Il Giornale dei Biologi - N.7/8 - Luglio/Agosto 2022

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Luglio/agosto 2022 Anno V - N. 7/8

LA “DELOCALIZZAZIONE” DEI VIRUS TROPICALI Vaiolo delle scimmie, West Nile, Chikungunya, encefaliti da zecche In Europa e in Italia patologie tipiche di altre aree geografiche

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IL LABORATORIO NELLA MEDICINA DI PRECISIONE

Messina - 19 settembre 2022 www.onb.it


Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Libertà e responsabilità di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 6

Terza estate con Covid. Contagi ancora alti, ma ricoveri sotto controllo di Rino Dazzo

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Non solo il vaiolo delle sciemmie di Rino Dazzo

20 SALUTE

55 INTERVISTE 10

Staminali cordone ombelicale. Modello per miglior selezione dei campioni da crioconservare di Ester Trevisan

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Riprodotti in laboratorio i super anticorpi delle donne che proteggono i neonati di Sara Bovio

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Il dispositivo che cura il dolore senza farmaci di Domenico Esposito

20

Ottenuti in laboratorio i “geni-architetto” del corpo di Domenico Esposito

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Riparare i tessuti cardiaci danneggiati di Michelangelo Ottaviano

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Un monoclonale per gli attacchi di emicrania di Domenico Esposito

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Il sonno e gli effetti sulla salute del cuore di Domenico Esposito

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Il collagene nei cosmetici di Carla Cimmino

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Termoablazione. Il calore nel trattamento dei noduli alla tiroide di Anna Lavinia

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Svelato come il virus Zika danneggia il cervello dei nascituri di Ester Trevisan

Il microbiota nelle patologie cutanee e tricologiche di Biancamaria Mancini

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Farmacologia e tossicologia nell’età antica di Barbara Ciardullo


Sommario AMBIENTE 38

Cappotto verde di Gianpaolo Palazzo

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L’enzima del batterio ecologico di Elisabetta Gramolini

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L’Italia nel fuoco di Gianpaolo Palazzo

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Laboratori per innovazioni di Gianpaolo Palazzo

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In aumento la presenza del lupo lungo tutta la penisola di Sara Bovio

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L’intelligenza del polpo e i trasposoni di Michelangelo Ottaviano

53

La crisi dei fiumi italiani di Michelangelo Ottaviano

38 SPORT 62

Alexia e i suoi fratelli. Quei “Crack” alla vigilia della festa di Antonino Palumbo

66

Il mare nostrum è azzurro. L’Italia regina ai giochi del mediterraneo di Antonino Palumbo

INNOVAZIONE 54

Un parco solare con materiali biodimensionali di Pasquale Santilio

68

La domenica d’oro del volley azzurro di Antonino Palumbo

55

La “cellula della vita”: ecco il vivaio del futuro di Pasquale Santilio

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56

Il biocombustibile su un jet militare di Pasquale Santilio

L’atletica italiana ha il mr. Jump: Mattia Furlani di Antonino Palumbo

57

Video analisi per la diagnosi del Parkinson di Pasquale Santilio

LAVORO

62 BENI CULTURALI 58

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SCIENZE 74

Anafilassi: meccanismi patogenici, clinica e trattamento di Matteo Martini

78

Fisica e neuroscienze per i deficit da ictus di Cinzia Boschiero

82

Il microbiota nelle sue interferenze con i farmaci antibiotici di largo consumo di Giuseppe Palma

Casa Noha. Perfetto cancello d’ingresso alla città dei Sassi di Rino Dazzo Torna a splendere il Battistero di Firenze di Pietro Sapia

Concorsi pubblici per Biologi

ECM 86

Interazioni farmaco-cibo e cibo-farmaco di Marco Zanetti


Editoriale

Libertà e responsabilità di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

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r ti piaccia gradir la Ancora peggio quando si pensa che la libertà sua venuta: libertà va sia un qualcosa di acquisito a prescindere e pecercando, ch’è sì cara, rennemente e non una conquista di tutti i giorcome sa chi per lei vita ni. Parliamoci chiaro: senza coniugare i propri rifiuta». Così il sommo poeta, Dante Alighieri, diritti con i conseguenti doveri, si agisce fuori descrive nella Divina Commedalla libertà responsabile e dal Appartenere dia (canto primo del Purganovero di quegli attributi che ad una categoria torio), lo “scopo eroico” della ci rendono buoni cittadini che professionale, rispettarne libertà civica. Una libertà che rispettano il contratto sociale le regole deontologiche, significa anche è anche propria dello spirito e con l’intera società. Rimanenconiugare libertà che va intesa come condizione do più strettamente a quel che e responsabilità indispensabile per vivere con ci riguarda, come uomini di decoro la propria esistenza, per reclamare i diritti scienza, come Biologi, che spesso operano procivici e politici innanzi a qualsiasi autorità. Certo fessionalmente alle frontiere della conoscenza “libertà” è una parola inflazionata, spesso usata a ed affrontano temi etici intricati, chiediamoci: sproposito oppure inutilmente allorquando, non quale senso ha la libertà? Appartenere ad una essendo congiunta con “responsabilità”, diventa categoria professionale, rispettarne le regole depretesa arbitraria di fare come ci pare e piace in- ontologiche, in regola con l’adempimento dei vadendo la sfera dei diritti altrui. doveri verso tutti gli altri colleghi significa, di per GdB | Luglio/agosto 2022

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Editoriale

se stesso, coniugare libertà e responsabilità? esprimere le proprie potenzialità fuori se non La risposta credo debba essere affermativa! contro il proprio nucleo di appartenenza (inPer molti anni (e per molti iscritti ad ONB!) si è teso come categoria). Ne è conseguito che percepita un’idea distorta della funzione dell’Or- l’Ordine è stato malamente concepito come dine professionale: tutto fuorché un punto di una tassa per poter praticare l’esercizio delsintesi e di colleganza con il comune sentire di la professione oppure un ufficio che forniva una categoria, la nostra, capace di avanzare nel- servizi personalizzati in caso di necessità. Una la considerazione generale ed accrescere le po- funzione di tutor, insomma, al quale occorretenzialità che le derivano da una molteplicità di va ricorrere per dipanare problemi specifici specifiche competenze pienaed individuali. L’Ordine è stato mente godute ed applicate nelPer fortuna, grazie anche malamente concepito lo spazio di azione della profesal lavoro svolto dal Consicome una tassa per poter sione. La libertà è stata ridotta, glio dell’Ordine nell’ultimo praticare l’esercizio della in passato, ad anarchia mentre quinquennio, le cose sono professione oppure un ufficio che forniva servizi la responsabilità si è ritrovata cambiate sostanzialmente personalizzati accantonata come se non fosse ancorché questa nuova diuna caratteristica doverosa per mensione non abbia ancora poter crescere tutti insieme. raggiunto tutti gli iscritti. Recuperata gran È questa distonia che ha portato alla crea- parte di costoro ad una maggiore informazione di pregiudizi e di stereotipi, all’incenti- zione, una migliore interlocuzione, una forvazione di vere e proprie enclavi sotto forma mazione gratuita, poliedrica e costante nel di gruppi sociali e di associazioni composte da tempo si va ora, a poco a poco, formando biologi che esercitavano la stessa specifica atti- anche l’idea dello spirito di categoria. La vità professionale. Molti hanno inteso procu- pluralità delle innovazioni e delle nuove oprarsi da soli informazioni, formazione, oppor- portunità, la crescita dei servizi e delle tutele tunità professionali coltivando l’idea di poter garantite, la tutela della professione, le con4

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Editoriale

quiste legislative, hanno fatto da buon esem- delegata agli organi nazionali e ciascuno cominpio, eccitando prima curiosità e poi fiducia cerà a ben comprendere quanto laboriosa sia verso l’ONB. stata e sia tuttora, la fase realizzatrice delle cose. Un percorso che, però, non si è esaurito man- A cominciare dall’esercizio del diritto di voto cando ancora il completamento della fase di che costituisce il primo banco di prova per far decentramento del vecchio Ordine Nazionale marciare insieme libertà dei territori e responsadestinato a trasformarsi in federazione degli Or- bilità dei propri iscritti. dini Regionali. Interi territori avranno così l’opI maestri da tastiera che imperversano sui portunità di esprimersi in ragione delle specifi- gruppi social, “benaltristi” e critici di professioche criticità e delle opportunità ne dovranno anch’essi mettersi Il 4 di ottobre 2022 da cogliere sul posto. Anche alla prova non solo reclamanl’indizione delle elezioni in questo ultimo caso la libertà do libertà ma declinando la per eleggere i Presidenti delegata in loco non avrà alcun responsabilità di esercitarla. Ci ed i Direttivi regionali, senso se non nascerà una nuosono ancora migliaia di iscritti aprirà una fase storica per il nostro Ordine va stagione di responsabilità che vivono in aperta indifferenprofessionale operosa. za, nell’ignoranza delle tante Il 4 di ottobre l’indizione delcose già fatte, nella presunzione le elezioni per eleggere i Presidenti ed i Direttivi che tutto si possa realizzare a chiacchiere: ebberegionali, aprirà una fase storica per il nostro Or- ne dovranno scendere dal pulpito etereo ed auto dine e per mettere a frutto idee, eventi, formazio- referenziale dal quale sono soliti lanciare giudizi ne sul campo secondo le specifiche esigenze. Un spesso ignari dei mutamenti sopraggiunti e rimampio spazio di libertà operativa che deve vede- boccarsi le maniche. In questi giorni vedremo re come contropartita l’impegno degli iscritti in quanti saranno i volenterosi ed i responsabili e quelle regioni, una sintesi tra libertà e responsa- tireremo le somme per una categoria, quella dei bilità di saper migliorare l’intera categoria e le sue Biologi italiani, che deve ancora formarsi nella peculiari esigenze. Là responsabilità non sarà più coscienza di tanti di noi. GdB | Luglio/agosto 2022

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Primo piano

TERZA ESTATE CON COVID CONTAGI ANCORA ALTI, MA RICOVERI SOTTO CONTROLLO L’occupazione delle terapie intensive non supera il 10% della capacità. Decessi in aumento, ma lontani dai picchi di tre anni fa. La nuova variante Centaurus di Rino Dazzo

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a terza estate segnata dal Covid è anche la prima senza troppe restrizioni in Italia, dove l’obbligo di mascherine permane soltanto su aerei, treni, autobus e negli ospedali. Ed è anche la prima in cui la diffusione del virus è piuttosto alta, in una stagione solitamente segnata da un numero relativamente più basso di contagi. I numeri, però, seppur espressi in decine di migliaia – agosto si è aperto con una media settimanale di 53mila nuovi casi al giorno, contro i 68mila di inizio luglio – raccontano che nel nostro Paese la pandemia vive una fase di sostanziale tregua. I decessi sono in aumento (175 al giorno contro i 58 di media del mese prima), mentre il tasso di occupazione delle terapie intensive e dei reparti ordinari rimane sotto il livello di guardia. In nessuna regione, infatti, la percentuale di occupazione delle terapie intensive da parte dei pazienti Covid supera il 10%, mentre per quel che concerne i reparti ordinari la soglia d’allerta del 15% è superata in 14 regioni: il picco in Umbria con il 39%. Dati e percentuali che invitano a tenere alta l’attenzione ma che non fanno accendere spie rosse, come confermato dall’ultimo monitoraggio settimanale del ministero della Salute: «Si

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conferma una fase epidemica di transizione. L’incidenza è molto elevata ma in diminuzione da due settimane con una riduzione della velocità di trasmissione a valori prossimi o inferiori alla soglia epidemica. Si osserva una tendenza alla stabilizzazione nei tassi di occupazione dei posti letto in area medica e terapia intensiva. In questa fase si ribadisce la necessità di continuare a rispettare le misure comportamentali individuali e collettive previste/raccomandate, l’uso della mascherina, aereazione dei locali, igiene delle mani e ponendo attenzione alle situazioni di assembramento. L’elevata copertura vaccinale, il completamento dei cicli di vaccinazione e il mantenimento di una elevata risposta immunitaria attraverso la dose di richiamo, con particolare riguardo alle categorie indicate dalle disposizioni ministeriali, rappresentano strumenti necessari a mitigare l’impatto soprattutto clinico dell’epidemia». Nella sostanza, i casi sono in lenta e progressiva diminuzione perché Omicron 5 ha ormai raggiunto il suo plateau. È già all’orizzonte, tuttavia, una nuova variante destinata a diventare egemone in pochi mesi: Centaurus. Si tratta della sottovariante Ba.2.75, il cui primo caso è già stato isolato in Italia a metà luglio. Bastano pochi minuti di esposizione in


Primo piano

ambienti chiusi perché si diffonda e il perché della maggior contagiosità lo spiega Fabrizio Pregliasco, docente di Igiene dell’università Statale di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi, in un’intervista a Il Sole 24 Ore: «I dati relativi alle mutazioni di Centaurus riferiscono una maggiore affinità del nuovo sottolignaggio per i recettori ACE2 delle cellule umane, una maggiore capacità di trasmissione, superiore a quella della Omicron attualmente dominante. Inoltre Ba.2.75 mostra poi anche una possibilità di sfuggire alla risposta immunitaria pregressa. Una potenzialità che, se confermata, può appunto garantire a questa sottovariante di diventare protagonista. Non ci sono invece al momento dati su una maggiore gravità di Centaurus». Dalle prime analisi che arrivano dall’India, paese d’origine di questa e di altre varianti del virus, sembra infatti che Centaurus non sia più grave o letale delle varianti che l’hanno preceduta. La protezione dalle forme gravi assicurata dai vaccini è ancora significativa e dunque, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione, la vaccinazione rimane fondamentale come arma d’elezione contro l’aggressività del Covid. La quarta dose per gli over 60 e per i soggetti con varie patologie pregresse è in grado di arginare i sintomi più pericolosi della malattia. E a proposito di vaccini, è in fase di preparazione la campagna vaccinale d’autunno, in

Dalle prime analisi che arrivano dall’India, paese d’origine di questa e di altre varianti del virus, sembra infatti che Centaurus non sia più grave o letale delle varianti che l’hanno preceduta.

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cui dovrebbero entrare in gioco i nuovi prodotti tarati specificamente su Omicron e non più sui ceppi originari del virus del 2019 a Wuhan. L’approvazione dell’Ema è attesa per settembre, due i farmaci attualmente in fase di valutazione, mentre dal primo ottobre le prime dosi potrebbero essere trasferite in Italia. Fermo restando che i vaccini in uso, soprattutto dopo i richiami, assicurano protezione efficace dalle forme cliniche della malattia, quelli aggiornati dovrebbero garantire una protezione più alta anche dallo stesso contagio. Ma gli esperti al riguardo non sono tutti d’accordo. Per il virologo Andrea Crisanti i vaccini in arrivo in autunno saranno «aggiornati per modo di dire, tarati contro la variante Omicron che non esiste più, non circola più». Andrebbero più che bene, insomma, i sieri già disponibili, senza il bisogno di dover aspettare necessariamente alcuni mesi per sottoporsi a una forma di vaccinazione sulla carta più efficace. Mentre Rino Rappuoli, responsabile scientifico della multinazionale farmaceutica Gsk, lamenta la mancanza di finanziamenti: «Non c’è più lo sforzo di due anni fa. Esistono due o tre trial nel mondo per i vaccini mucosali, niente a che vedere con la mobilitazione del 2020». Servirebbero, in particolare, «vaccini completamente nuovi, capaci di proteggerci non solo dalle varianti di SARS-CoV-2, ma anche da tutti gli altri coronavirus». GdB | Luglio/agosto 2022

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Primo piano

NON SOLO IL VAIOLO DELLE SCIMMIE: LE ALTRE MALATTIE TROPICALI IN ITALIA Crescono i casi di Monkeypox, anche se la situazione rimane sotto controllo In aumento le segnalazioni di West Nile, Chikungunya ed encefalite da zecche

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iamo in Italia o in un paese tropicale? Non c’è solo il Covid, che proprio non vuol saperne di mollare la presa, a tenere alta l’attenzione delle istituzioni sanitarie. Vaiolo delle scimmie, West Nile, Chikungunya, encefaliti da zecche, persino avvistamenti sempre più frequenti di presunte meduse killer: nelle ultime settimane è stato tutto un fiorire di “allarmi”, più o meno giustificati. In realtà la situazione non è emergenziale, anche se è vero che, rispetto a qualche anno fa, alcune malattie considerate di pertinenza di altre aree geografiche oggi sono diventate sempre più comuni nel Belpaese. Comuni nel senso che qualche caso è registrato anche qui, anche se i numeri rimangono sempre piuttosto contenuti. Subito dopo il Covid, l’epidemia che sta catalizzando le maggiori preoccupazioni – non solo in Italia – è quella del vaiolo delle scimmie. I casi in effetti sono in aumento: al 29 luglio, sono 479 quelli confermati dai vari laboratori della penisola, di cui 53 nei tre giorni immediatamente precedenti. La regione col maggior numero di contagi è sempre la Lombardia (216), seguita da Lazio (101), Emilia Romagna (55) e Veneto (33), mentre l’età mediana dei pazienti è di 37 anni, con un’assoluta prevalenza di uomini rispetto alle donne: 476 su 479. Quasi un terzo dei casi,

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146, è collegato a viaggi all’estero e la trasmissione della malattia, che avviene quasi esclusivamente per via sessuale, circoscrive per quanto possibile le categorie più a rischio. L’infettivologo Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’ospedale Policlinico San Martino di Genova, ne ha indicato alcune: «Uomini tra i 20 e i 40 anni, con un’età media di 35 anni, che hanno avuto rapporti sessuali o omosessuali, o eterosessuali o bisessuali. È a queste persone che dovremmo indirizzare la nostra attenzione, con tutte quelle che sono le campagne di prevenzione. Da una parte bisogna cercare di spiegare che, essendo una malattia che si trasmette prettamente attraverso un contatto sessuale o un contatto con le lesioni, occorre fare molta attenzione in questo periodo. L’altra cosa molto importante secondo me è l’utilizzo del vaccino, che andrebbe indirizzato a queste persone e dovrebbe essere reso assolutamente disponibile». Negli Stati Uniti la diffusione del vaiolo delle scimmie è presa molto sul serio. La città di San Francisco, ad esempio, ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria pubblica locale per il monkeypox a partire dal primo agosto. Secondo la sindaca London Breed, che ha diffuso un messaggio sui social, questo provvedimento «consente di preparare e dedicare risorse per prevenire la diffusione della malat-


A diffondere il virus West Nile, contrariamente a quanto si può pensare, è la zanzara comune notturna (Culex pipiens), che rimane infetta dopo aver punto uccelli colpiti da virus e che trasmette lo stesso virus a uomini, cavalli o altri animali.

Altra malattia di cui è stata segnalata presenza in Italia è la Chikungunya, trasmessa dalla Aedes Aegypti, zanzara legata alla trasmissione di altre patologie virali molto pericolose come dengue, febbre gialla o Zika. I sintomi della Chikungunya includono nausea, affaticamento, eruzioni cutanee e, soprattutto, dolori muscolari e mal di testa. Al morso di una particolare zecca del genere Ixodes, invece, si deve la diffusione di un’encefalite segnalata in diversi casi soprattutto nel Veneto. Quando un insetto infetto morde un uomo può diffondere, in minima percentuale, i sintomi di una malattia infettiva virale che coinvolge il sistema nervoso centrale. Ma come mai negli ultimi tempi queste malattie, di fatto sconosciute fino a pochi decenni fa, hanno fatto la loro comparsa in Italia? Per Walter Ricciardi, professore ordinario d’Igiene e Medicina Preventiva all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, un ruolo importante è giocato dal cambiamento climatico: «Anche nel nostro Paese si stanno sviluppando le condizioni climatiche affinché le zanzare (e altri insetti, ndr) vivano per tutto l’anno. Questo aumenta il rischio di infezioni da loro trasmesse». (R. D.) © Jarun Ontakrai/shutterstock.com

tia». Che, al momento della dichiarazione dello stato d’emergenza, aveva fatto contare 261 casi diagnosticati su una popolazione metropolitana di poco inferiore ai 900mila abitanti. Si arriverà a provvedimenti del genere anche in Italia? Quel che è certo è che, al momento, dalle nostre parti sono in aumento i timori legati alla diffusione di altre malattie dai nomi esotici o tropicaleggianti come il virus West Nile, che questa estate ha fatto registrare una cinquantina di casi con cinque morti. A diffonderla, contrariamente a quanto si può pensare, è la zanzara comune notturna (Culex pipiens), che rimane infetta dopo aver punto uccelli colpiti da virus e che trasmette lo stesso virus a uomini, cavalli o altri animali. Il periodo di incubazione dal momento della puntura varia tra i due e i 14 giorni, i sintomi spaziano tra febbre, mal di testa, vomito, nausea, linfonodi ingrossati e sfoghi cutanei, per diventare più seri presso deboli e anziani. C’è da preoccuparsi? Non tanto. I dati di quest’estate, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, sono in linea con quelli dal 2017 a oggi e sono ben lontani dal picco del 2018, quando si sono contati 618 infetti e 49 decessi.

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Primo piano

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Intervista

STAMINALI CORDONE OMBELICALE MODELLO PER MIGLIOR SELEZIONE DEI CAMPIONI DA CRIOCONSERVARE Intervista alla dottoressa Stefania Fumarola, biologa e responsabile scientifica della biobanca “In Scientia Fides”, autrice dello studio pubblicato dalla rivista Stem Cell Research & Therapy

di Ester Trevisan

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on tutti i campioni di cellule staminali prelevati da cordone ombelicale sono utiliz-zabili per la crionservazione. A determinarne la validità è una serie di fattori, tra cui quelli prenatali e materni che influenzano significativamente la qualità delle unità di sangue cordonale raccolte. Proprio su questi ultimi si è concentrato lo studio con-dotto su oltre 2500 campioni dalla dottoressa Stefania Fumarola, biologa e respon-sabile scientifica della biobanca “In Scientia Fides”. Grazie alla sua ricerca, pubblica-ta dalla rivista scientifica Stem Cell Research & Therapy, è stato individuato un mo-dello che valorizza i campioni migliori e consente una crioconservazione mirata ed efficiente. Dottoressa Fumarola, quali obiettivi si è posto il suo studio? L’obiettivo dello studio è stato identificare i fattori rilevanti, immediatamente di-sponibili, che aiutano a scegliere le unità di sangue cordonale con un elevato conte-nuto di cellule CD34+ (cellule specializzate per la generazione dei derivati del san-gue) e di cellule nucleate totali (TNC), influenzando l’esito clinico di un eventuale trapianto. L’a-

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nalisi nasce dalla necessità di ottimizzare il modello attualmente in vi-gore in merito al processo dei campioni al fine di aumentare il numero delle con-servazioni, oltre a evidenziare il concreto bisogno di una sinergia tra pubblico e pri-vato. Quali sono le evidenze emerse? Il risultato dello studio mostra che i fattori prenatali e materni che influenzano si-gnificativamente la qualità delle unità di sangue cordonale raccolte sono sostan-zialmente il sesso del bambino, l’età gestazionale, il tipo di parto e il contenuto di TNC. In particolare, le unità di sangue cordonale raccolte da bambino maschio, nato da parto cesareo a un’età gestazionale inferiore a 39 settimane, hanno un contenu-to di CD34+ significativamente più alto rispetto alle unità di neonati femmine con età gestazionale superiore a 39 settimane da parto vaginale. Viene quindi dimostra-to che il volume dell’unità non è il miglior indicatore del contenuto di CD34+, per-tanto non dovrà essere preso in considerazione da solo nella scelta dell’unità di sangue cordonale “migliore”, ma in sinergia con gli altri fattori evidenziati. Ci descrive in parole semplici come funziona il modello predittivo per la crio-


Intervista

con-servazione delle staminali da cordone ombelicale individuato dalla ricerca? Semplicemente, il modello predittivo, “costruito” sulla base delle nostre evidenze scientifiche, può fungere da guida per il personale ospedaliero. Purtroppo in tutti gli ambiti, anche sanitari, bisogna far fronte a determinate “limitazioni”, che siano di personale o di laboratorio. In determinati casi, come per esempio nei parti simulta-nei, è importante sapere quale campione “scegliere” per evitare di raccogliere due campioni, dover analizzare il contenuto di TNC, misurare il volume raccolto e solo dopo dover buttare l’unità “con il volume non idoneo”. Il nostro modello permette proprio di evitare “l’errore” e raccogliere, a fini solidaristici, solo l’unità di sangue cordonale con un elevato contenuto di cellule staminali. In quali aspetti si differenzia questo modello da quelli adottati finora? Il processo di idoneità, a fini trapiantologici, di un’unità di sangue cordonale è un percorso che prevede, come primo step, l’effettuazione di analisi materne/familiari poiché infezioni come epatiti o HIV, e particolari predisposizioni genetiche, possono escludere dall’idoneità. Lo step successivo si differenzia per la donazione o la con-servazione autologa. Quest’ultima non presuppone vincoli, ovvero tutti i campioni raccolti vengono analizzati da un punto di vista infettivologico e cellulare e poi crio-conservati. In caso di donazione, esistono criteri più stringenti: soltanto i campioni che hanno un determinato contenuto di TNC, e soprattutto un volume superiore ai 60/70 mL, vengono crioconservati. Il resto viene buttato. È per questo motivo che nel 2021 solo 394 unità di sangue cordonale su 6.258 raccolte sono state bancate secondo il report del centro nazionale sangue. Il nostro modello si differenzia da quello adottato finora perché l’analisi statistica condotta su oltre 2500 campioni ha dimostrato che il volume dell’unità di sangue cordonale non è il miglior indicatore del contenuto di CD34+, campioni “piccoli” possono essere ricchi di cellule staminali. Quali vantaggi presenta questo tipo di cellule staminali rispetto a quelle prelevate da altre fonti? Il sangue contenuto nel cordone ombeli-

Stefania Fumarola.

Stefania Fumarola consegue la laurea magistrale in Biologia molecolare nel 2016. Il titolo di Dottore di Ricerca Europeo in Scienze Biomediche conseguito nel 2020 le conferisce un’ampia esperienza nell’ambito dei meccanismi alla base dello sviluppo cellulare tumorale/staminale. Background scientifico che le permette oggi di ricoprire la figura di biologo e responsabile scientifico della biobanca In Scientia Fides supportando il laboratorio biotecnologico per l’analisi e la crioconservazione di cellule staminali cordonali.

cale è una risorsa preziosa. È ricco di cellule staminali emopoietiche, cellule non ancora completamente differenziate, precurso-ri di tutte le cellule del sangue e del sistema immunitario: globuli rossi, globuli bian-chi e piastrine. Rappresentano, infatti, una terapia salvavita, un supporto terapeuti-co per gravi malattie del sangue come leucemia, linfomi e mielomi, anemie, talas-semie o forme di immunodeficienze. Non solo, la ricerca sta facendo passi da gigan-te e diversi sono i trial clinici che vedono l’impiego delle staminali cordonali per il trattamento dell’autismo, diabete di tipo I, paralisi cerebrale e tante altre. Come sappiamo, le fonti più ricche di cellule staminali ematopoietiche sono il midollo os-seo, il cordone ombelicale e, in piccola parte, il sangue periferico. I vantaggi nell’utilizzo del sangue cordonale rispetto al midollo osseo sono la facilità di repe-rimento, la disponibilità immediata in caso di bisogno e la sua immaturità immuno-logica che consente, fra le altre cose, di superare le barriere di compatibilità per-mettendo di effettuare il trapianto anche tra soggetti non perfettamente compati-bili, come invece è necessario per le staminali emopoietiche da adulto. GdB | Luglio/agosto 2022

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Salute

TERMOABLAZIONE IL CALORE NEL TRATTAMENTO DEI NODULI ALLA TIROIDE Una tecnica mini invasiva, sicura ed efficace nella riduzione dei noduli benigni Resta da capire perché alcune masse reagiscono diversamente rispetto ad altre

di Anna Lavinia

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ramite il rilascio di energia termica, la termoablazione si è rivelata efficace per trattare i noduli benigni della tiroide. Sebbene questa tecnica sia consolidata in molti paesi europei e asiatici, l’Italia si trova tra i primi posti al mondo per le evidenze scientifiche in materia. E l’ospedale Santa Maria Goretti di Latina è diventato uno dei centro di riferimento nel trattamento termoablativo. A completare e supportare il lavoro medico è il riconoscimento dalla AACE (American Association of Clinical Endocrinology) per la pubblicazione di un documento di consenso scientifico sulla prestigiosa rivista Endocrine Practice. Tra gli autori, il dottor Roberto Cesareo, specialista in endocrinologia e direttore dell’Unità Operativa Malattie Metaboliche dell’Ospedale S. M. Goretti. «Mi sento onorato di essere l’unico europeo ad essere stato inserito in questo board scientifico dove gli statunitensi hanno ritenuto opportuno definire delle headlines e delle raccomandazioni da indirizzare a tutti ma non solo; l’intento è di divulgare e di rendere più fruibile la conoscenza delle tecniche termoablative».

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La tiroide è una piccola ghiandola, essenziale per il buon funzionamento di tutto l’organismo. La presenza di noduli però può provocare disfunzioni e talvolta disturbi compressivi come difficoltà respiratoria o di deglutizione. Sentirsi un nodo in gola per tanti, infatti, non è solo un modo di dire. Il nodulo che può essere singolo o multiplo è tra le patologie endocrine più frequenti nella popolazione. Una cellula particolarmente addensata che può avere contenuto solido o liquido. Con l’avanzamento delle tecniche diagnostiche e la loro maggiore disponibilità, le persone che scoprono di avere noduli tiroidei sono sempre di più ma a fronte di un incremento dei casi viene da chiedersi quando preoccuparsi. Fortunatamente, solo una piccola parte di essi si rivela di natura maligna. Anche se benigni, possono essere di grandi dimensioni e richiedere comunque un intervento. Una valida alternativa sicura e con ridotti effetti collaterali per trattarli è la termoablazione. Non si sostituisce alla tecnica chirurgica ma diventa preferibile quando il paziente, con noduli benigni, non si trova nella condizione di poter affrontare l’operazione.


