Il Giornale dei Biologi - N.10 - Ottobre 2022

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132 Ottobre 2022 Anno V - N. 10 IL FUTURO DELLA BIOLOGIA NELLA GENOMICA AVANZATA Per sei mesi, nei laboratori del Dante Labs, eccellenza nel sequenziamento del Dna, i biologi hanno studiato mutazioni genetiche, sequencing tumorale e bioinformaticaIL VIRUS MUTA ANCORA CON LE SOTTOVARIANTI DI OMICRON La variante BQ1 e la sua sottovariante BQ1.1 diventeranno i ceppi dominanti da novembre. Stabili i nuovi casi, non preoccupanti le percentuali di occupazione degli ospedali, in leggero aumento il numero dei morti.
LIBRO BIANCO DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI 2017-2022

Sommario

EDITORIALE

Biologi, svegliatevi! di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO

Covid, casi stabili sotto osservazione

nuove sottovarianti di omicron di Rino Dazzo

INTERVISTE

Cancro al seno: nuovo traguardo dell’Istituto Pascale di Chiara Di Martino

Malattie da prioni: messo a fuoco un nuovo bersaglio terapeutico di Ester Trevisan

Guido Putingnano, a soli 20 anni “eccellenza italiana” nella biologia sintetica di Sara Bovio

SALUTE

Tumori

I fitocannabinoidi nel tumore mammario di Sabrina Bimonte e Giuseppe Palma

Riparare il dna “spazzatura” per ritardare o trattare i disturbi neurologici di Sara Bovio

Longevità, dal Dna i geni per invecchiare in salute di Domenico Esposito

Gruppo sanguigno ER. Ricercatiri identificano cinque varianti di Elisabetta Gramolini

Orientamento: non è questione di genere di Elisabetta Gramolini

Diabete, possibile legame con la solitudine di Domenico Esposito

I virus spiano l’organismo per decidere quando infettare di Domenico Esposito

Klotho, la proteina antietà di Carla Cimmino

Capelli e vitamina D di Biancamaria Mancini

Medicina araba e farmaceutica di Barbara Ciardullo

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femminili: sopravvivenza a +34% in 10 anni di Domenico Esposito 14 29 30 36 39 12

AMBIENTE

L’alleato delle

Gianpaolo Palazzo

Svelati i segreti della medusa immortale di Sara Bovio

Non solo luce con le lampade antibatteriche di Gianpaolo Palazzo

I polmoni verdi urbani “fumano” troppo di Gianpaolo Palazzo

La ferula drudeana tra storia antica e scienza di Michelangelo Ottaviano

In Italia, intossicazione da mandragora

Michelangelo Ottaviano

A Padova la 10ª edizione del Galileo-festival di Michelangelo Ottaviano

INNOVAZIONE

Gas radon. Prevenzione e comunicazione di Pasquale Santilio

Stress idrico fa “impazzire” le piante di castagno di Pasquale Santilio

I satelliti studiano la grandine di Pasquale Santilio

Lampade al led per sanificare gli ambienti di Pasquale Santilio

BENI CULTURALI

Pedroria e Alpe Madrera, scrigni di biodiversità ad alta quota

Rino Dazzo

Firenze l’hub europeo per i beni culturali

Pietro Sapia

SPORT

Windsurf e kitesurf. Sicilia e Sardegna isole... Mondiali di Antonino Palumbo

Sotto rete, solo italia. I successi nell’anno d’oro del volley azzurro di Antonino Palumbo

Con Maria Sole e le altre, il “fischietto” è donna di Antonino Palumbo

La rimonta (quasi) mondiale di Bagnaia di Antonino Palumbo

letteraria

LAVORO

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE

Farmaci e vaccini a RNA: la nuova frontiera della terapia genica

Erika Salvatori

Un nuovo approccio terapeutico per la miastenia di Cinzia Boschiero

Le biopiscine: un’alternativa che rispetta l’ambiente di Lucrezia Pinto

Nucleare in Italia. Dibattito, referendum e molto altro di Antonella Pannocchia

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Biologi, svegliatevi!

Finalmente,

in diverse regioni d’I talia, le urne sono aperte. Ha pre so così avvio la fase elettorale che consentirà la nascita degli Ordini Regionali dei Biologi e, con essi, quella della Federazione Nazionale dei medesimi. Un evento storico, destinato a trasformare radicalmente l’assetto orga nizzativo (e quello della po litica) del nostro ONB che, dal centro nazionale, si diramerà sui vari territori della Penisola. Insom ma: ciascuno, di qui a poco, diventerà “pa drone” in casa propria.

Le elezioni consentiranno la nascita degli Ordini Regionali dei Biologi e, con essi, quella della Federazione Nazionale dei medesimi. Un evento storico

I nuovi organismi elettivi saranno infatti pienamente autonomi e, si spera, ancora più vicini ai problemi, alle opportunità ed alle cri ticità specifiche di quegli stessi ambiti locali.

Non è roba da poco, a 55 anni di distanza dalla prima costituzione! In questi giorni, insieme con l’ultimo numero del Magazi ne Bio’s, vi sarà recapitato anche il “Libro Bianco” con il quale il Consiglio dell’Ordi ne intende informare i bio logi italiani di tutte le attività svolte nel quinquennio del proprio mandato e della de finitiva chiusura dell’Ordine Nazionale (a fine anno). Un lavoro duro e costante che, riteniamo, sia servito a risollevare le sorti di un Ente messo alquanto male all’atto del no stro insediamento, sia per le scarse attività svolte in passato, sia per la siderale distanza che intercorreva tra iscritti e dirigenti. Tuttavia, pur potendosi dire che grandi passi siano stati fatti, sotto il profilo delle

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Editoriale

molteplici attività svolte, solo in parte sono state accorciate le distanze e gli ascolti con la base. Ancora ampia, infatti, resta la forbi ce tra coloro che si tengono informati, che seguono le attività organizzate attraverso l’area riservata del nostro sito istituzionale (corsi di formazione, ECM gratuiti, sum mer school, formazione sul campo: qualcosa come oltre 250 eventi organizzati in cinque anni!!) e quelli che, letteral mente... cascano dal pero! Pensate si stia esagerando? Ebbene no. Moltissimi, in fatti, sono quelli che ancora non posseggono la PEC (o che non l’hanno attivata), che non leggono le newslet ter e le mail che pure vengono (ogni gior no) loro inviate; che non si collegano al sito e non leggono il Giornale dei Biologi! Una massa enorme, che vive isolata e disincan tata e che spesso si esprime negativamente sulla funzione dell’Ordine professionale e di quanti lo dirigono.

Con l’ultimo numero del Magazine Bio’s, vi sarà recapitato il “Libro Bianco”, che contiene la sintesi delle attività svolte nel quinquennio 2017-2022

mo di circa il 20 percento), non essendosi dotati di posta elettronica certificata, nean che potranno votare! Altri, incredibile a dir si, sono addirittura risultati... all’oscuro di questo pur epocale evento elettorale! Il pro blema è sempre lo stesso: troppi scelgono di affidarsi ad associazioni con varie denomi nazioni presenti sui social, ove respirano la stessa aria e discutono ignorando quello che accade attorno a loro, con il risultato di trarne falsi con vincimenti e fake news. Il ri sultato, alla fine, è questo! In cinque anni non siamo stati capaci di coinvolgere l’intera famiglia degli iscritti e, in quanto ben difficilmente si può contattare chi si isola, ecco che molti diventano semplicemente... irraggiungibili.

Colleghi che nulla sanno e nulla fanno per tenersi al corrente, per sfruttare informazio ni ed opportunità. Molti tra questi (parlia

Il bello (si fa per dire, ovviamente) è che poi è da questo stesso mare magno emergo no critiche e giudizi avventati, aspirazioni e pretese impossibili, richieste di risolvere i singoli problemi personali, come se un ente pubblico come l’ONB potesse trasformarsi in un ufficio di collocamento oppure nello sfogatoio delle varie insoddisfazioni di tur

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Editoriale

no. In ogni caso siamo comunque certi che l’azione consentita all’Ordine di tutelare la professione, difenderne i diritti e le compe tenze, costruire un argine contro l’abusivi smo (e gli assalti portati dalle altre catego rie professionali), ampliare la formazione e le opportunità di inserimento professionale nella vasta gamma delle attività consentite ai biologi, sia stato portato avanti con risultati a dir poco sensazionali.

I fatti, si sa, sono opinioni testarde e nel “Libro Bian co” sono citati episodi con creti che si sono sviluppati e realizzati nel quinquennio appena trascorso. A dimo strazione che manchi ancora una generale e completa presa di coscienza, lo spirito di appartenenza alla categoria, la volontà di servirsi dell’Ordine come sostegno e non come una tassa da pagare per svolgere la professione, basta vedere quanta poca gente si sia recata alle urne al primo tur no, in regioni come la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, la Toscana, l’Emilia Romagna. Fanno eccezione la Sicilia e la Calabria, ov vero quel Meridione d’Italia che più si è ser

gli Ordini regionali costituiscono non solo un’opportunità, ma anche una responsabilità. Alla fine non ci saranno più alibi per chiunque

vito dell’ONB e dei suoi molteplici servizi. Certo non mancano giustificazioni storiche e sociali per spiegare questa divaricazione territoriale inerente la partecipazione dei colleghi al voto. Per troppo tempo l’inco municabilità tra ente nazionale e regioni del Nord è stata tollerata se non agevolata dalle vecchie classi dirigenti creando disincanto e sfiducia. I tempi però sono cambiati e oggi l’attività dell’Ordine si è am plificata aprendosi anche a coloro che se ne volevano servire pur non essendo in grado di farlo.

Da questo punto di vista, gli Ordini regionali costitui scono non solo un’opportu nità, ma anche una responsabilità. Alla fine non ci saranno più alibi per chiunque, né il parafulmine di una critica al “lontano centralismo dirigenziale”, alla prevalenza del la classe dirigente “sudista”, all’estraneità dei territori. Se la gente non vota significa che poco o niente ha capito della funzione dell’ONB e dei suoi benefici per la profes sione. Insomma, cari colleghi: diamoci una mossa. Svegliatevi!

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Editoriale

COVID , CASI STABILI SOTTO OSSERVAZIONE LE NUOVE SOTTOVARIANTI DI OMICRON

Stabili i nuovi casi, non preoccu panti le percentuali di occupa zione degli ospedali, in leggero aumento il numero dei morti: questo il quadro della situazione Covid in Italia alla fine di ottobre, nel terzo anno di pandemia. La convivenza col virus, segnata dalla progressiva eliminazione di tut te le limitazioni adottate nelle fasi più dram matiche dell’emergenza, non ha determinato pericolosi incrementi nei ricoveri e nei deces si. Molto spesso il contagio, quando avviene, non è neppure percepito come tale, scam biato per una banale influenza o un classico malanno di stagione: tanto che c’è chi, anche in seno alla comunità scientifica, ha proposto l’eliminazione del bollettino quotidiano con i dati relativi a contagi e morti.

Sempre utile, in ogni caso, dare un occhio al trend sintetizzato nell’ultimo monitoraggio settimanale del Ministero della Salute: «Si os serva una diminuzione dell’incidenza e una stabilizzazione della trasmissibilità sebbene al di sopra della soglia epidemica. L’impatto sugli ospedali continua a essere limitato con un lieve aumento nel tasso di occupazione dei posti letto nelle aree mediche e una tendenza alla stabilizzazione nel tasso di occupazione

dei posti letto in Terapia Intensiva. Si riba disce la necessità di continuare ad adottare le misure comportamentali individuali e col lettive previste e/o raccomandate, l’uso della mascherina, aereazione dei locali, igiene delle mani e ponendo attenzione alle situazioni di assembramento».

Non è ancora il caso, però, di festeggia re una volta per tutte la fine dell’emergenza. Dall’Ema, l’Agenzia europea dei medicinali, è arrivato l’avviso relativo a una nuova ondata in arrivo nelle prossime settimane. «Nuova onda ta legata a nuove sottovarianti di Omicron. La pandemia non è ancora finita», ha sottolineato il responsabile della strategia vaccinale dell’a genzia, Marco Cavaleri. «L’Ecdc prevede che la variante BQ1 e la sua sottovariante BQ1.1 diventeranno i ceppi dominanti da metà no vembre all’inizio di dicembre. Non si sa ancora se sarà più trasmissibile o causerà una malattia più grave rispetto alle varianti BA4 e BA5, ma quello che si sa è che ha una maggiore capaci tà di sfuggire all’immunità conferita dalla vac cinazione, dall’aver contratto il Covid o dagli anticorpi monoclonali disponibili». Il possibile argine, anche in questo caso, è rappresentato dai vaccini, anche per i bambini. «L’Ema - ha aggiunto Cavaleri - raccomanda di vaccinare

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Primo piano
La nuova premier, Meloni: “L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero Occidente. Non replicheremo quel modello”. Il punto sui vaccini
di Rino
Dazzo

principalmente i piccoli con malattie di base per proteggerli dal ricovero e dalla morte, ma la decisione sulla vaccinazione dei bambini spetta agli stati membri dell’Ue».

E a proposito di vaccinazioni, i tempi sono maturi per la quinta dose, di fatto il terzo ri chiamo del siero a consolidamento del ciclo protettivo di base che prevede due dosi. In una nota congiunta, ministero della Salute, Istitu to Superiore della Salute e Agenzia Italiana del Farmaco hanno fortemente raccomanda to la somministrazione dell’ulteriore dose di richiamo «in alcuni individui ritenuti fragili». La quinta dose può essere fatta sia con i vac cini a mRNA utilizzati nelle prime campagne vaccinali, sia con le loro versioni aggiornate alle varianti Omicron BA.1 e Omicron BA.4-5 ed è vivamente consigliata per individui con età uguale o superiore a 80 anni, ospiti delle strutture residenziali per anziani, persone di età uguale o superiore a 60 anni con fragilità motivata da patologie concomitanti o preesi stenti come alcune malattie respiratorie, car diocircolatorie, epatiche, cerebrovascolari, diabete, emoglobinopatie e altre patologie come fibrosi cistica, sindome di Down e grave obesità, oltre ai disabili gravi. Il richiamo si può ricevere trascorsi almeno 120 giorni dal richiamo precedente o dall’ultima infezione accertata da SARS-CoV-2.

Che i vaccini abbiano giocato un ruolo fon damentale nell’allentamento della pressione ospedaliera e nella prevenzione dei ricoveri è un dato incontrovertibile. Prosegue invece il dibattito sull’efficacia delle misure di conte

Ministero della Salute:

“Si osserva una diminu zione dell’incidenza e una stabilizzazione della trasmissibilità sebbene al di sopra della soglia epidemica. L’impatto sugli ospedali continua a essere limitato con un lieve aumento nel tasso di occupazione dei posti letto nelle aree mediche e una tendenza alla stabilizzazione nel tasso di occupazione dei posti letto in Terapia Intensiva”.

nimento e prevenzione messe in campo nelle prime fasi della pandemia, soprattutto dopo il discorso alla Camera del nuovo presiden te del Consiglio Giorgia Meloni: «L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero Occidente, arrivando a limitare fortemente le libertà fondamentali di persone e attività economiche, ma nonostante questo è tra gli stati che hanno registrato i peggiori dati in termini di mortalità e contagi», ha sottoline ato la premier. «Qualcosa, decisamente, non ha funzionato e dunque voglio dire fin d’o ra che non replicheremo in nessun caso quel modello». Informazione corretta, prevenzio ne e responsabilizzazione, secondo Meloni, le armi più efficaci per scongiurare nuovi picchi emergenziali.

