamo sostanze piene di zucchero che incidono sulla nostra glicemia. Fra gli altri, ho eliminato la pasta: preferisco il riso basmati. A colazione mangio tre uova, tre noci e frutta fresca di stagione». Due volte oro e una argento (in linea) alle Paralimpiadi di Rio 2016, alla linea ha prestato particolare attenzione in vista dei recenti Mondiali: «Mi sono presentato a questo appuntamento iridato con un chilo e mezzo in meno rispetto agli altri anni. Volevo anche provare a capire, in vista delle Olimpiadi, se avrei perso potenza. Ci sono voluti tanti sacrifici, ma i risultati ti spingono a farlo. E sulla salita delle Olimpiadi – conclude Mazzone - un chilo e mezzo può essere decisivo per la medaglia d’oro». (A. P.) GdB | Giugno 2021

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Sport

Christian Eriksen in azione a Mondiali di calcio del 2018.

LA SPERANZA DI ERIKSEN IN CAMPO DOPO IL DRAMMA? Dopo l’arresto cardiaco agli Europei di calcio, spera di poter tornare grazie a un defibrillatore cardiaco sottocutaneo e a una possibile diagnosi favorevole

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a caduta improvvisa, la postura innaturale, il capannello dei compagni per proteggerlo dagli occhi del mondo. E poi l’uscita dal campo, in barella, dopo lunghi minuti di provvidenziale lavoro dello staff medico della nazionale danese di calcio. Il dramma del calciatore dell’Inter, Christian Eriksen, che ha rischiato la vita per arresto cardiaco all’esordio negli Europei di calcio, contro la Finlandia, è un’immagine che rimarrà viva negli occhi degli appassionati di tutto il mondo. Non è stato il primo caso, né il più tragico se si pensa a quanti non sono riusciti a sopravvivere, da Renato Curi al camerunense Marc Foé, da

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Piermario Morosini all’iberico Antonio Puerta. Di certo, però, senza il defibrillatore e i massaggi cardiaci anche la sorte di Eriksen sarebbe potuta essere ben peggiore. I primi accertamenti al Rigshospitalet di Copenaghen non hanno fornito certezze ai medici. La causa virale sarebbe l’unica che potrebbe riaprire, in futuro, a Eriksen le porte di un ritorno all’attività agonistica. La questione è anche “dove”, perché - ad esempio - in Italia non è possibile giocare con un defibrillatore cardiaco sottocutaneo, come quello installato a Eriksen. Si tratta di un piccolo apparecchio inserito sotto cute, sotto la clavicola, che rileva l’attività del cuore

continuamente e blocca con una piccola scossa un’aritmia potenzialmente letale. Per gli esperti, non è escluso che Eriksen possa tornare in campo, anche se si tratta di un’ipotesi ancora lontana. Lucio Mos, presidente della Società Italiana di Cardiologia dello Sport, ha spiegato a Fanpage.it che «non si può ipotizzare un’attività sportiva agonistica, a meno che il suo problema non fosse qualcosa di reversibile, che dà la possibilità di togliere il dispositivo» e ha spiegato che «negli sport di contatto, avere un defibrillatore cardiaco sottocutaneo potrebbe essere molto pericoloso, nel caso di traumi allo stesso dispositivo». Anche per Enrico Castellacci, presidente dei medici del calcio italiani, «c’è da capire la patologia, ma andare in campo con un defibrillatore espone a rischi. In Italia non credo che potrà più tornare a giocare a calcio, mi auguro che la diagnosi e i protocolli cardiologici per l’idoneità possano chiarire tutto». Più ottimista Vincenzo Ieracitano, specialista nell’emergenza e nella chirurgia d’urgenza, che a Repubblica ha dichiarato: «Il ritorno in campo? Penso che se da tutti gli accertamenti non si rileva nulla, sì». Può raccontarlo Danny Blind, 31enne calciatore olandese, cui fu impiantato un defibrillatore sottocutaneo per una miocardite, dopo un malore accusato due anni fa nella sfida di Champions League contro il Valencia. Tra l’altro, dieci mesi fa, nel corso di un’amichevole contro l’Hertha Berlino, Blind si è accasciato a terra a 10 minuti dalla fine per un problema al dispositivo salvavita. Salvati prima di scendere in campo, Nwaknwo Kanu e Khalilou Fadiga. All’attaccante nigeriano dell’Inter fu riscontrata una malformazione della valvola aortica. Fu operato negli USA e ha potuto giocare a calcio da professionista per oltre 15 anni. Fadiga, centrocampista del Senegal, fu fermato per malformazioni cardiache durante le visite mediche con lo stesso club milanese. Malgrado il consiglio di dire addio al calcio, continuò a giocare in Inghilterra (con il Bolton, il Derby County e il Coventry City) e poi in Belgio. (A. P.)


Fonte: Fidal

Sport

B

uon sangue non mente. Le cronache e gli albi d’oro raccontano tante storie di figli d’arte che hanno ripercorso la passione di famiglia: da Tania Cagnotto ad Andrea Fondelli, da Ivan Zaytsev a Vincenzo Abbagnale. Questione di geni, certamente, ma anche di mentalità, educazione, filosofia. Nell’atleta leggera, nella scia di Andrew Howe, Gianmarco Tamberi e Larissa Iapichino, c’è una nuova figlia d’arte in copertina. Si chiama Nadia Battocletti, ha 21 anni, ed è diventata l’azzurra più veloce sui 5000 metri nell’ultimo quarto di secolo, ovvero dai tempi del primato italiano (14’44”50) detenuto ancora oggi da Roberta Brunet. Figlia di Giuliano, campione del mezzofondo azzurro, e dell’ex ottocentista marocchina Jawhara Saddougui, Nadia ha vissuto il suo più recente glory day al Meeting di Nizza, qualche settimana fa. Quarta assoluta nella gara francese, la Battocletti è scesa per la prima volta in carriera sotto il muro dei 15 minuti, chiudendo con un 14’58”73 che le è valso la qualificazione per le Olimpiadi di Tokyo. Un tempo che la colloca al secondo posto “all time” per quanto riguarda le prestazioni firmate da atlete italiane: ora davanti a lei c’è solo l’aostana Brunet, argento mondiale ad Atene (1997), bronzo ai Giochi di Atlanta (1996) e, nei 3000 metri, agli Europei di Spalato (1990). «È un sogno che ho realizzato, ma è soltanto un primo step. Adesso devo pensare ad un sogno nuovo. Chissà, magari il record italiano. Un tempo sotto i 15 minuti lo potevo immaginare, visti i riscontri degli allenamenti» ha raccontato dopo il gran tempo di Nizza. La gara non era iniziata bene, dopo una settimana complicata da qualche problema fisico. «Sono stata malissimo - ha spiegato - per via del ciclo. Mal di testa, mal di schiena, ho dovuto prendere un antidolorifico. Probabilmente a causa dell’adrenalina non ho sentito nulla in gara, ma mentalmente ero provata almeno fino al terzo chilometro. Però i passaggi erano

Nadia Battocletti.