Salute

Come funziona praticamente questa procedura? La termoablazione provoca la necrosi del tessuto tramite l’emissione di energia termica all’interno del nodulo. Come tutte le tecniche mini invasive, si esegue in ambiente sterile in day surgery. E a questo proposito il dottor Cesareo chiarisce che «solitamente una sola seduta è sufficiente, si tratta un solo nodulo per trattamento e si può ripetere in caso ci sia una mancata risposta o una ricrescita nel tempo». Numerosi i vantaggi per il paziente e significativo l’abbattimento dei costi per le strutture sanitarie. La termoablazione può essere effettuata mediante diverse metodiche ed è proprio la loro differente efficacia che è stata testata per la prima volta al mondo. «Abbiamo pubblicato l’unico lavoro che ha messo testa a testa il confronto tra le due tecniche che hanno le maggiori evidenze scientifiche, ovvero radiofrequenza e laser» commenta Cesareo e nello specifico: la radiofrequenza è più efficace del laser. A dimostrarlo sono stati proprio i risultati dello studio prospettico condotto nel 2021 e realizzato da un’equipe tutta italiana presso l’ospedale dello specialista con la collaborazione dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Il lavoro è stato poi pubblicato sulla prestigiosa rivista di endocrinologia Journal of Clinical Endocrinological and Metabolism. La caratteristica dello studio LARA (Laser Ablation ver-

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Non si sostituisce alla tecnica chirurgica ma diventa preferibile quando il paziente, con noduli benigni, non si trova nella condizione di poter affrontare l’operazione.

sus Radiofrequency Ablation) è l’utilizzo di un metodo randomizzato, ovvero la scelta di una o dell’altra tecnica ablativa sul paziente è stata fatta in modo del tutto casuale. Il che presuppone, secondo la comunità scientifica, che i risultati siano più veritieri e attendibili. E sono altrettanto positivi e soddisfacenti i dati finali della ricerca: gli autori hanno confermato una notevole riduzione volumetrica dei noduli. Il risultato è significativo con entrambe le tecniche ma se con il laser si arriva al 60 percento con la radiofrequenza ancor di più, le riduzioni sono superiori al 70 percento. Il dottor Cesareo però precisa «non c’è eradicazione totale quindi il nodulo andrà comunque controllato nel tempo, gli ottimi risultati ottenuti dimostrano che la possibilità di una ricrescita è molto ridotta». La ricerca fatta e i risultati ottenuti fino ad oggi sulle tecniche termoablative non sono solo un traguardo importante per la cura ma un punto di partenza verso nuove scoperte. «Stiamo lavorando per cercare di capire perché alcuni noduli rispondono meglio di altri, questa sarebbe la scommessa del futuro» conclude lo specialista. E una grande scommessa per il futuro potrebbe essere quella di riuscire a scoprire come prevenire la formazione di noduli per salvaguardare la salute del nostro direttore d’orchestra, la tiroide. GdB | Luglio/agosto 2022

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Intervista

SVELATO COME IL VIRUS ZIKA DANNEGGIA IL CERVELLO DEI NASCITURI Intervista con i professori Marco Onorati, Giulia Freer, Mauro Pistello e Mario Costa, primo ricercatore all’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa

U

no studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista Stem Cell Reports, rivela i meccanismi attraverso i quali il virus Zika, malattia virale trasmessa dalla puntura di zanzare infette, può danneggiare lo sviluppo cerebrale dei nascituri. Il lavoro fa riferimento al caso di alcuni neonati le cui mamme nel 2015 in Brasile avevano contratto l’infezione durante la gravidanza, causando microcefalia e altre patologie. Al Giornale dei Biologi rispondono i professori e ricercatori Marco Onorati, Giulia Freer, Mauro Pistello e Mario Costa. Da dove è partita la vostra ricerca e come si è sviluppata? MC - Questo studio è un esempio chiaro dell’importanza che riveste oggi la collaborazione multidisciplinare nella ricerca di frontiera. Questo lavoro, infatti, è nato dalla sinergia tra il laboratorio dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche, guidato da me, il Centro Retrovirus, guidato dai professori Mauro Pistello e Giulia Freer, e il NeuroStemCell Lab, diretto dal professor Marco Onorati presso l’Università di Pisa. La ricerca si è sviluppata dall’idea che il virus Zika potesse coinvolgere, nella sua azione devastante sullo sviluppo del cervello dei nascituri, FOXG1, protagonista fondamentale della genesi della

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corteccia cerebrale. Alterazioni congenite di questo fattore di trascrizione sono di fatto la causa della “sindrome FOXG1”, caratterizzata da microcefalia e altre alterazioni del neurosviluppo. Discutendo il ruolo di FOXG1 sotto la lente della neurobiologia dello sviluppo, della virologia e della biologia molecolare, abbiamo notato che la sindrome FOXG1 ricapitola nei suoi aspetti principali la “sindrome congenita da Zika”, descritta per la prima volta nel 2015 in Brasile in neonati che avevano contratto l’infezione da virus Zika durante la gravidanza. La ricerca si è quindi sviluppata giorno per giorno trovando, anche in modo inatteso, evidenze a sostegno dell’ipotesi di partenza. I risultati sono stati ottenuti soprattutto grazie al lavoro di giovani ricercatori, primi autori del lavoro: Giulia Lottini, dottoranda in Genetics, Oncology and Clinical Medicine, Università di Siena; Matteo Baggiani, dottorando in Biology, Università di Pisa; Giulia Chesi, borsista presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Che tipo di danni provoca il virus Zika al cervello dei bambini nel grembo materno? MO - La corteccia cerebrale, con i suoi sei strati ordinati, rappresenta la parte più evoluta del nostro cervello ed assicura all’uomo le sue capacità cognitive, la percezione di sé e del mondo circostante. La sua corretta dimensione e architettura sono acquisite durante lo sviluppo embrionale in un processo che rappresenta


Intervista

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uno degli aspetti più complessi, delicati e intimi dell’essere umano. Il virus Zika, se contratto durante la gravidanza, può oltrepassare la barriera placentare causando gravi danni al sistema nervoso centrale del feto. In particolare, induce microcefalia, malformazioni corticali, calcificazioni e gravi conseguenze sulla sfera cognitiva. Il fatto che il numero di bambini affetti da questa sindrome fosse aumentato in modo repentino, che si riscontrassero casi di infezione in vari Stati del mondo e che il virus potesse essere trasmesso da una zanzara vettore presente in tutti i continenti, ha creato un allarme mondiale. Qual è il ruolo svolto dalla proteina FOXG1? MO e MC - Durante lo sviluppo del telencefalo, da cui prende origine la nostra corteccia cerebrale, FOXG1 stimola le cellule staminali neurali alla proliferazione e ne guida il corretto differenziamento. In questo studio viene dimostrato, in un sistema innovativo di cellule staminali neurali umane, che l’infezione del virus Zika altera sia la quantità che la localizzazione intracellulare di FOXG1, riflettendosi sull’espressione genica e, in ultima istanza, sul corretto rapporto tra proliferazione cellulare, differenziamento neuronale e morte. FOXG1 sembrerebbe quindi un “sensore” dell’infezione, in grado anche di spiegare, in parte, la vulnerabilità della nostra corteccia a insulti ambientali così devastanti. Quali sono i possibili scenari terapeutici che si aprono grazie a questo studio? GF - Indubbiamente, far luce sui fattori cellulari che un virus dirotta a proprio vantaggio

Marco Onorati.

Giulia Freer.

Mauro Pistello.

Mario Costa.

può indicare dei bersagli per una terapia indirizzata verso componenti cellulari utilizzate dal virus stesso, non solo contro il virus in sé. Occorre dimostrare se bloccare dei percorsi che in condizioni di salute sono utilizzati dalla cellula solo per fermare il virus non sia di per sé tossico, ma quando questo è verificato, si può cercare di contrastare l’attività del virus bloccandoli. Nel nostro caso, si potrebbe ipotizzare l’uso di farmaci già esistenti e utilizzati contro altre patologie, o addirittura di fattori di crescita, per cercare di fermare l’uscita di FOXG1 dal nucleo. I risultati a cui è giunto il vostro studio potrebbero rivelarsi utili anche nel trattamento di infezioni provocate da altri agenti virali? GF e MP - Se si utilizzano farmaci specifici contro un determinato virus, difficilmente questi potranno risultare efficaci anche contro altri virus. È stato visto però che virus diversi, per replicare, utilizzano le stesse vie metaboliche cellulari. Se un farmaco è diretto contro alcuni di questi fattori cellulari, lo stesso farmaco può essere utilizzato anche contro altri virus. Questo potrebbe essere verosimile per una classe di virus neurotropici (gruppo TORCH) che causano gravi danni al sistema nervoso in sviluppo. È di questi giorni la notizia che il virus che causa il COVID-19 altera le vie di segnalazione dell’insulina, interagendo con fattori cellulari che potrebbero essere implicati anche nel meccanismo che abbiamo descritto. In effetti, la replicazione del virus Zika e di SARS-CoV-2, per molti aspetti, è simile e non stupisce quindi che alcuni fattori cellulari utilizzati possano essere condivisi. (E. T.) GdB | Luglio/agosto 2022

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Salute

RIPRODOTTI IN LABORATORIO I SUPER ANTICORPI DELLE DONNE CHE PROTEGGONO I NEONATI Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, è stato realizzato da un’équipe di ricercatori del Cincinnati Children’s Hospital Medical Center nell’Ohio

di Sara Bovio

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il primo prezioso dono che ogni mamma regala al proprio bimbo appena nato: gli anticorpi che lo proteggeranno dall’aggressione dei patogeni nei suoi primi giorni di vita. Solo in seguito, dopo aver incontrato virus e batteri e grazie al contributo di una serie di vaccini infantili ben consolidati, i neonati svilupperanno il proprio sistema immunitario. Nel frattempo però sono protetti e al sicuro. Ma come funzionano questi primi giorni d’immunità donati dalle madri? Un team di ricercatori del Cincinnati Children’s Hospital Medical Center nell’Ohio ha scoperto che la gravidanza modifica la struttura di alcuni zuccheri legati agli anticorpi, consentendo loro di proteggere i bambini dalle infezioni di una gamma molto più ampia di agenti patogeni. Nel nuovo studio, pubblicato su Nature, gli autori spiegano che durante la gravidanza, la forma “acetilata” dell’acido sialico (uno degli zuccheri legati

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agli anticorpi) passa alla forma “deacetilata”. Questo sottilissimo cambiamento molecolare consente all’immunoglobulina G (IgG), il tipo di anticorpo più comune nell’organismo, di assumere un ruolo protettivo più ampio, stimolando l’immunità attraverso recettori che rispondono specificamente agli zuccheri deacetilati. Sing Sing Way a capo del team di ricercatori spiega: «Questo cambiamento è l’interruttore che permette agli anticorpi materni di proteggere i bambini dalle infezioni all’interno delle cellule». «Per molti anni gli scienziati hanno creduto che gli anticorpi non potessero entrare nelle cellule - prosegue Way - e che le infezioni causate da agenti patogeni che vivono esclusivamente all’interno delle cellule fossero invisibili alle terapie basate sugli anticorpi». Tuttavia, diversi agenti patogeni, tra cui lo streptococco di gruppo B (GBS), l’Escherichia coli, la Listeria monocytogenes e il virus di Epstein-Barr (EBV) sopravvivono replicandosi a livello intracellulare. Lo


Salute

“Il legame speciale esistente tra la madre e il suo piccolo nasce quando i bambini sono nel grembo materno e continua dopo la nascita”.

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studio in particolare ha esplorato nei topi le interazioni tra gli anticorpi e la Listeria monocytogenes, un batterio che se contratto in gravidanza può arrivare a causare gravi infezioni con conseguenze come aborti spontanei, bambini nati morti, travaglio pretermine e gravi malattie dei neonati. Per anni si è creduto che il batterio fosse irraggiungibile dalle immunoglobuline mentre la ricerca ha dimostrato che non è così. Lo studio prova dunque che gli anticorpi materni trasferiti verticalmente possono proteggere anche dagli agenti patogeni che si replicano internamente alle cellule. John Erickson, primo autore dello studio, afferma: «Il legame speciale esistente tra la madre e il suo piccolo nasce quando i bambini sono nel grembo materno e continua dopo la nascita». Questa scoperta apre la strada a nuove terapie pionieristiche in grado di colpire specificamente le infezioni nelle madri in gravidanza e nei neonati. Credo che questi risultati avranno implicazioni di vasta portata

anche per le terapie basate sugli anticorpi in altri campi». Utilizzando tecniche avanzate di spettrometria di massa e altri metodi, il team ha individuato le principali differenze biochimiche tra gli anticorpi dei topi vergini e quelli dei topi gravidi. Gli scienziati hanno anche identificato l’enzima naturalmente espresso durante la gravidanza, responsabile di questa trasformazione. Inoltre, il team è riuscito a ripristinare la protezione immunitaria perduta trasferendo anticorpi sintetizzati in laboratorio da topi sani e gravidi a piccoli nati da madri modificate geneticamente in modo da non avere la capacità di rimuovere l’acetilazione dagli anticorpi per aumentare la protezione. Sono stati anche prodotti centinaia di anticorpi monoclonali come potenziali trattamenti per varie patologie, tra cui il cancro, l’asma, la sclerosi multipla, le infezioni virali e batteriche difficili da combattere e il COVID-19. Way afferma che i risultati sottolineano l’importanza per le donne in età riproduttiva di ricevere i vaccini disponibili contro le infezioni che sono particolarmente importanti nelle donne durante la gravidanza o nei neonati. «L’immunità deve esistere all’interno del corpo della madre perché possa essere trasferita al bambino», afferma Way. Secondo gli autori della ricerca, si può dire che lo studio affronta un’epidemia silenziosa: le infezioni da vari agenti patogeni uccidono da 2 a 3 milioni di neonati e madri all’anno in tutto il mondo. I bimbi appena nati sono altamente suscettibili alle infezioni tanto che circa il 50% della mortalità mondiale nei bambini di età inferiore ai 5 anni si verifica nei neonati di età inferiore ai 28 giorni e una buona parte di questi è causata da batteri e virus che provocano sepsi, polmonite o malattie diarroiche. Way pone infine l’accento sul fatto che durante gli studi preclinici il mondo scientifico tende il più delle volte a concentrarsi su stati non gravidici e generalmente evita di condurre ricerche cliniche sui farmaci che coinvolgono donne in gravidanza. Questo secondo l’autore potrebbe portare a trascurare i cambiamenti biologici che influenzano il sistema immunitario durante la gravidanza. GdB | Luglio/agosto 2022

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Salute

IL DISPOSITIVO CHE CURA IL DOLORE SENZA FARMACI Morbido e impiantabile: si allaccia ai nervi periferici ed è in grado di raffreddarli in maniera specifica

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Salute

Il bioingegnere John A. Rogers, membro del team che ha guidato lo sviluppo di questo rivoluzionario dispositivo, ha chiarito che «come ingegneri, siamo motivati dall’idea di trattare il dolore senza farmaci con modalità che il paziente può attivare e disattivare all’istante, controllandone l’intensità. La nostra tecnologia sfrutta meccanismi simili a quelli che provocano l’intorpidimento delle dita quando sono fredde. L’impianto consente di produrre quell’effetto in modo programmabile e diretto su nervi specifici». Gli ha fatto eco il coautore dello studio, Matthew MacEwan esperto della Washington University School of Medicine, secondo cui «Man mano che si raffredda un nervo, i segnali che trasporta diventano sempre più lenti, fino a fermarsi completamente».

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el corso della storia nessuna definizione di dolore è stata mai scientificamente completa. Il filosofo Aristotele, ad esempio, definì il dolore come «un’emozione opposta al piacere», mentre il neuroscienziato britannico Patrick Wall, descritto come "il principale esperto mondiale di dolore", era solito parlare di uno «stato di necessità» che richiede un immediato programma di risposta per soddisfarlo. Per Mario Tiengo, medico e accademico italiano noto per essere stato tra i fondatori in Italia della terapia del dolore e primo titolare al mondo di una cattedra universitaria sulla terapia del dolore, il dolore invece altro non è che «una percezione violenta e sgradevole che provoca una repentina alterazione emotiva del soggetto ed una coerente risposta comportamentale», ed è quindi «l'avvenuta presa di coscienza di un messaggio nocicettivo». Allo stato attuale è generalmente accettata la definizione fornita dall'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), secondo cui «il dolore è un'esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, legata ad una lesione tessutale potenziale o reale». Una definizione che pone l'accento su due aspetti, quello percettivo ed affettivo dell'esperienza dolorosa. Ebbene, qualcuno sarebbe forse portato a chiamare in causa la fantascienza in risposta al paventarsi di uno scenario in cui il dolore viene combattuto senza l'utilizzo di farmaci. Eppure è proprio questo il risultato ottenuto grazie all'utilizzo di un mini-dispositivo impiantabile, morbido e flessibile, messo a punto da un team di ricercatori, coordinato dagli esperti della Northwestern University, negli Stati Uniti. Lo strumento, come riferito dagli studiosi, si allaccia ai nervi periferici ed è in grado di raffreddarli in maniera specifica e mirata, riuscendo a frenare così la trasmissione dei segnali dolorosi al cervello. Per valutare l'efficacia della loro invenzione, gli scienziati hanno provveduto a testare questo mini-dispositivo, realizzato con materiali riassorbibili che si auto-dissolvono all'interno dell'organismo, sui topi. Gli esperti a stelle e strisce descrivendo la loro scoperta sulla rivista "Science", hanno inoltre dichiarato che la tecnologia in questione potrebbe rappresentare una nuova speranza per quanto riguarda il trattamento del dolore post-operatorio. Ma quali sono le caratteristiche di questo mini-strumento in

grado di offrire sollievo al dolore? All'aspetto si presenta come una sottile fascia, di larghezza inferiore ai cinque millimetri. È provvisto di una estremità leggermente arricciata, che consente di abbracciare il nervo senza necessità di alcuna sutura. All'interno, inoltre, è collocato un piccolo canale, dentro cui è inserito un liquido di raffreddamento, già approvato per uso clinico, oltre ad un secondo canale in cui scorre l'azoto secco, un gas inerte. Le modalità di funzionamento prevedono che nel momento in cui il gas ed il liquido confluiscono in una camera comune venga innescata una reazione che permette al liquido di evaporare, determinando una riduzione della temperatura. Contemporaneamente, un mini-sensore termico a film sottile integrato nel bracciale controlla in tempo reale la temperatura del nervo per accertarsi che lo stesso non diventi troppo freddo finendo per provocare danni, anche ai tessuti circostanti, consentendo così il monitoraggio a circuito chiuso. Come scrivono gli stessi esperti presentando il loro lavoro su "Science", dopo un infortunio dovuto ad un incidente o ad una procedura medica, possono essere necessarie varie forme di sollievo dal dolore. Questi possono includere farmaci analgesici o iniezioni locali per attenuare i recettori del dolore, ma possono anche essere semplici impacchi di ghiaccio per articolazioni o muscoli doloranti o contusi. I dispositivi impiantabili in grado di bloccare in maniera mirata e reversibile l'attività dei nervi periferici possono fornire alternative agli oppioidi per il trattamento del dolore. Il raffreddamento locale rappresenta un mezzo interessante per l'eliminazione su richiesta dei segnali di dolore, ma le tecnologie tradizionali sono limitate da fattori di forma rigidi e ingombranti, raffreddamento impreciso e requisiti per gli interventi di estrazione. Nello studio si introducono invece dispositivi microfluidici morbidi, bioriassorbibili, che consentono l'erogazione di potenza di raffreddamento focalizzata e minimamente invasiva a profondità arbitrarie nei tessuti viventi con controllo del feedback della temperatura in tempo reale. La costruzione con materiali solubili in acqua e biocompatibili porta alla dissoluzione e al bioriassorbimento come meccanismo per eliminare non solo il carico del dispositivo non necessario ma anche il rischio per il paziente, senza ulteriori interventi chirurgici. (D. E.). GdB | Luglio/agosto 2022

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Salute

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a denominazione ufficiale è quella di “geni Hox”, ma c’è già chi li ha ribattezzati geni-architetto. Sono in ogni caso l’oggetto della scoperta dei ricercatori della New York University Grossman School of Medicine, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Science”, che per la prima volta in assoluto, in laboratorio, sono riusciti ad ottenere i geni che controllano lo sviluppo del corpo negli animali. Gli esperti a stelle e strisce, nello specifico, hanno ottenuto un Dna sintetico, copiato da quello del ratto, per poi inserirlo all’interno di cellule staminali nei topi. L’idea di partenza degli scienziati americani era quella di capire meglio come si sarebbero comportati questi geni così importanti e, contemporaneamente, così difficili da esaminare. Ciò è dovuto ad alcune specifiche caratteristiche dei geni Hox. Questi, infatti, nel corso dello sviluppo dell’organismo, indirizzano ogni cellula: sono loro a stabilire quale parte del corpo andrà a formare. Ciò significa che proprio questi geni garantiscono che organi e tessuti si sviluppino nel luogo giusto. Basta questa breve premessa sul ruolo cruciale svolto da questi geni per intuire che un loro malfunzionamento, magari dettato da una mutazione, può provocare dei problemi all’interno dell’organismo, dovuti al disorientamento delle cellule che finiscono per perdersi senza le corrette indicazioni impartite dagli architetti del corpo. Quando ciò si verifica le conseguenze non sono marginali, visto

che ad insorgere possono essere tumori, come pure possono manifestarsi difetti alla nascita o aborti spontanei. Nonostante questi geni svolgano un ruolo a dir poco essenziale, gli esperti hanno sottolineato come ad essi non sia stato finora dedicata un’analisi dettagliata e complessiva. All’interno del Dna, infatti, sono organizzati in modo molto specifico e costituiti in gruppi chiusi, in cui non trovano posto geni di altro tipo. Proprio questa caratteristica li rende così difficili da esaminare. Per ovviare a questa criticità gli scienziati Usa, coordinati dal professor Sudarshan Pinglay, hanno avuto l’intuizione di fabbricare lunghi filamenti di DNA sintetico dei “geni Hox”. Una volta copiato il Dna dei ratti, gli stessi filamenti sono stati inseriti, in laboratorio, in una specifica posizione all’interno delle cellule staminali dei topi. In questo modo, l’impiego di due specie differenti ha consentito di distinguere con semplicità il Dna sintetizzato dai ricercatori rispetto al resto. Proprio mediante questa tecnica innovativa, gli scienziati sono riusciti a scoprire che il gruppo di “geni Hox” presenta già al suo interno tutte le informazioni necessarie alle cellule per capire da quale parte dirigersi, senza avere bisogno di altri strumenti di regolazione. Una conferma, quest’ultima, ad una teoria di lunga data che, prima della realizzazione dello studio, era stato difficile dimostrare. A detta degli esperti, le ripercussioni della ricerca non saranno limitate unicamente al campo veterinario: i geni architetto potrebbero infatti giocare un ruolo decisi-

OTTENUTI IN LABORATORIO I “GENI-ARCHITETTO” DEL CORPO Con lo studio, la New York University ha ottenuto un Dna sintetico per poi inserirlo all’interno di cellule staminali animali di Domenico Esposito 20 GdB | Luglio/agosto 2022


Salute

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vo nell’ambito di future ricerche sullo sviluppo legate pure agli esseri umani. Esteban Mazzoni, professore associato di Biologia presso l’ateneo newyorchese, ha spiegato come la comprensione dei meccanismi legati ai geni Hox sia fondamentale per comprendere come si sviluppano le malattie genetiche. Lo stesso biologo ha fatto riferimento alla tecnologia nota con l’acronimo “CRISPR”, un taglia e cuci del DNA applicato alla medicina che consente ai ricercatori di correggere sequenze mutate responsabili di funzioni patologiche dentro la cellula, causa di gravi malattie. In particolare «scrivere o costruire nuovi pezzi del genoma grazie alla tecnologia CRISPR» – ha spiegato il ricercatore Mazzoni – potrebbe consentire di scoprire l’unità più piccola di genoma che occorre per orientare le cellule. A fare eco alle sue parole è stato il genetista Jef Boeke, direttore del “The Institute for Systems Genetics” presso il NYU Langone Medical Center. Questi ha rimarcato come il merito principale di questo approccio sarà quello di riuscire a capire «in che modo i geni Hox aiutano le cellule a imparare e ricordare dove si trovano». Il lavoro svolto, ha proseguito Boeke, indica che la natura compatta dei cluster Hox «svolge un ruolo fondamentale nella regolazione delle funzioni di questi geni. La tecnologia del DNA sintetico sarà inoltre molto preziosa per studiare malattie che sono genomicamente complicate». Boeke ha ricordato una celebre citazione del fisico Richard Feynman, Premio Nobel per la fisica nel 1965 per l’elaborazione dell’elettrodinamica quantistica: «Ciò che non posso creare, non lo capisco». Ecco, la rivendicazione del gruppo di lavoro è quella di aver compiuto «un passo da gigante verso la comprensione di Hox». Il dottor Mazzoni ha aggiunto: «Le diverse specie hanno strutture e forme diverse, molte delle quali dipendono dal modo in cui vengono espressi i gruppi Hox. Per esempio, un serpente ha un lungo torace senza arti, mentre una lucertola non ha il torace e ha solo gli arti. Una migliore comprensione dei cluster Hox può aiutarci a capire come questi sistemi si adattano e si modificano per creare animali diversi». «Più in generale - ha concluso Boeke - questa tecnologia del DNA sintetico, per la quale abbiamo costruito una sorta di fabbrica, sarà utile per studiare malattie genomicamente complicate, per le quali ora disponiamo di un metodo per produrre modelli molto più accurati». GdB | Luglio/agosto 2022

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RIPARARE I TESSUTI CARDIACI DANNEGGIATI Uno studio dell’Università di Bologna ha scoperto che l’inibizione dei glucorticoidi potrebbe permettere la riparazione del tessuto del cuore lesionato

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a mancata capacità di rigenerazione del tessuto cardiaco è una caratteristica costante a partire dalla nascita. Al contrario di quanto accade nella maggior parte dei tessuti del nostro corpo, che si rinnovano per tutta la vita, il rinnovamento del tessuto cardiaco in età adulta è estremamente basso, quasi inesistente. Ciò è dovuto dal fatto che il sistema respiratorio e vascolare del neonato va subito incontro a rapide e importanti modifiche per consentire il passaggio dalla vita intrauterina a quella extrauterina. In particolare, nel cuore neo-

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natale le cellule muscolari cardiache si specializzano ulteriormente perdendo la capacità di replicarsi e continuando a crescere in dimensione. Esse hanno un ridottissimo tasso di proliferazione e vi è l’assenza di una significativa popolazione di cellule staminali nel tessuto in questione. Non a caso, i danni severi del cuore (indotti ad esempio da infarto miocardico) sono di fatto permanenti. Durante un infarto miocardico, infatti, le cellule del muscolo cardiaco muoiono e vengono sostituite da un tessuto cicatriziale che è incapace di contrarsi. Dunque se il danno è esteso, il soggetto svi-

luppa un’insufficienza cardiaca e il cuore non riesce a pompare sangue in quantità sufficiente a soddisfare le esigenze dell’organismo. Uno studio internazionale guidato dall’Università di Bologna e pubblicato sulla rivista Nature Cardiovascular Research, ha però scoperto che l’inibizione di una classe di ormoni, i glucorticoidi, potrebbe permettere la riparazione del tessuto cardiaco danneggiato. I glucorticoidi rappresentano un importante freno alla capacità rigenerativa cardiaca perché in preparazione alla nascita inducono la maturazione dei polmoni. I ricercatori si sono accorti di questo esponendo cellule muscolari cardiache neonatali a tali ormoni, ed hanno evidenziato che queste ultime perdevano la loro capacità proliferativa. In particolare, sono state realizzate analisi del tessuto cardiaco durante la prima settimana di vita postnatale, dalle quali si è registrato l’aumento della quantità del recettore per i glucocorticoidi (GR). Questo elemento suggerisce proprio che l’attività dei glucocorticoidi vada aumentando nell’immediato periodo postnatale. Attraverso la delezione del recettore GR è emerso un ridotto differenziamento delle cellule muscolari cardiache, ossia la loro permanenza in uno stato immaturo che ha portato ad un aumento della loro divisione in nuove cellule cardiache. Ad ora, tutto questo è stato dimostrato sul modello animale. I ricercatori sono inoltre riusciti a chiarire il meccanismo molecolare responsabile del blocco replicativo da parte dei glucocorticoidi, dovuto ad una modulazione del metabolismo energetico cellulare. Il gruppo di ricerca punta ora a testare potenziali effetti sinergici con altri stimoli pro-rigenerativi, in modo tale da proporre strategie più efficaci per la rigenerazione del cuore. Si tratta di una scoperta molto rilevante, che in futuro potrebbe portare a trattamenti efficaci per migliorare le condizioni del cuore dei pazienti colpiti da infarto. (M. O.).