Parole e concetti che hanno generato rea zioni nella comunità scientifica. «Il maggior numero di morti - ha fatto notare Andrea Cri santi, professore ordinario di microbiologia all’Università di Padova e neo senatore - si è verificato proprio in quelle regioni che non hanno adottato le necessarie misure restritti ve, negando la pericolosità del virus».

Al di là delle contrapposizioni politiche e alla luce anche dell’esperienza di altri paesi, appare chiaro che le risposte più efficaci sono state quelle che hanno saputo coniugare misu re di contenimento a efficaci opere di comuni cazione e responsabilizzazione. In tal senso, la capacità di prevenire le fake news e di operare una corretta informazione si configura come un’arma imprescindibile, non solo nella lotta contro il Covid.

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Primo piano
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“ CANCRO AL SENO NUOVO TRAGUARDO DELL’ISTITUTO PASCALE

Quando si parla di Istituto Nazio nale Tumori Fondazione Pascale, affiorano alla mente molti prima ti della ricerca. Non si smentisce neanche questa volta la struttura partenopea che ha di recente portato a segno un nuovo e importante risultato in uno studio sulla recidiva da carcinoma mammario. Un lavoro lungo e frutto di una serie altrettanto lunga di intuizioni e impegno che ha portato a scoprire che un farmaco usato per evitare la produzione degli estrogeni, aumenta significa tivamente la sopravvivenza libera da malattia in donne in pre-menopausa operate di carcino ma mammario rispetto allo standard finora uti lizzato. Il carcinoma mammario è la patologia tumorale più frequente tra le donne: nel 2021 ci sono state circa 55mila nuove diagnosi e cir ca 12.500 decessi. Un dato che può sembrare allarmante ma che in realtà nasconde grandi progressi e che il dottor Adriano Gravina - re sponsabile della Struttura Semplice Sperimen tazioni Cliniche di fase 1 dell’Istituto Pascale –ci spiega con chiarezza, prima di raccontarci i progressi dimostrati con il nuovo studio clinico da lui presentato di recente al congresso Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica).

Drottor Gravina, perché quel dato sui de

cessi non deve allarmare?

Per il cancro mammario la sopravvivenza a 5 anni è dell’88%; trattandosi di un tumore solido, è un dato rassicurante ed è frutto del perfezionamento delle terapie tradizionali e di quelle nuove studiate e testate di recente, come quelle di cui parleremo. Indubbiamente in questa patologia è la chirurgia a far la par te del leone, motivo per cui la prevenzione è fondamentale. Possiamo dire che circa il 50% delle pazienti che scoprono di avere un cancro alla mammella si salva grazie all’intervento, ma questo numero è potuto crescere grazie alle te rapie mediche e alla radioterapia che potenzia no i risultati ottenuti dalla chirurgia.

Tornando all’ultimo studio che riguarda proprio le terapie, qual è stato il punto di inizio?

Questa ricerca è partita nel 2004 e aveva lo scopo di comprendere gli eventuali effetti tos sici di un nuovo farmaco sperimentale, il Le trozolo, da usare in alternativa alla classica te rapia con Tamoxifene, usato per decenni come unico presidio medico per ridurre il rischio della recidiva nelle donne operate di cancro alla mammella. All’epoca erano già corposi i dati sull’efficacia e sulla tossicità del Letrozolo nella malattia metastatica nelle donne in meno pausa. Noi volevamo dimostrare l’efficacia del

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Adriano Gravina spiega lo studio su un farmaco che aumenta significativamente la sopravvivenza libera da malattia in donne in pre-menopausa operate di carcinoma mammario
Intervista
di Chiara Di Martino

Letrozolo anche nell’evitare la recidiva dopo l’intervento, capire se questo effetto era possi bile anche nelle donne giovani (inducendo la menopausa), capire se era dovuto ad una reale diminuzione degli ormoni circolanti, e studiare se fosse stato possibile evitare uno degli effetti collaterali più importanti, nello specifico il de pauperamento dell’osso e, quindi, la possibile induzione dell’osteoporosi. Per questo moti vo un gruppo di donne ha ricevuto la terapia standard di quel momento (il Tamoxifene), un gruppo il nuovo farmaco (il Letrozolo) ed un terzo gruppo il nuovo farmaco insieme con l’A cido Zoledronico somministrato ogni sei mesi, per far in modo che l’osso si rinforzasse, non con lo scopo di eliminare il tumore. All’inizio lo studio ha visto, quindi, reclutare donne di tutte le età.

E poi?

Una volta dimostrato che il nuovo farmaco induceva una reale riduzione degli ormoni cir colanti e che l’Acido Zoledronico contribuiva ad evitare l’insorgenza di osteoporosi, abbiamo puntato l’attenzione solo sulle donne più gio vani, chiedendoci: “il Letrozolo dà vantaggi anche in donne giovani nell’evitare il ritorno della malattia?” In questa fase lo studio da mo nocentrico è diventato nazionale, coinvolgendo 16 istituti, coordinati dal Pascale, arruolando in totale, fino ad agosto 2015, un numero di don ne congruo per avere risultati significativi, in tutto 1065.

E cosa avete osservato?

A 5 anni di follow-up la sinergia garantita dal braccio per così dire ultrasperimentale (che prevedeva la somministrazione di Letrozolo e di Acido Zoledronico) era superiore al tratta mento standard, lasciando trapelare un ruolo anti-tumorale anche da parte dell’Acido Zole dronico. A 8 anni di follow-up, invece, siamo arrivati alla conclusione che anche il Letrozolo da solo dà risultati statisticamente significativi nell’evitare che il tumore ritorni. Vuol dire che è la molecola in sé a funzionare. È stato dunque acclarato che anche nella pratica clinica con maggiore consapevolezza e trasparenza si possa non prescrivere il Letrozolo anche alle donne giovani, inducendo, però la menopausa. Solo in donne in cui era espresso anche il c-erb-B2 non si è vista alcuna differenza.

Ha parlato di menopausa da indurre necessariamente per la somministrazione della terapia. È uno stato permanente?

Si chiama HOBOE e ha visto la partecipazione di 1065 pazienti, quasi tutte al di sotto dei 50 anni, seguite presso 16 centri italiani, centri coordinati dalla Struttura Complessa di Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto dei tumori di Napoli, diretta da Franco Perrone. Uno step importante, che conferma che il rischio di recidiva in donne in pre-menopausa, affette da carcinoma mamma rio operato, si riduce significativamente con un farmaco sperimentale (Letrozolo) rispetto allo standard.

Nella stragrande maggioranza dei casi, so prattutto per le donne che vanno incontro alla malattia quando sono molto giovani, la meno pausa indotta è reversibile. Adesso si fa par ticolare attenzione a questo aspetto, per cui, anche quando si renda necessaria la chemiote rapia preventiva, si induce prima la menopau sa, mettendo a riposo le ovaie ed evitando che i farmaci possano rendere le donne sterili. In al cuni casi, poi, si ricorre alla conservazione de gli ovuli prima di iniziare qualsiasi trattamento. Questo anche perché è stato scientificamente provato che chi riesce a portare avanti una gra vidanza dopo un carcinoma mammario appare persino più protetta dal ritorno della malattia.

Lo studio ora si ferma?

Certamente faremo una valutazione a 10 anni, ma, secondo le nostre stime, non otterre mo più di quanto abbiamo già osservato: che, comunque, è un risultato fondamentale. Ora la comunità scientifica si sta concentrando soprat tutto su nuove classi di farmaci – gli inibitori di cicline – che, in associazione con gli inibito ri delle aromatasi (di cui il Letrozolo fa parte), possano ancor di più incidere sulla sopravviven za delle pazienti libera da malattie.

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Intervista
© ORION PRODUCTION/shutterstock.com Adriano Gravina.

“ MALATTIE DA PRIONI MESSO A FUOCO UN NUOVO BERSAGLIO TERAPEUTICO

Uno studio della SISSA di Trieste e dell’Università Vanvitelli di Caser ta approfondisce le dinamiche che inducono le proteine prioniche ad assumere la forma patologica re sponsabile di gravi malattie neurodegenerative come l’encefalopatia bovina spongiforme, il cosiddetto “morbo della mucca pazza”.

Per comprendere il meccanismo molecolare che regola il cambiamento della struttura del prione dalla forma fisiologica a quella patolo gica, i ricercatori hanno effettuato sofisticati esperimenti di risonanza magnetica nucleare multidimensionali. Grazie ad approcci speri mentali multidisciplinari che spaziano dalla biologia strutturale alla biologia cellulare, si è arrivati a evidenziare una struttura della pro teina prionica umana che è un intermedio tra la forma cellulare fisiologica e quella patologica.

Che cosa sono i prioni e come agiscono?

I prioni sono agenti biologici autoreplicanti composti esclusivamente da proteine. La pre senza di prioni nei cervelli di diverse specie di mammifero, inclusi gli umani, definisce una famiglia molto eterogenea di malattie neurode generative chiamate malattie prioniche. I prio ni derivano dal cambiamento conformazionale della proteina precursore: la proteinaprionica.

La proteina prionica è la forma fisiologica che è in grado di partecipare a diverse funzioni biologiche quali, tra le altre la neuritogenesi e modulazione dei recettori NMDA.Il meccani smo di conversione conformazionale inizia con l’interazione diretta tra prioni e proteina prio nica. I prioni hanno una conformazione quasi esclusivamente composta da foglietti ripiegati e forzano la conformazione prevalentemente ad alfa elica della proteina prionica ad assu merne una anch’essa a foglietto ripiegato. Così facendo, i prioni sono molto aggregati e difatti possono essere presenti nel tessuto nervoso af fetto come aggregati amiloidei. I prioni agisco no a livello delle cellule nervose, neuroni, con diversi meccanismi patologici che causano la morte delle cellule stesse.

Su cosa si concentra la vostra ricerca e a quali prospettive terapeutiche apre?

La nostra ricerca congiunta è volta a iden tificare strutture intermedie della proteina prionica prima di convertire completamente a prione. Così facendo, potremmo utilizzare queste strutture come nuovi target terapeutici per la caratterizzazione di farmaci per curare le malattie prioniche. Inoltre, il nostro studio apre nuove prospettive per identificare le basi molecolari di altre malattie fondate, come il

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Intervista ai professori Roberto Fattorusso (Seconda Università di Napoli) e Giuseppe Legname (SISSA di Trieste) e autori della ricerca pubblicata sulla rivista Chemical Science
Intervista
di Ester Trevisan

prione, sul cattivo ripiegamento (in inglese fol ding) di proteine.

Quali strumenti e tecniche sono state im piegate?

Abbiamo utilizzato soprattutto metodolo gie avanzate di Risonanza Magnetica Nucleare. Questa tecnica, che necessita di strumenti mol to costosi chiamati spettrometri NMR, utilizza le proprietà magnetiche del nucleo degli atomi per fornire informazioni molto accurate sulla struttura e sulla dinamica di molecole anche molto grandi e complesse, quali le proteine. Abbiamo inoltre impiegato metodologie di di croismo circolare e di spettroscopia di fluore scenza.

I prioni investono anche il campo on cologico. In quali tumori sono coinvolte queste proteine? Gli esiti del vostro studio possono trovare applicazione anche in que sto ambito?

In anni recenti molti studi su proteine coin volte in diverse forme di cancro hanno eviden ziato una natura cosiddetta prion-like. In altre parole, queste proteine, completamente diver se dalla proteina prionica, esibiscono le stesse caratteristiche prioniche come il cambiamento conformazionale, l’accumulo come aggrega ti proteici amiloidei nei tessuti interessati e la possibilità di propagarsi indefinitamente finché sia presente la proteina precursore. Questo è il caso per esempio della proteina p53.Aggre gati di p53 sono stati individuati in biopsie di tumore della mammella e del carcinoma baso cellulare (BCC).

“I prioni sono agenti biologici autoreplicanti composti esclusivamente da proteine. La presenza di prioni nei cervelli di diverse specie di mammifero, inclusi gli umani, definisce una famiglia molto eterogenea di malattie neurodegene rative chiamate malattie prioniche.

Roberto Fattorusso

Roberto Fat torusso è nato a Napoli nel 1969 e ha conseguito nel 1992 la laurea in Chimica pres so l’Università “Federico II” di Napoli dove nel 1996 ha conse guito il titolo di dottore di ricerca in Scienze Chimiche. Dal 1997 al 1998 ha lavorato in qualità di As sistente Scientifico al Politecnico Federale di Zurigo (ETH) presso il gruppo del Prof. Wüthrich, che ha ricevuto il premio Nobel per la Chimica nel 2002. Dal 2007 è Pro fessore Ordinario di Chimica Generale e Inorganica presso il Dipartimento di Scien ze e Tecnologie Ambientali, Biologiche e Farmaceutiche dell’Università della Cam pania “Luigi Vanvitelli”, dove ha fondato un gruppo di ricerca che utilizza metodologie di Risonanza Magnetica Nucleare per de terminare la struttura di proteine.

Giuseppe Legname

G iuseppe Le gname si è laureato in Bio logia nel 1988 presso l’Univer sità degli Studi di Milano e in seguito ha otte nuto la specia lizzazione in Bio tecnologia nella stessa Universi tà. Ha poi conseguito il dottorato di ricerca (D.Phil.) nel 1997 presso la Warwick Univer sity, in Inghilterra. Dopo una carriera iniziale nell’industria farmaceutica nell’ambito dello sviluppo di molecole immunoterapiche, è tornato alla ricerca di base, prima in In ghilterra presso il Medical Research Coun cil, poi negli USA, dove ha lavorato presso la University of California, San Francisco (UCSF) sotto la direzione del premio Nobel 1997 per la Medicina Stanley B Prusiner. Dal 2006 è dapprima Professore Associato in Fi siologia e dal 2018 Professore Ordinario in Biochimica presso la SISSA di Trieste.

11GdB | Ottobre 2022 ”
Intervista
© Gorodenkoff/shutterstock.com
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GUIDO PUTINGNANO, A SOLI 20 ANNI “ECCELLENZA ITALIANA” NELLA BIOLOGIA SINTETICA

Il premio, che ha un comitato italiano e uno statunitense, è nato nove anni fa per raccontare l’Italia del merito e del talento. Il giovane talento pugliese studia al Politecnico di Milano

Ha solo vent’anni ma è già una “Ec cellenza Italiana” e molto altro. Guido Putignano, talentuoso studente tarantino di ingegneria biomedica al Politecnico di Mila no, ha collezionato numerosi e importanti ri conoscimenti a livello nazionale e internazio nale, l’ultimo dei quali ricevuto il 14 ottobre in occasione dell’ultima edizione del “Premio Eccellenza Italiana”, svoltasi a Roma e in con temporanea a Washington DC. Questo Pre mio è nato nel 2013 per raccontare l’Italia del merito e del talento e Putignano l’ha ricevuto con la motivazione “Un’eccellenza degli studi e della ricerca, uno straordinario punto luce per il Paese chiamato a fare costellazione”. Guido si occupa di biologia sintetica con ap plicazioni in longevity e drug discovery. De finisce la sua missione quella di combattere le malattie croniche attraverso la medicina di precisione e auspica che tanti giovani si uni scano a questo suo progetto perché così tutti potrebbero beneficiarne.