DALLA VAL DI NON A TOKYO LA CORSA DI NADIA La 21enne Battocletti è scesa sotto i 15 minuti sui 5000 metri, firmando il secondo miglior tempo di sempre per un’italiana e qualificandosi per le Olimpiadi

buoni, mi sono detta “devo farcela!” e così è stato. Ho messo un mattone alla volta da quando sono piccolina. Il grazie più grande va ai miei genitori, mamma Jawhara e papà Giuliano ci hanno creduto più di me». La sua storia sportiva, già ricca malgrado la giovane età, e il suo palmars possono solo confermare quanto minuzioso e articolata sia stata la sua “costruzione” di atleta. Podista a tutto tondo, cresciuta fra Cavareno e Cles in Val di Non, Nadia ha praticato brillantemente il cross, la corsa su strada, in montagna (ha vinto la WMRA Youth Cup del 2017) e la pista (bronzo in rimonta nei 3000 agli Europei U20 di Grosseto, ancora da allieva), con

un palmares invidiabile in ogni disciplina. Miglior U20 europea agli ultimi due Mondiali di campestre, tre anni fa è diventata la prima atleta nata nel 2000 ad aggiudicarsi un tricolore assoluto, nei 5000 metri. Di primato in primato: l’oro under 20 agli Europei di cross a Tilburg (Olanda) ha conquistato l’oro under 20 è stato la prima medaglia individuale di sempre per un’azzurra in questa manifestazione, poi sono arrivati il record italiano juniores dei 3000 metri a Goteborg (2019) e quelli U23 nei 5000 metri: migliorato tre volte nell’ultimo anno. Due anni fa è stata argento agli Europei U20 di Boras. (A. P.) GdB | Giugno 2021

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LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

RICERCA Glioblastoma, allo studio trattamento tutto naturale

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n potenziale trattamento per il glioblastoma basato sull’ingegnerizzazione delle cellule immunitarie NK è allo studio dei ricercatori dell’Anderson Cancer Center della Texas University e della Northwestern University Feinberg School of Medicine. In un’analisi preliminare gli studiosi hanno accertato che le unità NK sono in grado di contrastare efficacemente le cellule tumorali, ma la produzione della proteina di segnalazione TFG può inibire la loro azione. L’ingegnerizzazione delle cellule NK potrebbe renderle resistenti all’attività bloccante della proteina, contribuendo all’eliminazione del glioblastoma. I primi risultati su un modello in vivo di glioblastoma derivato da un paziente sono stati incoraggianti, ma sono ancora tanti gli step prima di arrivare a un modello definitivo per il trattamento del più comune e aggressivo tumore del sistema nervoso.

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AMBIENTE I fiumi del mondo si fermano per un giorno all’anno

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un fenomeno più comune di quanto si possa pensare, al punto da interessare più della metà dei fiumi e dei torrenti del mondo. Per almeno un giorno all’anno i corsi d’acqua cessano di scorrere: il loro flusso è intermittente, non perenne, principalmente a causa del cambiamento climatico e dell’attività dell’uomo. A descrivere questo fenomeno è Mathis Loic Messager del Dipartimento di Geografia della McGill University di Montreal e dell’Istituto Nazionale di Ricerca Francese per l’Agricoltura. Insieme ai suoi colleghi, il ricercatore ha sviluppato un modello per prevedere l’estensione dei fiumi non perenni a livello globale secondo cui la cessazione del flusso è presente nel 52% dei corsi d’acqua del pianeta. Nelle aree più calde e secche il fenomeno è più marcato, mentre nelle zone più fredde è dovuto essenzialmente all’accumulo di ghiaccio o neve.


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GENETICA Parkinson, mutazioni genetiche aumentano il rischio

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lcune rare mutazioni genetiche, se presenti simultaneamente, aumentano il rischio di ammalarsi di Parkinson. Lo ha attestato una ricerca frutto della collaborazione tra I.R.C.C.S. Neuromed e Istituto di genetica e biofisica Adriano Buzzati Traverso del Cnr-Igb di Napoli. La presenza contemporanea di due o più varianti rare aumenta del 20% la possibilità di sviluppare la malattia. La scoperta apre prospettive legate all’avvio di screening di popolazione e alla possibilità di diagnosi precoce.

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RICERCA L’ippocampo è coinvolto nei processi decisionali

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ippocampo ha un ruolo cruciale legato anche al processo decisionale e non soltanto alla memoria a lungo termine. È l’ipotesi formulata dagli scienziati della Northwestern Medicine in un articolo pubblicato sulla rivista Science Advances. I ricercatori hanno monitorato la loro attività cerebrale e i movimenti oculari durante l’osservazione di immagini complesse, scoprendo che l’ippocampo, una struttura del cervello, si attiva durante l’elaborazione di informazioni spaziali e visive, contribuendo alla formulazione di pensieri e ricordi. Risultati che suggeriscono come l’ippocampo possa utilizzare la memoria a breve e lungo termine per guidare lo sguardo e azionare al meglio il sistema visivo, in modo da valutare compiutamente l’ambiente circostante e favorire i ricordi duraturi.

RICERCA Sistema immunitario, decisivi i primi mesi di vita

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primi mesi sono decisivi per lo sviluppo del sistema immunitario e alcune malattie come asma, allergie e patologie autoimmuni possono essere collegate a eventi e stimolazioni associate all’allattamento. È l’ipotesi formulata dai ricercatori del Karolinska Institutet e delle Università della California Davis, del Nebraska e del Nevada che hanno analizzato le connessioni tra latte materno, batteri intestinali benefici e sistema immunitario valutando l’adattamento e lo sviluppo del sistema immunitario dei neonati in base a batteri, virus o altri fattori ambientali a cui i bambini sono esposto durante i primi mesi di vita. Per lo studio sono stati presi in esame 208 bimbi nati tra il 2014 e il 2019 in California, alcuni allattati al seno e altri nutriti con integratori. I bifidobatteri presenti nel latte materno, in particolare, sarebbero associati a una migliore funzione intestinale.

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE DI AVELLINO Scadenza, 1° luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “SCIENZE BIOLOGICHE” da usufruirsi presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino. Tematica: “Caratterizzazione biochimica e funzionale di composti/estratti di origine vegetale con attività biologica in modelli cellulari di patologie croniche e degenerative”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA PROTEZIONE SOSTENIBILE DELLE PIANTE - PORTICI (NA) Scadenza, 1° luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 2 borse di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “SCIENZE AGRARIE/BIOLOGICHE” da usufruirsi presso l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR, Sede Secondaria di Portici (NA), nell’ambito del progetto Via.Bio finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico. Tematica: Bioformulati a base di microrganismi benefici e/o loro metaboliti per il miglioramento di colture di interesse alimentare e loro effetto sul metaboloma delle piante. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI PERUGIA

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Scadenza, 1° luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche l’Area Scientifica “Scienze Bio-Agroalimentari” da svolgersi presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR sede di Perugia, nell’ambito delle attività inerenti i “Servizi di analisi genetico-molecolari su Olivo”. Tematica: raccolta, geo-referenziazione, caratterizzazione molecolare e fenotipica e catalogazione di genotipi di olivo. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA PROTEZIONE SOSTENIBILE DELLE PIANTE DI BARI Scadenza, 1° luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze agrarie” da usufruirsi presso l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante - CNR Sede Secondaria di Bari, nell’ambito del Progetto: “NemaGest - Monitoraggio e gestione sostenibile di nematodi fitoparassiti su vite e mais” per la seguente tematica: “Tecniche di biologia molecolare e microscopia”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI CAGLIARI Scadenza, 5 luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Medicina e Biologia” da usu-

fruirsi presso l’Istituto di Neuroscienze del CNR, Sede secondaria di Cagliari, nell’ambito del Progetto dal titolo “Studio di nuovi farmaci (di sintesi e naturali) per la terapia delle dipendenze”. Per informazioni, www. cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE SEZ MAZARA DEL VALLO Scadenza, 5 luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Ambientali – Biologiche - Naturali” da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del CNR di Mazara del Vallo, nell’ambito del progetto “Programma Nazionale Raccolta Dati Alieutici PNRDA”: Tematica: “Lo studio dei cicli nictemerali delle principali risorse demersali catturate sui fondi da pesca del gambero rosa (Parapenaeus longirostris, Lucas, 1846) nella GSA 16”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI NAPOLI Scadenza, 15 luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 01 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biologiche e Biochimiche” da usufruirsi presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Napoli, nell’ambito del Progetto FISR2019_04819 BacCAD intitolato “Le Anidrasi Carboniche batteriche come bersagli farmacologici - verso una nuova generazione di farmaci


Lavoro

antibatterici”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi.

tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 45 del 08-06-2021.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI GENETICA MOLECOLARE DI PAVIA Scadenza, 15 luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Medicina e Biologia” da usufruirsi presso l’Istituto di Genetica Molecolare Luigi Luca Cavalli Sforza del CNR di Pavia, nell’ambito del Progetto ricerca FONDAZIONE CARIPLO “Functional mechanisms of the intronic AAGGG repeat expansion in RFC1 causing late onset ataxia” per la seguente tematica: “Meccanismi molecolari alla base di malattie neurodegenerative”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione concorsi.