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UN MONOCLONALE PER GLI ATTACCHI DI EMICRANIA “Fremanezumab” si è dimostrato sicuro ed efficace nell’arco di sei mesi dalla prima somministrazione

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impiego dell’anticorpo monoclonale “fremanezumab”, sviluppato da Teva Pharmaceutical, ha dimostrato in più di un caso su due di indurre una riduzione importante del numero di giorni mensili con emicrania, nell’arco di sei mesi dalla prima somministrazione. È quanto emerso dallo studio “Pan-European Real World” (Pearl), i cui risultati sono stati presentati per la prima volta nel corso dell’European Academy of Neurology Congress (Ean) tenutosi dal 25 al 28 giugno a Vienna, in Austria. 24 GdB | Luglio/agosto 2022

Lo studio, tuttora in corso, ha consentito agli esperti di trarre nuove e più esaustive informazioni rispetto al trattamento dell’emicrania nella pratica clinica. Inoltre, ha permesso di fare luce sui dati relativi ad un’analisi ad interim, che ha visto il coinvolgimento di 389 pazienti su un totale di 1.110 partecipanti alla ricerca, e grazie ai quali è stato possibile capire come il 54,7% di questi abbia riportato una diminuzione pari o superiore al 50% del numero di giorni mensili caratterizzata dalla presenza di emicrania a sei mesi dal via del trattamento con “fremanezumab”. Nell’arco dello stesso

periodo, miglioramenti significativi sono stati rilevati anche per quanto riguarda la disabilità correlata alla malattia. Questo studio, a detta degli specialisti clinici, viene reputato di particolare rilievo anche in ragione dell’eterogeneità dei pazienti coinvolti, provenienti da 11 Paesi differenti e da circa cento centri. Lo studio continuerà a raccogliere dati e informazioni inerenti il profilo di efficacia e sicurezza dell’anticorpo monoclonale, nonché sull’impatto relativo ad una possibile interruzione o ripresa del trattamento. Il professor Messoud Ashina, esperto del Danish Headache Center e del Department of Neurology del Rigshospitalet Glostrup in Danimarca e coordinatore dello studio Pearl, ha sottolineato come i pazienti affetti da una grave forma di emicrania potrebbero essere in grado di ottenere dei «benefici da una terapia preventiva», pur rimarcando che l’accesso a questi tipi di trattamenti non è ancora da considerarsi ottimale. Dai primi risultati dello studio, però, arrivano dei segnali incoraggianti: vi sono infatti evidenze del fatto che l’impatto dell’emicrania può essere ridotto fornendo al paziente l’opportunità di aver accesso al trattamento con anticorpi monoclonali quali “fremanezumab”. In questo senso il professor Ashina ha confermato come i neurologi in tutto il mondo stiano già riscontrando questo aspetto in quei pazienti che in precedenza non avevano risposto in maniera positiva ad altri trattamenti di natura preventiva. Ad esprimere soddisfazione rispetto allo studio Pearl è stato anche il dottor Danilo Lembo, vicepresidente di Teva, che ha definito la ricerca «incoraggiante» in quanto dai risultati si conferma che il trattamento preventivo dell’emicrania cronica ed episodica con l’anticorpo monoclonale fremanezumab «risulta appropriato nella pratica clinica». (D. E.).


Salute

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i è soliti dire che “chi dorme non piglia pesci”, vero, ma con la stessa sicurezza si può asserire che chi dorme in maniera adeguata rende un ottimo servizio alla salute del proprio cuore. Può riassumersi attraverso una battuta che parafrasa un noto proverbio la scoperta descritta in un articolo apparso sulla rivista “Circulation” e che ha a che fare con uno strumento rivisto denominato “Life’s Essential 8”. Per capire occorre fare però un passo indietro, e ricordare cioè come il legame tra il buon sonno e la salute del cuore fosse stato già stabilito a partire dal 2010 dagli esperti dell’American Heart Association. Questi avevano segnalato sette fattori modificabili essenziali per la salvaguardia della salute cardiovascolare: dal mantenimento di un peso sano all’astensione dal fumo, passando per l’essere fisicamente attivi ed osservare una dieta sana, fino ad arrivare al controllo della pressione arteriosa, dei livelli di colesterolo e glicemia. Messi insieme, questi fattori rappresentavano i cosiddetti “Life’ Simple 7”, e nel corso del tempo sono diventati una modalità consueta, tanto per i medici quanto per i pazienti, di valutare non soltanto la salute del cuore, ma pure quella del cervello. Ad essi è stata ora aggiunta la durata del sonno, da tempo tenuta in considerazione, ma rispetto alla quale vi erano delle incertezze rispetto alle modalità di valutazione. Si è giunti così a rivedere e rimodulare lo strumento ad oggi definito “Life’Essential 8” e che costituisce la cartina di tornasole attraverso la quale valutare lo stato di salute del muscolo più importante del corpo umano. Ma cosa si intende per sonno adeguato? Secondo gli ultimi studi, gli adulti dovrebbero dormire mediamente dalle sette alle nove ore a notte, mentre nei bambini la durata è variabile e dipende dall’età. Come rimarcato anche dal professor Ciro

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IL SONNO E GLI EFFETTI SULLA SALUTE DEL CUORE Dormire adeguatamente fa bene alla salute cardiovascolare: gli esperti aggiungono questo fattore alla valutazione complessiva del cuore

Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia, la mancanza di sonno rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare. Per quanto questo aspetto sia noto da tempo, a lungo non è stato indagato in maniera sufficiente, ma adesso è stato codificato a dovere. La stessa interruzione del sonno rappresenta un elemento da tenere in grande considerazione, essendo correlata alle cosiddette apnee notturne, condizione cui gli specialisti devono prestare particolare attenzione essendo correlate ad un rischio maggiore di scompenso cardiaco, malattie car-

diovascolari ed ipertensione. Non molto spesso, infatti, si domandano al paziente informazioni relative alla durata e alla qualità del sonno. C’è dunque bisogno di operare una campagna di sensibilizzazione sul tema che deve investire anche i giovani. Per quanto l’argomento sia spinoso e difficile da presentare, proprio i ragazzi, noti per prestare scarsa attenzione alla durata del sonno - specialmente in estate - devono essere messi al corrente che la durata delle ore di riposo costituisce un fattore protettivo rispetto ad eventi cardiovascolari futuri. (D. E). GdB | Luglio/agosto 2022

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IL COLLAGENE NEI COSMETICI

Dal suo utilizzo si può trarre beneficio per la riduzione della Trans-Epidermic Water Loss, grazie all’effetto film, e per la protezione della pelle dagli agenti inquinanti esterni

di Carla Cimmino

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l collagene ormai è l’ingrediente più utilizzato per prodotti di skincare e integratori alimentari, può essere: idrolizzato, marino, vegetale. Nell’articolo “Collagen-based biomaterial for tissue engineering applications (2010)”, sono riportati tutti i benefici che derivano dall’utilizzo del collagene: riduzione della Trans-Epidermic Water Loss grazie all’effetto film, protezione della pelle dagli agenti inquinanti esterni. Il derma, è costituito al 90% da collagene, le fibre di collagene vengono prodotte dai fibroblasti del derma, che insieme al collagene producono anche fibre elastiche, fibre reticolari e matrice extracellulare, dove sono immerse cellule e fibre. Le fibre di collagene sono lunghe, bianche, resistenti alle trazioni e molto flessibili, con una particolare struttura ad elica, grazie alla quale la nostra pelle si presenta turgida e resistente, un’impalcatura che col passare del tempo però perde le sue caratteristiche. Con l’avanzare dell’età infatti i fibroblasti producono meno collagene, le fibre di collagene nel derma appaiono sempre più frammentate e si assiste ad una riduzione di spessore del tessuto connettivo di sostegno. Diminuisce anche la produzione dei costituenti della matrice extracellulare, ovvero i fibroblasti non riescono più a sostituire in maniera adeguata il materiale cutaneo danneggiato, così il derma perde resistenza e si formano le rughe d’espressione per le contrazioni muscolari del viso, che imprimono pieghe nel tessuto connettivo, la pelle perde tono e volume e contorno del viso saranno poco definiti. In un articolo del 2007 sul British Journal of Dermarology, viene esaminato come esporsi ai raggi UV (sole e alle lampade), stimoli nella cute la produzione di sostanze pro-infiammatorie e di enzimi (metalloproteinasi) in grado di degradare la matrice extracellulare, oltre a sopprimere l’espressione genica del collagene, che diminuisce più rapidamente. La molecola del collagene è molto grande per penetrare nella pelle, infatti, una volta applicato sulla cute non viene metabolizzato, quindi non sostituisce le fibre di collagene danneggiate nè stimola i fibroblasti a produrne altro. Il collagene presente nei cosmetici migliora il turgore, la luminosità e l’aspetto generale della pelle, avendo proprietà simili all’acido ialuronico, in medicina estetica è utilizzato: per la costruzione della pelle artificiale e per facilitare il processo di guarigione della cute ustionata;

come filler, che iniettato aumenta i volumi del viso, come fa l’acido ialuronico. Viene estratto da ossa, pelle e cartilagini di bovini e suini che vengono opportunamente trattati, invece quello marino viene fuori dagli scarti di pesci e molluschi. Alcune aziende utilizzano dei sostituti del collagene, ovvero proteine sintetizzate o il “collagene vegetale” con proprietà simili al collagene, i vegetali infatti non contengono collagene, ma ci sono delle sostanze di origine vegetale (es. gomma d’acacia, l’estratto di alcune alghe, ecc.), che hanno proprietà cosmetiche simili una volta applicati sulla pelle. Alcuni scienziati thailandesi hanno studiato l’azione di estratti dal durame di Artocarpus incisus (l’albero del pane) ed hanno notato la forte attività antiossidante, e come su colture di fibroblasti ottenuti da una biopsia di pelle rugosa aumentano la vitalità e la capacità di dividersi dei fibroblasti, e diminuiscono la produzione di metalloproteinasi con un aumento nella capacità di riorganizzare le fibre di collagene. L’estratto di durame di Artocarpus incisus, quindi, inverte le carenze nel metabolismo dei fibroblasti e potrebbe essere sfruttato nei prodotti destinati al trattamento delle rughe. Altri studi hanno dimostrato come l’estratto di cellule della microalga Botryococcus braunii sia in grado di aumentare l’espressione di proteine coinvolte nel mantenimento del bilancio idrico di cellule della pelle, le acquaporine, e di indurre anche la sintesi di collagene. l collagene ha molte proprietà : sostegno e nutrimento di tessuti e organi; salute ed elasticità di tendini, ossa e pelle, riduzione di infiammazioni; riparazione della barriera intestinale; prevenzione di malattie, neurodegenerative e aiuto per la memoria; controllo del colesterolo e della salute del cuore; aumento di densità e forza ossea; pertanto avere un’alimentazione equilibrata e ricca di nutrienti aiuta a contrastare lo stress ossidativo nel corpo, riducendo così la rottura del collagene. Ridurre l’assunzione di zuccheri evita l’infiammazione e danni al collagene, fonti proteiche vegetali o animali, aiutano a fornire al corpo gli aminoacidi necessari per aumentare il collagene, gli alimenti ricchi di nutrienti essenziali e micronutrienti stimolano la produzione di collagene in tutto il corpo. Un modo semplice per assumere collagene è quello di usufruire dei peptidi di collagene in polvere e insapori, possono essere aggiunti a tutto: in un frullato o nella scodella del porridge, nella tazza di caffè, o semplicemente sciolti in acqua.

Il derma, è costituito al 90% da collagene, le fibre di collagene vengono prodotte dai fibroblasti del derma, che insieme al collagene producono anche fibre elastiche, fibre reticolari e matrice extracellulare, dove sono immerse cellule e fibre. Le fibre di collagene sono lunghe, bianche, resistenti alle trazioni e molto flessibili, con una particolare struttura ad elica, grazie alla quale la nostra pelle si presenta turgida e resistente, un’impalcatura che col passare del tempo però perde le sue caratteristiche.

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Convegno nazionale

CONVEGNO NAZIONALE

COSMETOLOGIA COSMETOLOGIA UNA NUOVA OPPORTUNITÀ PER I BIOLOGI UNA NUOVA OPPORTUNITA’ PER I BIOLOGI Dalla cosmetica alla nutrizione dalla Cosmesi alla Nutrizione

Milano Responsabile Scientifico: Dott.ssa Carla Cimmino 24 settembre 2022

Sabato 24 Settembre, Milano Evento accreditato ECM

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Con la sponsorizzazione non condizionante di:

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IL MICROBIOTA NELLE PATOLOGIE CUTANEE E TRICOLOGICHE L’insieme dei microrganismi cutanei è composto sia da specie patogene che da specie commensali, quest’ultime importantissime per l’omeostasi di Biancamaria Mancini

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n singolo centimetro quadrato di cuoio capelluto ospita circa un miliardo di microrganismi, fra cui batteri, funghi e virus, formando una comunità complessa chiamata microbioma cutaneo. La sua composizione varia nettamente a seconda del pH, della temperatura, dell’umidità, dei cosmetici usati e del contenuto di sebo. I follicoli piliferi (HF), sono una nicchia idrofobica ricca di lipidi, in quanto invaginazioni del derma con una connessione diretta alla ghiandola sebacea. Inoltre, HF presenta nei compartimenti superficiali un alto traffico di cellule immunitarie in giustapposizione a siti immuno-privilegiati, siti cruciali per la rigenerazione del follicolo pilifero. Dal punto di vista clinico quindi, i processi infiammatori in HF sono alla base delle molteplici alterazioni tricologiche e patologie cutanee come la follicolite decalvante (FD), la dermatite seborroica (DS), l’alopecia androgenetica (AGA), la forfora, la psoriasi, l’alopecia areata (AA), le patologie autoimmuni e le micosi. Proprio gli squilibri nei siti con il privilegio immunitario sono gli eventi chiave nelle malattie autoimmuni, come AA o il lichen planopilaris (LPP). Uno dei meccanismi patogenetici è quello di formare un microfilm che fornisce ai patogeni

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un vero scudo protettivo contro le cellule immunitarie innate e contro il regolare processo di eliminazione degli stessi, che quindi permangono e proliferano. Lo Staphylococcus epidermidis, ad esempio, forma un biofilm tra le cellule squamose dei tre-dieci strati esterni dell’epitelio stratificato della normale pelle secca. Il biofilm creato da


Cutibacterium acnes invece, penetra in profondità fino alla ghiandola sebacea, spesso presente nelle colture dei pazienti con acne. Per quanto riguarda i dermatofiti nella tinea capitis, è stata osservata una profonda invasione lungo le guaine delle radici (ectothrix) e persino nel fusto del capello (endothrix). L’infundibolo di HF rappresenta una porta per tali microrganismi, un punto di facile accesso interno di HF. L’insieme dei microrganismi cutanei è quindi composto sia da specie patogene ma anche da specie commensali, quest’ultime importantissime per l’omeostasi cutanea. I commensali proteggono la pelle dalla colonizzazione da parte di agenti patogeni e stimolano la produzione del sistema del complemento e delle citochine coinvolte nell’avvio e nel mantenimento di una risposta immunitaria. Inoltre, que-

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sta componente del microbiota aiuta a ridurre l’entità dell’infiammazione e promuove la riparazione dei tessuti. Un cambiamento di pH o del film idrolipidico può compromettere questo equilibrio e sbilanciare la composizione del microbiota come nel caso delle seguenti alterazioni: Dermatite seborroica e forfora L’eziopatogenesi di DS è stata associata ad una risposta infiammatoria ai lieviti come Malassezia furfur e Filobasidium spp. Inoltre, batteri come Hymenobacter e Deinococcus possono essere responsabili di sintomi, come prurito o bruciore, che accompagnano il decorso della forfora e della DS. Secondo alcuni ricercatori, non sono le specie batteriche o fungine specifiche la causa, ma il loro squilibrio rispetto i commensali. Follicolite decalvante La FD è un tipo di alopecia cicatriziale primaria con fisiopatologia poco chiara. Si pensa ci sia una connessione tra S. aureus e lo sviluppo della malattia in quanto viene spesso rilevato da tamponi prelevati da lesioni di FD. Inoltre, nei campioni bioptici interni a HF, sono state identificati biofilm costituiti da C. acnes. Il trattamento antibiotico può uccidere la forma planctonica dei batteri rilasciati dai biofilm e persino ovviare temporaneamente ai sintomi, ma le restanti cellule del biofilm costituiscono il nidus dell’infezione cronica. Alopecia androgenetica L’AGA è caratterizzata da una riduzione della fase anagen e una miniaturizzazione del follicolo pilifero e delle ricrescite che degenerano nel tempo. L’infiltrazione di cellule mononucleate e linfociti viene rilevata in circa il 50% dei campioni di pelle. Questa micro-infiammazione si verifica nel terzo superiore dell’HF. Inoltre, le porfirine stimolanti la produzione di complemento e prodotte da Cutibacterium spp. sono state identificate nel dotto pilosebaceo del 58% dei pazienti con AGA rispetto al 12% del gruppo di controllo. Questi argomenti, insieme al migliora-

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I follicoli piliferi (HF), sono una nicchia idrofobica ricca di lipidi, in quanto invaginazioni del derma con una connessione diretta alla ghiandola sebacea. Inoltre, HF presenta nei compartimenti superficiali un alto traffico di cellule immunitarie in giustapposizione a siti immuno-privilegiati, siti cruciali per la rigenerazione del follicolo pilifero

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L’AA è un tipo di alopecia non cicatriziale considerata di origine autoimmune. In contrasto con l’alopecia cicatriziale, l’infiammazione colpisce le parti più profonde dei follicoli piliferi portando all’interruzione del privilegio immunitario dei HF anagen. In AA si rilevano colonizzazioni del cuoio capelluto di Alternaria spp.

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mento osservato dopo l’applicazione di agenti antimicrobici, possono suggerire una possibile connessione tra AGA e la microflora del cuoio capelluto. È interessante notare come in molti pazienti con episodi acuti di AGA è presente anche DS del cuoio capelluto. Psoriasi La psoriasi è una malattia cronica mediata dai linfociti T, che si sviluppa probabilmente come risultato di una combinazione di background genetico e fattori scatenanti esterni, come farmaci, microrganismi e stress. Le specie predominanti nei tamponi del cuoio capelluto prelevati da pazienti con psoriasi sono M. globosa, M. furfur o M. stricta. Alcuni studi rilevano M. stricta più frequentemente nella psoriasi del cuoio capelluto lieve e M. globosa nei casi moderati e gravi. Il rilascio di citochine attraverso il TLR2, la sovraregolazione del fattore di crescita trasformante beta 1 nei cheratinociti, l’attivazione del complemento e il reclutamento dei neutrofili sono elencati tra i processi immunologici indotti dai lieviti, che possono stimolare una riacutizzazione della psoriasi. Inoltre, è interessante notare come nei pazienti con psoriasi siano state osservate anche alterazioni nel microbioma intestinale, come la diminuzione del phylum di Actinobacteria (attività immunosoppressiva) e uno squilibrio di Firmicutes e Bacteroidetes (maggiore permeabilità intestinale). Tali studi supportano un nuovo concetto di “asse intestino-pelle” in psoriasi. Alopecia areata L’AA è un tipo di alopecia non cicatriziale considerata di origine autoimmune. In contrasto con l’alopecia cicatriziale, l’infiammazione colpisce le parti più profonde dei follicoli piliferi portando all’interruzione del privilegio immunitario dei HF anagen. In AA si rilevano colonizzazioni del cuoio capelluto di Alternaria spp. L’infiammazione e l’invasione dei linfociti T citotossici durante la fase di crescita porta all’ingresso prematuro del follicolo nel catagen e

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alla successiva caduta dei capelli. AA può essere reversibile grazie alla sopravvivenza delle cellule staminali del bulge, infatti, dopo che l’infiammazione si è risolta ricomincia la fase di crescita. Anche il microbioma intestinale è stato considerato associato all’AA. Un’aumentata permeabilità intestinale dovuta a disbiosi e/o infiammazione può essere un fattore di stress sottostante del sistema immunitario in individui geneticamente suscettibili. La bassa produzione di acidi grassi a catena corta da parte dei batteri intestinali a causa dell’insufficiente apporto di fibre nella “dieta occidentale” rischia di sfavorire la barriera intestinale importanti regolatori del sistema immunitario. Due casi di AA con ricrescita dei capelli a lungo termine dopo trapianti di microbiota fecale supportano un ruolo chiave del microbioma intestinale. In conclusione, una migliore comprensione della distribuzione e della penetrazione dei microrganismi del cuoio capelluto sano e malato può fornire nuove e importanti informazioni sulle interazioni ospite-microbo attraverso la barriera cutanea.


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LE SCIENZE FORENSI AL SERVIZIO DELLE ISTITUZIONI: “Approccio multidisciplinare e nuove opportunità metodologiche per l’investigazione scientifica”

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FARMACOLOGIA E TOSSICOLOGIA NELL’ETÀ ANTICA Grecia e Roma come fonti di conoscenza della farmaco-medicina e dello studio di erbe, droghe e rimedi medicamentosi di Barbara Ciardullo

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recia e Roma nell’età antica sono state le fonti di conoscenza della farmaco-medicina, in quanto hanno sviluppato pensiero e principi delle culture passate e hanno diffuso con grande meticolosità e puntualità lo studio delle erbe, delle droghe, dei rimedi medicamentosi. Gli studiosi della Grecia antica, infatti, attraverso l’analisi approfondita delle cure terapeutiche egizie, hanno cominciato a portare avanti l’indagine su quei farmaci che essi definivano portatori di benefici cioè utili alla cura di una condizione morbosa o tossica, così come significava il termine “pfármacon”, usato per parlare di droga e veleno oppure di farmaco-medicinale. Notizie di farmaci medicinali le abbiamo trovate nell’Odissea, quando Omero esaltò la terra come “datrice” di biade ma anche di “farmachi” molto buoni ma a volte misti anche con quelli mortali. Questo concetto omerico è stato ripreso dalla figura di Asclepio, figlio di Apollo, che era considerato il dio della medicina, capace di dare la vita e la morte con rimedi naturali. Asclepio veniva rappresentato con un bastone in mano su cui si trovava avvolto un serpente: questo bastone viene considerato ai nostri tempi il simbolo

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dei farmacisti e del soccorso medico. Gli antichi greci, inoltre, sono stati ritenuti coloro che hanno dato origine ad una nuova scienza, la tossicologia, perché avevano acquisito una grande preparazione sull’aspetto tossico dei farmaci. Lo stesso Ippocrate (460-377 a.C.), definito il padre della medicina, ha dato grande impulso alla scienza del farmaco affermando, grazie alle sue esperienze quotidiane, che c’era una relazione tra rimedio ed applicazione terapeutica. Nel suo “Corpus Hippocraticum” egli, infatti, non solo ha sottolineato tutte le regole per raccogliere i rimedi vegetali, ad esempio oppio e menta, e le norme per preparare le medicine nella forma e nella sostanza, ad esempio polveri, pillole, tisane, infusi utili alla formulazione di unguenti, gargarismi, suffumigi, frizioni; successivamente, ha continuato a classificare le piante e il loro utilizzo in base alla malattia presa in esame, avendo effetti lassativi, diuretici ed emetici. A giudizio di Ippocrate, il corpo era costituito da quattro umori: bile, sangue, pituita e atrabile, i quali andavano incontro a variazioni ed alterazioni, provocando in questo modo le infermità. Espellere gli umori alterati era compito del farmaco con un dosaggio appropriato,


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riferibile per ogni individuo. A questo proposito anche il filosofo Teofrasto (370-286 a. C. ), allievo ad Atene di Aristotele, sulle scia di Ippocrate, scrisse due trattati: uno dal titolo “Historia plantarum”, in cui oltre a delineare gli effetti del papavero, della cicuta e della mandragora, ha esposto i metodi per ricavarne lattici, resine e balsami e per conservarne l’utilità medicamentale; il secondo trattato “Delle pietre” è stato considerato quello che ha rappresentato con precisione e analisi approfondita gli studi di geologia. Altri studiosi di farmacologia sono stati: Zenone, Cleofanto, Aspasia, Erasistrato ed Eraclide, tutti appartenenti alla scuola di medicina più rinomata del mondo antico cioè quella di Alessandria. Uno scrittore latino, cultore di Scienze naturali, Plinio il Vecchio (23 d.C.-79 d.C.) cominciò a scrivere sulle droghe medicinali, ma è stato un suo contemporaneo, Dioscuride d’Anazerba, il quale in un’opera in 5 libri dal titolo “De materia medica” ha esposto per primo i principi di farmacologia e farmacognosia, suddivisi secondo i nomi delle specie dei tre regni naturali. Nel primo libro ha descritto aromi, balsami e succhi vegetali; nel secondo rimedi di origine animale, come il miele, il latte e grassi; nel terzo e quarto libro ha elencato nomi di radici e semi; nel quinto libro rimedi e veleni di origine minerale soltanto per uso esterno. Ci furono altri personaggi a cui interessava una sanità positiva: qualcuno, pur non essendo

Dioscuride d’Anazerba in un’opera in 5 libri dal titolo “De materia medica” ha esposto per primo i principi di farmacologia e farmacognosia, suddivisi secondo i nomi delle specie dei tre regni naturali.

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attrezzato di cultura medica, cominciò a porre in essere preparazioni medicamentose, che non esitò a prescrivere o vendere; poi, non mancano quelli che tagliavano radici o raccoglievano erbe utili per lenire l’infermità, sicché oggi possiamo dire che la farmacologia a Roma si basava perlopiù su principi vegetali. Nella Roma antica due figure emersero per i loro studi e le loro opere: Scribonio Largo e Galeno. Il primo compose nel 46 d.C. un ricettario dal titolo “Compositiones”, in cui è stato in grado di raccogliere 271 ricette mediche contro ogni genere di malattia. Galeno, che è ritenuto il più grande medico dei tempi antichi dopo Ippocrate, trasferitosi a Roma nel 161 d.C., ha fondato una scuola dove ha insegnato la dissezione, l’anatomia, la fisiologia. Cominciò pure a discutere di farmacologia, attraverso l’esperienza acquisita durante i suoi viaggi: ha parlato delle droghe dell’Oriente e delle loro sofisticazioni. Il suo intento era quello di raccogliere materiale per scrivere su medicamenti e antidoti, utili a combattere queste droghe, ma non riuscì a pubblicarlo. Diversamente da Ippocrate, Galeno ha suddiviso gli umori corporali secondo queste qualità: frigidità, calidità, umidità e secchezza. Per ognuno di esse Galeno ha stabilito rimedi per attenuare o allontanare le infermità. L’influenza di Galeno è stata talmente accentuata che ha resistito fino al diciassettesimo secolo. GdB | Luglio/agosto 2022

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CAPPOTTO VERDE La copertura vegetale delle case agisce da isolante termico di Gianpaolo Palazzo

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n tetto verde aiuta noi e l’ambiente. Permette, infatti, di trattenere il flusso dell’acqua piovana, purificare l’aria, ridurre la temperatura dell’ambiente esterno, risparmiare energia e promuovere la biodiversità. Non basta, perché si aggiunge pure una riduzione della temperatura interna in estate fino a 3 °C, permettendo di far calare quasi il 50% del flusso termico attraverso l’ombreggiamento e la traspirazione di coltri vegetali messe a protezione dalla radiazione solare. Tali risultati sono stati verificati dal progetto Enea “Infrastrutture ‘verdi’ per migliorare l’efficienza energetica degli edifici e la qualità del microclima nelle aree urbane”, finanziato nell’ambito dell’Accordo di programma per la ricerca di sistema elettrico 2019-2021 voluta dal Ministero dello Sviluppo Economico, oggi seguito dal Ministero della transizione ecologica. La copertura vegetale non si ferma mai e per 365 giorni all’anno “lavora” come isolante termico. Gli effetti pos-


sono essere apprezzati maggiormente nel periodo primavera – estate, quando le piante sono estrattori naturali di calore dall’ambiente. L’effetto di regolazione termica, generalmente, è dovuto all’ombra, all’evapotraspirazione e alla fotosintesi clorofilliana. «Grazie a un sofisticato sistema di sensori per il monitoraggio microclimatico - spiega Arianna Latini, ricercatrice del Dipartimento unità per l’efficienza energetica - abbiamo verificato che le coltri vegetali messe a copertura del solaio e delle pareti esterni dell’edificio prototipo presso il Centro Ricerche Enea Casaccia, vicino a Roma, sono in grado di mantenere le temperature superficiali al di sotto dei 30 °C e, quindi, di evitare le forti variazioni termiche. Esse si verificano a livello delle superfici di tetti e pareti privi di vegetazione, che raggiungono picchi di temperatura di oltre 50 °C nelle ore più calde. Non solo. I dati preliminari fanno supporre che si possa ottenere una riduzione dei consumi elettrici di circa 2 kWh/m². Mediamente questo si traduce in un risparmio di energia elettrica di circa 200 kWh per la climatizzazione estiva di un’abitazione di 100 m², tenuto conto di una temperatura di comfort dell’ambiente interno non superiore a 26 °C». La sperimentazione venne avviata nove anni fa, nel 2013, dall’allora Servizio agricoltura guidato da Carlo Alberto Campiotti. Quali piante furono scelte? Sul tetto verde trovarono spazio piante grasse del genere Sedum, famiglia delle Crassulaceae, perché giudicate più conformi all’uso nell’ambito mediterraneo, visto il loro apparato radicale poco profondo, l’efficiente uso dell’acqua, la capacità di tollerare condizioni d’intensa siccità e il metabolismo CAM (Crassulacean Acid Metabolism) per fissare il carbonio. «Oltre ad una ricca collezione di Sedum - dice Patrizia De Rossi, ricercatrice del Dipartimento Enea Unità per l’efficienza energetica - abbiamo impiegato in seguito anche un mix di piante Festuca e Poa su un settore dedicato alle Graminaceae, con risultati che indicano come il contributo delle essenze vegetali sia in relazione tanto alle loro caratteri-

Da uno studio Enea condotto su specie di alberi e cespugli abitualmente presenti nel nostro verde urbano, la capacità nel mitigare gli inquinanti atmosferici è risultata mediamente di 58-140 g di ozono (O3), 17-139 g di particolato PM10, 11-20 kg di anidride carbonica CO2 per pianta l’anno. La vegetazione sui palazzi porta con sé, in aggiunta, all’assorbimento dei composti organici volatili (COV): l’edera ed altre rampicanti sulla parete verde presso il Centro Ricerche Casaccia hanno regalato una riduzione di circa il 20% per benzene, toluene, etilene e xileni, COV più comuni in città, nonostante l’area non sia a forte esposizione di tali composti gassosi inquinanti e poco amici della nostra salute.