Guido, sei un giovane di belle speranze. Ma tu con quali aggettivi ti descriveresti?

Molto spesso quando si vede una perso na raggiungere alti livelli si pensa che questo individuo sia geniale, ma oltre all’intelligen

za credo sia molto importante il lavoro e la determinazione. Penso di essere una persona creativa: ogni volta che c’è un problema mi piace pensare a come risolverlo. Quando ero al liceo, avevo un quaderno in cui scrivevo un’invenzione al giorno come soluzione ad un problema in cui mi capitava di imbatter mi. Per esempio, se vedevo un problema sulla strada, provavo a inventare un’app in grado di risolverlo. La creatività però è legata alla conoscenza, se non si conosce un fenomeno è impossibile risolverlo. Un’altra caratteristica che credo mi appartenga è l’altruismo.

In che senso?

Nel lavoro mi voglio impegnare nel fare quello che mi piace ma perseguendo il bene per gli altri. Lo stesso mi capita con i miei amici che si trovano in difficoltà, mi piace aiu tare chi ha un problema a risolverlo.

Quando hai iniziato ad appassionarti al mondo scientifico e all’ingegneria biomedica?

Quando avevo tredici anni, a mia nonna è stato diagnosticato il parkinson e subito mi sono sentito del tutto impotente. È stato da questo momento che mi è venuta voglia di provare a cambiare le cose. Esistono ma lattie croniche per le quali ancora non esiste

12 GdB | Ottobre 2022
Intervista
di Sara Bovio

una cura e penso che ciò derivi dal fatto che si tratta di patologie molto complesse oltre che difficili da risolvere. Credo anche che l’intel ligenza artificiale possa avere una potenza di calcolo tale da aiutare gli uomini a risolvere questi problemi: da qui è iniziato il mio per corso.

Qual è il principale obiettivo delle tue ri cerche?

Lo scopo principale è utilizzare metodi computazionali per risolvere problemi biolo gici. Ritengo anche che la biologia possa esse re usata come tecnologia.

Che cosa significa?

Penso che ogni elemento biologico sia costituito da piccoli pezzi building blocks e quindi è fondamentale comprendere come queste unità funzionano per costruire qualco sa di nuovo. Se immaginiamo per esempio i palazzi, essi sono fatti tutti dagli stessi mattoni ma il modo in cui sono messi i mattoni cambia la forma, la struttura e la funzionalità di ogni edificio. Lo stesso accade a livello biologico, per esempio, con le proteine che singolarmen te hanno caratteristiche particolari, tipiche, ma se messe insieme acquistano proprietà diverse. Comprendere quindi come poterle unire in maniera ingegneristica può dare un vantaggio anche dal punto di vista delle cure mediche. La biologia è quindi usata per risol vere il problema, ecco perché tecnologia.

Ti occupi di biologia sintetica e affermi che questa disciplina rivoluzionerà il nostro modo di approcciare la scienza. Che cosa intendi?

Guido Putignano è rappresentante nazionale dell’AI Youth Council al World Economic Forum, Fellow della Clinton Foundation e fondatore di Yealthy specializzatosi in Drug Discovery. L’anno scorso ha ricevuto il premio “Italia Giovane” ed è stato selezionato come “persona più influente in Italia per gli studi di Medicina e Scienze Biologiche al di sotto dei 25 anni” da Nova in collaborazione con l’Università Bocconi di Milano. Attualmente è a Zurigo nell’ambito del progetto S.E.M.P. (Swiss Exchange Mobility Porgram) – Erasmus e di recente ha relazionato sulle sue ricerche a Cambridge come Amgen Scholar.

Diciamo che ogni volta che l’ingegneria è riuscita a entrare in un modo prima inesplora to, molti progressi sono nati. La biologia sin tetica è utilizzata in diversi campi. George M. Church, genetista di Harvard lavora affinché un giorno i dinosauri possano tornare a essere presenti sulla Terra. Anche in campo botanico ci sono applicazioni per cambiare i colori, le sfumature e i prodotti delle piante. A me però interessa l’ambito farmaceutico e utilizzare la biologica sintetica per trovare, attraverso un sistema ingegneristico, terapie personalizzate sui singoli pazienti.

Quali traguardi ti piacerebbe raggiungere?

Più che un traguardo mi piace pensare al raggiungimento di una missione, quella di porre fine alle malattie croniche attraverso la medicina di precisione. In futuro mi piace rebbe molto lavorare nel campo della living medicine utilizzando organismi viventi come medicinali.

Visto il tuo percorso, quale mentalità secondo te devono adottare i giovani che si af facciano sul mondo del lavoro?

Sicuramente è importante l’umiltà, l’u miltà di capire che si è al lavoro anche per dare qualcosa agli altri, di essere consapevoli che non si è mai arrivati e da ciò cercare di comprendere il modo con cui è possibile mi gliorarsi. Nel mio caso, più che cercare delle opportunità di lavoro me le sono create: far sì che gli altri si uniscano alla tua missione può permettere di crearsi delle opportunità di lavoro.

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Intervista
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Le donne vive dopo la diagnosi di tu more sono aumentate in Italia del 34% in dieci anni, passando da 1.433.058 nel 2010 a 1.922.086 nel 2020. Sono i dati emersi nel corso del Congresso Nazionale Aiom (associazione italia na di Oncologia Medica) tenutosi a Roma, che ha scattato una fotografia delle neoplasie fem minili. Terapie efficaci, ma anche programmi di screening (soprattutto nel carcinoma della mammella) stanno evidenziando risultati im portanti, consentendo di vivere sempre più a lungo, anche quando la malattia viene scoperta in una fase avanzata. Per quanto riguarda il car cinoma della mammella, in sei anni, dal 2015 al 2021, la mortalità è scesa quasi del 7%. Passi avanti nell’innovazione terapeutica si registrano anche per il cancro dell’ovaio, per il quale non sono disponibili programmi di prevenzione se condaria ma i decessi sono scesi del 9%.

Sono però necessarie campagne mirate per tumori che col tempo stanno affermandosi sem pre più come femminili in quanto strettamente connessi al fumo di sigaretta, quali quelli della ve scica (+5,6%) e del polmone (+5%). A consen tire una significativa diminuzione della mortalità per tumori “tipici” femminili come il carcinoma mammario, che solo nel 2020 ha colpito in Italia circa 55mila donne, sono terapie a bersaglio molecolare efficaci anche nelle for me più aggressive come quelle triplo nega

tive, ha spiegato Saverio Cinieri, Presidente AIOM. La ricerca sta ridefinendo il trattamento per circa metà delle pazienti affette da questa ne oplasia, ovvero quelle con bassi livelli di espres sione della proteina HER2. Al fine di sensibiliz zare le donne su queste patologie e di informarle sulla possibilità di avere accesso agli screening (quando presenti) è stata lanciata la campagna di comunicazione “Neoplasiadonna”; inoltre è stata realizzata una guida sulla prevenzione che è stata distribuita nelle maggiori città italiane, sfor zi cui bisogna aggiungere le molte attività social e a breve anche uno spot.

Domenica Lorusso, professore associato di Ostetricia e Ginecologia e responsabile Pro grammazione Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario A.Gemelli di Roma, ha spiegato come oggi in Italia quasi 50mila donne convivano con una diagnosi di tumore dell’ovaio; il 70% delle pazienti con malattia in stadio avan zato va incontro a recidiva entro due anni. Per loro esistono terapie di mantenimento in prima linea, capaci di ottenere remissioni a lungo ter mine. Fondamentale è la diagnosi precoce: per questo il consiglio a tutte le donne è quello di mettere in agenda almeno una visita all’anno

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Ma gli oncologi chiedono una maggiore sensibilizzazione di Domenico TUMORI FEMMINILI SOPRAVVIVENZA A ©
Nedelcu
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dal ginecologo e, se presentano fattori di rischio, anche di più. Rossana Berardi, ordinario di On cologia all’Università Politecnica delle Marche, si è focalizzata invece sul tumore del polmone, «una neoplasia sempre più “rosa” per la diffusio ne dell’abitudine del fumo di sigaretta in questa fascia di popolazione. È importante indirizzare messaggi di prevenzione mirati per salvare più vite», ha detto.

I principali tumori del tratto gastro-intestina le colpiscono ogni anno 78mila uomini e donne in Italia. Nello specifico si registrano 43.700 casi di tumore del colon-retto; 14.500 allo stomaco; 14.300 al pancreas e 5.400 colangiocarcinomi. Malattie ancora troppo spesso diagnosticate in maniera tardiva. L’associazione italiana di Onco logia Medica (Aiom) ha perciò deciso di lanciare una nuova campagna nazionale: “Qualità di vita nel Paziente con Neoplasia Avanzata nei Tumori Gastro-Intestinali”. Saverio Cinieri, presidente nazionale Aiom, ha commentato: «Vogliamo lan ciare un messaggio di speranza ai pazienti colpiti dalle forme più gravi di tumore gastro-intestinale. Sono un gruppo eterogeneo di malattie che pre sentano tassi di sopravvivenza molto diversi tra di loro. Per il colon-retto a cin que anni dalla

Per quanto riguarda il carcinoma della mammel la, in sei anni, dal 2015 al 2021, la mortalità è scesa quasi del 7%. Passi avanti nell’innovazione terapeu tica si registrano anche per il cancro dell’ovaio, per il quale non sono disponibili programmi di prevenzione secondaria ma i decessi sono scesi del 9%. Sono però neces sarie campagne mirate per tumori che col tempo stanno affermandosi sem pre più come femminili in quanto strettamente con nessi al fumo di sigaretta, quali quelli della vescica (+5,6%) e del polmone (+5%).

diagnosi è vivo il 65% dei malati, mentre per lo stomaco il dato scende al 30%. Per il colangio carcinoma si attesta al 15% e per il pancreas è di poco superiore al 10%». Nicola Silvestris, mem bro del Consiglio direttivo Aiom, spiega quale sarà la strategia della campagna: «Attraverso i social e il web illustreremo ai pazienti le princi pali novità diagnostico-terapeutiche. Ribadiremo inoltre l’importanza di gestire le quattro neopla sie in stadio avanzato solo in centri di riferimento e che garantiscano un reale approccio multidisci plinare». Gli fa eco Giordano Beretta, presidente di Fondazione Aiom: «Come sempre in oncolo gia bisogna puntare sulle diagnosi precoci e le te rapie efficaci. Solo per il tumore del colon-retto sono previsti programmi di screening nazionali per tutti gli uomini e le donne con più di 50 anni. Per le altre patologie invece non esistono esami di prevenzione secondaria su una popolazione target. Anzi sono malattie oncologiche silenti e che tendono a comparire con sintomi evidenti quando ormai è tardi. La ricerca scientifica ha messo a punto, nel corso degli ultimi anni, dei trattamenti chemioterapici innovativi che stanno migliorando progressivamente le opportunità di cura e aumentando l’aspettativa di vita».

Oltre il 30% di tutti i carcinomi solidi è ricon ducibile alla dieta. Sulle neoplasie dell’apparato digerente influiscono altri fattori di rischio come obesità o eccesso di peso, scarsa attività fisica, fumo di sigaretta e abuso di bevande alcoliche. Possono giocare un ruolo nefasto anche alcune malattie cro niche, infezioni o specifiche mutazioni genetiche. Bisogna ricordare che in ambito oncologi co la dieta è l’unico fattore che può sia prevenire che favorire l’insorgenza di un tu more.

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sulla prevenzione: al via diverse campagne informative Esposito FEMMINILI +34% IN 10 ANNI
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Il cancro mam mario è il tu more più fre quentemente diagnosticato nelle donne in tutto il mondo. A causa del la sua natura etero genea, è classificato in diversi sottotipi:1,2 1) Re cettore estrogeno (ER)-posi tivo, esprimente i biomarker ER-alfa; 2) Fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2) non esprimente né l’ER né il recettore del progesterone (PR); 3) Cancro mammario triplo negativo (TNBC) che è invece è caratterizzato dalla perdita di espressione di ER, Her2 e PR. Il TNBC, rappre senta uno dei sottotipi più ag gressivi, in aggiunta esso non è responsivo agli antagonisti del recettore degli estrogeni e alle terapie con anticorpi Her2 e resiste alla sua chemioterapia standard.3 Questo sottotipo viene rilevato nel 10-20% dei casi ed è caratterizzato da si gnificativa attività proliferati va e tasso di crescita, decorso clinico aggressivo, metastasi precoci e prognosi negativa.4 Va notato che il TNBC non è omogeneo, bensì eterogeneo come dimostrato dagli studi di ricerca genetica. Secon do i risultati dell’analisi del registro tedesco dei tumori, è stato riscontrato che nelle donne con diagnosi di can cro al seno durante 10 anni di osservazione, sono state rilevate recidive locoregio nali nell’8% e metastasi a distanza nell’11% delle pazienti. La frequenza di recidiva e metastasi nel TNBC era del 23%, il che ha permesso di iden tificare questo sottotipo come un importante

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I FITOCANNABINOIDI NEL TUMORE MAMMARIO

fattore di rischio.5 Studi successivi, hanno confermato che le pazienti affette da TNBC sviluppano molte metastasi, breve ricorrenza dopo il trattamento e presentano un tasso di sopravvivenza più basso rispetto alle pazienti affette da altri sottotipi di cancro. Pertanto, si è alla continua ricerca di nuove terapie per il trattamento del TNBC.

Incoraggianti risultati sono stati ottenuti da studi pre-clinici e clinici sull’attività anti tumorale dei cannabinoidi (CB), i principali costituenti della Cannabis Sativa, in molti tipi di cancro (leucemia, linfoma, glioblastoma, cancro colon-rettale, il cancro pancreatico, cancro cervicale e prostatico) incluso quello mammario. La Cannabis è stata a lungo uti lizzata per la cura e la ricreazione in diverse regioni del mondo. Sono stati isolati da questa pianta, oltre 400 costituenti bioattivi, inclusi più di 100 fitocannabinoidi di cui il cannabi diolo non psicoattivo (CBD) e il Δ9-tetraid rocannabinolo psicoattivo ( Δ 9-THC psico attivo) sono i costituenti principali e anche quelli più ampiamente studiati.