AZIENDA OSPEDALIERO-UNIVERSITARIA PISANAScadenza, 11 luglio 2021 Conferimento dell’incarico quinquennale rinnovabile ad un dirigente biologo, chimico o medico, disciplina di patologia clinica, area della medicina diagnostica e dei servizi, a tempo determinato esclusivo, per la direzione della struttura complessa U.O. biobanche dell’Azienda ospedaliero-universitaria Pisana. Gazzetta Ufficiale n. 46 del 11-06-2021.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA BIOECONOMIA DI ROMA Scadenza, 19 luglio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, integrata eventualmente da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti all’Area scientifica “Ecologia e Biodiversita” da usufruirsi presso l’Istituto per la BioEconomia (IBE) del CNR, Sede di Roma, nell’ambito della Convenzione Operativa che include il progetto “Monitoraggio dell’erpetofauna e batracofauna trentina nell’ambito della Rete natura 2000”. Tematica: Monitoraggio e stime demografiche o di abbondanza di Salamandra atra atra e Salamandra atra aurorae in Trentino; Valutazione degli effetti della tempesta Vaia su Salamandra atra aurorae; contributo alla raccolta dati, stesura e redazione dell’Atlante degli Anfibi e Rettili della provincia di Trento. Per informazioni, www. cnr.it, sezione concorsi. AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI BOLOGNA Scadenza, 8 luglio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica, a

UNIVERSITÀ DI CATANZARO “MAGNA GRAECIA” Scadenza, 18 luglio 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E3 - Biochimica clinica e biologia molecolare clinica. Gazzetta Ufficiale n. 48 del 18-06-2021. AZIENDA SANITARIA LOCALE DI RIETI Scadenza, 18 luglio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, a tempo pieno e indeterminato.

Gazzetta Ufficiale n. 48 del 18-06-2021. AZIENDA SANITARIA UNICA REGIONALE AREA VASTA N. 2 DI FABRIANO Scadenza, 18 luglio 2021 Concorso pubblico unificato, per titoli ed esami, per la copertura di cinque posti di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, a tempo pieno e indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 48 del 18-06-2021. UNIVERSITA’ SAINT CAMILLUS INTERNATIONAL UNIVERSITY OF HEALTH SCIENCES DI ROMA Scadenza, 22 luglio 2021 Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per la Facoltà dipartimentale di Medicina e chirurgia, in lingua inglese. Gazzetta Ufficiale n. 49 del 22-06-2021. AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI PARMA Scadenza, 22 luglio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, per varie discipline, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 49 del 2206-2021.

BANDI & CONCORSI www.onb.it GdB | Giugno 2021

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Scienze

Un fattore di rischio genetico nella malattia di Crohn Le mutazioni del gene NOD2 sono noti fattori di rischio per la malattia di Crohn. Grazie alla scoperta delle popolazioni cellulari coinvolte, si apre la strada a nuove opzioni terapeutiche

di Valentina Arcovio

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a malattia di Crohn, una malattia infiammatoria intestinale cronica, colpisce molte persone in tutto il mondo. Ad esempio, più dello 0,3 per cento delle popolazioni del Canada e della Germania soffre questa patologia e si stima che la sua incidenza sia in aumento in tutto il mondo [1]. La malattia di Crohn è più frequente nei paesi occidentali ed è rara se non assente nei paesi in via di sviluppo. Si calcola che in Italia ci siano almeno 150.000 persone affette da malattie infiammatorie intestinali di cui probabilmente 30-40 per cento affetti da malattia di Crohn. Tale patologia si presenta prevalentemente in età giovanile (20 - 30 anni), più raramente nella terza età (65 anni), ma non sono rari casi anche nei bambini e negli adolescenti. Considerato il numero piuttosto elevato di persone che ne soffrono e le attuali opzioni di trattamento disponibili, la comunità scientifica concorda sul fatto che sono necessarie terapie migliori e più efficaci. Fino ad oggi i progressi nel trattamento della malattia di Crohn sono stati ostacolati dalla mancanza di comprensione di come questa patologia si sviluppa e si manifesta. Le cause della malattia, infatti, non sono note. Sembra che una combinazione di fattori, quali la predisposizione genetica, fattori ambientali, fumo di sigaretta, e alterazioni della flora batterica intestinale e della risposta immunitaria, possano scatenare l’infiammazione intestinale. Difatti, le cellule del sistema immunitario “attaccano” in maniera continua l’intestino e contribuisce a perpetuare l’infiammazione. Anche se alcuni geni sembrano essere coinvolti, non è una malattia ereditaria, né genetica. Ora un gruppo di ricercatori dell’Icahn School of Medicine del Mount Sinai di New York - Shikha Nayar, Joshua K. Morrison, Mamta Giri, Kyle Gettler, Ling-shiang Chuang, Laura A. Walker, Huaibin M. Ko, Ephraim Kenigsberg, Subra Kugathasan, Miriam Merad, Jaime Chu e Judy H. Cho – ha fatto luce su un fattore di rischio per la malattia di Crohn, rimasto per moltissimo tempo avvolto nel mistero. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature [3],

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potrebbero avere importanti implicazioni cliniche, aprendo la strada a nuovi potenziali trattamenti e terapie. La malattia di Crohn può colpire qualsiasi parte dell’intestino. Più comunemente, colpisce la regione dell’ileo, causando infiammazione che spesso si traduce in fibrosi (la deposizione di tessuto connettivo fibroso come risposta alla lesione). Ciò porta al restringimento (o stenosi) del lume dell’ileo. Condizione, questa, che spesso richiede un intervento chirurgico [3], anche se la malattia può tornare nel punto in cui viene eseguita la resezione chirurgica. La malattia di Crohn può manifestarsi in maniera diversa a seconda delle localizzazioni intestinali. I sintomi più frequenti sono diarrea cronica, cioè che persiste per più di 4 settimane, spesso notturna, associata a dolori e crampi addominali, talvolta con perdite di sangue misto alle feci, e con febbricola che insorge alla sera, oppure con dolori articolari, o con altre manifestazioni non intestinali. Spesso ci può essere un calo di peso importante. A volte, si può manifestare a livello anale con fistole o raccolte di pus (ascessi). Tuttavia, in una buona percentuale dei casi, la malattia non dà sintomi e viene scoperta solo per caso. La malattia di Crohn fornisce un utile modello di malattie mediate da geni e interazioni ambientali. In questo caso, la suscettibilità genetica è alla base delle risposte infiammatorie ai microrganismi intestinali che causano la malattia. Le variazioni genetiche, chiamate polimorfismi, del gene NOD2 [4] rappresentano la più forte associazione di rischio genetico per la malattia di Crohn; circa il 20 per cento del rischio di sviluppare la malattia è correlato a tre polimorfismi a singolo nucleotide di questo gene [5] . Inoltre, le mutazioni NOD2 sono forti fattori predittivi per lo sviluppo di stenosi dell’ileo e per la necessità di un intervento chirurgico nella malattia di Crohn, che è un’associazione ampiamente convalidata tra le basi genetiche di questa condizione e le manifestazioni della malattia [3] . Tuttavia, il collegamento del gene NOD2 alla suscettibilità alla malattia presenta quello che può essere consi-