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stiche in sé che alle condizioni microclimatiche locali». Partendo dalle specie solitamente più utilizzate nelle coperture vegetali dei tetti verdi, lo studio Enea ha voluto allargare il proprio campo, testandone alcune spontanee e autoctone del Mediterraneo, come l’Echium plantagineum e l’Echium vulgare, le quali facilitano pure la biodiversità degli impollinatori. Sulle facciate di sud-est e sud-ovest dell’edificio prototipo, i ricercatori hanno impiegato la Parthenocissus quinquefolia, conosciuta come “vite americana”, un rampicante molto resistente sia al caldo sia al freddo. In autunno le foglie diventano di color rosso intenso. «Abbiamo rilevato - sottolinea Latini - che le temperature superficiali della parete verde sono fino a 13 °C inferiori rispetto alla facciata non vegetata, con una riduzione dei flussi termici verso l’interno di circa 7 kWh/m² e un abbattimento delle emissioni fino a 1 kg di CO2/m² per il minore consumo di energia elettrica». Passando dall’edificio alla città, rendere verde il 35% della superficie urbana presente nell’Unione europea (oltre 26 mila km²) consentirebbe di moderare la domanda energetica per il raffrescamento estivo degli edifici pubblici, residenziali e commerciali fino a 92 TWh l’anno, con un valore attuale netto (VAN) di oltre 364 miliardi di euro. Si eviterebbero, inoltre, le emissioni di gas serra equivalenti a 55,8 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. Per avere un’idea realistica delle emissioni sottratte, si pensi che il settore agricoltura in Italia mette in circolazione trenta milioni di tonnellate CO2 equivalenti l’anno, secondo i dati 2021 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). In tempi contrassegnati da guerre e crisi energetiche far qualcosa per le nostre città aiuterebbe a impedire gli impatti negativi del riscaldamento globale, modererebbe la sregolatezza nei consumi di energia fossile, le isole e le ondate di calore sempre più consuete in estate, l’inquinamento ambientale e la perdita di biodiversità.

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INQUINAMENTO E INCENDI INDIVIDUATO L’ENZIMA DEL BATTERIO ECOLOGICO Un albero di arancio può crescere tra forti venti e in una terra eccezionalmente dura e arida? La risposta è sì: nell’isola di Pantelleria, tra i vigneti di Zibibbo, si compie un piccolo miracolo

di Elisabetta Gramolini

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a stagione degli incendi estivi non ha fatto altro che peggiorare le condizioni dell’atmosfera afflitta da agenti inquinanti fra cui il monossido di carbonio (CO). Dalla ricerca però arrivano buone notizie. È stato individuato infatti il meccanismo che consente agli enzimi, presenti nel suolo in alcuni batteri, di eliminare il CO e di trasformarlo in biossido di carbonio (CO2). Il risultato è stato illustrato in uno studio, pubblicato su ACS Catalysis e condotto dai ricercato-

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ri dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con i colleghi dell’Università della Calabria e dell’Università di Lund, in Svezia. Il lavoro ha consentito di comprendere nel dettaglio il proces-


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re del dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università di Milano-Bicocca –. Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a “consumare” circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera. La scoperta di dettagli fondamentali del funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di progettare composti che funzionano nello stesso modo e che potrebbero essere impiegati sia in sensori di nuova generazione per la rilevazione del CO sia per la riduzione delle emissioni di questo gas in processi industriali». Dei particolari enzimi, la letteratura scientifica inizia a parlare già negli anni 50, da quando ci si è resi conto che esistono dei batteri capaci di vivere in presenza di sola CO. Agli inizi degli anni 2000, è stata pubblicata la struttura cristallografica dell’enzima, ovvero il dato fondamentale per studiarne il meccanismo. «Da quella struttura – afferma il professor Greco - possiamo costruire un modello a livello di dettaglio atomico che abbiamo studiato usando approcci basati sulla fisica quantistica. L’attività enzimatica era già nota poiché l’enzima era stato isolato e caratterizzato da un punto di vista della tipologia di reazione che andava a catalizzare. Quello che non era noto era capire come l’enzima fosse in grado di fare la biocatalisi a temperatura e pressione ambiente e assenza di metalli preziosi. Anche le marmitte catalitiche effettuano lo stesso

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so e aprire nuove prospettive riguardo alla mitigazione delle emissioni di monossido di carbonio, con effetti benefici sia sulla qualità dell’aria che sul clima dato che questo gas, altamente tossico, contribuisce ad aumentare l’effetto serra. Negli ultimi vent’anni, diversi studi sperimentali e teorici sono stati dedicati alla comprensione del processo di ossidazione del monossido di carbonio da parte di un particolare enzima contenente molibdeno e rame, chiamato MoCu CO deidrogenasi. I meccanismi fin qui ipotizzati, tuttavia, riportavano alcune difficoltà nell’evoluzione del prodotto. Il team di ricercatori, grazie all’esperienza maturata in precedenti attività di studio del sistema mediante modelli computazionali, è riuscito a riprodurre per la prima volta un meccanismo di reazione che concorda con i dati sperimentali riportati ad oggi. In particolare, è stato spiegato in che modo l’enzima MoCu CO deidrogenasi trasferisce dall’acqua un atomo di ossigeno trasformando il monossido in biossido di carbonio. «L’atmosfera contiene, in piccole proporzioni, vari gas dovuti sia a fonti naturali che a emissioni antropiche, come ad esempio proprio il CO – spiega il professor Claudio Greco, vicediretto-

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“Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a “consumare” circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera.

produce. L’enzima, dal punto di vista fisiologico, catalizza solo l’ossidazione della CO e CO2 poi il batterio fa di più. L’uso della CO2 per produrre biomolecole non dannose per l’ambiente è fuori dal nostro spettro di azione però il batterio ha questa incredibile capacità metabolica che coinvolge anche l’enzima che abbiamo studiato». Sugli sviluppi eventuali della ricerca, il ricercatore afferma che «ora esistono tutti i mattoni per ideare dei catalizzatori sintetici che riproducano la struttura dell’enzima, evitando per esempio di usare metalli preziosi come il platino. Ciò sarebbe molto vantaggioso. La possibile applicazione però per scopi industriali si prevede a lungo termine». © Ja Crispy/shutterstock.com

tipo di catalisi per abbattere la CO2 però per il loro funzionamento vanno aggiunti metalli preziosi, come il rutenio, il rodio e il platino, mentre la natura riesce a fare la stessa cosa in maniera più economica». Ma c’è di più. La CO2 infatti, prodotta viene utilizzata dagli stessi batteri e non viene rilasciata nell’atmosfera. «Il batterio – continua Greco - è in grado di usare la CO2, anche quella che lui stesso produce, per farla andare nel ciclo di Calvin-Benson, una delle vie metaboliche per la fissazione della CO2. Quello studiato rappresenta un batterio straordinario perché dandogli solo CO, da cui trae equivalenti riducenti biodisponibili per sé e biomolecole, fissa la CO2 che lui stesso

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accostamento con il titolo del film western “Mezzogiorno di fuoco” (High Noon, 1952) è di quelli, giornalisticamente, più scontati, ma racconta bene la situazione riguardante gli incendi del 2021. Secondo i dati elaborati dall’Ispra (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), dal primo gennaio al trentuno dicembre 2021 la Sicilia è la regione in cui sono state rilevate le maggiori percentuali di aree bruciate, circa il 3,5% della superficie complessiva regionale; hanno dovuto fare i conti con le fiamme il 60% dei comuni siciliani (su un totale di 235). Anche la Calabria trova un posto di primo piano, per un’estensione pari al 2,4%, con 240 centri interessati. I calabresi, in termini di suoli forestali distrutti, hanno subito il più alto danneggiamento. Inquadrando più da vicino il territorio, si scopre come le aree boschive rispetto al totale di quelle andate in fumo abbiano pagato il prezzo più alto, 37%; di questi, un quarto è costituito da boschi di conifere, per la maggior parte piantagioni. Nel derby tutto calabro - siculo è proprio la regione rappresentata dalla Trinacria a “conquistare” uno scomoda medaglia d’argento per impatto sugli spazi boschivi (circa il 12%). Tra le coperture forestali più cancellate, le latifoglie sempreverdi (leccete e boscaglie di macchia mediterranea) e le conifere (in prevalenza piantagioni artifi-

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ciali). Terza la Sardegna con soli quaranta eventi, rispetto, ad esempio, ai circa 500 siciliani, ma in un unico episodio, avvenuto a fine luglio nel complesso Forestale Montiferru-Planargia, è finito in cenere circa il 63% del totale territorio coinvolto da incendi, risultando quello più esteso in tutta Italia relativamente all’area bruciata e compromettendo dieci comuni del Montiferru. Ingenti i danni economici e sociali con un grande deterioramento del patrimonio colturale e ambientale. Fra i comuni maggiormente feriti spicca quello di Sennariolo, nell’oristanese: leso il 94% della superficie complessiva comunale. Quasi il 31% erano boschi e boscaglie, il 35% praterie e prati destinati al pascolo e il restante 34 % altre coperture di suolo (agricolo e urbano). Il dato completo ci fa capire che circa il 65% di quanto è stato rovinato abbia interessato ecosistemi naturali e/o semi-naturali (ad esempio boschi e boscaglie di leccio, macchia mediterranea e aree a pascolo arborato). Altre amministrazioni cittadine con molti alberi inceneriti sono Roccaforte del Greco (Calabria), con il 57% della terra comunale bruciata (di questo il 44% erano boschi) e Cuglieri (Sardegna) 39% (erano selve oltre metà della zona carbonizzata). Nelle aree protette nazionali è stata intaccata un’ampia porzione di ecosistemi


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forestali (32% del terreno totale arso). Avvicinandosi ancora di più allo sfacelo, i parchi nazionali hanno, ahinoi, collaborato inconsapevolmente ad una perdita di copertura arborea in potenza pari a circa il 57% di tutte le zone forestali assalite durante il 2021 (siti Rete Natura 2000, Riserve e parchi naturali regionali). Uno di quelli colpiti in maggior misura, proprio nell’estate di un anno fa, è stato il Parco Nazionale dell’Aspromonte, con una perdita di circa il 10% del patrimonio silvano. Nonostante si trattasse di una porzione superficiale relativamente piccola, l’impatto ambientale è stato serio, dato che sono stati aggrediti due boschi vetusti: la Faggeta di Valle Infernale (patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco, ricca di habitat per mammiferi quali lupo, capriolo, martora, ma anche per entomofauna saproxilica, legata al legno morto, quale Rosalia alpina, Cerambici, Cucuius) e il Bosco di pino calabro ad Acatti, dove è presente anche la rovere meridionale, entrambi a San Luca (RC). Analizzando gli ultimi vent’anni, si evidenzia che il 40-50% del posto avvinto dal fuoco è costituito da foreste. Tenendo in considerazione che circa un terzo dell’Italia ne è ricoperto, quasi otto milioni e mez-

zo di ettari, abbiamo rinunciato globalmente ad una superfice pari allo 0,5%, corrispondente al Lago di Garda, cerniera fra tre regioni: Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige. Fra le piante arboree, la categoria più sfregiata è costituita dalle latifoglie sempreverdi (macchia mediterranea) per il 56%, seguono le classi di latifoglie decidue (come le querce) 25% e quelle di aghifoglie sempreverdi, come i pini mediterranei, 19%. Per l’Ispra il legame tra cambiamenti climatici ed incendi risulta complesso: non vanno considerati solo gli effetti diretti di siccità prolungata e alte temperature, ma anche quelli del clima sugli insetti e sulle malattie degli organismi vegetali, che li rendono più vulnerabili e facili prede delle fiamme. I guasti agli ecosistemi forestali possono far affrettare: perdita di biodiversità, rilascio di anidride carbonica, aumento del rischio idrogeologico, erosione del suolo, inquinamento da polveri dell’aria e dei corpi idrici. Dal punto di vista ecologico, le foreste hanno un’innata capacità di resilienza agli effetti causati dal fuoco. Tuttavia, se è abbastanza vasto e appiccato di frequente, può determinare deterioramenti di lungo periodo e una perdita definitiva di alberi, animali etc. (G. P).

ITALIA NEL FUOCO Nel 2021 sono andati in fumo il triplo degli ettari bruciati l’anno prima GdB | Luglio/agosto 2022

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igliora la crescita della raccolta differenziata, ma è ancora troppo lenta quella delle rinnovabili. In tante delle ventisette isole minori abitate si deve lavorare ancora molto per la mobilità sostenibile, la depurazione e il comparto idrico. I dati raccolti nel nuovo report “Isole sostenibili 2022”, realizzato da Legambiente e dall’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IIA) sono il frutto di un’analisi basata su diversi studi di settore. Partiamo dalle buone notizie: complessivamente la capacità di differenziare i rifiuti è salita, tra il 2019 e il 2020, anche rispetto alla crescita già rilevata nel tre anni fa. La media collettiva è del 47,33%. Il solare fotovoltaico, presente nelle venti non interconnesse grazie agli incentivi del Ministero dello Sviluppo Economico, ha fatto raggiungere i 531 kW installati dal 2018, che si aggiungono ai 2.700 già sfruttati. I ritardi nell’emanazione dei provvedimenti attuativi, sfortunatamente, hanno visto fallire gli obiettivi previsti al 31 dicembre 2020, che erano di arrivare agli 11.820 kW (e 13.850 MW di solare termico). Pantelleria ha gli impianti più grandi, 840 kW, seguita da Lampedusa e Linosa, 605 kW, le isole Eolie (comune di Lipari),

509 kW, e Ustica, 433 kW. A Salina è stato censito il maggior aumento percentuale dal 2020 al 2021, progredendo da 22 a 104 kW. Tra quelle interconnesse, Ischia, l’Isola d’Elba e Sant’Antioco possono vantare rispettivamente circa 4.000, 3.700 e 2.000 kW. Ad oggi il fotovoltaico è impiegato in tutte, anche se, in alcuni esempi, con numeri molto bassi, come alle Tremiti (18,4 kW) e

LABORATORI PER INNOVAZIONI Le isole minori hanno voglia di rinnovarsi e migliorare, cercando di superare criticità e ritardi 46 GdB | Luglio/agosto 2022


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al Giglio (34,7 kW). Il micro-eolico viene messo a frutto solamente a Pantelleria, Sant’Antioco e Ventotene, con valori di 32 kW, 55 kW e 3.16 kW (numeri inalterati rispetto al 2020). Eccezion fatta per Capraia, il valore massimo di copertura del fabbisogno elettrico da fonti rinnovabili si segnala ad Ustica, che ha raggiunto il 12% (rispetto a neanche il 2% del 2019), seguita dalle Pelagie con il 6,22% (con meno dell’1% nel 2019) e Ventotene con il 5%. Le altre non toccano il 5% e i valori più bassi si osservano al Giglio e alle Tremiti (valore percentuale sotto l’uno). Infine, fra le ventisette esaminate, ancora venti sono non interconnesse alla rete elettrica nazionale (Isole Pelagie, Egadi, Tremiti, Eolie, Ponza, Ventotene, Ustica, Capraia, Gorgona, Isola del Giglio). «Le isole minori italiane - dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - possono trasformarsi oggi da modelli molto spesso inefficienti, perché dipendenti da scambi di energia e materia con la terraferma, a modelli innovativi nell’adozione di sistemi sostenibili per l’approvvigionamento di energia pulita e nella gestione dell’acqua, per il recupero e riciclo dei rifiuti e per una mobilità a emissioni zero. Perché la transizione climatica di cui abbiamo urgente bisogno per fermare la crescita della temperatura del Pianeta può legare assieme gli obiettivi di un modello energetico al 100% pulito, incentrato sulle fonti rin-

novabili, con quello di una virtuosa gestione del ciclo dell’acqua e dei materiali capace di portare innovazioni positive in agricoltura, in edilizia, nelle diverse attività che si svolgono sulle isole». È importante per Francesco Petracchini, Direttore del CNR IIA, che: «si acceleri oggi sugli interventi che puntano alla mitigazione climatica ed è utile fare il punto, attraverso il rapporto, sullo stato dell’arte rispetto al percorso di transizione ecologiche avviato nelle piccole isole. C’è ancora tanto lavoro». Depurazione e comparto idrico, infatti, sono i settori più deboli. I sistemi di dissalazione, collocati solo in un terzo delle isole, risultano molte volte inidonei e obsoleti, tanto che l’approvvigionamento dev’essere garantito da navi cisterna. I nuovi progetti sono spesso ostacolati da ricorsi presso il Tribunale amministrativo regionale o da opposizioni tra diversi livelli amministrativi. Le perdite della rete idrica sono simili alla media nazionale, ma in alcune sono oltre il 60%. In diversi comuni isolani il tasso di motorizzazione è quasi un’auto pro capite, come ad esempio a Lampedusa e Linosa (0,9 veicoli/abitante) e a Pantelleria (0,9 v/ab), quest’ultimo in aumento rispetto al dato contenuto nel report dello scorso anno. L’isola più virtuosa è Capri, in cui è pari allo 0,3 v/ab. Il parco auto più anziano si trova sulle Isole Pelagie (55%) e alle Tremiti (52%), nonostante qualche valore percentuale in meno rispetto al rapporto 2021. Molte isole hanno avviato progetti per dotarsi di mezzi elettrici. (G. P.).

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IN AUMENTO LA PRESENZA DEL LUPO LUNGO TUTTA LA PENISOLA Sono più di tremila i lupi che vivono in Italia sul 50% del territorio nazionale. “Serve un piano gestione di questo animale” di cui, negli anni ’90 rimanevano pochi esemplari nel Paese

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ltre 3.300 lupi vivono stabilmente in Italia: circa 950 individui si muovono nelle regioni alpine e quasi 2.400 lungo il resto della penisola. La specie occupa un’area di circa 41.600 km2 nelle regioni alpine e 108.500 km2 nelle regioni peninsulari, pari a poco più del 50% del territorio italiano. Sono questi in sintesi i risultati del primo monitoraggio nazionale del lupo svolto dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA) su mandato del ministero della Transizione Ecologica. Lo studio ha permesso di stimare per la prima volta su tutto territorio italiano l’abbondanza (intesa come numero di individui, N) e la distribuzione (area minima occupata nella regione alpina e area stimata nella zona peninsulare) del lupo. «Il lupo è una delle specie animali più conosciute in Italia, ma anche una delle più elusive e difficili da studiare», spiega il Dott. Piero Genovesi, responsabile del Servizio Coordinamento Fauna Selvatica dell’ISPRA. «Tutti i progetti finora attivati su questo carnivoro hanno avuto carattere locale e circoscritto nel tempo, limitando la possibilità di produrre una stima accurata a livello nazionale; per produrre una stima aggiornata e precisa abbiamo creato il Network lupo coinvolgendo tutti gli enti territoriali, partendo da Regioni e Parchi Nazionali, quaranta associazioni, tra cui Wwf, Cai, Legambiente, Lipu, Aigae e abbiamo attivato una collaborazione con i Carabinieri Forestali». Il progetto è stato svolto tra il 2018 e il 2022, con una raccolta dati realizzata tra Ottobre 2020 e aprile 2021. L’attività dei ricercatori è stata imponente: 85000 km percorsi a piedi alla ricerca delle “tracce” dei lupi, pari a due volte il giro della terra; 24490 segni di presenza raccolti (6520 avvistamenti fotografici da fototrappola, 491 carcasse di ungulato predate dal lupo, 1310 tracce di lupo, 171 lupi morti). Su 1500 escrementi, dei 16000 registrati, sono state condotte analisi genetiche che hanno permesso l’identificazione della specie. Il lupo è una specie rigorosamente protetta dalla normativa Internazionale (Direttiva “Habitat” CEE 1993/43, Convenzione di Berna) e nazionale (l. 157/92, DPR 357/97)

Impronta di un lupo sull’Appennino Tosco-emiliano.

Lo studio dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA) ha permesso di stimare per la prima volta su tutto territorio italiano l’abbondanza (intesa come numero di individui, N) e la distribuzione (area minima occupata nella regione alpina e area stimata nella zona peninsulare) del lupo.

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e tale protezione ha sicuramente contribuito alla crescita della popolazione rilevata negli ultimi decenni. Dai dati del Wwf negli anni ’70 del secolo scorso, in Italia restavano poco più di 100 lupi nelle vallate più isolate e selvagge dell’Appennino centro-meridionale. Negli ultimi anni invece la specie si ritrova anche in aree di collina e di pianura ed ha colonizzato anche aree antropizzate intorno a grandi città come Bari, Pescara, Roma, Firenze, Bologna, Torino. Ma a cosa serve il monitoraggio della specie? Conoscere alcuni parametri della popolazione come la distribuzione e l’abbondanza rappresenta uno strumento essenziale per poter attentamente valutare lo status di conservazione e l’efficienza di misure gestionali adeguate. «Per la prima volta in Italia abbiamo dati esaustivi e affidabili su presenza e distribuzione del lupo, specie fondamentale per i nostri ecosistemi e la cui presenza è un valore per i nostri territori» commenta Gianluca Catullo del WWF Italia. I numeri sono in crescita, come gli esperti si aspettavano, ma le minacce per la sua conservazione restano attuali. Bracconaggio e mortalità accidentale continuano a uccidere centinaia di lupi ogni anno, e l’ibridazione con il cane mette a repentaglio l’integrità genetica della specie. GdB | Luglio/agosto 2022

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Il lupo è una specie rigorosamente protetta dalla normativa Internazionale (Direttiva “Habitat” CEE 1993/43, Convenzione di Berna) e nazionale (l. 157/92, DPR 357/97) e tale protezione ha sicuramente contribuito alla crescita della popolazione rilevata negli ultimi decenni.

il cane domestico, il 15,6 % hanno mostrato segni di più antica ibridazione. Con i dati ottenuti dallo studio, è stato realizzato anche un database nazionale dei segni di presenza e degli esiti delle analisi genetiche, che sarà messo a disposizione di Regioni e altri enti a supporto delle future azioni di monitoraggio. «Ci auguriamo che i risultati del progetto siano l’inizio del percorso che porti all’approvazione finalmente di un Piano di gestione e conservazione condiviso, che preveda azioni atte a contrastare le minacce e a migliorare la convivenza tra le comunità locali e il lupo» prosegue Catullo. I dati raccolti e la rete creata possono fornire un supporto a Enti locali e Parchi nazionali per una corretta conservazione e per mitigare attivamente i conflitti che il lupo causa, soprattutto nelle aree di nuova espansione della specie. (S. B.) © Alessandro Cristiano/shutterstock.com

Nello studio si è indagato a fondo proprio sulla potenziale ibridazione con il cane (Canis lupus familiaris). «L’ibridazione lupo x cane – si legge nella nota dell’ISPRA - determina l’introduzione di geni non adattativi nella popolazione selvatica e può modificare l’identità genetica e, conseguentemente, l’ecologia, la morfologia, il comportamento, gli adattamenti, mettendo in pericolo il patrimonio genetico evoluto nel corso dei millenni e che ha permesso al lupo di sopravvivere e di adattarsi al mutamento delle condizioni ambientali». Dalle analisi genetiche condotte sui campioni nell’area peninsulare sono stati identificati geneticamente 513 individui di lupo. Il 72,7% non ha mostrato ai marcatori molecolari analizzati alcun segno genetico di ibridazione recente o antica con il cane domestico, l’11,7 % mostrava segni di ibridazione recente con

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L’INTELLIGENZA DEL POLPO E I TRASPOSONI I ricercatori di Sissa, Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e Istituto italiano di tecnologia (Iit) hanno confermato l’unicità di questo animale

di Michelangelo Ottaviano

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l polpo è da sempre considerato un animale dotato di un’intelligenza superiore alla media. In effetti il più famoso dei cefalopodi ha delle caratteristiche straordinarie per essere un invertebrato (lo conferma anche il meno scientifico documentario “My octopus teacher”), che lo rendono più simile ai vertebrati mammiferi. Una collaborazione tra i ricercatori della Scuola internazionale di studi avanzati di Trieste (Sissa), della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e l’Istituto italiano di tecnologia (Iit) ha studiato più approfonditamente

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questo animale, confermando la sua unicità. Lo studio, pubblicato sulle pagine della rivista BMC Biology, si sofferma in particolare sulle analogie che ci sarebbero tra il cervello del polpo e quello dell’uomo. Queste forti somiglianze esisterebbero in virtù dei cosiddetti geni “salterini” o trasposoni, che sono in grado di spostarsi all’interno del genoma. Stando ai dati dello Human Genome Project (HGP), il nostro genoma è composto per il 45% da trasposoni, sequenze di materiale genetico che avrebbero la capacità di spostarsi (di “saltare”) da un pun-

to all’altro attraverso i meccanismi molecolari di copia-e-incolla (duplicandosi) e di taglia-e-incolla. Sono elementi mobili, nonché strumenti fondamentali dei processi evolutivi. La maggior parte dei trasposoni non è però attiva nell’essere umano. Essi hanno perso la capacità di spostarsi nel genoma per via dell’accumulo di mutazioni nel corso di generazioni o perché bloccati da meccanismi di difesa cellulare. La maggior parte, non tutti; ne esistono infatti alcuni potenzialmente attivi. Quelli di maggior rilievo sono i Line (Long interspersed nuclear elements), la cui attività è regolata nel cervello umano, e diversi esperti ritengono siano coinvolti nello sviluppo di capacità cognitive come l’apprendimento e la memoria. Anche nel genoma dei polpi sono presenti tali geni “salterini” e, in particolare, i ricercatori hanno scoperto che sono potenzialmente attivi nelle specie Octopus vulgaris (il polpo comune) e Octopus bimaculoides (il polpo californiano). Il direttore del laboratorio di Computational Genomics alla Sissa, Remo Sanges, ha spiegato come la scoperta di un elemento della famiglia attivo nel cervello delle due specie di polpo è importante poiché aggiunge supporto all’idea che questi elementi abbiano una funzione specifica che va oltre il copia-e-incolla. Nel polpo e negli esseri umani i Line sono attivi in modo particolare nelle sedi principali delle capacità cognitive e dell’apprendimento, rispettivamente nel lobo verticale e nell’ippocampo. Potrebbe quindi trattarsi di uno straordinario esempio di evoluzione convergente, un fenomeno per cui due specie geneticamente lontane sviluppano lo stesso processo molecolare in maniera indipendente in risposta a necessità simili. I ricercatori hanno potuto confermare quanto il cervello del polpo sia funzionalmente analogo a quello dei mammiferi. L’importanza di questa ricerca è dunque legata alla possibilità di ampliare le conoscenze riguardo l’evoluzione dell’intelligenza.


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a crisi di idrica che l’Italia sta vivendo è finalmente (o forse sarebbe meglio dire “fatalmente”) sotto gli occhi di tutti. Il problema sorge a monte, e non in senso figurato purtroppo: le montagne sono più povere di neve e le piogge sempre più scarse. Quando poi si arriva a valle, lo scenario dei letti dei fiumi, asciutti e aridi, sembra essere venuto fuori da una raccolta di Montale. La causa è ovviamente una temperatura più alta del normale, destinata, secondo le stime, a salire di 1 o 2 gradi nei prossimi trent’anni. L’Italia ha sempre goduto di una vasta disponibilità di acqua dolce, assicurata soprattutto dalle vette innevate dislocate sul territorio. La regione emblema di questa crisi è probabilmente la Lombardia: ricchissima di acqua dolce, ma in stato di emergenza dal 28 giugno fino a settembre, con un calo delle precipitazioni di circa il 40% rispetto alla media degli anni scorsi. Grazie ai dati forni dall’Anbi è possibile farsi un’idea sulla situazione dei fiumi italiani. Per capire da dove inizia la grande crisi dei fiumi italiani si inizia sempre dal Po, indice di riferimento di un fenomeno nazionale, che ha avuto valori minimi intorno al 30%. Andando più a Nord per poi scendere, la Valle d’Aosta non vive una situazione critica: le alte temperature favoriscono lo scioglimento della neve che è tornata a riempire i corsi d’acqua regionali. Va peggio in Piemonte, dove sono calati i livelli dei fiumi principali come Pesio, Tanaro e Sesia. In Lombardia l’Adda non vedeva così poca acqua dal 2017, ma è il Veneto ad essere la regione con problemi maggiori in termini di approvvigionamento idrico. In tutta l’Emilia Romagna sono calate vistosamente le portate dei fiumi, e il Secchia e l’Enza sono sotto il limite storico. In Toscana la portata dell’Arno è pari al 27% della media, con l’Ombrone e il Serchio che sono altrettanto in difficoltà. Anche i fiumi marchigiani sembrano lentamente

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LA CRISI DEI FIUMI ITALIANI Montagne più povere di neve ele pioggescarse, portano, a valle, letti di fiuami aridi e asciutti

scendere sotto i livelli del 2021 dopo un primo periodo stabile. Il nuovo sorvegliato speciale è il Lazio dove i cali di livello dei fiumi Tevere, Liri, Sacco, Aniene e quelli dei laghi di Bracciano e Nemi, sono tra i presupposti che hanno convinto anche la Regione Lazio a emettere un’ordinanza che dichiara lo stato di calamità. Il vicino Abbruzzo ha vissuto deficit di piogge superiori al 90%. Paradossalmente al Sud, sebbene il quadro idrico veda sempre una diminuzione generale dell’acqua negli invasi e lungo i fiumi, la situazione sembra migliore. Di pari passo alla questione siccità va considerata anche

quella dell’inquinamento, che vede il 60% delle acque dei fiumi italiani chimicamente contaminate. Secondo l’Istat, per dare un’idea del problema, il totale dei liquami civili scaricato nei fiumi inquinati senza subire nessun trattamento di depurazione è pari a quello prodotto da 41milioni di abitanti. Urge ricorrere a serie politiche di mitigazione del clima, affiancate ad un uso strettamente più attento a livello personale, pubblico e privato dell’acqua: il problema principale, al momento, è che si sta utilizzando più acqua di quanta ce n’è a disposizione. (M. O.). GdB | Luglio/agosto 2022

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UN PARCO SOLARE CON MATERIALI BIDIMENSIONALI Elevate prestazioni con pannelli fotovoltaici di terza generazione La ricerca è stata pubblicata su Nature Energy

di Pasquale Santilio

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icercatori italiani dell’Università di Roma Tor Vergata, della star-up BeDimensional S.p.A., Greatcell Solar Italia Srl, Istituto Italiano di Tecnologia, Istituto di Struttura della Materia del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Università di Siena, insieme all’Università ellenica del Mediterraneo hanno realizzato un parco solare di 4,5 metri quadrati ad Heraklion, sull’isola di Creta. Pannelli fotovoltaici di terza generazione basati su nuovi materiali, quali perovskite e grafene e altri ma-

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teriali bidimensionali in sostituzione del silicio, hanno rappresentato la novità di questa ricerca. Il parco solare nasce nell’ambito delle attività di trasferimento tecnologico dell’iniziativa europea Graphene Flagship, volte a testare nuovi dispositivi a base di grafene e altri materiali bidimensionali in applicazioni concrete. I test eseguiti sui nuovi pannelli hanno dimostrato che i nuovi materiali risultano vantaggiosi in termini di prestazioni e di impatto ambientale. La tecnologia delle celle solari a perovskite è caratterizzata da bassi

costi di produzione, un’elevata efficienza di conversione, simile alle celle solari in silicio monocristallino di ultima generazione, che possono convertire circa il 26% dell’energia solare in elettricità. I materiali bidimensionali sono elementi fondamentali di questo dispositivo in quanto migliorano l’efficienza e la durata, che è la chiave per il percorso verso l’industrializzazione. Il team ha integrato 9 pannelli solari per un’area totale di 4,5 metri quadrati e li ha installati a Heraklion, insieme ai necessari componenti elettronici di potenza, ai sistemi per acquisizione dati e una stazione metereologica. I ricercatori hanno misurato le prestazioni e la stabilità del parco solare per 9 mesi dopo la sua installazione, dimostrando che la potenza generata è in grado di alimentare l’attrezzatura di laboratorio. Se messo in collegamento con la rete elettrica, il parco solare potrebbe iniettare nel sistema un’energia pari a 546 kWh, supportando così i consumi della popolazione in modo sostenibile. Aldo Di Carlo, Direttore dell’Istituto di Struttura della Materia del Cnr e Deputy del Work Package “Energy Generation” della Graphene Flagship, ha affermato: «Siamo stati in grado di dimostrare che l’uso di materiali bidimensionali come il grafene è importante per modulare le proprietà delle celle solari a perovskite non solo nei test di laboratorio, ma anche su pannelli di ampia area in condizioni reali, aumentando così la maturità di questa tecnologia». Francesco Bonaccorso, cofondantore e Direttore scientifico della starup BeDimensional, visiting scientist dell’IIT e Deputy del Work Package “Innovation” della Graphene Flagship, ha dichiarato: «Il miglioramento dell’efficienza e della stabilità dei pannelli solari in perovskite con grafene e altri materiali bidimensionali rappresenta un risultato cardine nel percorso di innovazione tecnologica che la Graphene Flagship sta proponendo a livello europeo e mondiale».