I CB esercitano i loro effetti attraverso il si stema endocannabinoide (ECS) che compren de i recettori dei cannabinoidi (CB1, CB2), i ligandi endogeni e gli enzimi metabolizzanti. I CB sono utilizzati anche nel trattamento palliativo dei malati oncologici, alleviando i sintomi associati al tumore (tra cui nausea, anoressia e dolore neuropatico).6 Allo stato attuale, gli studi clinici sugli effetti della CBs

da Cannabis sativa nei pazienti oncologici sono pochi. Studi clinici (disponibili pres so: https://www.cannabis-med.org/studies/ study.php) effettuati per monitorare gli effetti di CBs in pazienti con diversi stadi avanzati di cancro, trattati con un cannabinoide spray (Sativex ® contenente THC e CBD, con un rapporto di 27:25 mg/mL), hanno mostrato che questa preparazione è ben tollerata e alle via il dolore nel ≤60% dei pazienti che soffro no di dolore severo.7 Gli effetti antiemetici, orexigenici e ansiolitici della CBS migliorano la qualità della vita per i pazienti oncologici. Altri studi clinici, hanno indicato che l’appli cazione del dronabinol, sintetico della CBs e del nabilone sono soltanto moderatamente efficaci per alleviare il dolore da cancro, ma migliorano la nausea indotta dalla chemio terapia e l’anoressia nella maggior parte dei pazienti. In particolare, la capacità della CBS sintetica di ridurre l’emesi ritardata dopo la chemioterapia è paragonabile a quella degli antagonisti del recettore della serotonina. Uno studio ha dimostrato che una combina zione di farmaci CB con oppiacei ha ridotto il dolore cronico nel ~27% dei pazienti trat tati con analgesici, ossicodone o morfina, senza effetti avversi gravi.8 Per raggiungere una significativa riduzione della dipendenza da oppioidi e ottenere una riduzione dell’uso di farmaci da prescrizione per il dolore e il malessere correlato al cancro, potrebbe es sere presa in considerazione un’applicazione

Va notato che il TNBC non è omogeneo, bensì etero geneo come dimostrato dagli studi di ricerca genetica. Secondo i risultati dell’analisi del registro tedesco dei tumori, è stato riscontrato che nelle donne con diagnosi di cancro al seno durante 10 anni di osservazione, sono state rilevate recidi ve locoregionali nell’8% e metastasi a distanza nell’11% delle pazienti.

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L’attività antitumorale dei cannabinoidi nel trattamento del cancro mammario triplo negativo (TNBC)
di Sabrina Bimonte e Giuseppe Palma

Salute

I CB bloccano la progres sione del ciclo cellulare e la crescita cellulare e inducono l’apoptosi delle cellule tumorali inibendo le vie di segnalazione pro-oncogeniche attive costitutive, come la via della chinasi regolata dal segnale extracellulare. Inoltre, riducono l’angiogenesi e le metastasi tumorali nei modelli animali di cancro mammario.

concomitante di CBS e oppioidi. Il CBD de riva dalla decarbossilazione dell’acido canna bidiolico (CBDA). Entrambi, rappresentano i principali fito-cannabinoidi usati a livello in dustriale.9 ll THCA (o acido tetraidrocanna binolico) funge da precursore biosintetico del THC. Tutti i ceppi ad alto contenuto di THC presentano alte concentrazioni di questa mo lecola prima di subire la decarbossilazione È noto, che gli effetti dei CB sulle vie di segna lazione nelle cellule tumorali, sono conferiti tramite recettori CB accoppiati a proteine G (CB-R), CB1-R e CB2-R, ma anche tramite al tri recettori e in modo indipendente dal recet tore. Il THC è un agonista parziale di CB1-R e CB2-R. Il CBD è un agonista inverso per entrambi. Nel cancro mammario, l’espressio ne di CB1-R è moderata, ma l’espressione di CB2-R è alta, il che è correlato all’aggressività del tumore. I CB bloccano la progressione del ciclo cellulare e la crescita cellulare e induco no l’apoptosi delle cellule tumorali inibendo le vie di segnalazione pro-oncogeniche attive costitutive, come la via della chinasi regolata dal segnale extracellulare. Inoltre, riducono l’angiogenesi e le metastasi tumorali nei mo delli animali di cancro mammario.

I CB non sono attivi solo contro i recetto ri degli estrogeni positivi, ma anche contro le cellule di cancro al seno resistenti agli estro geni. È noto che le cellule TNBC esprimono fortemente i marcatori basali, la citocherati na 5/6 ed il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR). Gli inibitori dell’EGFR, sono stati utilizzati per il trattamento di molti tumori solidi, e inevitabilmente falliscono a causa dello sviluppo della resistenza ai far maci.10,11,12 Dati sperimentali dimostrano che il CBD inibisce la crescita tumorale e l’invasività delle cellule di carcinoma mam mario triplo negativo, MDA-MB-231 e MDAMB-436, sia in vitro che in vivo, attraverso la regolazione di diversi meccanismi molecolari. Specificamente è stato dimostrato che il CBD inibisce l’invasività delle cellule di carcinoma mammario triplo negativo, MDA-MB-231 e MDA-MB-436, tramite sotto-regolazione dell’inibitore del legame del DNA 1 (ID-1), un regolatore trascrizionale, che stimola la metastasi del cancro mammario.13 In un mo dello murino di carcinoma mammario avanza to con metastasi polmonari, il CBD ha ridotto il grado di metastasi riducendo l’ID-1.14 Tut

tavia, il CBD ha causato solo un moderato au mento della sopravvivenza in questo modello. Inoltre è stato dimostrato, che il CBD inibi sce la crescita del tumore mammario triplo negativo in un modello murino 4T1.2, in cui il volume ed il peso del tumore si sono note volmente ridotti in seguito al trattamento con CBD, tramite un meccanismo di regolazione coinvolgente vari geni. 15

Similarmente, il CBDA previene la migra zione delle cellule di carcinoma mammario triplo negativo ,MDA-MB-231, tramite l’at tivazione di CB2-R modulando l’espressione e l’attività della cicloossigenasi 2 (COX-2) e l’inibizione della proteina chinasi A cAM P-dipendente, attraverso l’attivazione della guanosintrifosfato (GTP)asi, Rat sarcoma virus (Ras) membro omologo della famiglia A (RhoA) e provocando anche una sotto-re golazione del potenziatore della metastasi del cancro mammario ID-1.16 Non sono sta ti pubblicati ancora dati, circa l’efficacia an titumorale del CBDA in modelli animali di cancro mammario. Il THC ha effetti pro-a poptotici in un certo numero di linee cellu lari del cancro mammario (EVSA-T, MDAMB-231, MDA-MB-468, SKBR-3, MCF-7 e T-47D), riducendo la progressione del ciclo cellulare e inducendo l’apoptosi nelle sud dette linee cellulari. Inoltre i CBs sono favo revoli per le terapie antitumorali, in quanto sono potenti inibitori del processo infiam matorio, principalmente tramite l’attivazio ne di CB2-R. Come dimostrato nelle cellule di cancro mammario ormone dipendente, MCF-7, e cancro mammario triplo negativo, MDA-MB-231, il THC sopprime la risposta T helper (Th)1 mediata dalle cellule e mi gliora, la secrezione di citochine associata a Th2. Inoltre, il THC impedisce l’attivazione di vie di segnalazione infiammatorie, come il trasduttore del fattore nucleare- κ B (NF-kB), il signaling della Chinasi proteica attivata dal mitogeno (MAPK) e della chinasi Janus (JAK) e l’attivatore delle vie di trascrizione (STAT) nelle cellule immunitarie.17 Pertan to, i CBs possono rappresentare una poten te opzione di trattamento contro i sottotipi del cancro mammario accompagnati da una forte infiammazione, nonché contro i distur bi infiammatori non maligni.

Gli studi futuri sulla cannabis do vrebbero concentrarsi maggiormente sul

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dosaggio, sulla combinazione di farmaci e sulle vie di somministrazione. Ciò ge nererà prove più consistenti per l’uso di questa molecola nei pazienti oncologici. Allo stato attuale, gli studi clinici sugli ef fetti della CBs da Cannabis sativa nei pa zienti oncologici affetti da TNBC, ed altri tipi di tumore, sono rari. Il CBD è stato studiato come agente antitumorale in base alla sua attività in vitro e in vivo contro le cellule tumorali. D’altra parte, il THC è stato applicato, per i suoi preziosi effet ti, nelle cure palliative di pazienti onco logici a stadi avanzati. Tuttavia, non tutti i meccanismi molecolari attraverso i quali i CB esercitano attività antitumorali, nei vari tipi di cancro, incluse il TNBC, sono completamente chiariti. Con un numero crescente di cambiamenti legali nei diversi paesi che ora consentono ai pazienti di assu mere i CBs per la gestione dei sintomi cor relati al cancro, potranno essere condotti in futuro ulteriori studi pre-clinici e nuovi stu di clinici, che miglioreranno la conoscenza degli effetti antitumorali dei CBs nel TNBC e negli altri tipi di cancro.

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Il THC ha effetti pro-a poptotici in un certo numero di linee cellulari del cancro mammario (EVSA-T, MDA-MB-231, MDA-MB-468, SKBR-3, MCF-7 e T-47D), riducendo la progressione del ciclo cellulare e inducendo l’apoptosi nelle suddette linee cellulari. Inoltre i CBs sono favorevoli per le terapie antitu morali, in quanto sono potenti inibitori del processo infiammatorio, principalmente tramite l’attivazione di CB2-R.

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RIPARARE IL DNA “SPAZZATURA” PER RITARDARE O TRATTARE

I DISTURBI NEUROLOGICI

Considerato, fino a pochi anni fa, una parte non essenziale del genoma, oggi è al centro di ricerche scientifiche che lo descrivono come un utile terreno da esplorare a fini terapeutici

Le ultime scoperte sul DNA “spazza tura” aprono la strada allo sviluppo di nuove terapie per i disturbi neu rologici: un gruppo di scienziati dell’Università inglese di Sheffield ha dimostrato che la riparazione delle sue rot ture ha implicazioni fondamentali sulla com parsa e progressione di malattie neurologiche molto diffuse come la demenza, l’Alzheimer e la malattia del motoneurone.

Fino a pochi anni fa il DNA “spazzatura”, o Junk DNA, era considerato una parte del genoma non essenziale poiché si pensava non avesse alcun ruolo funzionale nelle attività biologiche della cellula. Appare invece ormai certo, come indicato da numerosi studi, che il DNA “spazzatura”, circa il 98% del genoma umano, rappresenta tutt’altro che una porzio ne inutile, ma un nuovo terreno da esplora re. Da recenti ricerche è risultato, infatti, che esso contiene regioni molto importanti per la regolazione e il funzionamento dei geni stessi tanto che mutazioni in queste aree del geno ma possono avere conseguenze deleterie per l’organismo. È stato dimostrato per esempio che il DNA spazzatura può avere un peso nel lo sviluppo del cancro ed è coinvolto nell’at tivazione e nella funzionalità delle cellule im munitarie.

Ora, secondo quanto emerso da un nuovo studio dell’Istituto di Neuroscienze e dell’He althy Lifespan Institute dell’Università di

Sheffield, il DNA spazzatura è molto più vul nerabile alle rotture da danno genomico os sidativo di quanto si pensasse in precedenza e ciò ha implicazioni vitali per lo sviluppo di disturbi neurologici come la malattia del mo toneurone (MND) e l’Alzheimer. I ricercatori inglesi hanno identificato il percorso di for mazione e riparazione delle rotture ossidative che accadono in queste aree del DNA e hanno dimostrato che la riparazione di queste regio ni è essenziale per consentire all’organismo di produrre proteine che ci proteggono dalle malattie.

Lo stress ossidativo è una conseguenza ine vitabile del metabolismo cellulare e può essere influenzato da fattori quali dieta, stile di vita e ambiente. A lungo termine, lo stress ossidati vo può causare danni alle cellule, alle proteine e al DNA dell’organismo, accelerando il pro cesso di invecchiamento e contribuendo allo sviluppo di malattie neurologiche come la de menza. Nello studio gli autori spiegano che il danno ossidativo si verifica in corrispondenza degli elementi regolatori dei geni e dimostra no che i promotori sono protetti da questo tipo di danno attraverso un processo mediato dalla proteina dell’apparato nucleare mitotico NuMA (nota anche come NUMA1).

Secondo gli autori, lo studio apre la strada a nuove ricerche che potrebbero contribuire ad accelerare l’individuazione di biomarcato ri di malattia e consentire un intervento più

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Salute

precoce per prevenire l’insorgenza o la pro gressione di disturbi neurologici come l’Al zheimer e la MND.

Sherif El-Khamisy, professore di Medicina molecolare presso l’Università di Sheffield, ha dichiarato: «La riparazione delle rotture del DNA nel genoma non codificante aprirà un campo di ricerca innovativo che punta a individuare nuovi interventi terapeutici e bio marcatori. Finora la riparazione di quello che si pensava fosse DNA spazzatura è stata per lo più trascurata, ma il nostro studio ha dimo strato che può avere fondamentali implicazio ni sull’insorgenza e la progressione delle ma lattie neurologiche. Puntare terapeuticamente i componenti del percorso – conclude il ricer catore - può aiutarci a ritardare o trattare le malattie neurologiche come la demenza».

La professoressa Ilaria Bellantuono, co-di rettrice dell’Healthy Lifespan Institute dell’U niversità di Sheffield, ha dichiarato: «Questo lavoro è importante perché apre la strada alla possibilità di individuare nuovi farmaci per prevenire lo sviluppo di più malattie contem poraneamente e aumentare la resilienza negli anziani».

Da recenti ricerche è risultato che il Junk DNA contiene regioni molto importanti per la regola zione e il funzionamento dei geni stessi tanto che mutazioni in queste aree del genoma possono ave re conseguenze deleterie per l’organismo.

La ricerca è stata pubblicata su Nature e secondo gli autori dimostra di avere impor tanti implicazioni per rendere più efficaci an che i trattamenti di altre gravi malattie come, ad esempio, il cancro: l’inibizione dell’attività della proteina dell’apparato nucleare mitotico (NuMA) elemento chiave del percorso, può arrestare la sopravvivenza delle cellule tumo rali non in divisione che sono difficili da trat tare.

Gli scienziati prevedono che le ricerche future si concentreranno sulla collaborazio ne con i pazienti per studiare le varianti pa togene legate al percorso di riparazione e sul lavoro con l’industria al fine di arrivare alla diagnosi precoce, all’intervento e allo svilup po di trattamenti terapeutici che possano aiu tare le persone affette dai disturbi neurologici più comuni come demenza, Alzheimer, MND e malattia di Huntington. A livello globale, circa un miliardo di persone - quasi una su sei della popolazione mondiale - soffrono di disturbi neurologici come la MND, il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson, e atten dono la scoperta di nuove terapie che possano migliorare la loro qualità di vita. (S. B.)

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Un primo passo per arrivare a sviluppare interventi che mantengano le persone in salute più a lungo LONGEVITÀ , DAL DNA I GENI PER INVECCHIARE IN SALUTE

Che cos’è l’invecchiamento? Un pro cesso multifattoriale in cui interagi scono diversi ingredienti genetici. È quanto emerso da uno studio pubbli cato sulla rivista “Science”, condotto da un gruppo internazionale guidato da Maroun Blu Sleiman del Politecnico federale di Losanna. Per comprendere i diversi meccanismi che re golano il fisiologico invecchiamento negli esseri umani, gli scienziati hanno messo sotto la lente di ingrandimento oltre tremila topi geneticamente diversi fra loro.