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derato un vero e proprio paradosso. NOD2 è un recettore intracellulare che riconosce la molecola muramil dipeptide (MDP), un componente onnipresente delle pareti cellulari batteriche. Prima che NOD2 fosse descritto come un gene di rischio per la malattia di Crohn, la funzione di NOD2 era associata principalmente alle cellule immunitarie che aiutano le difese immunitarie innate. L’attivazione di NOD2 in queste cellule porta all’espressione di molecole infiammatorie chiamate citochine e una risposta infiammatoria particolarmente intensa può mediare il danno intestinale nella malattia di Crohn [6] [7] . Ci si sarebbe quindi potuti aspettare che le mutazioni di NOD2. note come mutazioni con perdita di funzione, che non generano una versione completamente funzionale della proteina codificata, proteggono dalla malattia di Crohn. Tuttavia, tali mutazioni con perdita di funzione di NOD2 sono state identificate come fattori di rischio per la malattia. La ricerca successiva si è quindi concentrata su un aspetto diverso della biologia di NOD2 nell’intestino, studiando come NOD2 sia in grado di mantenere l’omeostasi nell’intestino, dove la più grande biomassa del corpo di cellule immunologicamente attive è costantemente esposta a MDP dai microbi intestinali e come le mutazioni NOD2 perturbano questo equilibrio e portare alla malattia [6] . Prima di questo nuovo studio pubblicato su Nature, il ruolo delle mutazioni NOD2 nella fibrosi dell’ileo era sconosciuto. I ricercatori americani hanno cercato di capire cosa guida l’infiammazione e la fibrosi nella malattia di Crohn e hanno collegato queste intuizioni biologiche a NOD2 attraverso una serie di esperimenti condotti su cellule umane, tessuto intestinale umano e su un modello di pesce zebra [8].

In primo luogo, gli autori hanno utilizzato il sequenziamento monocellulare dell’RNA dal tessuto infiammato di campioni di ileo rimosso durante l’intervento chirurgico da persone con malattia di Crohn. Queste cellule hanno rivelato una particolare “firma” di espressione genica associata a macrofagi attivati e a cellule di fibroblasti. Gli autori hanno anche identificato un tipo di cellula chiave che esprime marcatori di lignaggi cellulari sia mieloidi che fibroblasti. Queste scoperte suggeriscono che una popolazione di macrofagi infiammatori nell’ileo si differenzia per diventare fibroblasti attivati durante il decorso della malattia. Sorprendentemente, gli autori dello studio hanno dimostrato la conservazione evolutiva di queste popolazioni cellulari in un modello sperimentale di infiammazione intestinale, cioè in un pesce zebra trattato con la molecola destrano solfato di sodio (DSS). Questa molecola è stata a lungo utilizzata per indurre danni intestinali e infiammazione in un modello di roditore standard. La modellizzazione in vivo delle malattie infiammatorie intestinali umane è stata dominata dai modelli murini. Tuttavia, come dimostrano da Nayar e i suoi colleghi, il pesce zebra offre un’utile alternativa per indagini ad alto rendimento e una rapida valutazione delle correlazioni con la malattia umana. In effetti, il pesce zebra e l’intestino dei mammiferi hanno una forma simile (morfologia). Inoltre, come gli esseri umani, il pesce zebra ha difese immunitarie sia innate che adattive e anche l’infiammazione intestinale del pesce zebra dipende dalla comunità dei microrganismi intestinali [9]. Gli strumenti di modifica genetica, come CRISPR [10], aiutano la rapida modifica dei geni di interesse per il pesce zebra. Gli autori dello studio, quindi, hanno studiato l’infiammazione intestinale nel pesce zebra progettato per avere un GdB | Giugno 2021

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deficit di NOD2 . Questi pesci, trattati con DSS, avevano un numero maggiore di cellule immunitarie leucocitarie nel loro intestino, un segno distintivo dell’infiammazione, rispetto al pesce zebra con NOD2 normale . Ma il modello del pesce zebra è rilevante solo se è possibile stabilire una correlazione umana. Di conseguenza, utilizzando i dati di bambini con nuova diagnosi di malattia di Crohn, gli autori mostrano che un aumento del numero di copie di una mutazione NOD2 (associata al rischio di malattia di Crohn) era effettivamente correlato a una firma di espressione genica di macrofagi e fibroblasti attivati nel tessuto dell’ileo. Per comprendere la funzione NOD2 nelle cellule umane che possono differenziare in vitro, gli scienziati americani hanno utilizzato monociti presenti nel sangue periferico prelevato da volontari sani e hanno determinato se le cellule avevano una, due o nessuna copia delle mutazioni NOD2 legate alla suscettibilità alla malattia di Crohn. Le cellule sono state quindi differenziate in vitro con e senza MDP. Gli autori hanno osservato un numero maggiore di fibroblasti attivati per le cellule con due copie di mutazioni NOD2 rispetto alle cellule con NOD2 “wild-type” . Inoltre, un aumento del numero di mutazioni di NOD2 erano associate a un corrispondente arricchimento nel numero di fibroblasti con una firma di espressione genica caratteristica delle cellule attivate. È interessante notare che il pesce zebra con carenze di NOD2 , a cui è stato somministrato MDP, aveva una firma di espressione genica caratteristica 96 GdB | Giugno 2021

dei fibroblasti attivati che persisteva anche durante il recupero da lesioni mediate da DSS, rispetto al pesce zebra che ha NOD2 wild-type . Questi dati suggeriscono che i deficit di NOD2 inibiscono il recupero, cioè la risoluzione, efficiente dalla fibrosi e dall’infiammazione. Per chiarire ulteriormente le basi molecolari della firma di espressione genica legata alla fibrosi associata alle mutazioni di NOD2 di rischio, gli autori dello studio hanno cercato regolatori trascrizionali a monte di questa via. Hanno così identificato il gene che codifica per STAT3 come marcatamente sovraregolato nei fibroblasti e nei macrofagi attivati. STAT3 è un regolatore trascrizionale dei componenti chiave delle risposte infiammatorie e fibrotiche nelle malattie infiammatorie intestinali e agisce attraverso il recettore delle citochine gp130. Le analisi dei dati clinici hanno rivelato un’espressione sovraregolata dei geni regolati da gp130 che codificano per le proteine IL-6, oncostatina M e IL-11 nelle persone con malattia di Crohn che non hanno risposto alla terapia mirata alla proteina del fattore di necrosi tumorale (TNF) [11]. Gli anti-TNF sono anticorpi utilizzato come trattamento comune per la malattia di Crohn. La scoperta suggerisce quindi che la segnalazione gp130 in questo gruppo di individui resistenti alla terapia svolge un ruolo importante. Gli autori hanno ipotizzato che bloccando gp130 si potrebbe ridurre le anomalie che si verificano con la mutazione NOD2. Per confermare questa idea gli studiosi americani hanno condotto una serie