Innovazione

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stato presentato a Palermo dal partenariato che lo ha ideato e realizzato attraverso il progetto Celavie (Cellule technologique de LA VIE), cofinanziato dall’Unione Europea all’interno del Programma ENI di cooperazione transfrontaliera Italia-Tunisia 2014-2020, di cui la Presidenza della Regione Siciliana è l’autorità di gestione, l’innovativo vivaio sperimentale, tecnologico e trasportabile. I primi “inquilini” della Cellula della vita sono carpe, granchi di fiume, lattughe, piantine di basilico e di pomodoro. Un prototipo in grado di fornire contemporaneamente ortaggi e pesci o crostacei per scopi sia alimentari che di altro genere con cicli produttivi a impatto ambientale pressocché nullo, con consumi di acqua e suolo quasi azzerati, dotato di autonomo microclima interno e anche di elettronica di controllo avanzata per la gestione e il monitoraggio a distanza. Celavie è un progetto attuato dal Consorzio regionale per la ricerca applicata e la sperimentazione insieme con l’Universitè de Sfax, il Consiglio nazionale delle ricerche, la Green Future s.r.l., l’Union tunisienne de l’agriculture et de la peche, Utap e l’Association de la continuitè des generations, Agc. Il budget complessivo è di 975.688 euro, con un 10% di co-finanziamento dei partner. Sono partner associati il GAL Elimos, l’Ente di sviluppo agricolo- ESA, l’Association pour la conservation de la biodiversitè dans le golfe de Gabes e l’Union règionale de l’agriculture et de la peche. All’inaugurazione hanno presenziato anche rappresentanti degli enti partner tunisini, giunti a Palermo per l’occasione: Amine Elleuch, Slim Kallel, Ahmed Ben Arab e Ahmed Hadjkcem per l’Università di Sfax, Fatma Amdouni per l’UTAP e Ismail Bouassida per l’AGC. La Cellula della vita, che da oggi è attiva per la sperimentazione nella sede di Green Future e che sarà replicata nella cittadella universitaria a

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LA “CELLULA DELLA VITA”: ECCO IL VIVAIO DEL FUTURO Sperimentale, tecnologico e trasportabile, ospiterà ortaggi, pesci e crostacei. Cicli produttivi a impatto ambientale pressocché nullo, con consumi di acqua e suolo quasi azzerati

Sfax, si rivolge ad un’ampia varietà di applicazioni, che vanno da quelle alimentari a quelle in campo commerciale, ambientale e sociale. Le prime si preannunciano all’interno di progetti che coinvolgono grandi gruppi internazionali. Giuseppe Filiberto, amministratore di Green Future, ha spiegato: «Inseriremo la Cellula della vita negli impianti agrovoltaici che stiamo per realizzare in più zone della Sicilia per un totale di 300 megawatt. L’impiego del prototipo sarà un enorme vantaggio perché consentirà una continua produzione di plantule da destinare

poi al terreno tra i moduli fotovoltaici. Questa componente, innovativa e del tutto inedita per impianti di questo tipo, rafforza l’idea che l’agrovoltaico di qualità è possibile. I progetti, in attesa di approvazione amministrativa, riguardano fra l’altro alcune aree nelle province di Palermo, Trapani, Enna e Ragusa e nascono da contratti già stipulati con grandi aziende multinazionali. Tra queste c’è anche un colosso farmaceutico: nel caso specifico la Cellula della vita sarà importante proprio per la produzione di erbe officinali per uso medicale». (P. S.). GdB | Luglio/agosto 2022

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IL BIOCOMBUSTIBILE SU UN JET MILITARE Primi voli sperimentali grazie ad una collaborazione tra Enea e Cnr per verificare le prestazioni del combustibile fossile miscelato con biofuel a diverse percentuali

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n aereo dell’Aeronautica Militare alimentato da una miscela di carburante contenente biocombustibile fino al 25%, si è alzato in volo per i primi voli a carattere sperimentale. I test sono stati condotti presso la Divisione aerea di sperimentazione aeronautica e spaziale di Pratica di Mare su un caccia AMX da piloti e personale specializzato dell’Aeronautica Militare, appartenenti al Reparto sperimentale di volo e al Reparto tecnologie dei materiali aeronautici e spaziali della stessa Dasas, a valle

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di un’attività preliminare di studio e sperimentazione realizzata in collaborazione con ricercatori dell’Enea e di tre Istituti del Cnr. La sperimentazione rientra nell’ambito di un accordo di cooperazione tra Aeronautica Militare, Enea e Cnr avviato nel 2017 grazie a un finanziamento dell’allora Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, oggi Ministero della transizione ecologica in materia di produzione di biocombustibili e loro utilizzo in campo aeronautico, una collaborazione che ha portato al raggiungimento di importanti obiettivi

nell’ambito del progetto Abc (Aerotrazione con BioCarburanti). Tale accordo, oltre lo studio e l’aggiornamento della normativa di settore, ha previsto diverse prove motore a terra per verificare le prestazioni del combustibile fossile miscelato con biofuel a diverse percentuali (dal 20% al 25%). Inoltre, ha permesso di confrontare i livelli e la tipologia di emissioni delle diverse miscelazioni rispetto a quelli dei combustibili fossili tradizionali, nonché di compiere numerose prove di compatibilità del biofuel puro, a diverse concentrazioni, con i materiali metallici ed elastomerici dei velivoli, per escludere eventuali problemi al motore o alle parti plastiche. Per la realizzazione dei voli sperimentali, il personale chimico del Reparto tecnologie dei materiali aeronautici e spaziali (Rtmas), in collaborazione con i Laboratori tecnici di controllo del Servizio dei supporti del comando logistico, ha condotto una preventiva serie di analisi chimico-fisiche di qualificazione e certificazione sia del combustibile di origine biogenica, acquisito nell’ambito dell’Accordo di cooperazione, sia del combustibile fossile appositamente selezionato per la miscelazione. Con il contributo del Reparto supporto tecnico operativo della Dasas è stato infine realizzato il microlotto di miscela di biocarburante utilizzato per rifornire il velivolo AMX durante le prove. I due voli effettuati, il primo con miscelazione al 20% e il secondo al 25%, sono stati pianificati e condotti dal reparto sperimentale volo, che ha provveduto anche alla raccolta dei dati di performance motoristica. Enea ha realizzato lo studio preliminare delle matrici vegetali che ha consentito di individuare quella più idonea alla produzione di biocarburanti per aviazione. Inoltre, si è occupata di caratterizzazione delle emissioni dei velivoli in aria ambiente insieme alla valutazione tossicologica per la stima della sostenibilità economica. (P. S.).


Innovazione

L

a malattia di Parkinson risulta essere il secondo disordine neurodegenerativo, in termini di frequenza, dopo la malattia di Alzheimer. Nei Paesi più industrializzati colpisce ogni anno circa 12 persone su centomila; in Europa attualmente le persone affette da questa malattia sono circa 1,2 milioni, mentre a livello mondiale sono circa 6,3 milioni. I sintomi iniziali rendono particolarmente difficile la formulazione di una diagnosi certa e precoce e negli anni possono evolvere in modo variabile rendendo problematico il monitoraggio del naturale decorso o la risposta agli interventi terapeutici. Anche le opzioni di cura sono limitate, poiché non si dispone di terapie in grado di prevenire e/o arrestare il processo neurodegenerativo. Enea e il Policlinico Tor Vergata di Roma hanno sviluppato un innovativo sistema di video analisi per diagnosticare in modo precoce la malattia di Parkinson e personalizzare la terapia farmacologica. La ricerca si è concentrata sulle alterazioni delle abilità motorie, come i disturbi dell’equilibrio, della postura e dell’andatura, che sono segni distintivi della malattia. L’analisi di queste abilità fornisce indizi rilevanti e precoci per la diagnosi e lo studio dell’avanzamento della malattia, facilitando avvio e valutazione della terapia. Andrea Zanela, ricercatore del Laboratorio di Robotica e intelligenza artificiale di Enea e responsabile del progetto, ha spiegato:” La comunità scientifica da tempo cerca di individuare nuove misure che consentano di quantificare in modo obiettivo, standardizzato e coerente le abilità motorie e non motorie del paziente in osservazione. Il sistema di video analisi che abbiamo sviluppato adotta moderne tecniche di deep learning, cioè tecniche di intelligenza artificiale per rilevare la postura di una persona a partire da immagini riprese dalla telecamera”. Il nuovo sistema determina la posi-

© Ocskay Mark/shutterstock.com

VIDEO ANALISI PER LA DIAGNOSI DEL PARKINSON Enea e il Policlinico Tor Vergata di Roma hanno sviluppato un sistema per diagnosticare precocemente la malattia e personalizzare la terapia farmacologica

zione 3D dei principali giunti articolari della persona ripresa e poi individua le caratteristiche dei movimenti del corpo del soggetto calcolando i parametri cinematici dei punti osservati e dei segmenti che li uniscono. “ Il sistema non solo è in grado di riconoscere ed evidenziare qualitativamente gli stessi disturbi dell’andatura valutati dai punteggi delle scale normalmente utilizzate ma, offre una analisi quantitativa dei risultati, rilevando una gamma di disturbi motori più ampia e più finemente graduata, restituendo al medico tutta la ricchez-

za di una misura strumentale”, prosegue il ricercatore. Questo aspetto innovativo fa si che si possa determinare con un alto grado di precisione il reale stato di un paziente e il progresso della malattia senza influire sulle sue normali attività, sia nella fase iniziale del Parkinson quando i sintomi sono lievi, sia nella gestione della terapia. Zanela ha concluso:” Il sistema non è solo efficace ma ha anche un basso impatto sulla persona, le cui capacità, anche residuali, vengono valutate dal sistema in modo tanto accurato quanto rispettoso ed ergonomico”. (P. S.). GdB | Luglio/agosto 2022

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Beni culturali

CASA NOHA. PERFETTO CANCELLO D’INGRESSO ALLA CITTÀ DEI SASSI Uno straordinario luogo di memoria e di conoscenza da dove addentrarsi alla scoperta di Matera di Rino Dazzo

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Beni culturali

Viaggio straordinario nella storia di Matera» ideato da Giovanni Carrada, che ha il compito di fornire ai visitatori una ricostruzione completa e accurata della storia della città, dalle sue origini ai giorni nostri. Non un semplice viaggio nel tempo, ma una vera e propria full immersion nel cuore stesso della Città dei Sassi, alla scoperta dei suoi segreti, dei suoi miti, della sua essenza più autentica e genuina. Casa Noha, del resto, è essa stessa situata nel cuore di Matera, all’interno della Civita, la rocca naturale che separa i due storici quartieri cittadini: il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano. Raggiungerla è semplicissimo, visto che si trova a due passi dal Duomo. Basta imboccare l’arco a destra in fondo alla piazza

© canadastock/shutterstock.com

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asa Noha non è solo una bellissima dimora situata all’interno di un palazzo nobiliare di stampo cinquecentesco: è la porta d’ingresso alla città di Matera. Una sorta di vestibolo, di anticamera in cui dare uno sguardo a ciò che si ammirerà nel corso della visita a una città più unica che rara, dichiarata patrimonio mondiale dell’Umanità nel 1993 e che è stata Capitale europea della cultura per il 2019. Nelle sue pareti, nei soffitti e nei pavimenti delle sue stanze, infatti, è proiettato un filmato - «I Sassi invisibili.

Casa Noha, interno.

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Beni culturali

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Fonte: Fai

Fonte: Fai

della Cattedrale, proseguire lungo via San Potito e scendere la scalinata a destra, dopo l’incrocio con via Muro. È qui, nel Recinto Cavone, che è situato l’edificio un tempo dimora dei de Noha, nobile famiglia dalle origini salentine che tra il XV e il XVI secolo venne in possesso di diverse proprietà all’interno della città di Matera e nel suo circondario. La sua struttura rappresenta un esempio tipico di architettura privata dei Sassi, con un’ampia scala esterna che conduce dalla corte dall’aspetto arioso ai cinque ambienti interni, tutti edificati con conci di tufo e impreziositi da soffitti a volta, cornici e intagli molto ben rifiniti. Se i primi proprietari sono stati dei nobili, nel corso dei secoli Casa Noha ha ospitato famiglie di diverse estrazioni sociali. Gli ultimi ad avervi soggiornato sono stati i Latorre e i Fodale, che nel 2004 hanno deciso di donarla al Fondo Ambiente Italiano con uno scopo preciso: fare in modo di condividerne la storia, la bellezza, la sua anima più vera con tutta la collettività. Se oggi la dimora è disabitata, come del resto le abitazioni circostanti, c’è stato infatti un tempo non troppo lontano in cui i vicoli di Matera brulicavano di vita. In una puntata di Geo, su Rai Tre, due delle ultime proprietarie, Gilda e Maria Francesca Latorre, hanno raccontato cosa rappresenta per loro Casa Noha, restituendo uno spaccato cittadino che oggi forse si fa fatica a immaginare: «Un tempo questa zona era abitata, piena di gente. Il vicinato era vivo, si respirava un’atmosfera di gioia, di gioco. Da piccole venivamo qui a trovare gli zii, giocavamo fuori, all’aperto. Tutti si conoscevano, tutti si rispettavano e le porte erano sempre aperte, di notte e di giorno». Immagini rimaste scolpite nella memoria di due bambine diventate col tempo donne adulte, restituite ai visitatori di Casa Noha dalla brillante opera del FAI, che dopo la donazione ha rimesso a nuovo l’abitazione realizzando un accurato restauro conservativo, corredato da un avvincente e innovativo percorso multimediale che nel suo racconto abbraccia arte, architettura, archeologia e cinema. Il ponderoso materiale raccolto da Rosalba Demetrio, responsabile scientifico del progetto, è il tema portante del video che, a partire dal 2014, è proiettato in ogni angolo della dimora e che consente agli ospiti di Casa Noha di immergersi nello spirito di Matera, di coglierne gli aspetti più inediti e meno considerati. Un appetitoso antipasto, anche se sarebbe più oppor-

Dopo la donazione al Fai, è stato realizzando un accurato restauro conservativo, corredato da un avvincente e innovativo percorso multimediale che nel suo racconto abbraccia arte, architettura, archeologia e cinema.

tuno definirlo una straordinaria introduzione, a quella che sarà la visita materiale alla città, ai suoi vicoli, al suo labirinto di pieni e di vuoti, di case, grotte, chiese e tesori. Tutti raggiungibili in pochi minuti, vista la posizione privilegiata della dimora nel tessuto urbano della città. Ma Casa Noha non è soltanto un luogo di proiezione. È un’abitazione che, pur con le trasformazioni che si sono succedute nel tempo, testimonia e racconta fedelmente la storia di un’antica famiglia di cui si ha traccia sin dal lontano 1200 nei documenti conservati nei Registri della Cancelleria Angioina. È una tappa d’obbligo all’interno dell’itinerario dedicato ai siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO, alla scoperta de “I Sassi e il Parco delle Chiese rupestri di Matera”, oltre che luogo di pellegrinaggio dell’itinerario che da Roma conduce alla scoperta della Basilicata, per conoscere e ammirare una terra ricca di arte, storia, spiritualità e antiche tradizioni. Ed è anche un piccolo museo dove sono esposti oggetti e strumenti di vita quotidiana, una base di partenza dove tracciare e definire itinerari, un centro dove reperire informazioni e suggerimenti utili a trasformare la visita di Matera in un’esperienza ancor più significativa e memorabile.


Beni culturali

È

terminato il restauro delle otto facciate interne del Battistero di Firenze. Tornano così a brillare i magnifici mosaici parietali e quelli che rivestono la volta e l’arco trionfale dell’abside, tra i più rappresentativi di quello che Dante definì il ciclo musivo del “Bel San Giovanni”. Gli interventi, finanziato dall’Opera di Santa Maria del Fiore con 2 milioni e 600 mila di euro e con un contributo della Fondazione non profit Friends of Florence, sono stati condotti sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza fiorentina, in collaborazione con atenei italiani e laboratori specialistici per le indagini diagnostiche. «Nonostante i rallentamenti causati dalla pandemia - dichiara Vincenzo Vaccaro, consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore con delega ai restauri architettonici - l’Opera è stata capace di rispettare quello che è il primo motivo della sua esistenza che consiste nel provvedere alla manutenzione e alla valorizzazione dei monumenti e dei beni in suo possesso». Secondo Beatrice Agostini, che ha progettato e diretto i lavori architettonici, «il restauro delle decorazioni musive è stato particolarmente impegnativo perché ci si è dovuti confrontare con varie tipologie di problematiche: dalla tecnica musiva assolutamente originale impiegata nei mosaici parietali, un vero e proprio unicum, a precedenti interventi di restauro, come nella scarsella, e con materiali diversificati e preziosi che vanno dalla tessere vitree al corallo». Il restauro delle pareti interne del Battistero ha interessato sia la struttura sia l’architettura e la decorazione musiva del monumento. L’ultima parte sulla quale sono stati condotti gli interventi di recupero è stata l’abside, detta anche “scarsella”, rivestita sulla volta e sull’arco trionfale da mosaici datati probabilmente attorno alla seconda metà del XIII secolo. Le opere sulle pareti risalgono invece al primo e al secondo decennio del Trecen*

Consigliere tesoriere dell’Onb

© V_E/shutterstock.com

TORNA A SPLENDERE IL BATTISTERO DI FIRENZE Brillano i mosaici parietali e quelli che rivestono la volta e l’arco trionfale dell’abside, tra i più rappresentativi di quello che Dante definì il ciclo musivo del “Bel San Giovanni”

di Pietro Sapia*

to. I mosaici della scarsella si differenziano da quelli parietali sia per la complessità narrativa che per la tecnica di esecuzione. Furono infatti impiegate tessere di misura minuta oltre che una grandissima varietà cromatica di paste vitree e altri materiali preziosi, come il corallo. Le sette facciate interne del Battistero rappresentano profeti, santi, vescovi e cherubini. Nella volta sono rappresentate le immagini speculari della Madonna e del Battista seduti in trono, affiancate da quattro telamoni che sorreggono la grande ruota centrale. Questa è suddivisa in otto raggi, popolati da figure di patriarchi biblici e profeti che preannunciano la nascita di Cristo. Al-

tre figure di profeti compaiono nell’arco trionfale, mentre sulla ghiera esterna troviamo Apostoli, Evangelisti e Santi che affiancano il Battista, che si trova al centro. Numerose sono state le scoperte emerse durante il restauro delle otto facciate, che ha visto una preliminare campagna di studi e d’indagini diagnostiche mai eseguite prima in maniera così approfondita sull’intero monumento e sulla sua storia. In autunno partirà il restauro dei circa 1.200 metri quadrati di mosaici della cupola del Battistero, che durerà alcuni anni, e allo stesso tempo permetterà di portare i visitatori a vedere da vicino uno spettacolo unico al mondo. GdB | Luglio/agosto 2022

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ALEXIA E I SUOI FRATELLI QUEI “CRACK” ALLA VIGILIA DELLA FESTA

Alexia Putellas.

La spagnola Putellas è andata ko a pochi giorni dall’Europeo di calcio femminile. In passato è successo a tanti altri campioni, da Bettega a Beckham, ma anche a Chechi, Goggia e Tamberi

di Antonino Palumbo © Mikolaj Barbanell/shutterstock.com

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ottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro. Non c’è bisogno di seguire il calcio, per capire quanto possa essere doloroso. Chi poi il calcio (o lo sport in genere) lo segue, può immaginare quanto possa essere anche frustrante rimediare un simile infortunio alla vigilia di un grande appuntamento, di quelli che si aspettano anni. L’ultima “vittima” della maledizione della vigilia si chiama Alexia Putellas, 28enne spagnola, Pallone d’Oro 2021, che in uno degli ultimi allenamenti prima dell’Europeo di calcio femminile ha visto andare in fumo l’ennesimo ten-

tativo di conquistare un trofeo importante con la propria nazionale. Per fare un paragone, è come se fra gli uomini si infortunasse Lionel Messi o Cristiano Ronaldo, anche se quest’ultimo un Europeo l’ha vinto, nel 2016, malgrado lo stiramento del legamento collaterale mediale nei primi minuti della finale con la Francia. Alexia non è la prima, né sarà l’ultima big a dover saltare un appuntamento importante per infortunio, dal calcio allo sci alpino, dall’atletica leggera al salto in alto fino al curling, disciplina che ha visto l’Italia gioire per un oro ai recenti Giochi Olimpici invernali. Il caso più clamoroso, nonché assurdo, è stato quello di Pietro Anastasi, che salto i Mondiali di calcio del 1970 per un colpo al basso ventre rimediato durante una seduta di massaggi, che gli provocò un versamento di sangue con conseguente operazione. Una vera “beffa”, partita

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da uno scherzo. Un po’ come quella che costò i Mondiali 2002 al “Puma” Emerson, slogatosi una spalla mentre giocava a fare il portiere in allenamento. Giocatore particolarmente sfortunato è stato Roberto Bettega, fermato da una lesione ai legamenti rimediata contro l’Anderlecht in coppa dei Campioni, diversi mesi prima del Campionato del mondo del 1982. All’epoca, però, per assorbire alcuni infortuni serviva molto più tempo. Sappiamo tutti com’è andata, al Mundial, e chi non lo sapeva ha avuto modo di impararlo nelle ultime settimane, viste le celebrazioni a quarant’anni da quel trionfo azzurro. Ad accomunare Angelo Peruzzi e Gianluigi Buffon, invece, non è solo il ruolo di portiere e i trascorsi, più o meno lunghi e vittoriosi, nella Juventus. Peruzzi saltò i Mondiali di Francia ‘98 per una lesione da stiramento del gemello interno della gamba sinistra. Buffon si vide negare gli Europei due anni più tardi, per una frattura dell’anulare della mano sinistra, in amichevole con la Norvegia. A beneficiarne, in entrambi i casi, Francesco Toldo che in Francia rientrò come terzo portiere e in Olanda diventò il titolare, regalandosi e regalandoci pagine memorabili della storia azzurra, come i rigori parati in serie ai padroni di casa nella semifinale di Rotterdam. Non solo azzurri, naturalmente. Il golden goal di David Trezeguet, che mandò in estasi la Francia nella finale di Euro 2000 contro l’Italia, fu vissuto da spettatore da Alain Boghossian, che non poté completare il “double” dopo il titolo mondiale, a causa di un grave infortunio al ginocchio alla vigilia della manifestazione continentale. L’edizione 2010 dei Mondiali perse due grandi, attesi protagonisti come l’inglese David Beckham, che durante la gara di campionato tra Milan e Chievo si ruppe il tendine d’Achille, e il tedesco Michael Ballack mandato “ko” da Kevin Prince Boateng durante la finale di FA CUP. Nel 2014 è toccato a Radamel Falcao, stella della Colombia, saltare i Mondiali per i postumi di un’operazione al ginocchio infortunato, mentre l’ultimo europeo – che ben ricordiamo vista l’apoteosi italiana – è stato “proibiti” per il polacco Arkadiusz Milik, l’olandese Donny Van de Beek e gli azzurri Nicolò Zaniolo e Lorenzo Pellegrini. E che dire del ginnasta Jury Chechi, il Signore degli Anelli, così ribattezzato dopo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996? La sua occasione sembrava giunta già quattro anni 64 GdB | Luglio/agosto 2022

Jury Chechi. E che dire del ginnasta Jury Chechi, il Signore degli Anelli, così ribattezzato dopo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996? La sua occasione sembrava giunta già quattro anni prima, a Barcellona, ma pochi giorni, atterrando da un salto mortale al corpo libero, si ruppe il tendine d’Achille del piede destro.

Roberto Bettega.

prima, a Barcellona, ma pochi giorni, atterrando da un salto mortale al corpo libero, si ruppe il tendine d’Achille del piede destro. Dall’infortunio all’oro olimpico, come l’altista Gianmarco Tamberi. Sei anni fa, a poche settimane dai Giochi di Rio de Janeiro, dopo aver vinto la gara di Diamond League a Montecarlo con tanto di primato italiano, tentò di migliorarsi ulteriormente salendo a 2,41 metri. Ma la caviglia non resse: lesione del legamento deltoideo e lacerazione della capsula articolare della caviglia sinistra. Lo scorso anno, a Tokyo, il riscatto dorato, in quell’edizione delle Olimpiadi che ha dovuto “saltare” Larissa Iapichino, promessa del Lungo: l’infortunio al piede destro le ha peraltro negato anche i Mondiali Under 20. Altra campionessa di sfortuna è la sciatrice bergamasca Sofia Goggia, che lo scorso anno si è persa i Mondiali di sci di Cortina d’Ampezzo, dove sarebbe partita da super favorita nelle gare di velocità, a causa della frattura del piatto tibiale del ginocchio destro. E quest’anno, proprio a Cortina, ha rimediato una lesione parziale del legamento crociato e mini frattura al perone, a 23 giorni dalle Olimpiadi invernali. Il suo argento nella gara di discesa libera è stato un prodigio di tenacia e medicina. Con gli acciacchi convive Milos Teodosic, stella del basket, assente al Mondiale 2019 per una fascite plantare. Molto meno noto al grande pubblico fino a inizio anno, anche Amos Mosaner ha i suoi “dolori”, visto che ha dovuto saltare i Mondiali di curling a Ginevra, ad aprile, per uno strappo al vasto intermediale del quadricipite sinistro. Nel suo caso, ha potuto almeno consolarsi riguardando la fresca medaglia d’oro olimpica vinta con Martina Constantini a Pechino, pochi mesi prima. Quando è a metà, il bicchiere, conviene sempre vederne la pienezza.