Giuseppe Novelli, genetista dell’Università di Roma Tor Vergata, ha spiegato: «L’invecchia mento è un processo multifattoriale con molti geni che interagiscono tra loro con piccoli effet ti. Gli autori dello studio hanno cercato proprio di identificare quali e quanti geni siano coinvol ti in questo processo usando per la prima volta un grande numero di topi non consanguinei tra loro, in modo da valutare il diverso peso geneti co». Nello specifico sarebbero una decina i geni ad avere il maggiore impatto sulla longevità, con un’azione condizionata da diversi fattori ambien tali, ed effetti diversi a seconda dell’età e del sesso. «Questi geni - ha precisato Novelli - sono infatti noti per essere indotti da fattori estrinseci come agenti chimici (farmaci o stress), agenti fisici (ad esempio le radiazioni) oppure da altri geni».

Il maxi-studio ha consentito di osservare come molte delle regioni correlate alla longevità dei topi erano associate anche nell’uomo e nel verme C.elegans, a dimostrazione del fatto che si sono conservate nel corso dell’evoluzione. I dati in questione, ha continuato il professor Giusep pe Novelli, «riprendono e confermano la nostra recente scoperta del ruolo dei geni dell’interfero ne nel determinare la maggiore gravità dei malati di Covid maschi». Tuttavia, hanno precisato gli esperti, ci sarà bisogno di svolgere nuovi studi in futuro per accertare che i fattori genetici della longevità individuati nei topi siano validi anche negli esseri umani: «Bisogna soprattutto tenere presente che nella nostra specie all’invecchiamen to concorrono anche fattori socioculturali che influenzano e modulano non poco il nostro geno ma». Al netto dei progressi fatti registrare nell’i dentificazione dei percorsi dell’invecchiamento e dei farmaci che estendono la durata della vita nei sistemi modello, gli scienziati hanno svolto la loro analisi nella consapevolezza che allo stato attuale manchi in gran parte «una comprensione integra tiva dell’interazione tra genetica, sesso e ambiente

Una certa corrispondenza è stata registrata anche fra le regioni legate alla longevità e quelle associate al peso corporeo e crescita, dimostrando che a determinare la durata della vita sono molti fattori, tra cui anche la dieta. In questo senso lo studio dei geni del fegato, uno degli organi essenziali per la salute, ha consentito ai ricercatori di scoprire che nelle femmine i geni dell’interferone (responsabili dell’immunità innata) sono più attivi e potrebbero quindi fornire una spiegazione alla domanda sul perché le donne vivano più a lungo dei maschi.

nell’invecchiamento e nella determinazione della durata della vita». Uno studio dunque ambizio so quello coordinato dal professor Sleiman, il cui risultato potrà essere fondamentale poiché «la caratterizzazione dei determinanti genetici e non genetici della longevità a livello di popolazione può identificare i geni e le vie coinvolte nell’in vecchiamento, fornendo possibilità di terapie anti-invecchiamento mirate e di estensione del la longevità in salute». I geni potrebbero anche prolungare la vita proteggendo da malattie speci fiche, come il cancro. Trovare i veri geni dell’in vecchiamento, ha detto il genetista, potrebbe consentire ai ricercatori di sviluppare interventi che mantengano le persone in salute più a lungo.

Ci sono da sempre buone ragioni per sospet tare che il DNA di un individuo plasmi il modo in cui invecchia e quanto tempo vive. Ma «è sem pre stato incerto se esiste un vero controllo ge netico della durata della vita e della longevità», ha affermato Robert Williams, genetista presso l’Università del Tennessee Health Science Center di Memphis, tra gli autori dello studio. La lon gevità è una caratteristica complessa e lo studio ha fatto bene a scoprire solidi legami genetici, ha affermato João Pedro Magalhães, genetista dell’Università di Birmingham, ma il lavoro va inquadrato come un «trampolino di lancio verso la comprensione della genetica della longevità e, in ultima analisi, dei suoi meccanismi».

Lo studio ha rilevato che una parte del cro mosoma 12 ha influenzato la longevità di tutti i topi. Ma l’aspettativa di vita femminile è stata influenzata anche da una regione del cromoso ma 3 (i topi hanno venti paia di cromosomi). Nei maschi, la storia era più complessa. Molti topi maschi muoiono giovani, probabilmente a causa dello stress dettato dalle interazioni socia li maschio-maschio. Soltanto dopo che gli auto ri hanno escluso queste giovani morti dalla loro analisi, hanno trovato cinque regioni cromoso miche che hanno influenzato l’aspettativa di vita nei topi maschi che avevano vissuto fino a un’età maggiore. Le regioni cromosomiche identifica te dai ricercatori sono ampie. «Al momento, i nostri loci sono piuttosto abbondanti - più di cento geni per locus», ha detto Williams, quindi non è ancora chiaro quali geni siano alla base degli effetti della longevità. E non è certo quali processi siano influenzati da queste varianti ge niche, ha affermato Sleiman: «La domanda che rimane è: sono questi geni dell’invecchiamento a determinare la longevità?». (D. E.).

23GdB | Ottobre 2022 Salute
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GRUPPO SANGUIGNO ER RICERCATORI IDENTIFICANO CINQUE VARIANTI

Uno studio condotto nel Regno Unito approfondisce le conoscenze e apre le porte allo sviluppo di possibili trattamenti di malattie infettive

Il gruppo sanguigno Er era noto alla comunità scientifica da almeno 40 anni. Quello che un team di ricer catori, guidati dalla sierologa Nico le Thornton, del National Health Service Blood and Transplant (NHSBT) del Regno Unito, ha approfondito sono le basi biologiche genetiche e biochimiche. Gli scienziati inglesi hanno analizzato il sangue di 13 pazienti con gli antigeni sospetti. I ri sultati, contenuti in uno studio pubblicato su “Blood”, identificano cinque variazioni negli antigeni Er: le varianti conosciute Era, Erb, Er3 e le due nuove Er4 ed Er5.

«I quattro gruppi sanguigni più comuni appartengono ai sistemi ABO, Rh, Lewis o Duffy ma ne esistono in verità oltre 400», rammenta il professor Giuseppe Novelli, direttore della scuola di specializzazione in Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata, già rettore dell’Ateneo. «Alcuni - continua - sono talmente rari che riguarda no poche persone o addirittura singole fami glie. Er era noto da anni ma non si conosceva la proteina alla base».

La storia di Er inizia nel 1982. Nel 1988 veniva scoperta la versione denominata Erb.

Il codice Er3 è stato utilizzato per descrivere l’assenza di Era ed Erb. Recente è invece la scoperta del canale ionico, PIEZO1, sensibi le al flusso della corrente delle cellule, una proteina di membrana individuata anche su Er.

«Sapevamo – commenta il professor No velli – che mutazioni di questo recettore sono associate a malattie genetiche ben note, come la stomatocitosi ereditaria, che è una malattia dei globuli rossi che si riempiono di acqua proprio perché il canale ionico PIE ZO1 non funziona bene».

Il gruppo sanguigno caratterizza la perso na e viene indicato sulla base della presenza, o dell’assenza, di particolari antigeni, ricono sciuti dal sistema immunitario come estranei o potenzialmente pericolosi, riscontrabili in particolare sulla superficie degli eritrociti o globuli rossi. Grazie alla funzione antigeni ca, le molecole che determinano il gruppo si attaccano alla superficie delle membrano e stimolano la produzione di anticorpi che variano così da individuo a individuo. Quan do un globulo è in presenza di un antigene che l’organismo non riconosce, il sistema immunitario si attiva, inviando anticorpi per

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di Elisabetta Gramolini

segnalare la distruzione delle cellule che con tengono l’antigene sospetto. Quando si veri fica una incompatibilità a volte si riscontrano casi, come per è stato per Er, in cui si scopro no gruppi rari.

«Le variazioni genetiche – spiega ancora Novelli -, individuate in questo ultimo stu dio, codificano molecole diverse che sono antigenicamente differenti. Per stimolare l’anticorpo, alla base ci deve essere diversità, se ci fosse uguaglianza, non ci sarebbe alcu no stimolo». Aver identificato le varianti di questo gruppo, quindi, può condurre a com prendere bene le basi. Inoltre, così come è stato fatto per il gruppo Rh, si può immagi nare una profilassi.

«Le variazioni di Er sono molto rare ma

nei casi in cui ci sono state variazioni mater no fetale si può iniziare a pensare una profi lassi che comporti l’uso di anticorpi specifici, cosa avvenuta in passato per Rh che oggi non è più considerato un problema, anzi, grazie alla profilassi, si può dire sia una malattia scomparsa».

La maggiore conoscenza molecolare di Er sarà poi utile anche per progredire nello svi luppo di farmaci contro altre malattie: «Er – spiega l’esperto - è noto per essere resisten te alla malaria in alcuni soggetti che hanno alcune variazioni, così come ad esempio chi ha un gruppo sanguigno del sistema Duffy, perché le variazioni di Er che fanno gonfiare il globulo rosso, rendono l’ambiente ostile al plasmodium della malaria. Queste ulteriori scoperte ci aprono quindi le porte della co noscenza sulla resistenza a malattie infettive e rappresentano un chiaro esempio del con tributo che può offrire l’immunogenetica. D’altro canto, abbiamo nel corpo umano ci sono oltre 20 mila geni e centinaia di migliaia di proteine che hanno tante funzioni. Nelle malattie rare è importante capire come que ste proteine si comportano».

Un canale da Nobel

I due canali io nici, PIEZO1 e PIEZO2, che fungono da sen sori meccani ci delle cellule sono stati indivi duati da Ardem Patapoutian. Proprio il biolo go molecolare e neuroscienziato allo Scripps Re search di La Jol la, in California, lo scorso anno ha ricevuto per questa scoper ta il premio No bel per la medicina insieme a David Julius. I due canali ionici hanno un ruolo in molte funzioni fisiologiche dell’organismo. In par ticolare PIEZO2 è il principale trasduttore meccanico nei nervi somatici ed è necessa rio per la nostra percezione del tatto e della propriocezione.

25GdB | Ottobre 2022
Salute Gli scienziati inglesi hanno analizzato il sangue di 13 pazienti con gli antigeni sospetti. I risultati, contenuti in uno studio pubblicato su “Blood” © murat photographer/shutterstock.com © Terelyuk/shutterstock.com
Ardem Patapoutian.

ORIENTAMENTO : NON È QUESTIONE DI GENERE

Un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Roma

Secondo il luogo comune, le don ne avrebbero meno senso dell’o rientamento degli uomini. A smentire questa credenza è uno studio recente, pubblicato sulla rivista Plos One, e condotto dai ricercatori del Dipartimento di Psicologia della Sapien za, in collaborazione con l’IRCCS San Raffa ele di Roma, l’Università dell’Aquila, l’Itaf di Pratica di Mare, l’IRCCS Fondazione Santa Lucia, l’Università di Catanzaro e l’Univer sità di Bologna. Scopo della ricerca non è una rivincita sulle leggende popolari bensì la possibilità di sondare nuove e possibili stra tegie di prevenzione.

Il disorientamento topografico evolutivo è un disturbo dello sviluppo neuropsicolo gico. Le persone che ne soffrono hanno un livello intellettivo generale nella norma, non mostrano altri deficit cognitivi o disordini neurologici o psichiatrici e, solitamente, non presentano patologie o alterazioni cerebrali, ma solo difficoltà nelle capacità navigazio nali, che vanno dai deficit di memoria topo grafica all’incapacità di riconoscere elemen ti dell’ambiente come punti di riferimento. Tutti i casi sono accomunati dall’incapaci tà di avere una rappresentazione mentale dell’ambiente per orientarsi nello spazio in modo adeguato.

I risultati della ricerca italiana rilevano come il disturbo sia riscontrabile nel 3% del campione, composto da 1.698 giovani italiani, e in misura uguale fra i maschi e le femmine. «Abbiamo deciso – chiarisce Ceci lia Guariglia, coordinatrice dello studio – di

includere nel nostro campione solo individui di età compresa tra i 18 e i 35 anni, escluden do le persone che potrebbero manifestare la perdita delle capacità navigazionali a causa di un declino cognitivo dovuto all’età. I dati sono stati raccolti tra il 2016 e il 2019 uti lizzando la piattaforma Qualtrics, attraverso la quale sono stati somministrati un questio nario anamnestico e la scala Familiarity and Spatial Cognitive Style».

Nel corso della vita quotidiana, coloro che si allarmano e si infastidiscono per il distur bo sono per lo più uomini. Questo perché sono convinti che conoscere le strade sia una cosa che sanno fare bene. Le donne si pre occupano meno, visto che la vulgata vuole che non abbiano uno spiccato senso dell’o rientamento, e giungono con minor frequen za all’attenzione degli specialisti come casi singoli. «Il nostro studio – spiega Guariglia - ha selezionato un campione di uomini e donne dove il disturbo viene riscontrato in egual misura. Ciò va contro la convinzione che siano soprattutto le donne a soffrire del disturbo. In uno studio precedente, avevamo riscontrato che, chiedendo a un uomo di giu dicare la propria capacità di orientamento, il suo giudizio sia più alto di quello di una don na, anche se i risultati nei test di orientamen to spaziali sono uguali. L’idea quindi che le donne non siano capaci a orientarsi è falsa».

Il punto è che uomini e donne usano si stemi diversi per “navigare” nello spazio. Gli uomini usano strategie metriche, cioè rela tive alle distanze e agli angoli di rotazione spaziale. Le donne invece si basano su in

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“La Sapienza” dimostra come il disturbo di navigazione colpisca sia uomini sia donne
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formazioni viso-spaziali e quindi immagini come un negozio o un monumento. «In un lavoro di oltre 20 anni fa – ricorda l’esperta - una ricercatrice dimostrò per la prima volta che le donne risultavano meno abili degli uo mini perché i test venivano ideati da uomini che usavano le loro strategie di navigazione. La ricercatrice costruì un ambiente in cui vi erano anche delle informazioni utili per le donne. In questo modo, le prestazioni erano uguali per entrambi i sessi».

Alla base c’è una spiegazione evoluzioni stica: gli uomini della preistoria, infatti, in seguivano le prede correndo e per tornare indietro facevano riferimento alla distanza percorsa, le donne invece seminavano e do vevano fare attenzione all’aspetto della natu ra circostante. «La capacità – aggiunge Gua riglia - di discriminare meglio le immagini e memorizzare l’ambiente potrebbe derivare da questa differenza di comportamenti».

Lo studio, inoltre, si focalizza anche sugli interventi per prevenire i disturbi della na vigazione. Tra questi, potrebbero risultare utili un addestramento all’orientamento spa

L’uso diffuso del navigatore satellitare mentre guidiamo non impedisce di imparare a navigare e riconoscere le strade. Al contrario, per chi ha delle difficoltà di orientamento, il navigatore sullo smartphone è un aiuto perché dà istruzioni verbali e ricordando la sequenza è più facile orientarsi.

ziale a partire dall’età prescolare, attività di formazione volte a migliorare la metacogni zione. «Tutte le persone che hanno problemi di navigazione hanno difficoltà a giocare al video gioco Tetris perché pretende di saper fare una rotazione mentale. I disorientati topografici evolutivi sono persone possono essere aiutate a sviluppare strategie di com penso o migliorare le loro capacità di base dipende dal processo che ha coinvolto le loro difficoltà navigazionale. I bambini, per esempio, sviluppano le competenze e la me moria dello spazio ambientale con una certa frequenza». Fare dei giochi specifici aiuta come ad esempio il gioco degli scacchi a grandezza d’uomo.