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di test utilizzando il bazedoxifene, un inibitore di gp130, su cellule umane con mutazioni NOD2 trattate con MDP. Il bazedoxifene ha infatti ridotto la firma di espressione genica associata al fibrotico e ha invertito i cambiamenti della forma cellulare che sono caratteristici dei fibroblasti attivati. Questo farmaco ha anche ridotto il danno intestinale riscontrato nel pesce zebra NOD2 mutante trattato con DSS. Partendo dalle caratteristiche cliniche della fibrosi nella malattia di Crohn, questo lavoro descrive un percorso molecolare legato alle mutazioni NOD2 associate alla malattia e si conclude con una potenziale intuizione terapeutica per affrontare i pressanti problemi clinici della fibrosi e della resistenza ai farmaci anti-TNF. Sostenendo la genetica e gli esiti clinici di questo percorso cellulare e molecolare, lo studio fornisce una road map per comprendere gli approcci terapeutici presenti e futuri. Ora rimangono molte strade interessanti da approfondire. NOD2 è l’unico percorso di riconoscimento descritto per MDP, ma questo nuovo studio mostra la presenza di cambiamenti cellulari e molecolari indotti da MDP in assenza di NOD2 nei pesci zebra. Questo significa che ci sono percorsi di segnalazione MDP che non sono stati ancora descritti. Il bazedoxifene è stato inizialmente caratterizzato come un inibitore selettivo del recettore degli estrogeni [12], sollevando la preoccupazione che il farmaco possa avere effetti negativi su altre vie di segnalazione se usato come terapia per il morbo di Crohn. Il recettore gp130 ha più partner con cui stabilire un legame e questo può influenzare un’ampia gamma di risposte immunitarie. Quindi, la comprensione degli specifici ligandi di gp130 che orchestrano eventi molecolari mediati da NOD2 potrebbe portare a interventi terapeutici più selettivi, efficaci e più sicuri rispetto a quelli che inibirebbero globalmente la segnalazione di gp130. O potrebbe portare all’individuazione di altre vie di segnalazione clinicamente rilevanti, come gli enzimi Janus chinasi, che sono inibitori già in fase avanzata di sviluppo clinico per la malattia di Crohn). Non tutte le persone con la malattia di Crohn hanno mutazioni NOD2 associate al rischio di sviluppare questa patologia. Infatti, in individui di determinati gruppi etnici, come le persone di origine cinese, malese o indiana, la malattia dell’ileo è una caratteristica clinica prominente della malattia di Crohn, tuttavia NOD2 non è associata al rischio di malattia in questa popolazione [13] [14]. Forse la firma molecolare dei macrofagi e dei fibroblasti attivati è la firma unificante rilevante per gli individui con malattia di Crohn dell’ileo. È probabile che diversi contesti genetici possano portare agli stessi risultati clinici e molecolari. Quindi, i risultati di Nayar e del suo team di ricerca spostano il campo un passo avanti verso una classificazione molecolare della malattia di Crohn che potrebbe chiarire una condizione complessa che ha circa 200 regioni genetiche associate al rischio di malattia 10 e diverse manifestazioni cliniche.

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COVID-19: rischio di ansia e depressione in gravidanza e dopo il parto Gli studi scientifici hanno riportato un aumento dei livelli di disagio psicologico, ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress (PTSD) nella popolazione generale e in particolare nelle donne in età riproduttiva

di Sara Bovio

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epoca perinatale che va dalla gravidanza fino a un anno dopo il parto rappresenta per le donne un momento di vulnerabilità psicologica perché durante i processi di adattamento a questa nuova condizione potrebbero emergere o acuirsi i sintomi di un disagio. A ciò va aggiunto che la pandemia da COVID-19 ha creato una crisi sanitaria globale, e le sue implicazioni per la salute mentale stanno iniziando solo ora a svelarsi. Gli studi scientifici hanno riportato un aumento dei livelli di disagio psicologico, ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress (PTSD) nella popolazione generale e in particolare nelle donne in età riproduttiva [1-2]. Tuttavia, gli studi che si sono occupati di valutare se la situazione pandemica aggiunge preoccupazione, ansia, depressione e altri disturbi nelle donne che si trovano in epoca perinatale sono finora pochi e spesso sono in disaccordo tra loro. Le donne in gravidanza e in età fertile e i loro bambini non hanno un rischio maggiore di essere infettati o di avere sintomi o conseguenze gravi rispetto alla popolazione nel suo complesso [3]. Non ci sono nemmeno prove che mostrino evidenze sul fatto che il virus possa essere trasmesso per via verticale da mamma a bambino [4], ma risulta chiaro, alla luce delle conoscenze finora disponibili, che i neonati e i bambini che si sono infettati hanno un decorso della malattia più lieve e una prognosi migliore rispetto agli adulti [5]. Tuttavia, le donne incinte possono soffrire significativamente a causa delle restrizioni raccomandate, dell’allontanamento sociale, dell’isolamento, dell’incapacità di ottenere visite prenatali regolari, della paura di allattare il bambino. Anche la possibilità di trovare su internet informazioni a volte corrette, altre errate, su una malattia di cui non si sapeva nulla, ha contribuito a generare un disagio psicologico in popolazioni vulnerabili come le donne incinte [6]. Molti studi riferiscono che le donne incinte sono più vulnerabili all’ansia. L’attività fisica limitata, la paura dell’evento del travaglio, la preoccupazione per la salute del neonato e l’aumento degli ormoni corticali surrenali contribuiscono significativamente

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ai disturbi mentali e all’angoscia durante la gravidanza [7]. La presenza di una pandemia ha fatto aumentare inevitabilmente i livelli generali di ansia [8]. La depressione e l’ansia hanno conseguenze non trascurabili come un aumento del rischio di parto pretermine, un ritardo nel legame madre-feto e un ritardo nello sviluppo cognitivo del neonato [9]. Secondo il Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità n. 44/2020 [10], conseguenze della pandemia come la quarantena, la perdita della routine e del supporto sociale possono impattare negativamente anche sulle madri che hanno appena partorito e sui loro bambini. Studi recenti che hanno preso in considerazione epidemie passate, hanno evidenziato che la quarantena genera preoccupazioni e reazioni di intensa paura in particolare nelle donne in gravidanza o che hanno appena partorito [11]. In generale, la quarantena è stata associata ad alti livelli di stress [12], depressione [13], irritabilità e insonnia [14], e aumentato rischio di suicidio [15]. Per effetto delle politiche di contenimento della pandemia da COVID-19, l’accesso diretto ai servizi sanitari e di cura dedicati alla salute (e in particolare alla salute mentale) è stato limitato alle sole “urgenze”, rendendo così difficile il contatto diretto tra i pazienti e i sanitari. I contatti telefonici, le videochiamate, i messaggi hanno in parte supplito a questa mancanza [16], ma occorre tener presente che queste forme di contatto richiedono “l’intenzionalità”, mentre in tempi non emergenziali i contatti avvengono anche casualmente e, in caso di eventuali problemi, le reti parentali e amicali possono intervenire per fornire sostegno e aiuto. Durante il lockdown, è venuta a mancare la presenza fisica di questa importante rete di supporto che costituisce un fattore protettivo per la salute mentale e soprattutto per il rischio di suicidio [15-17]. Tutto ciò, unitamente al diffuso sentimento di paura per l’infezione contribuisce ad alimentare uno stato d’ansia e preoccupazione che può avere conseguenze gravi sulla salute mentale della donna, soprattutto nei soggetti più a rischio [18-19-16].


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Una recente indagine internazionale pubblicata sulla rivista PlosOne da Basu et al. [20] su donne in gravidanza e che hanno appena partorito è stata condotta per documentare la prevalenza di sintomi di stress post-traumatico, ansia e depressione, nonché la solitudine in questa popolazione. I ricercatori hanno esaminato in rapporto alla salute mentale e alla solitudine il tipo e la quantità di ricerca di informazioni attraverso vari canali (social media, notizie, discussioni con gli altri), il ruolo delle preoccupazioni legate alla pandemia e l’impegno in comportamenti di prevenzione contro il COVID-19. L’indagine è avvenuta attraverso un sondaggio anonimo, online condotto in 64 paesi tra il 26 maggio 2020 e il 13 giugno 2020. Le partecipanti hanno completato il sondaggio che verteva su l’esposizione e le preoccupazioni riguardanti la malattia, la ricerca di informazioni, i comportamenti di prevenzione e i sintomi di malattia mentale, tra cui lo stress post-traumatico, l’ansia, la depressione e la solitudine. Delle 6.894 partecipanti, percentuali sostanziali di donne hanno raggiunto o superato i cut-off per lo stress post-traumatico elevato (2.979 [43%]), l’ansia/depressione (2.138 [31%] e la solitudine (3.691 [53%]). La ricerca di informazioni da qualsiasi fonte (ad esempio, social media, notizie, parlare con gli altri) cinque o più volte al giorno è stata associata a più del doppio delle probabilità di stress post-traumatico elevato e ansia/depressione. La maggioranza delle donne (86%) ha riferito di essere alquanto o molto preoccupata per la malattia. Le preoccupazioni più comunemente riportate erano legate alla gravidanza e al parto, compresa l’impossibilità di ricevere visite dopo il parto (59%), la possibilità che il bambino contraesse la malattia (59%), la mancanza di una persona di supporto durante il parto (55%), e i cambiamenti alla pianificazione del parto dovuti al COVID-19 (41%). Le maggiori preoccupa-