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Sport

IL MARE NOSTRUM È AZZURRO L’ITALIA “REGINA” AI GIOCHI DEL MEDITERRANEO Quinto successo consecutivo per i nostri atleti nella manifestazione sportiva disputata a Orano, in Algeria, spesso palestra di atleti in rampa di lancio o di rilancio

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uinto trionfo consecutivo, quattordicesimo in diciannove edizioni. Una “normalità” straordinaria, quella che ha visto anche nel 2022 l’Italia vincitrice dei Giochi del Mediterraneo, disputati a Orano in Algeria. Trascinati dalle donne, che hanno firmato 25 delle 48 vittorie di specialità, lo squadrone azzurro ha collezionato un totale di 159 medaglie, prevalendo sulla Turchia grazie allo scarto di tre “ori”, dopo una rimonta costante. Primo Paese a vincere cinque edizioni di fila di una competizione spesso a torto snobbata dalle principali “potenza” che affacciano sul Mare Nostrum, l’Italia ospiterà la numero 20 a Taranto fra quattro anni. Dopo la scorpacciata di successi e podi ai Mondiali, l’Italia del nuoto in corsia si è confermata una potenza anche a Orano 2022. Gli azzurri hanno infatti conquistato il primato del medagliere della disciplina con 15 vittorie, 6 argenti e 14 bronzi, per 35 medaglie totali. Fra i grandi protagonisti dell’Italia c’è stato Filippo Megli, oro sia nei 100mn sia nei 200m stile libero. Nel dorso, Lorenzo Mora ha calcato tutti e tre i gradini del podio, dal terzo al primo: terzo nei 50m vinti da Simone Stefanì, è “risalito” fino all’oro nei 200m, davanti al connazionale Matteo Restivo. Campione per tre centesimi, Fabio Scozzoli - due volte argento iridato nel 2011 - ha stabilito anche il record della manifestazione nei 50m rana, così come ha fatto Matteo Rivolta nei 100m farfalla, dopo il secondo posto nella vasca secca. L’Italia maschile ha festeggiato anche nei

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200m farfalla con Claudio Faraci, nei 400m misti con Pier Andrea Matteazzi e nelle staffette 4x100m stile libero e 4x100m misti. Le principesse azzurre sono invece state Lisa Angiolini, dominatrice dei 50m e dei 100m rana (nel primo caso con record dei Giochi), e Sara Franceschi, che si è imposta per un pugno di centesimi sia nei 200m, sia nei 400m misti. Ragazze a podio in tutte le staffette, con il clou d’oro nella 4x100 misti, con un quartetto comprendente Ilaria Bianchi, prima italiana ad aver vinto un titolo mondiale individuale in vasca corta a Istanbul 2012. Meravigliose è un aggettivo che sta anche stretto alle ragazze della ginnastica artistica: nelle sei finali disputate, hanno conquistato sei ori, quattro argenti e un bronzo. Due successi individuali a testa e altrettanti podi per Martina Maggio e Asia D’Amato, trascinatrici della squadra nel concorso a squadre. D’oro anche Giorgia Villa alle parallele asimmetriche. Tra gli uomini il riferimento è stato Nicola Bartolini, iridato nel 2021, oro nel corpo libero e argento nel volteggio e nel concorso a squadre. A caricarsi sulle spalle (o su di lì) l’Italia della pesistica, prima nel medagliere, sono stati Antonino Pizzolato e Giulia e Imperio, oro sia nello strappo sia nello slancio, l’uno fra gli “Uomini fino a 89 kg”, l’altra fra le “Donne fino a 49 kg”. Non a caso Pizzolato può vantare tre ori europei, un bronzo mondiale e uno olimpico a Tokyo 2021, mentre la Imperio veniva dal trionfo negli Europei a Tirana. A Orano sono andati


a segno anche Mirko Zanni e Lucrezia Magistris. A conferma di una proficua semina, già evidenziata ad altissimi livelli, l’atletica leggera ha regalato alla causa azzurra ben 18 podi complessivi. Un focus particolare, in tal senso, lo meritano le 7 medaglie del mezzoofondo, se si considera che molti degli avversari ai Giochi del Mediterraneo - algerini, marocchini, tunisini su tutti - vantano solide tradizioni in merito. Splendido il successo della 33enne veneziana Giovanna Epis nella mezza maratona, al pari della vittoria ottenuta dall’ostacolista Rebecca Sartori nei 400m. La possibile doppietta di Federica Del Buono e Ludovica Cavalli, nei 1500 metri, è stata vanificata invece solo dalla rimonta imperiosa della transalpina Aurore Fleury. Standing ovation totale per le staffette, con tre successi italiani - la 4x100m maschile, la 4x100m e la 4x400m femminile - e un argento in quattro gare. Riflettori puntati anche sull’Italy Boxing Team, tornato a casa con 10 medaglie, tre delle quali d’oro. “Tremenda” l’impresa di Federico Emilio Serra nei 52 kg, con il marocchino Mortaji impossibilitato a continuare la finale dopo poco meno di un minuto. Gli altri successi sono stati quelli di Giordana Sorrentino, nei 50 kg, e del campione europeo in carica Abbes Mouhiidine nei 91 kg, rispettivamente

Fonte: Coni.

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Filippo Megli. Fra i grandi protagonisti dell’Italia c’è stato Filippo Megli, oro sia nei 100mn sia nei 200m stile libero. Nel dorso, Lorenzo Mora ha calcato tutti e tre i gradini del podio, dal terzo al primo

con la francese Moullai e l’algerino Amani. Un buon contributo al “bottino” azzurro è arrivato anche dalla scherma con 13 medaglie complessive ottenute sulle pedane di Orano: su tutte, gli ori firmati dalle esperte Olga Rachele Calissi nel fioretto e Giulia Rizzi nella spada, quest’ultima campionessa italiana individuale 2021. Donne, splendide donne anche nel ciclismo con Barbara Guarischi campionessa del Mediterraneo in linea e Vittoria Guazzini a cronometro: due ori, quanto è bastato per imporsi nel medagliere. Un Francesco Passaro in grande spolvero si è aggiudicato sia il torneo di singolare, sia quello di doppio nel tennis, assieme a Matteo Arnaldi. Mattia Visconti è stato il trascinatore nelle bocce, specialità Raffa: oro nel singolo, oro nel doppio con Marco Di Nicola. L’oro dell’aviere bolognese Federico Musolesi ha illuminato il rendimento della squadra di tiro con l’arco, rientrata con cinque medaglie e la certezza che si può crescere ancora. Negli sport di squadra, oro con dedica per l’Italvolley femminile: 3-1 alla Turchia e un pensiero speciale a Terry Enweonwu, infortunatasi al crociato durante l’Algeria. Bronzo per i ragazzi, podi anche nel calcio maschile (ko 1-0 coi francesi) e nel basket 3x3 femminile. (A. P.) GdB | Luglio/agosto 2022

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© LiveMedia/shutterstock.com

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Paola Egonu.

LA DOMENICA D’ORO DEL VOLLEY AZZURRO Domenica 17 luglio l’Italia ha conquistato la Volley Nations League femminile, i titoli europei maschili under 18 e under 22 e quello femminile under 21

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uattro medaglie d’oro in una sola giornata, a ogni livello. Saranno in tanti, nel mondo della pallavolo azzurra, a conservare nel cuore domenica 17 luglio come data speciale. In poche ore, infatti, l’Italia ha calato il poker d’assi in giro per l’Europa, vincendo nell’arco di un pomeriggio i titoli europei U18 e U22 maschili e U21 femminile, oltre ad aggiudicarsi per la prima volta la Volleyball Nations League con le big allenate da Vincenzo Fanizza. Affermate campionesse e giovani di talento: la pallavolo azzurra conferma che di talento ce n’è e che, se ben valorizzato, può essere una miniera d’oro, anzi di ori.

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La nazionale under 18 allenata da Michele Zanin si è riconfermata sul trono europeo, dopo il successo di due anni fa a Lecce. In quell’occasione a cadere in finale fu la Repubblica Ceca, mentre stavolta è toccato alla Francia, sconfitta in quel di Tbilisi, Georgia, con un secco 3-0 (25-22, 25-19, 25-23). Solo vittorie nel percorso degli azzurrini: cinque su cinque nel girone, poi secco tris in semifinale anche alla Serbia. Dall’under 18 all’under 22, quella allenata da Vincenzo Fanizza, che ha battezzato il nuovo campionato continentale di categoria con uno splendido successo. Anche in questo caso, il cammino degli azzurrini è stato costellato unicamente da

successi, da quelli nel girone con Montenegro, Turchia e Paesi Bassi a quello in finale sulla Francia per 3-1 (24-26, 25-23, 25-22, 25-21), passando per la sfida con la Polonia padrona di casa in semifinale, conclusa al tie-break. Golden boys, ma anche golden girls come le ragazze di Luca Pieragnoli, che hanno sfruttato il “fattore campo” nell’Europeo U21 femminile disputato fra Cerignola e Andria. Entusiasmanti i testa a testa fra le azzurre e la Serbia, a partire dalla partita nel girone vinta in rimonta (da 0-2 a 3-2) dall’Italia, dopo i successi agevoli su Ucraina e Austria. Al quinto set è arrivata anche la semifinale fra le italiane e le turche. E non poteva che concludersi al tie-break anche la finale fra Italia e Serbia, un’altalena di emozioni fino all’allungo decisivo sull’8-8 del quinto parziale. La rivalità con la Serbia sono del resto una costante degli ultimi anni per la pallavolo femminile del nostro Paese. Lo scorso anno, la nazionale balcanica ha eliminato Paola Egonu e compagne ai quarti finale delle Olimpiadi di Tokyo, salvo poi arrendersi alla squadra italiana per 3-1 nella finale del Campionato europeo. Le campionesse continentali in carica, allenate da Davide Mazzanti, hanno completato la “domenica d’oro” del volley italiano, lo scorso 17 luglio, spezzando il tabù della Volleyball Nations League. Terze classificate nella fase a gironi, per effetto delle sconfitte con Turchia e Cina, De Gennaro e compagne sono diventate implacabili a partire dalla seconda settimana, senza più sbagliare un colpo. Così ai quarti di finale l’Italia ha “restituito” alla Cina il 3-1 del girone, mentre in semifinale ha fatto lo stesso con la Turchia (3-0), meritandosi il duello per l’oro con le vicecampionesse olimpiche del Brasile, vittorioso sulla Serbia. Con l’organico più o meno al completo, trascinate da Egonu, le azzurre hanno vinto per 3-0, centrando l’undicesimo successo consecutivo e scrivendo per la prima volta il proprio nome sull’albo d’oro della competizione, che in passato si chiamava Grand Prix. Il prossimo autunno, chi vorrà vincere i Mondiali di Olanda/Polonia, dovrà fare i conti anche contro la super Italia. (A. P.)


Fonte: FIDAL

Sport

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lzi la mano quanti possono vantare un primato europeo, in una specialità agonistica che non è quella principale. No, Mattia Furlani: se stai leggendo questo incipit, non vale. Si chiama così il nuovo giovane fenomeno dell’atletica italiana, un Mr Jump (tradotto: Signor Salto) che potrebbe seguire le orme dello statunitense JuVaughn Harrison, finalista nell’alto e nel lungo alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Diciassette anni, figlio e fratello d’arte, Furlani è stato l’atleta da copertina ai recenti Europei U18 di Gerusalemme, dove ha dispensato meraviglie conquistando la medaglia d’oro prima nel salto in lungo (con record europeo) e poi nell’alto, dopo aver rischiato di veder sfumare il podio. Qualcosa di speciale Mattia, terzogenito di una famiglia di sportivi agonisti, ce l’ha già nel dna. Come la sorella Erika, medaglia d’argento nel salto in alto ai Mondiali allievi 2013, nonché bronzo U23 e campionessa italiana nel 2017. Il padre Marcello è stato a sua volta un altista da 2,27 metri (nel 1985), mentre mamma Kathy Seck è un’ex velocista di origini senegalesi. Sono loro due ad allenare Mattia in quel di Rieti, almeno da qualche anno: fra gli otto e i tredici, infatti, il Mr Jump azzurr si è dedicato a un’altra grande passione, il basket. Cresciuto tra le file dell’Atletica studentesca Rieti “Andrea Milardi”, selezionato dal gruppo sportivo dalla Polizia (come Erika), non ci ha messo molto per sfoggiare il suo talento purissimo e poliedrico. Ha vinto subito il tricolore da cadetto, stabilito le migliori prestazioni nazionali U16 nell’alto (2,10m) e sui 150 metri (16’57”) e nel 2021 ha raggiunto la finale agli Europei U20, contro atleti più grandi anche di tre anni. Con la misura di 2,17 è diventato il miglior sedicenne italiano di sempre. Quest’anno i suoi exploit in serie anche nel salto in lungo: il primo nell’indoor, con 7 metri e 47 centimetri, a febbraio. Eppure, dopo aver sfiorato il primato italiano al coperto, Mattia ha dichiarato: “Il salto in lungo rappresenta sempre uno svago, come tutte le discipline che faccio. Non ci vedo

Mattia Furlani.

L’ATLETICA ITALIANA HA IL MR JUMP: MATTIA FURLANI Il saltatore laziale cresciuto nell’alto ha stabilito agli Europei U18 anche il record continentale di categoria nel lungo, conquistando una clamorosa doppietta

un futuro, perché mi vedo più indirizzato verso il salto in alto. Ma è una gara che mi regala emozioni e mi divertirò sempre a farlo”. Abbracciato come parte di una preparazione multilaterale, il salto in lungo è diventato però una specialità da record europeo. Dopo aver superato il primato italiano del suo idolo Andrew Howe, per 27 centimetri (con 7,87m) e a distanza di vent’anni, in occasione dei Tricolori allievi all’aperto, Furlani è letteralmente volando a 8,04 agli Europei U18 di Gerusalemme, siglando la miglior prestazione continentale di categoria di sempre. Un po’ di stanchezza muscolare ha condizionato la brillantezza di Mattia nella sua gara preferita,

il salto in alto. E così ha rischiato di uscire a quota 2,13 metri, misura superata solo al terzo tentativo prima di “scollinare” al secondo tentativo a 2,15, misura impossibile per qualsiasi avversario. Iscritto all’Euroscuola privata di Rieti, a indirizzo linguistico, appassionato di sneakers oltre che di atletica e di basket, Mattia si allena con i velocisti Dario Sanfilippo ed Edoardo Spadoni ed è seguito da mamma Kathy per la preparazione generale e dal padre Marcello per quella specifica. Ah, per chi ancora non l’ha visto in azione, dall’1 al 6 agosto Mattia sarà ai Mondiali juniores di Calì, in Colombia. Sia nel lungo, sia nell’alto. Naturalmente. (A. P.) GdB | Luglio/agosto 2022

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI SCUOLA INTERNAZIONALE SUPERIORE DI STUDI AVANZATI DI TRIESTE Scadenza, 7 agosto 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni e pieno, settore concorsuale 05/F1 - Biologia applicata, per l’Area neuroscienze. (Gazzetta Ufficiale n.54 del 08-07-2022). UNIVERSITÀ DEL SALENTO DI LECCE Scadenza, 8 agosto 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/B2 - Anatomia comparata e citologia, per il Dipartimento di scienze e tecnologie biologiche e ambientali. (Gazzetta Ufficiale n.58 del 22-07-2022). UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 21 agosto 2022 Procedura di selezione, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni eventualmente prorogabile per ulteriori due anni e definito, settore concorsuale 06/A2, per il Dipartimento di scienze e biotecnologie medico chirurgiche. (Gazzetta Ufficiale n.58 del 22-072022). CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI FISIOLOGIA CLINICA DI PISA Scadenza, 11 agosto 2022 È indetta una selezione pubblica 70 GdB | Luglio/agosto 2022

per titoli e colloquio ai sensi dell’art. 8 del “Disciplinare concernente le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato” per l’assunzione, con contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi dell’art. 83 del CCNL del Comparto “Istruzione e Ricerca” 2016-2018, sottoscritto in data 19 aprile 2018, di una unità di personale con profilo professionale di Ricercatore- III livello, fascia stipendiale iniziale, presso l’Istituto di Fisiologia Clinica di Pisa per lo svolgimento della seguente attività di ricerca scientifica : lo studio degli effetti biologici associati all’esposizione medica a radiazioni ionizzanti in età pediatrica nell’ambito del progetto denominato (HARMONIC). Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

matica “Biosaggi e caratterizzazione genetico-molecolare di infestanti resistenti agli erbicidi”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA PROTEZIONE SOSTENIBILE DELLE PIANTE DI LEGNARO Scadenza, 16 agosto 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Agrarie” da usufruirsi presso l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR, sede secondaria di Legnaro (PD), nell’ambito dei progetti “GIRE Gruppo Italiano Resistenza Erbicidi” e “BELCHIM Efficacia di metobromuron ed altri erbicidi di pre e postemergenza su Amaranthus spp. Suscettibile e resistente agli inivitori dell’ALS”: Te-

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LO STUDIO DEGLI IMPATTI ANTROPICI E SOSTENIBILITÀ IN AMBIENTE MARINO (IAS) DI ORISTANO Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto per lo Studio degli Impatti Antropici e Sostenibilità in Ambiente Marino (IAS) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Oristano - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SUGLI ECOSISTEMI TERRESTRI (IRET) DI NAPOLI Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale presso l’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri (IRET) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Napoli - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO

NAZIONALE


Lavoro

DELLE RICERCHE – DIPARTIMENTO SCIENZE DEL SISTEMA TERRA E TECNOLOGIE PER L’AMBIENTE (DSSTTA) DI ROMA Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso il Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente (DSSTTA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Roma - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NANOTECNOLOGIA (NANOTEC) DI LECCE Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - II livello professionale - presso l’Istituto di Nanotecnologia (NANOTEC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Lecce - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA RICERCA E L’INNOVAZIONE BIOMEDICA (IRIB) DI CATANIA Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto per la Ricerca e l’Innovazione Biomedica (IRIB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Catania - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA GENETICA E BIOMEDICA DI MILANO Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica (IRGB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Milano settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI VEDANO AL LAMBRO Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale presso l’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Vedano al Lambro (MB) - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI GENETICA MOLECOLARE “LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA” DI PAVIA Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto di Genetica Molecolare “Luigi Luca Cavalli Sforza” (IGM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Pavia - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOMEMBRANE, BIOENERGETICA E BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI (IBIOM) DI BARI Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto di Biomembrane, Bioenergetica e Biotecnologie Molecolari (IBIOM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Bari - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOCHIMICA E BIOLOGIA CELLULARE (IBBC) DI NAPOLI Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare (IBBC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Napoli - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOSTRUTTURE E BIOIMMAGINI (IBB) DI NAPOLI Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale presso l’Istituto di Biostrutture e Bioimmagini (IBB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Napoli - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. GdB | Luglio/agosto 2022

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Lavoro

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA PROTEZIONE SOSTENIBILE DELLE PIANTE (IPSP) DI METAPONTO Scadenza, 18 agosto 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato di una unità di personale profilo tecnologo - III livello professionale - presso l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante (IPSP) del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Metaponto (Matera) - settore tecnologico: supporto alla ricerca. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI GENETICA E BIOFISICA “ADRIANO BUZZATI TRAVERSO” DI NAPOLI Scadenza, 18 agosto 2022 È indetta una selezione pubblica per titoli e colloquio ai sensi dell’art. 8 del “Disciplinare concernente le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato” per l’assunzione, con contratto di lavoro a tempo determinato part-time 70% ai sensi dell’art. 83 del CCNL del Comparto “Istruzione e Ricerca” 20162018, sottoscritto in data 19 aprile 2018, di una unità di personale con profilo professionale di Ricercatore III livello, fascia stipendiale iniziale, presso l’Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati Traverso” per lo svolgimento della seguente attività di ricerca scientifica: “Analisi del ruolo di un nuovo long non-coding RNA in tumori papillari ed anaplastici tiroidei, mediante tecnologie omiche, saggi fenotipici e modelli in vitro”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI BARI 72 GdB | Luglio/agosto 2022

Scadenza, 18 agosto 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area Scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR Sede Secondaria di Bari, nell’ambito dei progetti i FITOFARMACI, SeVARA, MIA RETE NATURA 2000, CAVE, GdF per la seguente tematica: “Monitoraggio di prodotti fitosanitari, altri inquinati organici ed inorganici in matrici ambientali ed alimentari ed implementazione di banche dati regionali per la messa a punto di modelli di gestione sostenibile delle risorse ambientali”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SUGLI ECOSISTEMI TERRESTRI DI PISA Scadenza, 25 agosto 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, a n. 1 borsa di studio per

laureati, per l’effettuazione di studi e ricerche nel campo dell’area scientifica “Phytoremediation in extreme environment: Phyto-Treatment of contaminated hypersaline soil/water” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri del CNR di Pisa nell’ambito della seguente tematica: Study on bacterial endophyte effects on halophytes tolerance to hyper salinity. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI BRUGHERIO Scadenza, 25 agosto 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze dell’ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR, sede secondaria di Brugherio, nell’ambito dei progetti Invasi3, CIPAIS I-CH Sostanze Pericolose 2022-2024 e Cariplo GASMI. Per informazioni, www. cnr.it, sezione “concorsi”.


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Scienze

Anafilassi: meccanismi patogenetici, clinica e trattamento Un’emergenza clinica dal quadro clinico complesso e che richiede un trattamento rapido

di Matteo Martini*

L’

anafilassi viene definita a livello internazionale come una reazione potenzialmente fatale, a rapida insorgenza, in grado di dare quadri clinici multipli a seconda degli apparati/organi coinvolti1. In considerazione del grave rischio di vita potenzialmente associato, l’anafilassi rappresenta sempre un’emergenza clinica che necessita di un rapido riconoscimento e un altrettanto tempestivo intervento medico. I criteri per la definizione dell’anafilassi non sono purtroppo univoci: varie sono state le revisioni della definizione nel corso degli anni da parte di autori e società scientifiche nazionali e internazionali. Le linee guida europee dell’Accademia Europea

Figura 1 – Anafilassi: criteri clinici di diagnosi (EAACI 2021 Update1).

Medico specialista in Allergologia ed Immunologia Clinica UOSD Allergologia, Ospedali Riuniti Marche Nord (Fano) Dipartimento di Scienze Cliniche e Molecolari, Università Politecnica delle Marche (Ancona).

*

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di Allergologia ed Immunologia Clinica (EAACI), aggiornate al 20211, definiscono tre casistiche principali: nel caso i segni e sintomi clinici soddisfino almeno una di queste casistiche, la diagnosi di anafilassi è altamente probabile (Figura 1). Il peso epidemiologico dell’anafilassi è in netto aumento negli ultimi anni, con un’incidenza che va da 22 a 112 casi ogni 100mila soggetti all’anno. Fortunatamente l’anafilassi fatale rimane un evento piuttosto raro (0,1 – 1 morti/milione/anno), ma è necessario considerare che soggetti con precedenti casi di anafilassi tendono a ripetere gli episodi nel 26-54% dei casi, con aumento probabilistico del rischio di morte2. L’aumento dell’incidenza è probabilmente dovuto sia ad una migliorata capacità diagnostica di riconoscimento dell’anafilassi, sia ad un reale aumento della patologia, a sua volta causato dall’esposizione a sempre maggiori allergeni (es. nuovi alimenti “esotici” e farmaci)3. Eziopatogenesi e biomarkers Differenti meccanismi patogenetici possono causare anafilassi, sia di tipo immunologico che non-immunologico4, definendo vari endotipi specifici con i relativi agenti eziologici, cellule effettrici finali e mediatori chimici che determinano poi il quadro clinico (Tabella 1). L’anafilassi più frequente e più nota è la forma allergica IgE-mediata, dove l’agente eziologico è costituito da un allergene (alimenti, farmaci, veleno di imenotteri) che, venendo a contatto con le cellule effettrici già precedentemente sensibilizzate verso quello specifico allergene, ne determinano l’attivazione e la degranulazione con rilascio dei relativi mediatori chimici. Affinché la reazione allergica si verifichi, è necessario quindi che il soggetto sia già venuto a contatto con lo specifico allergene per consentire la sensibilizzazione allergica: l’allergene viene dapprima processato dalle cellule del sistema immunitario innato e presentato alle cellule del sistema immunitario adattativo, determinandone una pola-


Scienze

CELLULE EFFETTRICI

MEDIATORI CHIMICI PRINCIPALI

IgE-dipendente

Mastocita/basofilo

Istamina, triptasi, chimasi, carbossipeptidasi, PAF

IgG-dipendente

Mastocita/basofilo, macrofago, neutrofilo

PAF, istamina, triptasi

Attivazione del complemento

Mastocita

Istamina, PAF

Attivazione cascata coagulazione

Cellule endoteliali

Bradichinina, eparina

Tempesta citochinica

Macrofago, monocita, cellule T

IL1-beta, TNF-alfa, IL-6

Attivazione diretta

Mastocita

Istamina, triptasi, chimasi, PAF

Attivazione mediata da recettore (MRGPRX2)

Mastocita

MECCANISMO PATOGENETICO MECCANISMO IMMUNOLOGICO

MECCANISMO NON-IMMUNOLOGICO

Tabella 1 – Anafilassi: endotipi. IL, interleuchina; PAF, fattore di attivazione piastrinico; TNF, fattore di necrosi tumorale. Tabella modificata da Bilò et al.4.

rizzazione “allergica” Th2, con produzione da parte delle cellule B di anticorpi IgE specifici per quel determinato allergene. Tali IgE specifiche, tramite la loro catena pensante, si legano quindi al loro recettore di membrana FcεRI, sulle cellule effettrici (mastociti, basofili). Una successiva esposizione allo stesso allergene può dare reazione tramite il legame con le sue IgE specifiche preformate e già presenti sulla superficie delle cellule effettrici. Nei bambini l’allergia più frequente è quella alimentare, mentre negli adulti sono i farmaci a determinare più spesso reazioni, soprattutto negli anziani in polifarmacoterapia. Particolarmente subdola è l’anafilassi indotta da cofattori, che può verificarsi solamente se, in un soggetto già sensibilizzato, l’esposizione all’allergene si verifica in presenza di determinati cofattori, tipicamente alcolici, esercizio fisico, farmaci anti-infiammatori non steroidei. Tutti gli altri endotipi di anafilassi, non essendo causati da un meccanismo allergico IgE-mediato, risulteranno negative alla diagnostica allergologica (es. test cutanei, ricerca IgE specifiche nel siero) e pertanto non possono essere classificati come forme propriamente allergiche. Tra questi, particolarmente rilevante è la forma IgG-mediata, in cui sono generalmente i farmaci a determinare l’anafilassi, con la formazione di immunocomplessi IgG specifici che si legato ai recettori specifici di membrana delle cellule effettrici (FcγR). L’anafilassi da attivazione complementare (CARPA, complement activation-related pseudoallergy) sembra essere implicata in alcuni casi di reazione immediata a vaccini anti-COVID19; non essendo coinvolti anticorpi, non è necessaria una precedente sen-

sibilizzazione verso l’agente eziologico, pertanto la reazione si può verificare anche alla prima somministrazione di farmaco. In questi casi, le cellule effettrici vengono attivate da frazioni di degradazione del complemento (anafilotossine C3a, C4a, C5a)5. Anche l’anafilassi da tempesta citochinica è generalmente provocata da farmaci. In questo specifico caso, essendo i mediatori chimici prevalentemente citochine pro-infiammatorie, si avrà un quadro clinico più simile ad un’infiammazione sistemica (es. febbre, brivido, dolori), più che segni e sintomi classici di anafilassi allergica. Le forme non-immunologiche di anafilassi possono essere elicitate da triggers del tutto aspecifici come esposizione a caldo/freddo o da farmaci tramite però un meccanismo di attivazione diretta delle cellule effettrici, anziché mediata da pathways immunologici. Uno stesso trigger di anafilassi, tra quelli menzionati nei vari endotipi patogenetici, può dunque operare attraverso più di un singolo meccanismo. Emblematico è il caso dei farmaci, che potenzialmente possono essere responsabili di anafilassi attraverso tutte le vie patogenetiche specificate, riducendo quindi la frequenza di reazioni puramente allergiche IgE-mediate. Considerando la moltitudine di mediatori chimici coinvolti nell’anafilassi, sarebbe lecito attendersi anche molti biomarker utilizzabili per fare diagnosi o stratificare il grado di rischio dei pazienti. In realtà purtroppo l’unico biomarker attualmente impiegabile nella pratica è la triptasi ematica, che può aiutare nel caratterizzare l’anafilassi a posteriori, ossia dopo la risoluzione GdB | Luglio/agosto 2022

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Scienze

completa dell’episodio acuto, in quanto il valore dosato in fase acuta (da 30 minuti a 2 ore dall’esordio dei sintomi, in base alla sua cinetica plasmatica) deve essere sempre confrontato con il valore basale dello specifico paziente (dosato non prima di 24 ore dalla risoluzione completa dell’anafilassi). Questo si rende necessario per aumentare l’accuratezza diagnostica della triptasi, con una specificità che raggiunge il 90%; varie sono infatti le condizioni in cui i soggetti presentano un valore basale di triptasi costantemente aumentato (es. malattie dei mastociti, condizioni genetiche come l’ipertriptasemia familiare, malattia renale). Purtroppo la sensibilità non va oltre il 70%, e non è infrequente il riscontro di triptasi normale in corso di anafilassi, soprattutto quando non c’è interessamento cardiocircolatorio e in particolari popolazioni (bambini) o con determinati triggers (es. alimenti). Altri biomarker sono in studio ma attualmente non impiegabili in clinica a causa di varie limitazioni, come la breve emivita che ne rende difficile il prelievo in fase di picco ematico (es. istamina <15 minuti), la difficoltà nella raccolta del campione (es. N-metil istamina, da dosare nelle urine raccolte nelle 24 ore), la scarsa standardizzazione dei metodi di analisi, la scarsa specificità (es. Catepsina C), o l’eccessiva specificità di alcuni marker per singoli meccanismi patogenetici (es. frazioni del complemento, specifiche solamente per l’endotipo anafilattico CARPA). Particolarmente promettente è la misurazione della funzionalità della PAF-acetil idrolasi (PAF-AH), enzima ad attività inibitoria verso il PAF (fattore di attivazione piastrinico), un importante mediatore di anafilassi che di per sé però è di difficile impiego (breve emivita, scarsa stabilità); valori basali ridotti potrebbero riflettere un’aumentata attività del PAF, esponendo quindi il soggetto ad aumentato rischio di anafilassi e una maggior severità dei sintomi6. Clinica La difficoltà nel riconoscere tempestivamente l’anafilassi è legata al fatto che attualmente la diagnosi è esclusivamente clinica: non esistono quindi test o indagini che possono essere effettuati per confermare la diagnosi di anafilassi in corso di evento acuto. Inoltre, le manifestazioni cliniche, come illustrato dai criteri diagnostici EAACI (Figura 1) possono essere varie e spesso sfumate, con difficoltà quindi legate non solo al rapido riconoscimento, ma anche all’interpretazione dei singoli segni e sintomi clinici. Possono poi verificarsi alcune “eccezioni alla regola”, come nel caso di reazioni che insorgono in modalità ritardata, anziché rapida, o di anafilassi idiopatica, dove nonostante accurata valutazione diagnostica non è possibile identificare un agente eziologico responsabile dell’anafilassi e i

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paziente possono andare incontro ad anafilassi spontanee ricorrenti, in maniera del tutto imprevedibile7. Più del 90% dei casi di anafilassi è accompagnato da interessamento di cute e/o mucose, come orticaria generalizzata (comparsa di pomfi pruriginosi transitori, simili a punture di zanzara), prurito diffuso, edema localizzato (gonfiore alle labbra, intorno agli occhi, al volto, o al cavo orale). Più della metà dei casi presenta inoltre segni e sintomi all’apparato respiratorio (es. difficoltà respiratoria, rumori respiratori, nei casi più gravi arresto respiratorio) e cardiovascolare (riduzione della pressione arteriosa con conseguente rischio di collasso e shock). Nonostante ciò, in alcuni casi le manifestazioni cutanee possono essere del tutto assenti, e in ogni caso, come specificato dalle linee guida, da sole non bastano a porre diagnosi di anafilassi. Nel corso degli anni sono state tentate varie classificazioni per identificare il livello di gravità delle reazioni. La più recente, elaborata dalla World Allergy Organization nel 20208 , riconosce cinque gradi di gravità della reazione, ma solamente gli ultimi tre gradi rientrano nella definizione di anafilassi (Figura 2). A livello generale, tale classificazione ammette, per i singoli organi/apparati che possono essere coinvolti, sintomi da lievi (es. tosse senza broncospasmo) a gravi (dispnea non responsiva a trattamenti farmacologici), con l’eccezione dell’apparato cardiocircolatorio che, se interessato, posiziona sempre la gravità della reazione al grado 5. Trattamento Trattandosi di una emergenza clinica, tutti gli operatori sanitari e, idealmente, la popolazione generale, devono essere in grado di riconoscere e trattare l’anafilassi. Al verificarsi di almeno una delle casistiche riportate dalle linee guida (Figura 1), è necessario avviare immediatamente

Figura 2 – Classificazione di gravità di reazione (World Allergy Organization, 20208).