«Inoltre se l’educatore o comunque l’a dulto inserisce dei compiti di navigazione ambientale può rendersi conto se un bam bino ha difficoltà e può intervenire. Ciò è importante perché alcuni disorientati hanno difficoltà a uscire di casa da soli. Individuare i problemi in maniera precoce aiuta a fare un sistema di compensazione che permetta di non trovarsi in difficoltà». (E. G.)

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LEGAME

nizio dello studio si erano dichiarati molto soli presentavano un rischio doppio di ammalarsi di diabete ri spetto a chi invece non aveva la mentato solitudine. Pur osservando quanto sopra, i ricercatori hanno sottolineato come al momento resti ignoto il meccanismo biologico alla base del legame emerso. Tuttavia, gli studiosi ipotizzano che la solitu dine potrebbe causare uno stato di stress cronico che aumenta i livel li del cortisolo, un ormone famoso per dare disfunzioni metaboliche, favorire alimentazione scorretta e resistenza all’insulina.

In base ai dati Istat, nel 2020 si stima in Italia una prevalenza del dia bete pari al 5,9%, che corrisponde a oltre 3,5 milioni di persone affette dalla patologia cronica caratterizza ta dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e dovuta ad un’alterata quantità o fun zione dell’insulina. Il trend è in len to aumento negli ultimi anni, con la prevalenza che aumenta al crescere dell’età fino a raggiungere il 21% fra le persone ultra 75enni. In particola re la prevalenza (dati non standardiz zati) risulta essere mediamente più bassa nelle Regioni del Nord-ovest (5,4%), del Nord-est (5,3%) e del Centro (5,5%), rispetto a quelle del Sud (7%) e delle Isole (6,7%).

Fra solitudine e rischio di diabete esisterebbe un legame, al punto che sen tirsi soli potrebbe rad doppiare la probabilità di sviluppare la malattia. A suggerirlo sono i dati di un nuovo studio con dotto da Roger Henriksen della We stern Norway University of Applied Sciences di Bergen. Per compiere la ricerca, i cui risultati sono stati pub blicati sulle pagine della rivista spe cializzata “Diabetologia”, gli esperti hanno esaminato le cartelle cliniche di 24.024 soggetti, tutti senza diabe te all’inizio del lavoro. Per misurare il grado di solitudine dei parteci

panti allo studio, gli esperti hanno utilizzato all’inizio dell’osservazione dei questionari e scale di valutazione aventi come oggetto solitudine, de pressione e problemi di insonnia.

In questo modo i ricercatori sono riusciti ad individuare i sog getti classificati come sofferenti di solitudine, che all’inizio della ri cerca rappresentavano il 13% del campione. Nei 24 anni successivi, 1.179 (il 4,9% del campione) per sone si sono ammalate di diabete. Mettendo a confronto i dati dei partecipanti, i ricercatori hanno os servato che, a parità di tutti gli altri fattori in gioco, i soggetti che all’i

Tra coloro che riferiscono una diagnosi di diabete esiste un’eleva ta prevalenza di fattori di rischio cardiovascolare: l’89% dice di non seguire il consiglio di mangiare cin que porzioni al giorno tra frutta e verdura (analogamente al resto della popolazione (91%); il 71% è in ec cesso ponderale contro il 41% della popolazione non diabetica; il 52% è iperteso contro il 18% di chi non soffre di diabete; il 43% presenta alti livelli di colesterolo (a fronte del 21% di chi non ha il diabete); il 49% è sedentario (36% fra chi non ha la patologia) e il 23% fuma (dati analoghi nel resto della popolazione, dove il dato è del 25%). (D. E.).

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DIABETE, POSSIBILE
CON LA SOLITUDINE Secondo una nuova ricerca, sentirsi soli potrebbe raddoppiare la probabilità di sviluppare la patologia
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Ivirus sarebbero in grado di raccogliere informazioni degli organismi che infet tano per poi decidere come e quando attaccare. A sug gerirlo è un nuovo studio statuni tense secondo cui, nello specifico, i virus sarebbero capaci di sfruttare la loro capacità di percepire e ascol tare l’ambiente che li circonda per scegliere il momento migliore per restare quiescenti all’interno degli organismi loro ospiti, o al contrario moltiplicarsi e uccidere le cellule.

Una scoperta straordinaria quel la a stelle e strisce, frutto del la voro condotto dalle università del Maryland, Contea di Baltimora (Umbc), e del Mississippi, i cui risul tati sono stati pubblicati sulla rivi sta “Frontiers in Microbiology”. Ma c’è anche un pezzo d’Italia in questa scoperta: oltre che da Satish Adhika ri, dell’università del Mississippi, la ricerca è stata coordinata infatti dal biologo italiano Elia Mascolo, dell’a teneo del Maryland. Lo studio si è focalizzato in particolare sui virus che infettano i batteri, i cosiddetti batteriofagi. Questi virus sono capa ci di infettare i loro ospiti soltanto quando presentano delle specifiche appendici (pili e flagelli) che li aiuta no nel movimento. La loro presenza è regolata da una proteina chiamata CtrA: lo studio ha fornito le prove del fatto che diversi virus, all’in terno del loro Dna, presentano dei siti in cui la suddetta proteina può legarsi. La caratteristica in questio ne consente loro di di comprendere quando le condizioni sono più favo revoli all’infezione.

Ivan Erill, dell’Università del Maryland, in qualità di co-autore del lo studio ha dichiarato: «È evidente che la capacità di monitorare i livelli di CtrA sia stata inventata più volte durante l’evoluzione da diversi fagi che infettano diversi batteri. Quando tante specie diverse presentano una caratteristica simile si parla di evo luzione convergente, e vuol dire che

I VIRUS SPIANO L’ORGANISMO

PER DECIDERE QUANDO INFETTARE

I patogeni sarebbero in grado di percepire e ascoltare l’ambiente

circonda

proprio comportamento

quella caratteristica è decisamente utile. In questo momento i virus stan no sfruttando questa capacità a loro vantaggio, ma in futuro potremmo sfruttarla noi per danneggiarli».

Immaginare di avere all’interno dell’organismo dei virus che ascol tano le conversazioni private delle proprie cellule non è così rassere nante, ma il rovescio della medaglia è senz’altro positivo. Come ben san no le agenzie di intelligence di tutto il mondo, il controspionaggio fun ziona infatti soltanto fino a quando riesce a rimanere nascosto. Se non viene a galla, l’attività ostile può es

sere facilmente sfruttata a proprio vantaggio. In che modo? Fornendo disinformazione al nemico. Questo è, per sommi capi, l’obiettivo a lun go termine degli scienziati. Le future terapie antivirali potrebbero infatti essere in grado di combinare l’arti glieria convenzionale, come gli anti virali che impediscono la replicazio ne virale, con l’inganno della guerra d’informazione, facendo credere al virus che la cellula in cui si trova ap partiene ad un tessuto diverso. Non c’è bisogno di chiamare in causa i servizi segreti: potere della scienza. (D. E).

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che li
modulando il
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Il gene klotho mutato è stato identificato in un ceppo di topo in cui i fenotipi ereditati sono molto simili a quelli coinvol ti nell’ invecchiamento umano. I topi omozigoti con allele klotho ipomorfo (kl/kl) hanno mostrato fenotipi multipli: ritardo della crescita, calcificazione vascolare e osteoporosi e sono morti prematuramente intorno ai due o tre mesi di età. La sovraespressione del gene klotho invece permette ai topi di vivere più a lungo, questo fa pensare quindi che il klotho sia un gene sop pressore dell’invecchiamento. Dalla scoperta di Klotho (chiamato anche α Klotho,) sono stati identificati come membri della famiglia β Klotho e γ Klotho (o Lctl o KLPH).

Struttura ed espressione di Klotho

Il gene klotho è composto da cinque esoni e codifica per una glicoproteina transmembrana a passaggio singolo di tipo 1 (rispetti vamente 1014 e 1012 aminoacidi nel topo e nell’uomo), che si trova nella membrana plasmatica e nell’apparato del Golgi. Il dominio in tracellulare è molto breve (~10 aminoacidi) ma non presenta domini

KLOTHO

LA PROTEINA ANTIETÀ

Una difesa naturale del corpo contro lo stress ossidativo

31GdB | Ottobre 2022 Salute

Salute

Il gene klotho è composto da cinque esoni e codifica per una glicoproteina transmembrana a passaggio singolo di tipo 1 (rispettivamente 1014 e 1012 aminoacidi nel topo e nell’uomo), che si trova nella membrana plasmatica e nell’apparato del Golgi

funzionali. Il dominio extracellulare ha due ripetizioni interne (KL1 e KL2), che presen tano sequenza amminoacidica omologa con le glicosidasi della famiglia 1, che idrolizza no il legame β -glicosidico in saccaridi, gli coproteine e glicolipidi. Tra due ripetizio ni interne c’è una regione di collegamento contenente quattro aminoacidi basici (LysLys-Arg-Lys), coinvolti nella formazione di un potenziale sito per la scissione proteoli tica. Nonostante si noti una certa omologia di sequenza con la glicosidasi, non è stata rilevata alcuna attività enzimatica della gli cosidasi nella proteina Klotho ricombinan te, forse perché i residui amminoacidici cri tici nei presunti centri attivi della proteina Klotho sono divergenti da quelli degli enzi mi β -glicosidasi. Infatti, Klotho mostra una debole attività della β -glucuronidasi in vitro e provoca effetti biologici attraverso l’atti vità propria della β -glucuronidasi e/o della

sialidasi Il dominio extracel lulare di Klotho si può scin dere da proteasi di membrana come ADAM10 e ADAM17 (dominio metallo-proteinasi ADAM 10 e 17) e può essere rilasciato nel sangue, nelle uri ne e nel liquido cerebrospina le. Il Klotho una volta scisso si comporta come se fosse un ormone endocrino, autocrino e paracrino sulle cellule ber saglio, inoltre, secreto viene generato attraverso una termi nazione trascrizionale alterna tiva del gene klotho privo di esoni 4 e 5 nei topi, viene rile vato nel sangue, nelle urine e nel liquido cerebrospinale.

Klotho è espresso in molti tessuti e tipi cellulari e a li velli particolarmente elevati nel rene (abbondantemente espresso nel tubulo contorto distale, meno nel tubulo re nale prossimale), nel cervello (nel plesso coroideo), nella ghiandola paratiroidea e in diversi organi sessuali tra cui l’ovaio, il testicolo e la placenta. Da studi recenti è emerso che Klotho è espresso localmente nell’area avventiziale dell’aorta, supportando l’effetto protettivo vascolare della proteina Klotho.

β Klotho, è composto da un dominio si mile alla β -glicosidasi (domini KL1 e 2) e condivide il 42% di omologia di sequen za di amminoacidi con Klotho, questo è espresso principalmente nel fegato, segui to dal tratto gastrointestinale, dalla milza e dai reni. γ Klotho, una proteina trans-mem brana a passaggio singolo di tipo 1 più cor ta, è costituita da un dominio extracellulare simile alla glicosidasi della famiglia 1 (do minio KL1) e da un breve dominio intracel lulare, risulta altamente espresso nei reni e negli occhi.

Funzione di Klotho

1. Klotho legato a membrana

Tre Klothos formano un complesso re cettoriale costitutivo obbligatorio con i re

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cettori del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR), fornendo così l’affinità di legame selettiva degli FGFR agli FGF endocrini. La famiglia endocrina FGF è composta anche da tre membri, FGF15 (l’ortologo del topo dell’FGF19 umano), FGF21 e FGF23. Gli FGF classici esercitano la loro attività biolo gica in maniera autocrina e/o paracrina. Gli FGF endocrini mancano della funzione del dominio di legame dell’eparina come fatto re umorale. Klotho forma complessi con di versi FGFR (FGFR1c, FGFR3c e FGFR4) e aumenta la loro affinità selettivamente con FGF23, un ormone fosfaturico di origine ossea. L’FGF23 che agisce sul complesso Klotho-FGFRs svolge un ruolo importante nell’omeostasi del Ca2+ e del fosfato, con verte gli FGFR canonici in recettori speci fici per FGF23, che inibisce la ricaptazione del fosfato inorganico (Pi) nei tubuli pros simali renali inibendo NaPi-IIa, ma ridu ce anche l’espressione della 1 α -idrossilasi (CYP27B1). L’1 α -idrossilasi è un enzima chiave per la sintesi della 1,25-diidrossivita mina D3 (calcitriolo) biologicamente attiva, che stimola l’assorbimento del Pi nell’inte stino. Il Klotho legato alla membrana è coin volto nell’azione di FGF23, promuovendo così l’escrezio ne di Pi seguita da un basso Pi sierico. Inoltre, FGF23 agendo sul complesso Klotho-FGFRs sul lato basola terale stimola il riassorbimento renale di Ca2+ attraverso il canale TRPV5, che è espresso nella membra na apicale del tubulo con torto distale. Il complesso Klotho-FGFRs attiva casca te di segna lazione che coinvolgono Erk1/2, SGK-

1 e WNK4 per il riassorbimento del Ca2+ mediato da TRPV5. Pertanto, il Klotho le gato alla membrana funziona come un co recettore obbligatorio per FGF23 e regola l’omeostasi di Pi e Ca2+. β Klotho contri buisce alla regolazione del metabolismo energetico come co-recettore obbligatorio per FGF15 (l’ortologo murino dell’FGF19 umano) e FGF21 [24,26]. L’espressione di FGF15/19 nell’intestino è regolata dall’a cido biliare, infatti l’asse endocrino intesti no-fegato mediato da FGF19 e β Klotho è indispensabile per mantenere l’omeostasi degli acidi biliari, ecco che i topi privi di FGF15, β Klotho o FGFR4 mostrano una maggiore espressione di Cyp7 α 1 e sintesi di acidi biliari nel fegato. FGF21, invece, viene secreto dal fegato a digiuno e agisce sul tessuto adiposo per promuovere la li polisi, pertanto, β Klotho è necessario per regolare il metabolismo energetico nello stato di digiuno.

γ Klotho, forma complessi con FGFR1b, FGFR1c, FGFR2c e FGFR4 che aumen tano l’attività di FGF19, è altamente e se lettivamente espresso nel tessuto adiposo bruno e nell’occhio e può funzionare come corecettore aggiuntivo per FGF19 nelle

Klotho è espresso in mol ti tessuti e tipi cellulari e a livelli particolarmente elevati nel rene (abbondantemente espresso nel tubulo contorto distale, meno nel tubulo renale prossimale), nel cervello (nel plesso coroideo), nella ghiandola paratiroidea e in diversi organi sessuali tra cui l’ovaio, il testicolo e la placenta.