zioni relative ai bambini (ad esempio, assistenza inadeguata ai bambini, il loro rischio di infezione) e la mancanza di appuntamenti medici sono stati associati a probabilità significativamente più elevate di stress post-traumatico, ansia/depressione e solitudine. I comportamenti di prevenzione del COVID-19 legati all’igiene (indossare la mascherina, lavarsi le mani, disinfettare le superfici) non erano correlati a sintomi di malattia mentale o solitudine. Gli autori della ricerca evidenziano anche i limiti del loro studio: rispetto agli studi sulla popolazione di donne perinatali e delle madri dopo il parto, il campione considerato includeva donne più istruite e più anziane, probabilmente più attive sulle piattaforme dei social media, che è stata la modalità primaria con cui sono state reclutate. Lo studio, inoltre, non ha incluso donne di età inferiore ai 18 anni. Di conseguenza, l’indagine di Basu e colleghi, probabilmente non rappresenta le preoccupazioni e i bisogni di salute mentale delle donne in gravidanza e delle madri che hanno appena partorito che possono essere maggiormente colpite dalla pandemia, come quelle con accesso limitato a internet o le adolescenti. Inoltre, lo studio ha utilizzato classificazioni razziali/etniche centrate sugli Stati Uniti, che potrebbero non corrispondere alle classificazioni in altre regioni o paesi del mondo. Infine occorre considerare che lo studio presenta i risultati di risposte date tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2020, periodo durante il quale i tassi dei casi di infezione cambiavano nel tempo con un andamento variabile nelle diverse regioni e Paesi. Lo studio conclude sostenendo che oltre allo screening e al monitoraggio dei sintomi di malattia mentale, si dovrebbe intervenire sviluppando strategie per contrastare la solitudine (ad esempio con gruppi di sostegno online), cercare di capire come affrontare l’eccessiva ricerca di informazioni e le preoccupazioni delle donne sull’accesso alle cure mediche GdB | Giugno 2021

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e sul benessere dei loro figli. Le campagne di salute pubblica, aggiungono i ricercatori, e i sistemi di assistenza medica, inoltre, dovrebbero affrontare esplicitamente l’impatto dei fattori di stress legati al COVID-19 sulla salute mentale delle donne perinatali, poiché la prevenzione dell’esposizione virale in sé non attenua l’impatto della pandemia sulla salute mentale. Un altro studio internazionale pubblicato a marzo del 2021 da Shorey et al. su Scandinavian Journal of Public Health [21] ha utilizzato la meta analisi per esaminare la prevalenza di ansia prenatale e postnatale e sintomi depressivi tra le donne in gravidanza e le madri che hanno appena partorito durante il periodo del COVID-19 in modo da poter suggerire come sviluppare e implementare in futuro interventi mirati. La ricerca è avvenuta su sei banche dati elettroniche con cui sono stati selezionati articoli pubblicati in inglese da novembre 2019 a dicembre 2020. Ventisei studi osservazionali e brevi rapporti sono stati inclusi nella meta-analisi. La maggior parte degli studi è stata condotta in Asia (Cina, Israele, Iran, Giappone e Sri Lanka; n=12), seguita dall’Europa (Italia, Belgio, Grecia, Turchia; n=8) e dal Nord America (Canada e Stati Uniti; n=6). Diciotto studi hanno esaminato le donne nel periodo prenatale, mentre cinque studi hanno esaminato le donne fino a 18 mesi dopo il parto, e quattro studi hanno esaminato le donne nel periodo perinatale. Nel complesso, i risultati dello studio hanno visto che la prevalenza dell’ansia era maggiore della depressione sia nel periodo prenatale che in quello postnatale, e la prevalenza della depressione era maggiore nel periodo prenatale che in quello postnatale. Pertanto, gli autori ritengono che gli operatori sanitari e i responsabili politici dovrebbero attuare più misure di sostegno durante il periodo prenatale, con particolare attenzione all’ansia. Shorey e colleghi sottolineano però che i loro risultati sono più rappresentativi dei paesi a reddito medio-alto e alto, in quanto nella loro analisi era compreso solo uno studio da un paese a reddito medio-basso, lo Sri Lanka. I ricercatori fanno notare però che due studi sono in 100 GdB | Giugno 2021

contrasto con i risultati degli altri lavori in quanto hanno riportato una maggiore prevalenza di sintomi d’ansia auto-riferiti tra le donne non incinte rispetto alle donne incinte [22, 23]. Secondo gli autori, la minore prevalenza dell’ansia nelle donne incinte durante una pandemia può essere attribuita al maggiore sostegno da parte del personale sanitario, alla maggiore priorità delle cure in famiglia che può comportare un maggiore sostegno emotivo [23] e al fatto di ricevere più benefici dal governo, come la cassa integrazione retribuita specificamente per le donne incinte [22]. Anche secondo lo studio israeliano di Yirmiya et al. [24] le donne incinte avevano un rischio ridotto di sintomi depressivi durante la pandemia. Questa indagine ha incluso un totale di 1114 donne incinte e 256 non incinte reclutate con i social media nel maggio 2020 per completare un sondaggio online che includeva questionari sulla depressione e l’ansia, questionari demografici, ostetrici e relativi al COVID-19. Le donne incinte hanno riportato meno sintomi depressivi ed erano meno preoccupate di avere il COVID-19 rispetto alle donne non incinte. Tra le donne incinte, i fattori di rischio per la depressione includevano un reddito inferiore, la paura della disoccupazione, pensare di essere malate di COVID-19, una gravidanza ad alto rischio, età gestazionale precoce e maggiore stress legato alla gravidanza. I fattori protettivi includevano un maggiore supporto del partner, comportamenti sani e una valutazione positiva della gravidanza. Secondo questo studio l’aumento del sostegno sociale, l’impegno in comportamenti salutari e la valutazione positiva possono migliorare la resilienza mentale. In accordo con lo studio israeliano anche una ricerca cinese [25] pubblicata sulla rivista Translational Psychiatry che isostiene che durante l’epidemia di COVID-19 in Cina, le donne incinte hanno avuto perfino un vantaggio nell’affrontare i problemi mentali causati da COVID-19, mostrando meno sintomi di depressione, ansia, insonnia e disturbi da stress post-traumatico rispetto alle donne non incinte. Per quanto riguarda il minor rischio di effetti psicologici sulle donne incinte, secondo gli autori ci possono essere diverse ragioni. In primo luogo, le donne incinte hanno deciso di rimanere incinte quando avevano una migliore salute mentale e situazione finanziaria. Pertanto, avevano una migliore condizione mentale di salute rispetto alle donne non incinte. In secondo luogo, le donne incinte, essendo al centro dell’attenzione della famiglia, possono ottenere più supporto emotivo dai membri della famiglia durante l’epidemia da COVID-19. In terzo luogo, un maggiore contatto con il personale medico può fornire supporto e diminuire i sintomi di stress. Quarto, le donne incinte riducono l’elabo-


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razione dei segnali di ansia chemosensoriale, riducendo così la percezione dell’ansia. Inoltre nello studio viene riportato che si stanno accumulando prove che i livelli ormonali elevati durante la gravidanza riducono i sintomi dello stress post-traumatico. Tra i limiti dello studio, gli scienziati individuano l’assenza di un follow-up longitudinale che impedisce di esplorare il suo impatto sugli esiti della gravidanza e in secondo luogo il fatto che la maggior parte delle partecipanti erano di Pechino, un limite alla generalizzazione dei risultati ad altre regioni. I ricercatori cinesi concludono dicendo che poiché il rischio di ansia, depressione e insonni e disturbi post traumatici da stress secondo il loro studio erano più comuni tra le donne non incinte in età fertile piuttosto che in quelle incinte andava tutelata maggiormente la salute mentale delle donne non incinte allocando razionalmente le risorse mediche e a stabilendo interventi psicologici mirati per le donne in età fertile per migliorare la salute mentale durante l’epidemia di COVID-19. Visti i risultati contrastanti tra alcuni degli studi finora pubblicati sui rischi per le donne in epoca perinatale di soffrire di disturbi psicologici conseguenti alla pandemia e considerati gli effetti che questi disturbi possono avere anche a lungo termine sulla salute delle donne e dei bambini, è necessario proseguire con nuove ricerche, che indaghino su quali siano i fattori comportamentali e cognitivi modificabili per ridurre il rischio di disturbi psicologici, e definiscano interventi utili per offrire un supporto psicologico mirato alle donne che dichiarano di soffrire di questi disturbi.