Scienze

l’algoritmo terapeutico, indipendentemente dal grado di gravità dell’anafilassi. L’adrenalina rappresenta sempre il trattamento di prima linea, da somministrare il più precocemente possibile. La rapidità nella sua somministrazione, oltre a massimizzarne l’efficacia, sembra avere un ruolo nel prevenire sia l’evoluzione della reazione a forme più gravi, sia una potenziale reazione bifasica, ossia la presentazione di una nuova anafilassi, dopo la completa risoluzione del primo episodio, a distanza anche di molte ore, senza necessità di riesposizione al trigger eziologico. La via di somministrazione è intramuscolare, in posizione esterna laterale della coscia (muscolo vasto-laterale), che il paziente può effettuare in autonomia tramite la penna auto-iniettabile, presidio di cui viene dotato dopo un episodio di anafilassi. In caso di mancata risposta alla prima somministrazione, l’adrenalina va ripetuta dopo non più di 5-10 minuti. È questo il motivo per cui le linee guida1 raccomandano, nella maggior parte dei casi, la prescrizione di due auto-iniettori, che devono essere sempre a disposizione del paziente in caso di necessità. L’algoritmo per la gestione dell’anafilassi prevede ulteriori interventi e trattamenti da applicare in corso di episodio anafilattico, che non devono però mai né sostituire né ritardare l’adrenalina, nella sua prima e, se necessario, successiva somministrazione. In primis, è bene allontanare il potenziale trigger/allergene (es. sospendere la somministrazione di un farmaco sospetto, rimuovere residui di cibo dalla bocca, rimuovere il pungiglione di eventuale ape in modo appropriato da non strizzare il sacco velenifero). Importante è anche il corretto posizionamento del paziente, che deve essere posizionato supino (posizione Trendelemburg), ma con dorso sollevato in caso di manifestazioni prevalentemente respiratorie, evitando spostamenti non necessari e attività motorie dopo la reazione, per il rischio di peggioramento della reazione. I farmaci di seconda linea: sono generalmente riservati a un setting ospedaliero o somministrati dal team di emergenza territoriale (ossigeno, adrenalina per aerosol, broncodilatatori, liquidi endovena). La somministrazione di cortisonici e antistaminici viene relegata alla terza linea, dopo la stabilizzazione del paziente, non avendo dimostrato un ruolo né nel trattare i sintomi acuti, né nel prevenire successive reazioni. Una volta stabilizzato il paziente, risolto l’episodio acuto, e trascorso il necessario periodo di osservazione prima della dimissione, una consulenza allergologica sarà necessaria per caratterizzare il tipo di anafilassi, stratificare il rischio per il paziente di incorrere in nuovi episodi, la gravità attesa di eventuali future anafilassi e infine avviare il capitolo della gestione dell’anafilassi nel lungo termine1, con una serie di interventi educativi su paziente e rete sociale che lo accompagnerà nel suo successivo percorso di prevenzione e, se necessario, trattamento di ulteriori episodi di anafilassi: • Piano d’azione scritto per il paziente, in cui viene precisato come prevenire una reazione anafilattica, come riconoscerla e in che modo trattarla (impiego di auto-iniettore di adrenalina) • Kit con farmaci di emergenza da utilizzare, incluso l’au-

to-iniettore, sempre a disposizione del paziente • Adeguato training sull’utilizzo dell’auto-iniettore di adrenalina • Implementazione del piano d’azione nei contesti sociali del paziente (es. scuola, posto di lavoro) • Supporto psicologico se necessario, in considerazione del nuovo status di rischio del soggetto • Supporto di organizzazioni di pazienti In alcuni casi ove ci sia indicazione, l’allergologo può offrire al paziente la possibilità di avviare un’immunoterapia specifica per indurre desensibilizzazione verso l’agente eziologico responsabile dell’anafilassi. A titolo esemplificativo, in caso di grave allergia a veleno di imenotteri, l’immunoterapia specifica è l’unico trattamento in grado di “guarire” il paziente dall’allergia, con una protezione spesso totale e duratura verso reazioni gravi, in caso di ripuntura9.

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Fisica e neuroscienze per la predizione di deficit neurologici dovuti a ictus Su “Nature communications” lo studio che indaga la possibilità di predizione dei deficit neurologici nell’ictus attraverso modelli biofisici computerizzati dell’attività del cervello

di Cinzia Boschiero

È

stato di recente pubblicato uno studio intitolato “Recovery of neural dynamics criticality in personalized whole brain models of stroke” su «Nature Communications» che approfondisce il tema della predizione dei deficit neurologici nell’ictus attraverso modelli biofisici computerizzati dell’attività del cervello. I risultati dello studio sono dovuti ad una collaborazione internazionale tra team di fisici, neurologi e psicologi italiani ed esteri. Gli autori Rodrigo Rocha, Loren Kocillari, Samir Suweis, Michele De Grazia, Michel Thiebaut De Schotten, Marco Zorzi e Maurizio Corbetta, propongono una teoria della criticità cerebrale per spiegare le relazioni fra alterazioni cerebrali e funzione nei pazienti neurologici. I ricercatori sottolineano “Mostriamo che i modelli dinamici del cervello intero personalizzati in bilico sulla criticità tracciano le dinamiche neurali, l’alterazione post-ictus e il comportamento a livello di singoli partecipanti”. La ricerca interdisciplinare nelle neuroscienze, ispirata dalla fisica statistica, ha suggerito che la dinamica neurale del cervello sano rimane vicino a uno stato critico, cioè in prossimità di una transizione di fase critica tra ordine e disordine, o tra attività oscillatoria asincrona o sincrona. Gli studiosi inoltre ipotizzano che i cambiamenti di criticità con il recupero dipendano da specifici meccanismi di plasticità o rimodellamento funzionale come mostrato in precedenti studi fMRI. Ci sono diversi aspetti delle indagini approfondite in questo studio. In primo luogo, hanno utilizzato un modello stocastico del cervello intero per simulare la dinamica neurale su larga scala, utilizzando come input la connettività strutturale misurata direttamente di un paziente con ictus o un controllo sano. Va sottolineato che non hanno adattato le dinamiche risultanti alla connettività funzionale misurata empirica. La connettività strutturale è stata misurata in due punti temporali: tre mesi dopo l’ictus (t1) e un anno dopo l’ictus (t2) o tre mesi di distanza nei controlli sani ed è stata utilizzata per costruire modelli personalizzati di tutto il cervello. Le lesioni producono certamente deviazioni dalla normale connettività strutturale,

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ma queste alterazioni strutturali non corrispondono necessariamente ad un’alterazione di criticità. La dinamica critica risulta dalla combinazione di una topologia, determinata dalla connettività strutturale, e di un dato valore di eccitabilità. Il metodo utilizzato in questo studio consente di misurare gli scostamenti dalle criticità a livello di gruppo o nei singoli partecipanti, nonché il recupero delle criticità nel tempo. Il team di ricerca ha applicato una innovativa strategia del modello di calcolo ad una coorte unica di pazienti con ictus studiati in modo prospettico e longitudinale alla Washington University di St. Louis. Questa coorte è stata studiata con un’ampia batteria di test neurocomportamentali e risonanza magnetica strutturale-funzionale a due settimane, tre mesi e dodici mesi dopo l’ictus. Questa coorte è rappresentativa della popolazione colpita da ictus sia in termini di deficit comportamentali, del loro recupero, sia della localizzazione del carico lesionale. In lavori precedenti, erano state caratterizzate le anomalie della connettività comportamentale, strutturale e funzionale in questa coorte e la loro relazione con il deterioramento comportamentale e il recupero. Nella terminologia di rete, gli ictus provocano un’acuta diminuzione della modularità che si normalizza nel tempo. Occorre sottolineare che i meccanismi fondamentali alla base delle dinamiche dell’attività cerebrale sono ancora in gran parte sconosciuti. La loro conoscenza potrebbe aiutare a comprendere la risposta del cervello a condizioni patologiche, come le lesioni cerebrali (ictus). Nonostante gli sforzi della comunità scientifica, si hanno pure troppo pochi dati inerenti i meccanismi alla base del recupero funzionale e comportamentale dei pazienti colpiti da ictus. Gli studiosi sono partiti dal fatto che in fisica è noto da tempo che certi sistemi si trovano tra l’ordine e il caos in uno stato così detto “critico”. In un materiale ferromagnetico, per esempio, i dipoli magnetici si allineano con i loro vicini per formare piccoli campi magnetici locali. La disposizione casuale delle loro direzioni impedisce la formazione di campi più grandi, spiegano all’Università di Padova, partner della ricerca.


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Quando però il materiale viene raffreddato alla temperatura critica, i campi si allineano in domini di dimensioni sempre più grandi. Una volta raffreddato fino a raggiungere una temperatura “critica”, i dipoli si allineano in tutto il materiale formando un campo unico. Le criticità come la transizione di fase ferromagnetica hanno caratteristiche distintive. Pertanto, le criticità sono state usate per descrivere molti fenomeni, dai ferromagneti ai terremoti o alla frequenza cardiaca umana ed è stato mostrato che anche il cervello potrebbe operare in prossimità di un punto critico, in cui tutti o buona parte dei neuroni hanno un comportamento collettivo e coordinato, che fornirebbe al sistema delle funzionalità ottimali, legate per esempio all’efficienza nella trasmissione delle informazioni, o alla velocità di risposta a stimoli esterni. Se la criticità è effettivamente una proprietà fondamentale dei cervelli sani, allora le disfunzioni neurologiche alterano questa configurazione dinamica ottimale. Alcuni studi hanno riportato un’alterazione della criticità durante le crisi epilettiche, il sonno a onde lente, l’anestesia e la malattia di Alzheimer. Tuttavia, un test cruciale di questa ipotesi sarebbe quella di mostrare che alterazioni locali dell’architettura strutturale e funzionale del cervello causano anche una perdita di “criticità’” del sistema. Inoltre, se le alterazioni miglioreranno nel tempo,

per esempio per una attività di fisioterapia, allora dovremmo osservare parallelamente il recupero della criticità. Un’altra previsione è che se la criticità è essenziale per il comportamento, allora la sua alterazione dopo una lesione focale deve essere correlata alla disfunzione comportamentale e al recupero della funzione. Infine, i cambiamenti nella criticità dovrebbero anche essere correlati ai meccanismi di plasticità che sono alla base del recupero. L’obiettivo del presente lavoro è stato quindi proprio quello di affrontare queste importanti domande attraverso un approccio interdisciplinare che combina neuroimmagini, neuroscienze computazionali, fisica statistica e metodi di scienza dei dati. In questa ricerca hanno usato in pratica l’ictus come modello patologico prototipo della lesione cerebrale focale umana e modelli computazionali dell’intero cervello per stimare la dinamica neurale, le alterazioni correlate nella criticità e nel comportamento e i meccanismi neurali sottostanti. Gli studiosi hanno mostrato che le lesioni da ictus generano uno stato subcritico caratterizzato da livelli ridotti di attività neurale, entropia e connettività funzionale, che si ripristina nel tempo parallelamente al comportamento. Il miglioramento della criticità è associato a specifici rimodellamenti delle connessioni di materia bianca. Per simulare l’attività neurale a livello dell’intero cervello individuale il team di ricerca ha utilizzato il modello GdB | Luglio/agosto 2022

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di plasticità omeostatica recentemente sviluppato. I dati sulla connettività strutturale erano disponibili per 79 pazienti, acquisiti tre mesi (t1) e un anno (t2) dopo l’esordio dell’ictus. Lo stesso studio include i dati di 28 controlli sani, acquisiti due volte a tre mesi di distanza. La differenza nell’intervallo di tempo tra ictus e controlli è che l’imaging di diffusione nei pazienti è stato ottenuto solo a tre e dodici mesi poiché il segnale di diffusione è altamente variabile all’inizio della lesione. Sia a livello di singoli partecipanti che a livello di gruppo, i modelli di pazienti con ictus nella ricerca svolta mostrano una significativa perdita della dinamica critica a tre mesi che guariscono in media a un anno. Ciò è coerente con la prima ipotesi che la criticità sia una proprietà della normale architettura strutturale del cervello. Successivamente, gli studiosi hanno esaminato le basi anatomiche delle modifiche della criticità cerebrale. Il recupero della criticità da tre a dodici mesi deve riflettere un cambiamento nella connettività strutturale sottostante. Pertanto, il team di ricerca ha applicato le misure della teoria dei grafi per quantificare la topologia delle corrispondenti reti cerebrali strutturali e le alterazioni associate dopo il recupero dell’ictus. Hanno scelto il grado medio come misura della connettività di rete complessiva (densità), la modularità e l’efficienza globale come misure rispettivamente del grado di segregazione e integrazione della rete. Inoltre, per quantificare il disturbo di connettività, hanno definito l’entropia della matrice di connettività omeostatica (HSC) in modo analogo all’entropia di connettività funzionale. Il team sottolinea:” Abbiamo ulteriormente caratterizzato l’organizzazione della rete cerebrale in termini di modularità (un indice di segregazione di rete) ed efficienza globale (un indice di integrazione di rete). Il modello riflette una configurazione di rete equilibrata che supporta la segregazione funzionale tra regioni cerebrali specializzate distinte consentendo l’integrazione funzionale. Tuttavia, l’ictus interrompe questo equilibrio. In sintesi, queste analisi indicano un rimodellamento delle connessioni della materia bianca da tre a dodici mesi dopo l’ictus che corrispondono a cambiamenti nell’organizzazione della rete. Nelle informazioni supplementari forniamo ulteriori prove per questo rimodellamento”. I ricercatori hanno indagato quali connessioni fossero più fortemente legate all’alterazione e al recupero della criticità. A tal fine, hanno utilizzato un approccio di apprendimento automatico multivariato, basato su una regressione di Ridge convalidata in modo incrociato, per mettere in relazione le variabili di attività neurale del modello con la matrice di connettività strutturale. Questo approccio ha consentito loro di identificare i bordi e le sottoreti nell’intero cervello più fortemente correlati alla variabile di interesse. In primo luogo, hanno pertanto indagato la relazione tra connettività strutturale e criticità, sia nei partecipanti sani che nei pazienti con ictus. Una loro successiva analisi ha considerato la topologia di rete che coinvolge diverse reti funzionali e, nello specifico, hanno analizzato il collegamento medio tra coppie di reti funzionali. Infine, per verificare se i 80 GdB | Luglio/agosto 2022

bordi predittivi di criticità facevano parte della normale architettura funzionale o riflettevano connessioni casuali, il team ha correlato il numero di bordi predittivi per ciascun nodo (ROI) con la forza del nodo corrispondente nella connettività funzionale media dei controlli sani. L’elevata correlazione osservata in entrambi i punti temporali (ρ = 0,98 per i bordi positivi/negativi rispetto alla connettività funzionale del nodo) indica che i bordi predittivi non sono casuali, ma coerenti con la normale variabilità dell’architettura funzionale del cervello. I modelli del cervello intero di controlli sani hanno mostrato modelli stabili di attività neurale, sia nei punti temporali che negli individui. È importante comprendere le dinamiche del modello nei partecipanti sani prima di considerare i cambiamenti nell’ictus. Gli studiosi evidenziano che hanno trovato una debole relazione tra dimensione della lesione e perdita di criticità. Non hanno studiato l’effetto della dimensione della lesione sulla disfunzione comportamentale, un argomento che intendono indagare ed approfonire in un lavoro futuro. Tuttavia, non si aspettavano un’influenza significativa della dimensione della lesione sui deficit comportamentali e sulle anomalie della connettività funzionale/strutturale post-ictus sulla base della letteratura. I dati provengono da un ampio studio prospettico sull’ictus longitudinale descritto in precedenti pubblicazioni e il campione clinico include il set di dati di 132 pazienti con ictus (età media 54, deviazione standard 11, range 19-83; 71 maschi; 68 lesioni del lato sinistro) allo stadio subacuto (due settimane dopo l’ictus). La batteria neuropsicologica includeva 44 punteggi comportamentali in cinque domini comportamentali: linguaggio, memoria, motori, attenzione e funzione visiva. Questi domini sono stati scelti per rappresentare un’ampia gamma dei deficit più comunemente identificati nelle persone dopo un ictus. I dati per replicare tutte le figure e le tabelle sono forniti come dati di origine nello studio e sono anche depositati in Github (https://github.com/CorbettaLab/Rodrigo2022NatComm) e Zenodo123 (https://doi.org/10.5281/zenodo. 6459955). Le singole matrici di connettività strutturale per controlli e pazienti sono state depositate nei repository Github e Zenodo. Il codice personalizzato per la modellazione della criticità è disponibile gratuitamente su https://github.com/CorbettaLab/Rodrigo2022NatComm e https://doi.org/10.5281/zenodo.6459955. Il prof. Rodrigo Rocha (Dipartimento di Fisica dell’Università Federale di Santa Catarina, Florianópolis, Brasile) dice:” Abbiamo esaminato come le lesioni cerebrali modifichino la criticità utilizzando un nuovo approccio personalizzato di modellizzazione dell’intero cervello. La teoria modellizza le dinamiche cerebrali individuali, cioè di un singolo paziente, sulla base di reti di connettività anatomica del cervello reali. Abbiamo studiato longitudinalmente una coorte di partecipanti sani e colpiti da ictus misurando sia la loro connettività anatomica che l’attività funzionale del cervello (attraverso la risonanza magnetica funzionale, nota come fMRI). Per questi individui, infine, avevamo anche a disposizioni i risultati di test


comportamentali. Abbiamo trovato,” sottolinea il prof. Rocha,” che i pazienti colpiti da ictus presentano, a distanza da tre mesi dall’ictus, livelli ridotti di attività neurale, della sua variabilità, e della forza delle connessioni funzionali. Tutti questi fattori contribuiscono a una perdita complessiva di criticità che però migliora nel tempo con il recupero del paziente. Dimostriamo inoltre che i cambiamenti nella criticità predicono il grado di recupero comportamentale e dipendono in modo rilevante da specifiche connessioni della sostanza bianca. In sintesi, il nostro lavoro descrive un importante progresso nella comprensione dell’alterazione delle dinamiche cerebrali e delle relazioni cervello-comportamento nei pazienti neurologici”. Questi risultati dimostrano che modelli dinamici al computer sull’intero cervello possono essere utilizzati per tracciare e prevedere il recupero dell’ictus a livello di singolo paziente. Gli studiosi della ricerca pubblicata su Nature Communications hanno pertanto aperto a riflessioni molto importanti innquesto ambito. “Questo apre la possibilità di utilizzare questi metodo per misurare l’effetto di terapie quali la riabilitazione o la stimolazione non-invasiva”, spiega il prof. Maurizio Corbetta, Direttore del Padova Neuroscience Center (PNC) dell’Università di Padova e della Clinica Neurologica Azienda Ospedale Università Padova, e ricercatore del Venetian Institute of Molecular Medicine (VIMM). Questa ricerca è stata finanziata dal Research, Innovation and Dissemination Center per Neuromathematics (FAPESP) and the National Council for Scientific and Technological Development (CNPq), Brasil; European Research Council (ERC) H2020 (grant# 818521); Italian Ministry of Health (Grant# RF-2013-02359306); M.C. by the Italian Ministry of Research Departments of Excellence (2017-2022), CARIPARO foundation (Grant #55403), Italian Ministry of Health (Grant# RF-2018-12366899; RF-2019-12369300), H2020-SC5-2019-2 (Grant # 869505); H2020-SC5-2019-2 (Grant # 869505). Altri recenti studi evidenziano che quasi due terzi dei pazienti con ictus ischemico acuto hanno almeno un fattore di rischio maggiore non diagnosticato, secondo una questa nuova ricerca. I più comuni sono la dislipidemia, l’ipertensione e la fibrillazione atriale. Questi risultati evidenziano la necessità di una maggiore consapevolezza da parte dei medici su come questa popolazione di pazienti possa avere fattori di rischio di ictus non riconosciuti. I risultati sono stati presentati al Congresso dell’Accademia Europea di Neurologia (EAN) 2022. Ictus è un termine latino che significa “colpo” (in inglese stroke). Insorge, infatti, in maniera improvvisa: una persona in pieno benessere può accusare sintomi tipici che possono essere transitori, restare costanti o peggiorare nelle ore successive. In Italia l’ictus è la seconda causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore, è responsabile del 9-10% di tutti i decessi e rappresenta la prima causa di invalidità. Ogni anno si registrano nel nostro Paese circa 90.000 ricoveri dovuti all’ictus cerebrale, di cui il 20% sono recidive. Il 20-30% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese dall’evento e il 40-50% entro il primo anno. Solo il 25%

dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi la metà è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza, stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità (rif. https://www.salute.gov.it/portale/salute/p1_5.jsp?area=Malattie_cardiovascolari&id=28&lingua=italiano). L’ictus è più frequente dopo i 55 anni, la sua prevalenza raddoppia successivamente ad ogni decade; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni. La prevalenza di ictus nelle persone di età 65-84 anni è del 6,5% (negli uomini 7,4%, nelle donne 5,9%). La definizione di ictus comprende: ictus ischemico - si verifica quando un’arteria che irrora l’encefalo viene ostruita dalla formazione di una placca aterosclerotica e/o da un coagulo di sangue che si forma sopra la placca stessa (ictus trombotico) oppure da un coagulo di sangue che proviene dal cuore o da un altro distretto vascolare (ictus trombo-embolico); circa l’80% di tutti gli ictus è ischemico; ictus emorragico - si verifica quando un’arteria situata nell’encefalo si rompe, provocando così un’emorragia intracerebrale non traumatica (questa forma rappresenta il 1520% di tutti gli ictus) oppure nello spazio sub-aracnoideo (l’aracnoide è una membrana protettiva del cervello; questa forma rappresenta circa il 3%-5% di tutti gli ictus); l’ipertensione è quasi sempre la causa di questa forma gravissima di ictus. Bisogna inoltre ricordare l’attacco ischemico transitorio o TIA (Transient Ischemic Attack), che si differenzia dall’ictus ischemico per la minore durata dei sintomi (inferiore alle 24 ore, anche se nella maggior parte dei casi il TIA dura pochi minuti, dai 5 ai 30 minuti). Si stima che circa un terzo delle persone che presenta un TIA, in futuro andrà incontro ad un ictus vero e proprio. In Italia il numero dei ricoveri per TIA attualmente supera i 30.000 l’anno. Presso l’ICS Maugeri di Milano un team multidisciplinare coordinato dal prof. Eugenio Parati sta realizzando altri progetti di analisi e supporto soprattutto utili alla riabilitazione post-ictus sulla base di analisi di dati correlati anche con questo studio.

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Il microbiota nelle sue interferenze con i farmaci antibiotici di largo consumo Gli studi di associazione tra patologie e microbiota hanno documentato palesi cambiamenti nell’abbondanza e nella tipologia di vari Phyla intestinali in soggetti con patologie gastrointestinali

di Giuseppe Palma

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ell’ultimo decennio abbiamo assistito all’incremento di evidenze scientifiche che hanno collegato la funzione del microbiota intestinale umano a numerose patologie. Il microbiota intestinale umano è un ecosistema complesso che può mediare l’interazione dell’ospite umano con il suo micro- o macro-ambiente. Gli studi di associazione tra patologie e microbiota hanno documentato palesi cambiamenti nell’abbondanza e nella tipologia di vari Phyla intestinali in soggetti con patologie gastrointestinali, incluse le malattie infiammatorie intestinali, le sindromi dell’intestino irritabile e del cancro del colon-retto, e con malattie di altri sistemi e organi, incluse patologie cardiovascolari e metaboliche, autoimmuni e disturbi psichiatrici. L’interazione tra microbiota intestinale ed i farmaci non antibiotici più comunemente usati è complessa e bidirezionale; infatti, la composizione del microbioma intestinale può essere influenzato dai farmaci, e viceversa, il microbioma intestinale può anche influenzare la risposta di un individuo a un farmaco trasformandolo enzimaticamente ed alterandone sia la struttura, la biodisponibilità, la bioattività o la tossicità, dando origine cosi ai fenomeni di “farmacomicrobiomica”. Diversi studi coorte sull’uomo hanno riportato associazioni tra l’uso di farmaci specifici, la composizione microbica alterata e i profili funzionali dei farmaci. Uno dei primi studi coorte che ha evidenziato questa associazione è stato il “Dutch LifeLines-DEEP”, che ha riportato associazioni tra i farmaci comunemente usati e significative variazioni delle popolazioni del microbiota. Oltre agli antibiotici di largo consumo in clinica Biologo ricercatore, Istituto Tumori di Napoli, Fondazione “G. Pascale”.

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umana, anche i farmaci non-antibiotici ad uso umano sono stati associati a cambiamenti della composizione dei Phyla del microbiota. Alcune evidenze scientifiche associano variazioni di popolazioni di Phyla all’uso di farmaci come gli ipolipemizzanti, le statine, i lassativi, la metformina, i beta-bloccanti e gli ACE-inibitori; inoltre, anche farmaci antidepressivi o con ricaptazione selettiva della serotonina manifestano variazioni della popolazione microbica. Vale anche la pena notare che per questi farmaci le associazioni di interazioni con il microbiota sono state per lo più valutate per i singoli farmaci. Tuttavia, è noto che i pazienti spesso assumono più farmaci e questi co-trattamenti possono fornire delle valutazioni erronee nell’impatto della valutazione delle associazioni farmaco-microbiota. Uno studio più recente ha ulteriormente valutato l’impatto di trattamenti polifarmaci e comorbidità sul microbioma intestinale. Questo studio ha approfondito le valutazioni eseguendo una meta-analisi delle associazioni tra l’uso di farmaci e microbioma intestinale in tre coorti indipendenti, compresi i pazienti con malattie infiammataorie intestinali e sindrome dell’intestino irritabile; ed ha trovato che 19 su 41 categorie di farmaci studiate possono essere associate ad interferenze con il microbioma intestinale. Poiché molti dei partecipanti allo studio hanno usato multipli farmaci, è stato utilizzato un approccio graduale per far regredire l’effetto dei co-trattamenti. Dopo aver corretto statisticamente per i co-trattamenti, si è notato come i farmaci PPI, metformina, antibiotici e lassativi hanno mostrato ancora significativi associazioni di interferenza con il microbiota. Nonostante le palesi evidenze cliniche sulle interazioni tra farmaco e microbiota rilevate in più trial sperimentali, differenze nella stima sulle dimensioni degli effetti riflettono le differenze nell’uso di farmaci in diversi paesi europei e in diversi pazienti. Ad esempio,


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l’impatto osservato nell’uso di antibiotici sulla composizione microbica nei Trail Clinici osservati in Belgio era superiore a quella osservata nello studio olandese “LifeLines-DEEP coorte”; tale osservazione è in linea con il dato noto che il tasso di prescrizione di antibiotici è più alto in Belgio che in Olanda. Anche le differenze di età e genere tra le coorti hanno un forte effetto sulla frequenza del consumo di farmaci, e quindi sui risultati osservati. L’uso di farmaci può influenzare le composizioni microbiche intestinali in modo diverso; in tal senso almeno due modalità di azione sono state proposte. La prima modalità è che i farmaci possono provocare la traslocazione del microbioma da altri siti del corpo all’intestino. Come riportano evidenze scientifiche, i PPI (Pantoprazolo, Omeprazolo e Tenatoprazolo) possono ridurre la barriera di acidità dello stomaco, ciò consente ai microbi del cavo orale di passare attraverso lo stomaco raggiungendo l’intestino, inducendo così disbiosi microbi-

ca. La seconda modalità di azione, che potrebbe essere quella dominante, è che i farmaci possono modificare i microambienti intestinali ed influenzare direttamente la crescita batterica. Per esempio, la metformina è stata indicata promuovere la crescita dei Phyla produttori della catena corta di acidi grassi nell’intestino; questi batteri in definitiva contribuiscono all’effetto terapeutico della metformina nel miglioramento dell’insulino-resistenza e nell’omeostasi del glucosio. In questa seconda azione la modalità può essere bidirezionale; infatti, i farmaci non solo possono promuovere la crescita di alcuni batteri, ma possono anche inibire la crescita di alcuni Phyla specifici; ad esempio, i batteri che mostrano attività antimicrobiche o antibiotiche. Ciò è stato dimostrato da alcuni autori che hanno valutato sistematicamente l’effetto antimicrobico di oltre 1000 farmaci, di cui 835 farmaci mirati all’ uso umano che agiscono GdB | Luglio/agosto 2022

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prendendo di mira le cellule umane. In particolare, il 24% di questi i farmaci hanno mostrato attività antibatterica, influenzando il tasso di crescita di almeno uno dei Phyla del microbiota. Tra loro, otto farmaci sembravano essere tossici per i batteri, influenzando il tasso di crescita di almeno il 50%. Questi farmaci includevano quattro agenti antineoplastici (Daunorubicina, 5-Fluorouracile, Streptozotocina e Floxuridina), due farmaci antinfiammatori e antireumatici (Auranofin e Diacerein), un farmaco antigotta (Benzbromarone) e un farmaco per l’ulcera peptica (Oxetazaina). Questo risultato evidenzia fortemente, ancora una volta, gli effetti collaterali della terapia del cancro sul microbioma intestinale, poiché questi farmaci sono spesso citotossici. È stato dimostrato che i microbi intestinali possono contribuire alla efficacia e sicurezza 84 GdB | Luglio/agosto 2022

dei farmaci trasformando enzimaticamente la struttura del farmaco e alterando la biodisponibilità, la bioattività o la tossicità dei farmaci. Ad esempio, il farmaco antivirale orale Brivudina può essere metabolizzato in bromoviniluracile sia dall’ospite che dal microbiota intestinale, esercitando quest’ultimo tossicità epatica. Confrontando il plasma e le concentrazioni epatiche di brivudina e bromoviniluracile tra un intestino di topi convenzionali ed un intestino di topi germ-free, i ricercatori deducono che il 70% della tossicità della brivudina è attribuibile ai microbi intestinali, in particolare a Bacteroides thetaiotaomicron e Bacteroides ovatus. Lo stesso gruppo di ricerca ha, inoltre, condotto una analisi sistematica per testare la capacità metabolica di 76 ceppi di microbi intestinali su 271 farmaci somministrati per via orale ed ha riscontrato che 176 farmaci (ossia il 66%) sono stati metabolizzati da almeno


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un tipo di Phyla. I farmaci che sono stati metabolizzati dalla maggior parte dei Phyla in vitro sono soprattutto PPI (Pantoprazolo, Omeprazolo e Tenatoprazolo), il farmaco chemioterapico Melfalan e l’Artemisinina antimalarica. I super ceppi farmaco-metabolizzante erano indentificati nei Bacteroides dorei (ceppo DSM17855) e Clostridium sp, che potrebbero metabolizzare 164 e 154 farmaci, rispettivamente. La terapia antibiotica può influenzare non solo l’agente patogeno bersaglio ma anche i Phyla commensali dell’ospite umano. L’ entità dell’impatto sulle popolazioni microbiche non bersaglio dell’trattamento dipende dal particolare antibiotico utilizzato, dalla sua modalità di azione e dal grado di resistenza nella comunità microbiota. A volte uno squilibrio nel microbiota intestinale commensale a causa della somministrazione di antibiotici può provocare patologie intestinali, come la diarrea associata agli antibiotici (AAD). Un ulteriore preoccupazione è l’aumento della resistenza agli antibiotici e della potenziale diffusione dei geni della farmaco-resistenza ai batteri patogeni. Recentemente, è stato mostrato che la somministrazione di antibiotici a breve termine può portare alla stabilizzazione di popolazioni batteriche resistenti nel intestino umano per anni. Sebbene, le conseguenze della persistenza della resistenza all’antibiotico a lungo termine nell’intestino umano è attualmente sconosciuta, ci sono concreti rischi elevati che ciò potrebbe portare a una maggiore prevalenza di patogeni resistenti agli antibiotici, riducendo così le possibilità di successo di futuri trattamenti antibiotici e portare successivamente a maggiori costi dei trattamenti. L’aumento della resistenza antimicrobica è una minaccia crescente per la salute umana ed è principalmente la conseguenza di un uso eccessivo di agenti antimicrobici in medicina clinica. Inoltre, concentrandosi sui patogeni clinicamente rilevanti durante il monitoraggio dell’impatto degli antibiotici sui livelli del microbiota umano e i rischi per l’emergere di una resistenza antimicrobica, è importante considerare anche il ruolo del microbiota umano così fortemente eterogeneo. E’ generalmente riconosciuto che l’uso di antibiotici provoca selezione per l’arricchimento della resistenza antimicrobica, ma, fino a poco tempo si credeva anche, che il microbiota commensale si normalizzasse dopo poche settimane dalla sospensione del trattamento. Come discusso sopra, prove crescenti suggeriscono che questo non accade ma in realtà vengono influenzati positivamente o negativamente Phyla specifici del microbiota per lunghi periodi di tempo. Con il miglioramento dei metodi di sequenziamento e di altri approcci molecolari, sempre più informazioni stanno diventando disponibili su come la biodiversità

(ricchezza e uniformità) del microbiota umano è influenzato a diversi livelli filogenetici, dal livello della comunità alle specie, ai ceppi e all’individualità clonale. Al tempo stesso, è possibile monitorare l’acquisizione e persistenza dei geni di resistenza nella comunità del microbiota. Insieme queste informazioni dovrebbero aiutare a fornire la conoscenza delle dinamiche naturali del normale microbiota e aiutarci a capire a lungo termine le conseguenze del trattamento con farmaci antimicrobici. Questa informazione è di grande importanza per l’attuazione del razionale di linee guida per la somministrazione di terapie antibiotiche.

