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SCIENZE

L’associazione tra una durata alterata del sonno e il declino cognitivo

Uno studio cinese riscontra il collegamento tra le ore del riposo notturno e alcune funzioni della sfera cognitiva

di Sara Lorusso

Uno studio [1] condotto tra il Peking University Clinical Research Institute di Pechino e il Dipartimento di Epidemiologia Clinica dello Beijing Chaoyang Hospital ha individuato un’associazione tra la durata del sonno e il declino cognitivo complessivo.

I ricercatori hanno in particolare messo in evidenza come i risultati ottenuti suggeriscano che la funzione cognitiva dovrebbe essere monitorata in individui con una durata del sonno insufficiente, minore o uguale alle quattro ore per notte, o eccessiva, superiore alle dieci ore per notte.

Lo studio, che ha aggregato i dati di oltre 28mila individui, ha rivelato che la funzione cognitiva globale nelle persone con una durata del sonno posizionata in uno dei due eccessi (troppo lunga o troppo breve) è diminuita in modo statisticamente significativo più velocemente rispetto al gruppo di riferimento, quello di individui con una durata del sonno media di sette ore.

La ricerca di Yanjun Ma, Lirong Liang, Fanfan Zheng e altri è stata portata avanti sfruttando i dati di due coorti di studio sull’invecchiamento, per una platea complessiva di 28.756 individui. La prima, relativa a uno studio londinese basato su dati di ultracinquantenni nei periodi 2008-2009 e 2016-2017, la seconda relativa a uno studio cinese sulla popolazione con più di 45 anni nel periodo 2011-2015. La misurazione della durata del sonno è stata fornita dagli stessi partecipanti, che erano stati intervistati faccia a faccia nei rispettivi studi originari: a tutti è stato chiesto di indicare la durata senza che fossero fornite loro opzioni preimpostate tra cui scegliere. In entrambi gli studi di partenza, poi,

la valutazione cognitiva era stata condotta su memoria, funzione esecutiva e orientamento.

In base ai dati presenti nei due dataset, il team di ricercatori coordinato da Ma, Liang e Zheng ha deciso di dividere i partecipanti in sette gruppi, in base alla durata del sonno dichiarata (meno di 4, 5, 6, 7, 8, 9 o più di 10 ore di sonno a notte). La curva generata dall’analisi dei dati ha assunto una forma di U invertita.

I ricercatori del gruppo sono partiti dalla constatazione che non esistono prove concrete sull’associazione tra la durata del sonno e la traiettoria del declino cognitivo.

La popolazione anziana è aumentata rapidamente negli ultimi decenni, tanto che già nel 2015 il 12% della popolazione mondiale aveva più di 60 anni. Ed entro il 2050, questa fascia di età dovrebbe raggiungere il quinto della popolazione. Il Report sulla Popolazione stilato dalle Nazioni Unite [2] ha previsto che a livello globale la speranza di vita alla nascita aumenterà dal limite medio di 70 anni stimato nel periodo 2010-2015 a 77 anni nel periodo 20452050 e a 83 anni nel 2095-2100. Le previsioni dicono che l’Africa guadagnerà circa 19 anni di aspettativa di vita entro la fine del secolo, raggiungendo i 70 anni nel 2045-2050 e i 78 anni nel 2095-2100. L’Asia, l’America Latina e i Caraibi guadagneranno 13-14 anni di aspettativa di vita entro il 2095-2100, mentre l’Europa, il Nord America e l’Oceania dovrebbero guadagnare 1011 anni. Di conseguenza, anche la quota di anziani con deficit cognitivo e demenza sarà proporzionalmente aumentata.

La demenza è uno dei disturbi più comuni e gravi nella vita adulta: una condizione che è responsabile delle più pesanti disabilità e di una notevole percentuale di mortalità nelle persone anziane, senza contare che impone un enorme carico di assistenza a lungo termine alle famiglie e alla società.

Secondo l’Alzheimer’s Disease International, la federazione internazionale delle associazioni che si occupano di Alzheimer nel mondo, riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, le persone affette da demenza hanno scarso accesso a un’assistenza sanitaria adeguata, anche nella maggior parte dei Paesi ad alto reddito, dove solo il 50% circa delle persone affette da demenza riceve una diagnosi. Nei Paesi a basso e medio reddito, invece, viene diagnosticato meno del 10% dei casi. Secondo il World Alzheimer Report 2016 [3], con l’invecchiamento della popolazione, è possibile stimare che nel 2015 ci fossero 46,8 milioni di persone in tutto il mondo con demenza e questo numero raggiungerà i 131,5 milioni nel 2050.