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La Vitamina C essenziale per la salute fisica e mentale Le proprietà e le caratteristiche dell’acido L-ascorbico fondamentale per la sopravvivenza degli individui

di Emanuele Rondina*

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li agrumi....limoni, arance, mandarini e pompelmi sono, frutti ricchi di vitamine e flavonoidi, veri amici della salute e del benessere. Al loro interno racchiudono, molti antiossidanti, in grado di combattere i radicali liberi, ed un elevatissimo contenuto di vitamina C (il cui nome scientifico è acido L-ascorbico), che ha il compito di svolgere funzioni fondamentali all’interno del nostro organismo. La vitamina C in particolare, è assolutamente essenziale per la nostra sopravvivenza, scopriamo le proprietà. La carenza di Vitamina C genera lo scorbuto Lo Scorbuto e il nome della patologia correlata alla mancanza di Vitamina C o acido ascorbico (prende il nome proprio da tale patologia correlata). La mancanza di tale molecola genera una carenza di collagene ed altre funzioni fondamentali correlate, portando da un’iniziale stanchezza allo sviluppo successivo di edemi delle braccia e delle gambe, alla fine la continua carenza di vitamina C portava a emorragie: sanguinamento dal naso e dalle gengive e la perdita dei denti, portando alla morte i soggetti colpiti per emorragie e per complicanze respiratorie infettive. Per secoli, lo Scorbuto è stata la principale causa di morte nei paesi del Nord Europa durante i mesi invernali (periodo in cui il consumo di ortaggi è molto ridotto.) o tra gli equipaggi delle navi a lungo corso dove frutta e verdura fresche (dunque la vitamina C) non erano disponibili ad esempio il viaggio di Magellano attorno al mondo si concluse con l’80% dei marinai morti a causa di questa malattia. Pur essendo una delle malattie note da più tempo, si trovano descrizioni anche nell’Antico Testamento e negli scritti di Plinio il Vecchio, solo nel 1700, grazie ad uno studio di un ufficiale della marina inglese James Lind, si trovò *

Biologo nutrizionista.

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una correlazione tra il consumo di agrumi e la patologia. L’acido ascorbico (Vitamina C), prende il nome proprio dalla patologia correlata alla sua assenza, lo Scorbuto. Per evitare lo Scorbuto è necessario consumarne una dose di almeno 10 mg/die (milligrammi giornalieri), ma i dosaggi minimi consigliati dai vari organismi sanitari nazionali sono leggermente superiori, variando tra i 30 ed i 120 mg/ die. Contando che limoni e arance hanno una concentrazione di vitamina c pari a 50 mg/100g, i peperoni di 150 mg/100g ed i broccoli di 110 mg/100g è facile osservare come con una dieta bilanciata (ricca di frutta e verdura) si superino abbondantemente queste soglie minime. La Vitamina C è essenziale per produrre il Collagene Tra le fondamentali funzioni svolte dalla vitamina C troviamo la sintesi del collagene, l’uomo infatti non è in grado di crearne questa importante molecola senza vitamina C. Il collagene è la principale proteina del tessuto connettivo negli animali, è fondamentale per la struttura, il rinnovo e la tenuta di: vasi sanguigni, pelle, muscoli e ossa, e rappresenta circa il 6% del peso corporeo di un essere umano (il 25% della massa proteica totale). La sintesi del collagene avviene in parte nei fibroblasti dove si forma Inizialmente una catena polipeptidica: il procollagene, questa molecola subisce poi un’idrossilazione di un certo numero di molecole di lisina e prolina (amminoacidi) e proprio in questo passaggio fondamentale la vitamina C (acido ascorbico) svolge un ruolo essenziale da ‘’cofattore’’ per la corretta sintesi del collagene che servirà a riparare e dare tono ai tessuti. Il collagene è anche in grado di conferire alla nostra pelle resistenza alla trazione, tono e compattezza. Con l’avanzare dell’età, però, la sintesi di collagene diminuisce sempre di più, mentre le molecole già formate tendono a degradarsi sempre più velocemente, favorendo così la comparsa di rughe sempre più profonde e la perdita di tonicità e compattezza.


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© leonori/shutterstock.com

La Vitamina C interagisce con il consumo dei grassi La vitamina C è fondamentale per la produzione di carnitina partendo dall’aminoacido lisina. La carnitina è sintetizzata nell’epatocita (cellule del fegato) e viene poi liberata in circolo e assunta dai tessuti periferici (muscoli scheletrici e dal cuore). Questa molecola, veicola l’ingresso di acidi grassi attivati (acil-CoA) nel mitocondrio dove vengono ossidati producendo energia. La Vitamina C veicola l’assorbimento del ferro Il ferro alimentare è costituito da ferro eme (Fe++, ione ferroso) e da ferro non eme (Fe+++, ione ferrico). • Il ferro eme (Fe++) è contenuto nell’emoglobina e nella mioglobina presente negli alimenti di origine animale (carni rosse magre, tacchino, pollo, pesci come tonno, merluzzo, salmone) ed è il ferro di più facile assorbimento da parte dell’intestino. • Il ferro non eme (Fe+++) è presente negli alimenti di origine vegetale (cereali, legumi e nelle verdure) ed è ferro meno assorbibile da parte dell’intestino. L’assorbimento del ferro non eme (Fe+++) è facilitato in presenza della Vitamina C (acido ascorbico), che ne facilita l’assorbimento tramite due meccanismi: • Riduzione degli ioni ferrici (Fe+++) - FERRO NON EME a in ioni ferrosi (Fe++) - FERRO EME, meglio assorbito Chelazione degli ioni ferrici (Fe+++) - FERRO NON EME che così possono essere assorbiti in questa forma

• Libera il ferro di riserva legato alla ferritina in forma di Fe++ presente nel fegato, nella milza e nel midollo osseo Arance e Vitamina C contro il Covid-19? L’arancia (Citrus sinensis), frutto ben noto per il suo contenuto di vitamine e flavonoidi. Tra i flavonoidi, si evidenzia l’esperidina, che ha recentemente attirato l’attenzione dei ricercatori, perché si lega alle proteine-chiave del virus SARS-CoV-2. Vari metodi computazionali, applicati indipendentemente da diversi ricercatori, hanno dimostrato che l’esperidina ha una facilità di legame sia con la proteina “spike” del coronavirus, sia con la proteasi principale che trasforma le prime proteine del virus (pp1a e ppa1b) nel complesso responsabile per la replicazione virale suggerendo che questa molecola potrebbe svolgere un’efficace azione antivirale. Inoltre, sia l’esperidina che l’acido ascorbico contrastano gli effetti dannosi per le cellule dei radicali liberi dell’ossigeno innescati dall’infezione e dall’infiammazione. La possibile efficacia preventiva della vitamina C, alla dose ottenibile dalla dieta, è oggetto di discussioni ma recenti rassegne suggeriscono che questa sostanza può essere utile in caso di forte carico del sistema immunitario causato da malattie virali. In conclusione, metodi computazionali e studi di laboratorio supportano la necessità di intraprendere appositi studi preclinici, epidemiologici e sperimentali sui potenziali benefici dei componenti degli agrumi per la prevenzione delle malattie infettive. GdB | Giugno 2021