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e cibo-farmaco Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 3 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.

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di Marco Zanetti

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e cure farmacologiche sono sempre più utilizzate in una popolazione che invecchia e questo per un nutrizionista è fondamentale e da tenere in considerazione con un esame scrupoloso della terapia e di conseguenza della dieta o per un medico la dieta e di conseguenza la terapia farmacologica. I farmaci possono influenzare lo stato nutrizionale dell’organismo, agendo sui sensi, sull’appetito, sul dispendio energetico a riposo e sull’assunzione di cibo; al contrario, il cibo o uno dei suoi componenti può influenzare la biodisponibilità e l’emivita, le concentrazioni plasmatiche circolanti dei farmaci con conseguente aumento del rischio di tossicità e dei suoi effetti avversi, o il fallimento terapeutico. Pertanto, la conoscenza di queste possibili interazioni è indispensabile per l’attuazione di un trattamento nutrizionale in presenza di una terapia farmacologica o di una terapia farmacologica in presenza di una specifica dieta Farmaci e cibo possono interagire tra loro, poiché i farmaci possono modificare lo stato nutrizionale, il peso corporeo e la disponibilità di nutrienti del paziente, mentre alimenti e prodotti erboristici possono influenzare significativamente gli effetti e l’efficacia del farmaco in modo diretto o indiretto: nel primo caso, un alimento o uno dei suoi componenti può modificare l’effetto del farmaco, nel secondo caso il cibo provoca alterazioni nell’assorbimento o nel metabolismo del farmaco.

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Che effetto possono avere i farmaci sul corpo? Alcuni farmaci, ad esempio, stimolano l’appetito e l’assunzione di cibo, con conseguente aumento del rischio di sovrappeso e obesità, altri farmaci possono avere invece un effetto diretto sul metabolismo dei nutrienti, alterandone principalmente l’assorbimento con possibile rischio di carenze, soprattutto di vitamine e minerali. Che effetti può avere la composizione corporea invece sui farmaci? I cambiamenti nella composizione corporea indotti da una dieta possono, a loro volta, alterare gli effetti di un farmaco modificando la distribuzione dello stesso. Inoltre, una recente revisione sistematica ha dimostrato che l’obesità potrebbe diminuire l’attività dei citocromi CYP3A4/5, CYP1A2 e CYP2C9 e aumentare l’attività del CYP2E1. La perdita di peso invece sembra essere associata ad un aumento dell’attività del CYP3A4, mentre il CYP1A2 non ne era influenzato. Una dieta ricca di carboidrati o proteine ha ridotto e aumentato l’attività del CYP1A2, rispettivamente, tutti citocromi che svolgono un ruolo importante nella biotrasformazione dei farmaci [1]. Tutte le perdite di peso dovrebbero quindi essere considerate per le terapie farmacologiche, come pure gli aumenti del peso corporeo. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono farmaci che fanno aumentare di peso ed altri che fanno diminuire di peso. Ci sono diete e integratori che servono per aumentare di peso ed altre per perdere peso. In tutti questi casi chi viene dopo ( che sia la dieta dopo il farmaco o il farmaco dopo la dieta ), dovrebbero vicendevolmente considerarsi per non incappare in errori sia sulla distribuzione del farmaco nel corpo che sull’effetto della dieta sulla perdita del peso Alterazioni minerali indotte dai farmaci


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I cambiamenti più comuni sono quelli riguardanti potassio, sodio, magnesio, ferro, calcio, zinco e rame. In effetti, alcuni farmaci possono aumentare l’escrezione di potassio e la ritenzione di sodio, o ridurre l’assorbimento o il rilascio di iodio, ridurre l’assorbimento di ferro e zinco e aumentare i livelli di rame. L’ipopotassiemia è frequentemente associata ai diuretici (diuretici dell’ansa e tiazidici), stimolanti β-adrenergici o agenti lassativi, così come alcuni anticorpi monoclonali usati in oncologia. L’iperkaliemia può verificarsi anche durante la terapia con inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ACE-inibitori, bloccanti del recettore dell’angiotensina II (ARB), antagonisti del recettore dell’aldosterone, β-bloccanti, agenti antinfiammatori non steroidei (FANS), eparine, immunosoppressori (es. tacrolimus, ciclosporina), corticoidi minerali e glucocorticoidi, digossina Un certo numero di farmaci può causare ipomagnesiemia [2] I farmaci antibatterici, come le tetracicline, formano un complesso insolubile con cationi metallici; gli antiacidi abbassano il pH gastrico e causano una sottoregolazione del trasportatore intestinale attivo per il magnesio TRPM6, mentre i tiazidici e i diuretici dell’ansa impediscono il riassorbimento del magnesio a livello renale. Alcuni agenti antineoplastici (es. Cisplatino) e pillole anticoncezionali causano un aumento dell’escrezione renale di magnesio. Infine, anche gli inibitori della calcineurina e i leganti intestinali del fosfato a base di ferro sono associati all’ipomagnesiemia [3]. La carenza di ferro invece può essere dovuta a un ridotto assorbimento, causato principalmente da antibiotici come tetracicline e chinoloni e da farmaci antisecretori gastrici, ovvero antagonisti dei recettori PPI e H2. La secrezione acida gastrica, infatti, facilita l’assorbimento del ferro libero, consentendo la sua conversione nella forma ferrosa più assorbibile di quella ferrica; quindi, nel ridurre l’acidità gastrica, l’assorbimento alimentare di questo minerale è meno efficiente. Una condizione di ipocalcemia può essere il risultato di quattro diverse condizioni: ipoparatiroidismo, ipovitaminosi D, agenti leganti il calcio o alterato riassorbimento osseo. I farmaci più spesso associati all’ipocalcemia sono i diuretici dell’ansa (per una maggiore escrezione di calcio), agenti chelanti (es. etilendiamminotetracetato, citrato, fosfato), farmaci antineoplastici (es. cisplatino, leucovorin, 5-fluorouracile, nab-paclitaxel, axitinib), bifosfati, calcitonina e denosumab (un anticorpo monoclonale usato per trattare l’osteoporosi). Analisi dell’interazione del cibo con i farmaci e degli

integratori con i farmaci Farmaci a basso indice terapeutico possono essere coinvolti in interazioni clinicamente evidenti, a causa del ristretto intervallo tra efficacia e sicurezza, poiché gli eventi avversi possono manifestarsi alle dosi normalmente utilizzate per la terapia. Piccoli cambiamenti nelle concentrazioni ematiche o plasmatiche di un farmaco con un intervallo terapeutico ristretto possono causare tossicità o fallimenti terapeutici. Esempi di agenti farmacologici a basso indice terapeutico sono i farmaci immunosoppressori (calcineurina o inibitori di mTOR), i farmaci attivi sul sistema cardiovascolare (farmaci antiaritmici, glicosidi cardioattivi, anticoagulanti orali) e sull’apparato respiratorio. In questo gruppo possono essere inclusi anche i farmaci attivi sul sistema nervoso centrale (come antidepressivi, ansiolitici-ipnotici, stabilizzatori dell’umore, antiepilettici). Inoltre, i farmaci somministrati per le malattie croniche espongono i pazienti a un rischio maggiore di interazioni a causa della somministrazione a lungo termine. Il secondo fattore è la gravità della malattia per la quale sono richiesti i farmaci. Ad esempio, la terapia anticoagulante mette il paziente a rischio di complicanze emorragiche o trombotiche, rispettivamente nei casi di sovradosaggio o sottodosaggio [4]. [5] Il terzo fattore è identificabile nelle condizioni generali del paziente. Ad esempio, l’età avanzata può essere associata a comorbidità cardiovascolari o metaboliche, che possono influenzare negativamente la biotrasformazione epatica del farmaco e l’escrezione renale. La possibile alterazione della velocità di assorbimento può essere causata anche da alterazioni della motilità intestinale e da una diversa composizione corporea. Interazione nel tratto gastroenterico con il cibo Dopo una somministrazione orale, il farmaco impiega circa 1-2 minuti per raggiungere lo stomaco, dove si dissolve e parte del principio attivo passa nel flusso sanguigno. La restante parte transita nell’intestino, dove si completa l’assorbimento. La presenza di un determinato tipo di alimento può portare ad un’interazione chimico-fisica, consistente nella formazione del legame molecolare tra l’alimento e il suo componente, e la parte attiva del farmaco. Di conseguenza, questo tipo di interferenza provoca una diminuzione dell’assorbimento del farmaco. Un altro meccanismo si basa sulla modifica della fisiologia del tratto gastrointestinale, che si verifica a seguito di ingestione di cibo, riduzione dell’acidità gastrica, aumento dei tempi di svuotamento gastrico, alterazioni della secrezione biliare, aumento della motilità intestinale e alterazione dell’intestino composizione della microflora. Tutte GdB | Luglio/agosto 2022

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queste alterazioni possono finalmente modificare il tasso di assorbimento di un farmaco. Lungo il tratto gastrointestinale, pH, perfusione, superficie assorbente per unità di volume e motilità possono influenzare il tasso di assorbimento dei farmaci in modi diversi. Ad esempio, il tempo di svuotamento gastrico e il tempo di transito intestinale sono due fattori che partecipano alla corretta somministrazione del farmaco. Pasti ad alto contenuto lipidico stimolano una maggiore produzione e rilascio di bile nel duodeno, favorendo un maggiore assorbimento di quei farmaci che necessitano di sali biliari per un assorbimento ottimale. Un alto contenuto di aminoacidi derivati da farina ad alto contenuto proteico può formare legami con il farmaco o può competere con esso per legarsi ai vettori di trasporto. Inoltre, l’aumentata secrezione di succhi pancreatici può causare un aumento della quantità di acqua a livello intestinale, portando alla diluizione del farmaco. D’altra parte, un pasto ricco di proteine aumenta l’afflusso di sangue all’intestino, facilitando e velocizzando l’assorbimento del farmaco. Composizione del corpo e sua influenza sul farmaco Altri importanti fattori da considerare sono poi la distribuzione del farmaco nel corpo (diretta conseguenza della composizione corporea), la sua metabolizzazione, in quanto vedremo come i citocromi epatici sono influenzati dal cibo e dagli integratori e l’eliminazione del farmaco in quanto diete diverse o integratori diversi posso-

no alterare l’eliminazione urinaria di alcuni farmaci che vengono eliminati in ambienti urinari basici o acidi. Interazioni da considerare con i cibi assunti Cibi ricchi in vitamina K Tra le interazioni farmaco-cibo più note, l’associazione del warfarin con cibi ricchi di vitamina K è sicuramente la più nota. L’effetto del warfarin è dovuto alla sintesi incompleta dei fattori della coagulazione, attraverso la γ-carbossilazione dei residui di acido glutammico, per i quali la vitamina K svolge un ruolo essenziale. Gli alimenti ricchi di vitamina K possono interferire con l’effetto terapeutico del farmaco. Questi alimenti sono principalmente rappresentati da crucifere (broccoli, cavoli, ecc.), lattuga, spinaci, prezzemolo, ecc. Alto contenuto di vitamina K si può trovare anche in asparagi, piselli, lenticchie, soia, tuorlo d’uovo, fegato ecc. Nonostante questo rischio , i pazienti in trattamento con warfarin possono mangiare quelle verdure, prestando attenzione a mangiarne una quantità moderata per lungo tempo, mangiando la stessa quantità ogni giorno e regolando di conseguenza la dose di warfarin. Una recente metanalisi ha riportato che la restrizione dell’assunzione di vitamina K non sembra essere una strategia utile per migliorare l’efficacia del warfarin . Diversi studi hanno riscontrato una relazione negativa tra assunzione di vitamina K e variazioni dell’International Normalized Ratio (INR), mentre altri hanno riscontrato una relazione positiva, ma dose dipendente: con un apporto minimo di vitamina K è ancora possibile mantenersi adeguati effetto anticoagulante. Se l’assunzione supera i 150 μg/giorno di vitamina K, l’effetto del farmaco è alterato . Pertanto, un approccio utile per superare questo problema è mantenere un’abitudine alimentare stabile, evitando ampi cambiamenti nell’assunzione di vitamina K [6]. Cibi che interagiscono con la produzione di ormoni tiroidei Un’altra nota interazione cibo-farmaco è quella tra la levotiroxina e i cosiddetti cibi goitrogenici, che includono le crocifere (cavoli, cavolfiori, broccoli, ecc.), la soia, la lattuga e gli spinaci, il latte e alcuni additivi come i nitriti. Questi alimenti possono interferire con il metabolismo dello iodio, essenziale per la corretta

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CIBI

SOSTANZE

Rape

Contengono sostanze che possono alterare i livelli ormonali della ghiandola tiroidea

Pomodori

Contengono sostanze che possono determinare il reflusso esofageo; inoltre le solanine possono causare cefalee e allergie

Patate

Da evitare le patate dalla buccia verde per l’elevato contenuto di solanine che possono provocare diarrea crampi e affaticamento

Lamponi

Contengono salicilati che possono provocare allergia se associati all’aspirina

Prugne, pesche, albicocche, ciliegie

Contengono salicilati possono scatenare reazioni allergiche

Mele, mela cotogna, albicocche

Contengono amigdalina, composte che nello stomaco si trasforma in acido cianidrico, un abuso provoca effetti tossici notevoli

Rafano

Un abuso può indurre il vomito e sudorazione eccessiva va evitato in casi di ipotiroidismo

Fragole, mirtilli, spinaci, rabarbaro

Contengono ac.ossalico che può indurre calcolosi renale e ridurre l’assorbimento di Calcio e Ferro

attività della tiroide attraverso la sintesi degli ormoni tiroidei T3 e T4. Infatti, l’elevata concentrazione di isotiocianati in questi alimenti può inibire l’incorporazione di iodio e quindi la formazione di tiroxina, diminuendo la funzione tiroidea. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, ciò non implica la completa esclusione di questi alimenti dalla dieta. È possibile consumarli, facendo attenzione alla quantità, frequenza e tempo di consumo. In ogni caso, i pazienti possono assumere questi alimenti occasionalmente, in porzioni moderate e non prima di 30-60 minuti dall’assunzione di levotiroxina. Tuttavia, alcune di queste interazioni non sono state confermate, come nel caso della soia che può aumentare il rischio di ipotiroidismo. Una recente revisione sistematica ha dimostrato che il consumo di soia non influisce sugli ormoni tiroidei e può comportare un modesto aumento dei livelli di ormone stimolante la tiroide (TSH) [7] Pertanto, nell’ambito di una dieta variata, è possibile consumare la soia in soggetti con problemi alla tiroide, purché la dieta non sia carente di iodio. Succhi e frutta e metabolismo dei farmaci Succhi di pompelmo, arancia, mela, melograno, mirtillo e pomodoro sono stati studiati per le loro potenziali interazioni con i farmaci. Tra tutti i succhi di frutta, il succo di pompelmo è il più noto. Si tratta infatti di un potente inibitore dell’attività di alcune isoforme del citocromo P450 attive nell’intestino, in particolare dell’isoforma CYP3A4, che è responsabile della detossificazione di circa il 50% dei farmaci.

Tale attività inibitoria è dovuta ad alcune sostanze contenute nel pompelmo e nel suo succo, ovvero la naringina (composto fenolico con proprietà antinfiammatorie e antiossidanti) e la bergamottina (furanocumarine). L’elenco dei farmaci che possono essere influenzati dal succo di pompelmo è lungo e include farmaci comunemente prescritti come: Statine (cioè atorvastatina); Farmaci antipertensivi come agenti calcio-bloccanti (amlodipina, felodipina, manidipina, nicardipina, nifedipina, nimodipina, nisoldipina, nitrendipina, pranidipina, ecc.), antagonisti del recettore dell’angiotensina II (losartan) e β-bloccanti (talnolo e acebutololo); Agenti immunosoppressori (ciclosporina e tacrolimus); Antiaritmico (amiodarone, chinidina, disopiramide e propafenone); Antineoplastico (vinblastina); Antibiotici (eritromicina). Gli studi hanno dimostrato che il succo di mirtillo e il succo di melograno possono inibire le isoforme del CYP3A e del CYP2C9. Il succo di mirtillo, in particolare, ha dimostrato di essere in grado di interagire con il warfarin. Infatti, questo succo contiene diversi flavonoidi che possono svolgere il ruolo di induttori o inibitori del CYP450 e, in particolare, dell’isoforma CYP2C. Questo enzima è coinvolto nel metabolismo del warfarin, quindi l’assunzione concomitante di succo di mirtillo può portare ad un aumento anomalo dell’INR e quindi al rischio di sanguinamento. Il succo di ananas o i suoi estratti possono interagire con FANS, warfarin, antiaggreganti piastrinici ed eparina, causando un aumento del rischio di sanguinamento. In generale, è stato osservato che un periodo di tempo di quattro ore tra il GdB | Luglio/agosto 2022

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consumo di succo e l’assunzione del farmaco è consigliato per evitare ogni possibilità di interazione [8]. Latte Il latte può interferire con alcuni antibiotici, riducendo la biodisponibilità di tetracicline e fluorochinoloni quando somministrati per via orale. Questi farmaci, infatti, possono formare complessi con il calcio presente nel latte e nei latticini che possono comprometterne gravemente l’assorbimento. Cibi proteici e integratori aminoacidi Pasti ricchi di proteine possono potenzialmente aumentare i livelli di albumina sierica e/o l’attività del citocromo P450 e alterare l’efficacia del warfarin. Conseguenze simili sono state osservate nel caso della levodopa, perché aminoacidi come isoleucina, leucina, valina, fenilalanina, triptofano e tirosina competono per il trasportatore transmembrana che consente l’assorbimento del farmaco all’interno della mucosa intestinale; di conseguenza, la biodisponibilità del farmaco è ridotta, così come il suo effetto farmacologico Integratori a base di erbe Tra i vari composti che sono stati trovati ad interferire con alcuni farmaci, il più noto è l’Hypericum perforatum, un rimedio antidepressivo naturale chiamato anche Erba di San Giovanni. Il principio attivo è l’iperforina, che è in grado di inibire i neurotrasmettitori come se90 GdB | Luglio/agosto 2022

rotonina, norepinefrina, dopamina, glutammato, acido γ-aminobutirrico. Inoltre, Hypericum può modulare l’attività delle isoforme CYP3A4, CYP2C9 e CYP1A2 e della glicoproteina P, poiché l’iperforina si lega al recettore nucleare che regola l’espressione del CYP3A4 intestinale e della glicoproteina P. Il Ginkgo biloba è un altro composto a base di erbe di importazione che ha dimostrato di interferire con l’efficacia di alcuni farmaci. È usato per migliorare le prestazioni del cervello e ridurre l’affaticamento. Viene anche utilizzato nei casi di morbo di Alzheimer, in quanto può migliorare le funzioni cognitive nelle malattie cerebrovascolari e nella circolazione sanguigna periferica. Le sostanze contenute nel Ginkgo biloba che hanno proprietà farmacologiche sono i flavonoidi e i lattoni tripertenici (gingkoloidi e bilobalidi). Di conseguenza, il Gingko biloba è in grado di ridurre l’aggregazione piastrinica e agisce sugli isoenzimi CPY2C9 e CYP3A4, inibendo il metabolismo microsomiale del warfarin. Pertanto, i preparati a base di erbe contenenti Ginkgo biloba devono essere evitati nei pazienti trattati con farmaci antipiastrinici o anticoagulanti La liquirizia è composta dai rizomi e dalle radici della pianta chiamata Glycyrrhina glabra. Il suo consumo eccessivo può portare ad un aumento della pressione arteriosa e ipokaliemia. Questo effetto è attribuibile al metabolita acido glicirrizina che riduce il metabolismo epatico e renale dei corticosteroidi inibendo l’enzima 11-beta-idrossisteroide-deidrogenasi. Di conseguenza,


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l’attività simile all’aldosterone del cortisolo a livello renale aumenta, inducendo un iperaldosteronismo pseudo-primario, con conseguente ipertensione, ipokaliemia, alcalosi metabolica e ritenzione idrosalina. Il consumo di questo preparato deve essere evitato durante la terapia antipertensiva, o con farmaci che potrebbero causare ipokaliemia (es. tiazidici o diuretici dell’ansa e corticosteroidi). Il Ginseng comprende numerose specie della famiglia delle Araliaceae. Questa radice viene utilizzata per ottenere diversi prodotti, come una bevanda sostitutiva del caffè e integratori. Ha proprietà antiossidanti, antipiretiche, ipocolesterolemizzanti, antitumorali, antinfiammatorie e si ritiene che migliori la funzione della memoria. Per questo motivo viene utilizzato in caso di ipotensione, diabete, gastrite, insonnia, affaticamento e stress mentale. L’uso del ginseng non è innocuo, anche se i metaboliti intestinali dei suoi costituenti (ginsenosidi) da cui dipendono le proprietà benefiche, possono inibire fortemente il metabolismo citocromo-dipendente e i trasportatori transmembrana. Pertanto, il consumo di ginseng non è raccomandato insieme ad alcuni farmaci come anticoagulanti (warfarin), fenelzina (IMAO), alcuni chemioterapici (imatinib), ipoglicemizzanti orali e insulina, digossina, anticonvulsivanti (lamotrigina) e terapie antiestrogeniche. Zingiber officinalis, o zenzero, ha dimostrato di essere una molecola anticoagulante naturale. Riduce anche la pressione sanguigna e modula i livelli sierici di glucosio. Per questo motivo, le persone che usano anticoagulanti orali o farmaci antipiastrinici e i diabetici in trattamento con insulina dovrebbero evitare l’assunzione di zenzero Alla cannella sono state inoltre attribuite molteplici proprietà, tra cui la riduzione dei livelli plasmatici di glucosio, attività antiossidante e neuroprotettiva. L’interazione farmacologica più importante è con farmaci antidiabetici, come glimepiride, insulina, pioglitazone, rosiglitazone, clorpropamide, glipizide e tolbutamide. Poiché la polvere di cannella può potenzialmente abbassare i livelli plasmatici di glucosio, può agire in sinergia con i farmaci antidiabetici, portando al rischio di ipoglicemia. La cannella contiene anche cumarina e cinnamaldeide, che hanno un’attività inibitoria contro alcune isoforme del CYP, e possono interferire con gli anticoagulanti, aumentandone l’effetto e il rischio di sanguinamento. Le molecole contenute in diverse quantità di cibo possono interferire con la farmacocinetica e la farmacodinamica dei farmaci. A causa di questa rilevanza, la storia farmacologica di un dato paziente merita particolare attenzione e deve far parte del colloquio con il dietista. È una scoperta comune che i pazienti informati su una possibile interazione cibo-farmaco evitino immediatamen-

te determinati alimenti o sostanze nutritive. Tuttavia, questo comportamento scorretto o addirittura sbagliato può portare a carenza di nutrienti e limitazioni inutili. Una corretta definizione della quantità di assunzione di cibo/nutrienti, un’adeguata definizione dei tempi di consumo dei pasti e un corretto adeguamento della dose dei farmaci possono evitare interazioni senza influire sulla qualità della vita dei pazienti e garantire l’efficacia della terapia farmacologica. Per voi e per ricordarvi tutti coloro che assumono farmaci per il sistema cardiovascolare, anticoagulanti, antipressori, diuretici, farmaci per il sistema neurologico, farmaci di trattamento per Aids, farmaci chemioterapici, devono essere monitorati attentamente da un nutrizionista onde evitare errori nell’assunzione del cibo o integratori durante la terapia, favorendone un aumento o diminuzione di efficacia.

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Anno V - N. 7-8 Luglio/agosto 2022 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb

Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Luglio/agosto 2022 Anno V - N. 7/8

LA “DELOCALIZZAZIONE” DEI VIRUS TROPICALI Vaiolo delle scimmie, West Nile, Chikungunya, encefaliti da zecche In Europa e in Italia patologie tipiche di altre aree geografiche

Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it. Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano l’Ordine né la redazione. Immagine di copertina: © sun ok/www.shutterstock.com

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Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione martedì 2 agosto 2022.


Contatti

Informazioni per gli iscritti Si informano gli iscritti che gli uffici dell’Ordine Nazionale dei Biologi forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:30 e dal lunedì al giovedì dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Ordine Nazionale dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@peconb.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

CONSIGLIO DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI Vincenzo D’Anna – Presidente E-mail: presidenza@peconb.it

In applicazione delle disposizioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 è possibile recarsi presso le sedi dell’Ordine Nazionale dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

Duilio Lamberti – Consigliere Segretario E-mail: d.lamberti@onb.it

UFFICIO TELEFONO Centralino 06 57090 200 Anagrafe e area riservata 06 57090 241 Ufficio ragioneria 06 57090 222 Iscrizioni e passaggi 06 57090 210 - 06 57090 223 Ufficio Pec, assicurazione 06 57090 202 certificati, timbro e logo Quote e cancellazioni 06 57090 216 - 06 57090 217 06 57090 224 Ufficio formazione 06 57090 207 - 06 57090 218 06 57090 239 Ufficio stampa 06 57090 205 - 06 57090 225 Ufficio abusivismo 06 57090 288 Ufficio legale protocollo@peconb.it Consulenza fiscale consulenzafiscale@onb.it Consulenza privacy consulenzaprivacy@onb.it Consulenza lavoro consulenzalavoro@onb.it Ufficio CED 06 57090 230 - 06 57090 231 Ufficio segreteria Ctu 06 57090 215 Presidenza e Segreteria 06 57090 229 Organi collegiali

Pietro Miraglia – Vicepresidente E-mail: analisidelta@gmail.com Pietro Sapia – Consigliere Tesoriere E-mail: p.sapia@onb.it

Gennaro Breglia E-mail: g.breglia@onb.it Claudia Dello Iacovo E-mail: c.delloiacovo@onb.it Stefania Papa E-mail: s.papa@onb.it Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi Andrea Morello Marco Rufolo Erminio Torresani GdB | Luglio/agosto 2022

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