Il report rilasciato nel 2019 [4] aggiunge alle stime sul declino cognitivo interessanti informazioni collegate all’atteggiamento nei confronti della demenza, grazie ai risultati del più ampio sondaggio mai realizzato sul tema, con quasi 70.000 persone in 155 Paesi e territori controllati. L’indagine, sviluppata dalla London School of Economics and Political Science, ha attenzio-

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nato quattro gruppi demografici: persone affette da demenza, assistenti, operatori sanitari e pubblico in generale. È emerso che l’80% degli intervistati è preoccupato per lo sviluppo improvviso della demenza e una persona su quattro pensa che non ci sia nulla da fare per prevenirla. Oltre il 50% dei caregiver a livello globale afferma che la propria salute ha sofferto a causa delle proprie responsabilità assistenziali, pur esprimendo sentimenti positivi sul proprio ruolo, e quasi il 62% degli operatori sanitari in tutto il mondo pensa che la demenza faccia parte del normale invecchiamento.

In Italia, secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss) vi sono circa 1 milione di persone affette da demenza e circa 900 mila affette da una condizione a rischio definita come “Mild Cognitive Impairment (Mci, deficit cognitivo isolato)”. Nel 2018 è stato diffuso lo European Carers’ Report 2018 [5], il rapporto sugli ostacoli rilevati dai familiari nella diagnosi tempestiva delle persone con demenza, relativo a cinque nazioni (Italia, Scozia, Olanda, Repubblica Ceca, Finlandia) che rappresentano un campione significativo della situazione in Europa in merito al percorso diagnostico, ai tempi e alle modalità affrontate anche dai familiari dei malati. I dati più significativi riguardano la tempistica della diagnosi e la sua comunicazione al malato. Tra i principali ostacoli alla diagnosi precoce, il rapporto indica le segnalazioni dei familiari circa un ritardo significativo nell’individuazione della diagnosi stessa: in media servono 2,1 anni per ricevere la diagnosi corretta. Al 25% dei malati, inoltre, viene diagnosticata inizialmente un’altra condizione medica. Il documento infine spiega come una volta stabilita la diagnosi corretta, si registri tra i malati un 53% di demenza lieve, 36% moderata, 4% grave. In generale, quasi la metà dei familiari (47%) è convinta che il tasso di diagnosi sarebbe risultato migliore se valutato più tempestivamente.

Poiché ad oggi non sono disponibili terapie efficaci per il trattamento della demenza, lo sviluppo di percorsi di preven-

zione è l’unica strada percorribile per ridurne l’impatto socio-sanitario. Ecco perché l’individuazione di possibili marker della condizione e di specifici fattori di rischio rientra di diritto tra le strategie prioritarie nell’affrontare la patologia cognitiva.

Un recente studio dell’Associazione Alzheimer [6] ha analizzato l’impatto sulla salute pubblica della malattia di Alzheimer, inclusa l’incidenza e la prevalenza, la mortalità e la morbilità, i costi delle cure e l’impatto complessivo sui caregiver e sulla società. L’indagine è riuscita a esaminare i vantaggi di una diagnosi della malattia nelle prime fasi del processo patologico, nella fase di lieve deterioramento cognitivo dovuto alla malattia di Alzheimer. I numeri sono emblematici. Nel 2017, nei soli Stati Uniti d’America oltre 16 milioni di familiari e altri caregiver non retribuiti hanno fornito circa 18,4 miliardi di ore di assistenza alle persone con Alzheimer o altre demenze: il valore economico stimato di questa assistenza è pari a oltre232 miliardi di dollari, ma i suoi costi si estendono all’aumento del rischio di disagio emotivo e di esiti negativi per la salute mentale e fisica dei caregiver familiari.

Ora, negli ultimi anni l’identificazione della malattia è passata da un riconoscimento dei sintomi a una comprensione basata sui cambiamenti cerebrali. Poiché questi cambiamenti iniziano molto prima che si manifestino i sintomi clinici, la diagnosi precoce potrebbe avere importanti vantaggi sull’individuo e sul carico finanziario globale. Un modello matematico condiviso dall’Associazione Alzheimer stima che una diagnosi precoce e accurata potrebbe far risparmiare fino a 7,9 trilioni di dollari in costi medici e assistenziali.