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Il Klotho secreto esercita un effetto antietà e di protezione degli organi con azioni pleiotropiche, perché sottoregola la segnalazione di fattori di crescita e citochine, come l’insulina, e perché mantiene l’omeostasi ionica regolando i canali ionici e/o i trasportatori, modifica l’N-glicano di canali e trasportatori.

cellule in coltura, ma la sua funzione biolo gica non è ancora del tutto chiara.

2. Klotho intracellulare

Grandi quantità di immunoreattività di Klotho sono rilevabili nel citoplasma nei reni di topo e nelle ghiandole parati roidi umane. In questi tessuti, Klotho lega Na+-K+-ATPasi e ne stimola l’abbondan za e l’attività in superficie, interagisce fi sicamente con Na+-K+-ATPasi negli or ganelli intracellulari, non sulla membrana plasmatica. La negatività intracellulare e il basso [Na+]i create dall’attivazione di Na+-K+-ATPasi forniscono la forza motri ce per il trasporto transepiteliale di Ca2+ nel plesso coroideo e nel rene. Essendo la senescenza è associata a una maggiore espressione di citochine pro-infiammatorie come IL-6 e IL-8, che è mediata dal gene-I inducibile dall’acido retinoico (RIG-I), è stato dimostrato che il Klotho intracellula re lega RIG-I e blocca la sua multi-merizza zione, sopprime l’infiammazione associata alla senescenza mediata da RIG-I, funzio nando come un fattore antinfiammatorio e anti-invecchiamento intracellulare ma i ruoli fisiologici sono ancora sconosciuti.

3. Klotho secreto

La forma secreta (o solubile) di Klotho funziona come un fattore umorale che pren de di mira più tessuti e organi indipendente mente dagli FGFR. Sebbene Klotho funzio ni come co-recettore per FGF23, il Klotho secreto potrebbe non funzionare come re cettore solubile per FGF23, e il comples so Klotho-FGFR ha un’elevata affinità per FGF23, ma non Klotho secreto o FGFR da solo, Klotho secreto infatti esercita il suo ef fetto biologico indipendente da FGF23.

Il Klotho secreto esercita un effetto an tietà e di protezione degli organi con azioni pleiotropiche, perché: in primo luogo sotto regola la segnalazione di fattori di crescita e citochine come insulina, IGF-1, TGF- β e IFN γ , la sua sovraespressione prolunga la vita attenuando la generazione di specie reattive dell’ossigeno evocate dall’insuli na e dalla segnalazione di IGF-1. Nei topi carenti di Klotho, la segnalazione di Wnt, TNF α e IFN γ contribuisce all’invecchia mento accelerato. Uno studio recente ha dimostrato che Klotho migliora la fibrosi renale e le metastasi del cancro inibendo le

risposte di transizione epiteliale-mesenchi male (EMT) indotte dal TGF- β . Numerosi studi dimostrano chiaramente che il Klotho secreto potrebbe funzionare come un fatto re anti-invecchiamento e di protezione degli organi inibendo la segnalazione di moltepli ci fattori di crescita; in secondo luogo, il Klotho secreto mantiene l’omeostasi ionica regolando i canali ionici e/o i trasportatori, modifica l’N-glicano di canali e trasportatori attraverso la sua attività β -glucuronidasi e/o sialidasi, i topi carenti di Klotho sviluppano gravi difetti nell’omeostasi di ioni come Pi e Ca2+; se il secreto è legato alla membrana può inibire direttamente i trasportatori del fosfato sia renali (NaPi-IIa) che intestinali (NaPi-IIb), determinando una bassa con centrazione plasmatica di fosfato, riducen do l’abbondanza sulla superficie cellulare di NaPi-IIa attraverso la sua attività β -glucur

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onidasi indipendente da FGF23.

Diversi studi sostengono che Klotho esi bisce attività β -glucuronidasi perché gli aci di glucuronico non sono porzioni comuni degli N-glicani delle proteine della superfi cie cellulare dei mammiferi. Il dominio ex tracellulare di Klotho viene sparso nel fluido extracellulare dove il Klotho secreto scinde gli acidi sialici terminali dall’N-glicano dei canali TRPV5 e ROMK. La rimozione degli acidi sialici espone il galattosio sottostante, un ligando per la lectina-1 legante il galatto sio. Il legame alla galectina-1 extracellulare forma un reticolo nella matrice extracellu lare che porta ad una maggiore abbondanza della superficie cellulare del canale median te l’inibizione della sua endocitosi. Questi risultati forniscono la prova che la modifica dell’N-glicano aumenta il tempo di residen za delle proteine della superficie cellulare,

I polimorfismi di Klotho sono correlati con la durata della vita, l’ate rosclerosi e l’osteoporosi nell’uomo. Klotho è as sociato a calcinosi grave e ictus, la sua carenza è coinvolta nelle malattie renali acute e croniche, nei tumori e nell’iperten sione sensibile al sale.

inclusi i recettori del fattore di crescita e delle citochine. Klotho è coinvolto nella modifica degli N-glicani maturi sulla super ficie cellulare.

Klotho nell’invecchiamento umano e nelle malattie

Il Klotho è una proteina antietà con azione pleiotropica che esercita la prote zione degli organi. Diverse linee di eviden za supportano l’idea che Klotho funzioni come una molecola umana di soppressio ne dell’invecchiamento. I polimorfismi di Klotho sono correlati con la durata della vita, la malattia coronarica, l’aterosclerosi e l’osteoporosi nell’uomo. Klotho è anche associato a calcinosi grave e ictus, la sua ca renza è coinvolta nelle malattie renali acute e croniche, nei tumori e nell’ipertensione sensibile al sale. In realtà, il livello sierico di Klotho diminuisce con l’invecchiamento nell’uomo.

Conclusione

La funzione antietà di Klotho svolge un ruolo importante nell’invecchiamento uma no e nelle malattie legate all’età. La carenza di Klotho è fortemente associata a malattie umane legate all’invecchiamento come can cro, malattie renali croniche, atassia, diabe te e atrofia cutanea. Klotho è una proteina evolutivamente altamente conservata corre lata alla soppressione dell’invecchiamento e alla protezione degli organi. Sono ancora necessari studi che esaminino gli effetti pro tettivi e antietà degli organi della proteina Klotho, e il modo in cui la carenza di que sta contribuisca alle malattie legate all’età rimangono sfuggenti.

Bibliografia

Tratto da “Biological Role of Anti-aging Protein

Klotho “Ji-Hee Kim, Kyu-Hee Hwang, Kyu-Sang Park, In Deok Kong and Seung-Kuy Cha.

Questo studio è stato sostenuto dal Basic Science Research Program attraverso la National Research Foundation of Korea (NRF) finanziato dal Ministe ro dell’Istruzione (NRF-2010-0024789 a S.-K.C e NRF-2013R1A1A2060764 a I.D.K.).

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CAPELLI E VITAMINA D

di Biancamaria Mancini

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Tra i fattori che aumentano il rischio di calvizie c’è la carenza del micronutriente
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L’alopecia androgenetica (AGA) è la forma più comune di alopecia, che colpisce fino all’80% degli uomini e al 50% delle donne nel corso della loro vita. L’AGA determina una progressi va riduzione nella qualità dei capelli (diametro, lunghezza e pigmentazione), fino ad una variazio ne quantitativa (ipotrichia e calvizie). Tra i diversi fattori che aumentano il rischio di calvizie c’è la carenza di un micronutriente conosciuto come vitamina D, una vitamina sintetizzata principal mente a livello dell’epidermide.

La vitamina D è liposolubile, quindi deve es sere veicolata all’interno dell’organismo tramite grassi per essere poi immagazzinata nel tessuto adiposo dove viene consumata lentamente, ecco perché un abuso di integrazione può determinare problemi da sovradosaggio. L’EFSA ha da poco aggiornato i valori dietetici di riferimento indi cando: 10 µg al giorno (400 UI) per i bambini dai 7 ai 12 mes e 15 µg al giorno (600 UI) per gli adulti. I valori ottimali di calcidiolo nel sangue devono essere compresi tra 20-40 ng/mL.

Gli alimenti che naturalmente rappresentano una buona fonte di vitamina D sono pesce (so prattutto quelli grassi come salmone, sardine, aringhe e sgombri), fegato, tuorlo d’uovo e olio di fegato di merluzzo. È evidente una stretta cor relazione tra la carenza di vitamina D e la perdita dei capelli; infatti, la forma inattiva della vitami na D viene attivata grazie all’attività dell’1 alfa25 idrossilasi presente anche nei cheratinociti e quindi nel follicolo pilifero dove si trova poi il recettore nucleare VDR (vitamin D receptor).

La dott.ssa Sefora Canton, biologa esperta in tricologia, ha approfondito l’argomento in un suo webinar mettendo a disposizione una sele zionata letteratura scientifica in cui si sottolinea l’attività ormone simile di questo importante micronutriente. La dott.ssa Canton ha ribadito l’importanza del recettore VDR espresso nei che ratinociti epidermici e nelle cellule mesodermi che della papilla del follicolo pilifero, affermando che non solo è fondamentale la vitamina D per la buona crescita capillare, ma anche la corretta funzione del recettore VDR che svolge un ruolo cruciale per l’integrità del follicolo pilifero. VDR interviene nella regolazione della proliferazione epidermica dello strato basale e promuove la dif ferenziazione sequenziale dei cheratinociti che formeranno gli strati superiori dell’epidermide e che, ad ogni nuovo ciclo vitale, ricostituiscono le cellule follicolari. Dagli studi pubblicati noi

sappiamo che l’espressione del recettore VDR a livello dei follicoli piliferi aumenta durante la fine della fase anagen (crescita attiva del capello), proprio quando il capello sta interrompendo le divisioni mitotiche e passa nella fase di vecchiaia (catagen), in correlazione alla diminuzione della proliferazione e all’aumento della differenziazio ne dei cheratinociti.

La sua espressione nel passaggio anagen-cata gen è necessaria per dare l’avvio alla nuova fase di anagen e per garantire i cicli successivi dei folli coli, ma va sottolineato che non è implicato nella loro morfogenesi. La sua deficienza può inibire la differenziazione dei cheratinociti, creando dif ficoltà nel normale ciclo follicolare che avviene durante la fase post-natale. Studi scientifici ripor tano che pazienti affetti da rachitismo vitamina-D dipendenti (VDDR IIA), sviluppano alopecia nei primi tre mesi di vita insieme a patologie quali osteomalacia, carie dentali, iperparatiroidismo, ipocalcemia e ipofosfatemia. Studi istopatologici, eseguiti sempre su pazienti VDDR IIA, dimo strano anomalie a livello del follicolo pilifero che includono la presenza di cisti a livello del derma e strutture epidermiche irregolari nella porzio ne basale del follicolo stesso. È stato dimostrato inoltre che, in topi VDR knocked-out, il follicolo pilifero in catagen diventa distrofico determinan do una separazione dalla papilla. Questo deter mina un’incapacità di ripartire con una successi va fase anagen e quindi il blocco delle ricrescite. Cambiamenti istologici all’interno del follicolo pilifero simili a quelli descritti nella VDDR IIA sono stati osservati nell’atrichia con lesione papu lare, caratterizzato da alopecia totale, escrescenze papulari e malattie simili che si sono sviluppate dopo la nascita. Questo suggerisce che il gene VDR e il gene per la perdita dei capelli (gene Hr localizzato nel cromosoma 8p21.3) sono coinvolti nello stesso percorso genetico che regola il ciclo postnatale dei capelli. Inoltre, è stato riscontra to che la deficienza VDR porta ad un aumento dell’espressione del gene Hr, confermando che il recettore VDR è responsabile dell’espressione del gene Hr.

Per concludere, il recettore VDR è diretta mente implicato nel processo di inizializzazione della fase anagen e una sua mancanza si rileva con un conseguente aumento dei livelli di vit. D attiva. Diventa cruciale la sua corretta funzione per l’integrità del follicolo pilifero e la deficienza di vitamina D può inibire la differenziazione dei cheratinociti e alterare il ciclo del capello.

Bibliografia

• Gerkowicz, A., Chyl-Surdacka, K., Krasowska, D., Chodorowska, G.:”The Role Of Vitamin D In Non-Scarring Alopecia”, Interna tional Journal Of Molecular Science, Dicembre 2017-18 (2653)

• Almohanna, H.M., Ahmed, A.A., Tsatalis, J.P., Tosti, A.:” The Role Of Vitamins And Mine rals In Hair Loss: A Review”, Dermato logy And Therapy

– Springer, Marzo 2018-9 (51-70)

• Zubair, Z., Kan tamaneni, K., Jalla, K., Renzu, M., Jena, R., Jain, R., Murali dharan, S., Yana mala, V.L., Alfonso, M.:” Prevalence Of Low Serum Vitamin D Levels In Patients Presenting With Androgenetic Alo pecia: A Review”, Cereus, Dicembre 2021-13(12

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38 GdB | Ottobre 2022 STRESS AMBIENTALI E RICADUTE SU ANIMALI E UOMO Corso Fad Luglio-dicembre 2022 www.onb.it

Gli Arabi consolidano

il loro potere politi co e militare, dopo aver conquistato varie zone territoriali lungo il Mar Mediterraneo, tra cui an che la Sicilia, dove ancora oggi in alcune città permangono vestigia, che denotano la loro grande com petenza nel tempo dell’urbanisti ca e dell’arte. E proprio durante questi secoli la medicina araba progredisce soprattutto in Italia, raggiungendo massimo splendore anche attraverso il confronto sui contenuti con la scienza medica europea ed italiana.

Nello stesso periodo l’arte farmaceutica, grazie al certosino ed intenso lavoro tecnico-scien tifico dei monaci, conosce bril lanti e notevoli risultati. Infatti, i monaci pongono la loro atten zione conoscitiva e critica su al cune tematiche arabe, come la distillazione e il filtraggio; que ste tecniche, come ad esempio la distillazione di oli essenziali per la preparazione di medicamen ti, avvalorano la positività degli esiti raggiunti dagli arabi e dai monaci in un campo, quello del la farmaceutica che vede, con lo scorrere del tempo, l’incremento della sua importanza nella medi cina.

A conferma di ciò, alla fine del IX secolo in Europa, assistia mo al sorgere di scuole Mediche, che hanno il compito precipuo di organizzare corsi di formazione per futuri medici. E questa è una grande e rivoluzionaria intuizio ne, che determina un rinnovato interesse per la scienza medica, che nei secoli trascorsi aveva in contrato difficoltà evidenti per quanto concerne la propria af fermazione.

La prima scuola di Medicina che, poi, è la più famosa è quel la creata a Salerno: pare, secon do notizie della critica storica e

MEDICINA ARABA E FARMACEUTICA DEI MONACI DEL IX E XI SECOLO

Durante questi secoli la medicina araba progredisce soprattutto in Italia, raggiungendo massimo splendore anche con il confronto sui contenuti con la scienza medica europea

scientifica, che furono quattro esperti di scienza medica, abba stanza noti a quei tempi, (l’ebreo Helenus, l’arabo Adela, il greco Pontus ed il latino Salernus) a promuovere incontri e confronti, in cui dibattere e discutere sulla necessità di avere una medicina all’altezza dei tempi. Decidono, pertanto, di mettere insieme i loro saperi e le loro conoscenze in modo da creare un’unica fonte di scienza medica, che sarà uti le per coloro che dovranno fre quentare i corsi di formazione medica.