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Vitamina C e l’interazione con i radicali liberi L’acido ascorbico partecipa all’inattivazione dei radicali liberi dell’ossigeno, il che assicura una protezione dagli agenti ossidanti che sono tossici per la cellula. La vitamina C e la vitamina E in ambiente lipidico hanno un effetto antiossidante sinergico, la Vitamina C infatti permette di rigenerare la forma ridotta della Vitamina E (che si sviluppa dopo la reazione con i radicali liberi), donando un elettrone al radicale tocoferossile. La forma così nuovamente riattivata della Vitamina E permetterà di “eliminare” così altri radicali liberi in un loop sinergico positivo e rigenerativo per l’organismo. La Vitamina C protegge i neuroni Diversi studi hanno dimostrato che la Vitamina C ha un effetto neuroprotettivo l’acido ascorbico infatti, contrastando i radicali liberi e agendo come modulatore dei sistemi neurotrasmettitori monoaminergici e glutamatergici, produce un effetto antidepressivo contrastando così le malattie legate allo stress, come la depressione e l’ansia. La Vitamina C entra nelle cellule del sistema nervoso centrale (SNC) tramite i trasportatori della vitamina C di sodio (SVCT2) e i trasportatori facilitati del glucosio (GLUT1), anche se è stato postulato che possa entrare nel cervello anche attraverso la barriera emato-encefalica; tuttavia, il meccanismo non è stato chiarito. Una volta all’interno del cervello, l’acido ascorbico viene incorporato dai neuroni agendo poi come: • neuromodulatore • cofattore enzimatico • spazzino delle specie reattive dell’ossigeno (ROS). La Vitamina C sembra avere un ruolo positivo anche per la malattia di Parkinson (PD). E’ infatti una malattia neurodegenerativa ed è caratterizzata dalla progressiva degenerazione dei neuroni dopaminergici nella substantia nigra (SN), e lo stress ossidativo è stato identificato come una delle principali cause di degenerazione nigrostriatale nel PD. L’acido ascorbico agendo come antiossidante sembra svolgere un ruolo efficiente per proteggere le cellule dai danni dei radicali liberi, ma è facilmente ossidabile e perde la sua attività antiossidante pertanto ha bisogno di un apporto costante. La Vitamina C fabbisogno giornaliero Per l’adulto la quantità minima di vitamina C necessaria per prevenire lo scorbuto è di circa 10 mg/die, ma la quantità raccomandata secondo i LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia, IV Revisione 2014), varia in base a età ed esigenze ed è pari a 105 mg per gli uomini e 85 mg per le donne. L’EFSA e il Ministero della salute fissano a 1 g/ die il valore di assunzione da non superare. L’emivita (il tempo necessario in cui i processi di eliminazione fanno diminuire 104 GdB | Giugno 2021

la quantità della molecola nell’organismo del 50%), è di circa 10-20 giorni. Quando si somministrano dosi elevate e la concentrazione plasmatica supera 14 mg/1, la vitamina C assorbita viene principalmente eliminata in forma invariata nelle urine. Normalmente viene eliminata nelle urine sotto forma di metaboliti, mentre solo piccole quantità sono eliminate nelle feci, nel sudore e per via respiratoria sotto forma di CO2. Visto l’importanza fondamentale di tale molecola per il nostro corpo, la vitamina C viene recuperata per oltre il 90% nei reni attraverso un riassorbimento tubolare Però in caso se ne assumessero alti dosaggi (come ad esempio una integrazione), l’eccesso verrebbe espulso dalle urine maggiormente come acido ascorbico e in formato minore come metaboliti come l’acido ossalico (55%), l’acido deidroascorbico (25%), l’acido dicheto-gluconico (2%) e l’ascorbato-2-solfato. La Vitamina C nel piatto La Vitamina C contenuta negli alimenti è molto sensibile alla degradazione che può avvenire preparando le pietanze, ecco come:


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• Cottura a alte temperature (forno) o prolungata a basse temperature, mantenimento al caldo o riscaldamento degli alimenti - la vitamina C è sensibile al calore e la degradazione può arrivare anche al 90%100% per cotture molto prolungate; • Cottura in acqua - la vitamina C è solubile in acqua, il che può provocare un impoverimento supplementare oltre a quello dato dall’esposizione al calore; • Centrifugati e spremute - l’esposizione alla luce e all’ossigeno degrada la vitamina C, pertanto si consiglia il consumo rapido una volta preparati; • Frutta e verdura cruda, alimenti consumati in breve tempo dal momento della preparazione e/o tenuti al buio in frigo - con questo preparazione, viene mantenuta alta la concentrazione di vitamina C degli alimenti. Per assumere la vitamina C con gli alimenti quindi, è consigliabile ingerire la frutta e la verdura che ne contengono in alte quantità (Tabella 4), senza esporli a processi di cottura e non preparati in precedenza e esposti alla luce. © Gargonia/shutterstock.com

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Ecm Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 6 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.

Acido Urico e Malattie Cardiovascolari Di seguito pubblichiamo un breve abstract di sintesi del corso Fad “Acido Urico e Malattie Cardiovascolari. Malattie e risvolti clinico terapeutici”. Il corso è disponibile all’interno dell’area riservata “MyOnb”

di Plinio Cirillo

L’

acido urico rappresenta il prodotto terminale del metabolismo delle purine. Storicamente, e’ noto che l’iperuricemia, definita come elevati livelli plasmatici di acido urico risulta solitamente associata allo sviluppo di fenomeni infiammatori articolari come l’artrite e, soprattutto, la gotta. Recenti studi epidemiologici hanno evidenziato come i pazienti affetti da iperuricemia presentino un’elevata incidenza di malattie cardiovascolari. In particolare, elevati livelli di acido urico sono stati correlati con lo sviluppo di ipertensione arteriosa, aterosclerosi, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco. Tuttavia, i meccanismi attraverso cui l’iperuricemia si associ allo sviluppo di malattie cardiovascolari sono attualmente solo parzialmente definiti in dettaglio. Nel presente corso verranno illustrate le principali evidenze cliniche che correlano elevati livelli plasmatici di acido urico con lo sviluppo di patologie cardiovascolari. Inoltre, verranno descritti alcuni dei principali meccanismi molecolari potenzialmente coinvolti nella modulazione di questi effetti cardiovascolari. Infine, il corso illustrerà brevemente gli approcci terapeutici correntemente utilizzati per ridurre i livelli plasmatici di acido urico, descrivendone gli effetti in ambito cardiovascolare.

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L’evento si terrà a PADOVA il 2 luglio 2021 alle ore 18:30 Piazza Gasparotto, 8

INAUGURAZIONE DELLA DELEGAZIONE DI VENETO, FRIULI-VENEZIA GIULIA E TRENTINO-ALTO ADIGE Interventi:

Sen Dott. Vincenzo D’Anna

Presidente dell’ONB e delegato regionale di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige

Dott. Giovanni Gasparetto Dott. Devis Casetta Dott. Giorgio Mucignat Dott.ssa Edith Bucher Dott. Alessandro Ugolini Vicedelegati

Dr.ssa Anna Verde

Commissario straordinario delegazione

Autorità civili e militari

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Giornale dei Biologi

Anno IV - N. 6 giugno 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb

Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Giugno 2021 Anno IV - N. 6

Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione lunedì 28 giugno 2021. Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it.

BIOLOGI CON LA FAO

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Siglata a Roma la partnership tra l’Ordine Nazionale dei Biologi e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura. D’Anna (ONB): “I nostri iscritti potranno partecipare a progetti internazionali di tutela ambientale”

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Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi Andrea Morello Marco Rufolo Erminio Torresani GdB | Giugno 2021

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INAUGURAZIONE DELLA SEDE REGIONALE DI LAZIO E ABRUZZO DELL’ONB ROMA - The Building Hotel 8 luglio 2020 - Ore 17:00

Interventi: Sen. dott. Vincenzo D’Anna

Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Dott. Alberto Spanò

Consigliere dell’Onb e delegato regionale di Lazio e Abruzzo

Dott. Gianpaolo Leonetti

Commissario della delegazione di Lazio e Abruzzo

Autorità convenute

www.onb.it

*Via Montebello 126


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