Rispetto al declino cognitivo l’approccio preventivo più promettente sembra quello capace di valutare la sua natura multicausale: gli effetti combinati di particolari fattori di rischio vascolare [7] possono accelerare il processo di declino cognitivo, così come il fumo e la pressione arteriosa a lungo termine sembrano aumentare il rischio di declino cognitivo negli anziani. Un recente aggiornamento della Commissione Lancet del 2017 su demenza, prevenzione, intervento e cura [8] espande il numero di fattori di rischio modificabili da nove a dodici, includendo anche lesioni alla testa nella mezza età, consumo eccessivo di alcol nella mezza età ed esposizione all’inquinamento atmosferico. Studi precedenti hanno già riportato una forte associazione tra il sonno e la funzione cognitiva negli anziani. Nel 2013 una ricerca finlandese [9] aveva individuato come durata e qualità del sonno in individui di mezza età fossero associati alla funzione cognitiva nella successiva età più tarda. Un altro studio della Harvard School of Public Health [10] invece si è soffermato in particolar modo sulla durata del sonno nelle donne. Durate © Naeblys/www.shutterstock.com estreme del sonno in età avanzata sono state associate a una cognizione media peggiore. Le donne della platea che dormivano meno di 5 ore al giorno risultavano avere una cognizione globale peggiore di quelle che dormivano 7 ore al giorno. Analoghi risultati erano emersi per donne il cui sonno medio superava le 9 ore al giorno. Così come era risultata peggiorata la capacità cognitiva delle donne che avevano subito una modifica peggiorativa nel tempo della durata del proprio riposo.

I disturbi respiratori nel sonno si erano rivelati un elemento soggetto all’associazione con il declino cognitivo in una ricerca statunitense [11] focalizzata sulle donne anziane: quelle con disturbi respiratori del sonno rispetto a quelle senza disturbi respiratori del sonno mostravano un maggiore rischio di sviluppare disturbi cognitivi.

Rispetto agli studi precedenti, gli scienziati della ricerca cinese si sono concentrati in modo specifico sulla durata del sonno attraverso le informazioni delle due coorti considerate. Hanno così osservato un’associazione statisticamente significativa tra la durata del sonno più lunga (8, 9 o più di 10 ore) o più breve (meno di 4 ore) e i punteggi basali inferiori nei tre domini cognitivi osservati (memoria, orientamento e funzione esecutiva). Ha fatto eccezione la durata del sonno compresa tra 9 e 10 ore. Una durata del sonno di 4 ore o meno era statisticamente associata in modo significativo a un declino dell’orientamento più rapido, ma non al declino della memoria o alla funzione esecutiva.

Del resto, in letteratura [12, 13] sono già disponibili acquisizioni circa il nesso tra una privazione acuta del sonno e la codifica e il consolidamento della memoria e sul fatto che la breve durata del sonno sia associata a un aumento del rischio di sviluppare deficit di memoria. Le funzioni del sonno sono molteplici, ma è ormai assodato che ve ne sia una fondamentale collegata alla capacità di elaborare, consolidare e conservare informazioni acquisite in altri momenti. Così come diversi studi epidemiologici [14, 15] hanno verificato che la durata eccessiva del sonno è statisticamente associata in modo significativo a deficit

di memoria sia negli adulti di mezza età che negli individui più anziani. Tra gli adulti che si sentono spesso non ben riposati sia la durata del sonno breve che quella lunga sono state associate a una minore velocità della funzione cognitiva.

Gli autori della ricerca ricordano che, tuttavia, i meccanismi alla base dell’associazione tra la durata del sonno e il declino cognitivo rimangono poco chiari, sebbene siano stati identificati diversi percorsi biologici plausibili. Alcune ricerche hanno, per esempio, affrontato la questione indagando l’eventuale associazione tra la durata del sonno e l’assottigliamento della corteccia cerebrale secondo andamenti accelerati rispetto a quello medio collegato con l’età. Altre indagini hanno lavorato sull’associazione del declino cognitivo con i disturbi infiammatori. Altri ancora sono riusciti a collegare i brevi periodi di privazione del sonno con un aumento della plasticità sinaptica e con la conseguente funzione cognitiva compromessa. È stato anche riscontrato che la proteina tau, una proteina associata alla neurodegenerazione correlata alla malattia di Alzheimer, aumenta durante la privazione cronica del sonno [16].

Il punto di forza dello studio, segnalano gli stessi autori, è nell’associazione tra la durata del sonno e la funzione cognitiva rilevata in due grandi coorti relative a culture e geografie molto diverse. E poiché i risultati sono apparsi coerenti in entrambe le coorti basate su una comunità rappresentativa a livello nazionale è possibile ipotizzare una reale generalizzabilità dei dati.

Tra i limiti dello studio vanno invece segnalati la tipologia di indagine (studio osservazionale, quindi non è stato possibile dimostrare alcuna relazione causale) e la possibilità di causalità inversa (una durata del sonno eccessiva o breve potrebbe, infatti, essere una manifestazione precoce di danno cerebrale). Va inoltre ammesso che persone con problemi di memoria potrebbero non ricordare con precisione la durata del sonno.

È stata, in conclusione, osservata un’associazione a forma di U invertita statisticamente significativa tra la durata del sonno e la funzione cognitiva e il suo successivo declino. Questi risultati, seppur con le necessarie ulteriori ricerche sul tema, appaiono indicatori importanti del fatto che la funzione cognitiva dovrebbe essere monitorata in individui di mezza età e anziani con durata del sonno insufficiente o eccessiva.

Bibliografia

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