E così la medicina araba, già

presente in Italia, viene chiamata a far parte della scuola Salerni tana, che ne perfeziona la tecni ca farmaceutica. Appartengono alla scuola Salernitana opere di notevole spessore, come il “Re gimen Sanitatis Salernitanum”, che sembra sia stato scritto in torno al XIII secolo, all’interno del quale sono evidenziate co noscenze mediche e consigli per avere una sana salute. Questo testo è stato considerato di tale importanza per l’insegnamento della medicina e la formazione del medico da essere consultato sino alla fine del XIX secolo.

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40 GdB | Ottobre 2022 Ambiente © Janson George/shutterstock.com Alla base del nuovo biopesticida c’è la tecnica dell’RNA interferente L’ALLEATO DELLE API

originario del Sudafrica ed è endemi co nell’Africa sub-sahariana. Aethina tumida viene considerato un parassita opportunista e uno spazzino dell’alvea re che invade quando si trova in cattive condizioni, servendosene come fonte di nutrimen to e per deporre le uova. La sua diffusione terri toriale ha coinvolto la zona sud della Calabria, ma proprio là, nell’Istituto Zooprofilattico Sperimen tale del Mezzogiorno a Reggio di Calabria, Enea ha testato un biopesticida, che protegge le api, sfruttando molecole che praticano un controllo naturale sugli organismi infestanti. «Negli ultimi dieci, quindici anni - spiega Salvatore Arpaia, ricercatore della Divisione Enea di Bioenergia, bioraffineria e chimica verde - gli apicoltori euro pei hanno segnalato un’insolita diminuzione del numero di api e perdite di colonie. Un fenomeno che ha diverse cause, come l’agricoltura intensi va, l’uso di pesticidi, la perdita di habitat, i virus, ma anche gli attacchi di agenti patogeni, specie invasive come l’acaro Varroa destructor, da anni presente in tutta Italia. A quest’ultimo si sono poi aggiunti, di recente, il calabrone asiatico Vespa velutina e il piccolo coleottero dell’alveare Aethi na tumida che, al momento, ha una diffusione territoriale circoscritta alla parte più meridionale della Calabria. Abbiamo testato lì il biopesticida, presso la sezione dell’Istituto Zooprofilattico».

Le fondamenta del nuovo “antiparassitario” vanno cercate nella tecnica dell’RNA interferen te, che mette a profitto un meccanismo naturale esistente negli organismi vegetali e animali per arrivare all’interruzione delle funzionalità di un gene bersaglio, importantissimo per restare in vita o per la prolificità dell’insetto. Esso normal mente viene attirato dalle sostanze volatili rila sciate dall’alveare, si muove speditamente sui favi e evita la luce. È in grado spostarsi anche di 1016 km, se possibile prima o dopo il crepuscolo, individualmente, in sciami o ancora unendosi a quelli di api, ricercando bugni “stressati” da co lonizzare. Il piccolo coleottero è un insetto della famiglia Nitidulidae e dell’ordine dei Coleoptera, infestante delle colonie di Apis mellifera, sco perto per la prima volta in Europa, nella regione del Mezzogiorno, a settembre del 2014. Attual mente risulta nella provincia reggina e di parte del vibonese. Nel 2014 e nel 2019 sono stati ac certati, leggendo i dati del Ministero della Salu te, due singoli focolai d’infestazione nella Sicilia orientale poi eliminati. Compare nell’elenco del Codice sanitario per gli animali terrestri della

La durata del ciclo biologico di Aethina tumida può variare da 27 a 80 giorni (da uovo ad adulto), in funzione delle condizioni climatiche (umidità e temperatura in particolare). Quando la temperatura scende al di sotto di dieci °C, il ciclo di sviluppo si arresta. Cio nonostante, le larve sono in grado di sopravvivere nel terreno fino a tre o quattro settimane con temperature inferiori a dieci °C. Il tipo di suolo, la sua umidità, pendenza, densità, drenaggio, le piogge e la temperatura influenzano notevolmen te il ciclo di sviluppo. I danni arrecati agli alveari da parte delle larve sono fastidiosi e consistono nello scavare dei tunnel dentro i favi, con distru zione degli stessi e della covata.

WOAH (Organizzazione Mondiale per la sani tà animale) come patologia emergente delle api ed è soggetta a notifica internazionale. Al fine di contenerne la diffusione in Europa, sono in atto sostanziose misure restrittive come la cessazione del nomadismo, il commercio delle colonie al di fuori dell’area depredata dal coleottero, il moni toraggio sistematico degli alveari e, in molti casi, l’abbattimento delle colonie.

«I risultati ottenuti - continua Arpaia - in dicano chiaramente che la somministrazione per ingestione del nostro biopesticida, il quale si avvale di molecole RNA a doppio filamento specifiche contro due geni di Aethina tumida, induce effetti anti-metabolici sullo sviluppo e sulla riproduzione del coleottero. Infatti, le larve alimentate con dieta contenente le molecole che abbiamo sintetizzato nei nostri laboratori Enea di Trisaia, nel materano, soffrono di un decre mento nel tasso di sviluppo, di un rallentamento nel ciclo biologico e, da adulti, di una sensibile riduzione della fertilità. La coesistenza di questi tre effetti in una popolazione in natura porta a un prevedibile rapido contenimento dei danni del coleottero a carico dell’alveare, della produ zione apistica, senza alcun rischio per l’ambien te e per l’uomo». Il poter “disegnare” gli RNA interferenti su una specifica sequenza genica dà la possibilità di creare biopesticidi a bassissimo impatto ambientale, perché ad essere ostacolati sono solo gli organismi che si vogliono colpire. Al momento mancano delle leggi che dettino le regole, ma negli Stati Uniti si stanno già muoven do per ottenere l’autorizzazione al commercio di un bioinsetticida da usare contro un parassita che attacca le patate.

«Per quanto riguarda la salvaguardia della salute delle api sottoposte a trattamento con un insetticida a base di dsRNA - conclude Arpaia - è stata fatta una prima valutazione con un’analisi di similarità delle sequenze fra i due dsRNA utilizza ti e il genoma di Apis mellifera, che risulta com pletamente sequenziato. La bassissima similarità rivelata dall’analisi BLAST, (Basic Local Align ment Search Tool, ovvero strumento di ricerca di allineamento locale ndr), porta a escludere even tuali effetti dovuti alla sequenza utilizzata. Per valutare la possibilità di effetti off-target sulle api, sarà necessario procedere a una successiva prova in vivo, anche se le evidenze disponibili in lettera tura riferite ad altri dsRNA indicano che l’ape è generalmente poco sensibile al silenziamento ge nico indotto da queste molecole». (G. P.).

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SVELATI I SEGRETI DELLA MEDUSA IMMORTALE

La scoperta, pubblicato sulla rivista PNAS, potrebbe aiutare a curare malattie legate all’invecchiamento dell’uomo

Sembra impossibile ma non tutti gli esseri viventi sono destinati a invecchiare e a morire. Esiste, infatti, una microscopica medu sa, chiamata Turritopsis dohrnii, che ciclicamente torna giovane e può esse re definita immortale. L’animaletto è lungo solo pochi millimetri ed ha la straordinaria capacità, dopo la riproduzione, di invertire la direzione del suo ciclo vitale e tornare a uno stadio asessuato precedente, chiamato polipo. Ma quali sono le caratteristiche bio logiche che permettono alla piccola medusa di ringiovanire?

Per studiare a fondo i meccanismi respon sabili del fenotipo immortale di Turritopsis dohrnii un team di ricercatori dell’Università di Oviedo, guidato dal dottor Carlos LópezOtín ha analizzato nel dettaglio il genoma del la medusa e studiato i geni attivi nelle diverse fasi del suo ciclo vitale. Gli scienziati sono ri usciti a definire diverse chiavi genomiche che contribuiscono a estendere la longevità del piccolo cnidario fino a impedirne la morte.

Nello studio, pubblicato sulla rivista ame ricana Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), il team ha confrontato il genoma di Turritopsis dohrnii con quello della “cugina” Turritopsis rubra, apparte nente allo stesso genere ma incapace negli stadi maturi di ringiovanire. Il sequenzia mento dei genomi dell’immortale T. dohrnii e della mortale T. rubra insieme all’utilizzo di strumenti bioinformatici e di genomica com parativa, hanno permesso ai ricercatori di

identificare geni amplificati o con va rianti differenti, caratteristici della medusa immortale. Questi geni sono associati alla replicazio ne e alla riparazione del DNA, al mantenimento dei telomeri dei cro mosomi, al rinnovo della popolazione di cellule stami nali, alla comu nicazione in tercellulare e alla riduzione dell’ambien te ossidati vo cellulare.

Tutti questi fattori in fluenzano processi che nell’uomo sono stati as sociati alla lon gevità e all’in vecchiamento in buona salute.

Nello studio i ricercatori spiega no che per stimolare il ringiovanimento delle meduse, le hanno poste in condizioni di stress. In segui to, durante ognuna delle fasi del processo di ringiovanimento, hanno

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congelato alcuni individui e ne hanno estratto l’mRNA, ricavando così una registrazione di quali geni sono stati attivamente utilizzati per produrre proteine in quel momento. Ciò ha consentito di fare un confronto genetico tra le due specie, e identificare i geni specializzati nella rigenerazione. Lo studio ha rivelato du rante il processo di ringiovanimento, diversi cambiamenti nell’espressione genica e segnali di silenziamento genico mediati dalla cosid detta via “Polycomb”, e una maggiore espres sione di geni correlati alla via della pluripo tenza cellulare. I geni legati alla pluripotenza, cioè alla capacità di una cellula di crescere in una varietà di forme completamente svilup pate erano silenziosi nella forma adulta, ma sono entrati in attività quando la medusa ha smontato il suo corpo e ha iniziato a ri costruirlo. Questi geni

sono poi tornati inattivi al termine del pro cesso.

I segnali di silenziamento genico e l’au mento dell’espressione di geni legati alla via della pluripotenza cellulare sono entrambi processi necessari affinché le cellule specia lizzate si de-differenzino e possano svilup parsi in qualsiasi tipo di cellula, formando così il nuovo organismo. Questi risultati sug geriscono che queste due vie biochimiche sono mediatori fondamentali del ringiovani mento ciclico di questa medusa.

Gli scienziati hanno inoltre paragonato un insieme di quasi 1.000 geni legati all’in vecchiamento e alla riparazione del DNA tra Turritopsis e altri cnidari e presentato un tra scrittoma specifico del processo di inversio ne del ciclo vitale di T. dohrnii. L’inversione dell’ontogenesi, spiegano gli autori, si verifica in alcune specie di cnidari, ma questa capa cità viene solitamente persa una volta che gli individui raggiungono la maturità sessuale. Solo tre specie del genere Turritopsis sono state segnalate per ringiovanire dopo la ripro duzione: Turritopsis dohrnii, Turritopsis sp.5 e Turritopsis sp.2. Tuttavia, mentre le ultime due diminuiscono bruscamente la loro capa cità di inversione dopo aver raggiunto la ma turità, T. dohrnii è l’unica che mantiene il suo alto potenziale di ringiovanimento (fino al 100%) nelle fasi post-riproduttive, raggiun gendo l’immortalità biologica.

Maria Pascual-Torner, ricercatrice presso il Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare dell’Università di Oviedo e prima autrice dell’articolo rile va che: «Piuttosto che esistere un’unica chiave per il ringiovanimento e l’immor talità, i vari meccanismi trovati nel nostro lavoro agirebbero sinergicamente per ga rantire il successo del processo di ringio vanimento della medusa immortale». Infi ne, Carlos López-Otín, un altro autore dello studio, precisa che: «Questo lavoro non cer ca di trovare strategie per realizzare i sogni di immortalità umana, ma di comprendere le chiavi e i limiti dell’affascinante plastici tà cellulare che permette ad alcuni organi smi di essere in grado di viaggiare indietro nel tempo». Da questa conoscenza gli autori si augurano di trovare risposte migliori alle molte malattie associate all’invecchiamento che oggi affliggono l’uomo. (S. B.)

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Associare luce, purificazione o di sinfezione non sembra qualcosa d’immediato, ma le speciali lampa de a led, sviluppate da Enea, oltre ad illuminare, possono sanificare da batteri e virus, tra cui quello responsabile del Covid (SARS-CoV-2), scuole, uffici e luo ghi pubblici, ma anche superfici, aria e acqua. Tutto in modo sicuro, rapido, sostenibile ed economico evitando l’impiego di sostanze chi miche aggressive dannose per l’Ambiente.

I loro nomi sono “Save” e “Uv-Cisana” e si basano su sistemi led (light emitting diode) di tipo UV-C (radiazione ultravioletta di tipo C con lunghezza d’onda da 200 nm a 280 nm; un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro). Chi le ha progettate ha voluto che non fossero ingombranti, però di facile installazio ne e utilizzo. Entrambe sono nate all’interno dei Centri ricerche di Brasimone (Bologna) e Frascati (Roma), specializzati nell’elettronica applicata e nell’ottica, grazie a competenze più che trentennali nello studio delle sorgenti di luce ultravioletta. Che cosa hanno di nuovo? Rispetto ad altri sistemi d’illuminazione “sani ficanti” che da anni possiamo trovare in giro, soprattutto in ambito ospedaliero, queste non utilizzano il mercurio, nocivo per l’Ambiente, non sono fastidiose e hanno tempi di accensio ne e spegnimento rapidi.

Per capirne di più, “Save” si presenta come una lampada da soffitto pronta per l’industria lizzazione, arricchita da un sistema smart che accoppia algoritmi e tecniche radar per la ge stione senza stress del personale. È già prov

vista di una certificazione virucida, la quale, oltre a sanificare, permette di organizzarne il funzionamento e segnalare l’eventuale ingres so indesiderato di persone o animali durante gli interventi. In quarantacinque minuti può rimuovere virus e batteri, incluso il SARSCoV-2, lavorando in un ambiente vuoto di cir ca 20 mq.

«Con un livello di maturità tecnologica 6, il cosiddetto Technology Readiness Level o TRL, il nostro prototipo “Save” è stato dimo strato in ambiente rilevante ed è pronto per l’industrializzazione. Per il futuro - aggiunge Mariano Tarantino, responsabile della divisio ne Enea di sicurezza e sostenibilità nucleare del Centro Ricerche di Bologna - prevediamo d’implementarne le funzionalità con sistemi di assistenza per ipovedenti e di estenderne l’ap plicazione, ad esempio, sui mezzi pubblici o in agricoltura, per la sanificazione da patogeni, come contributo al controllo della pandemia mondiale». Il progetto è stato finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e, in parte, da risorse dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo eco nomico sostenibile.

Passando a “Uv-Cisana”, è in grado di eli minare oltre il 99,9% di batteri e virus, incluso il SARS-CoV-2, anche con pochi secondi d’ir raggiamento. Le lampade a Led UV-C sono compatte, comodamente trasferibili, sostenibi li, con dimensioni e tempi riguardo accensione e spegnimento più brevi rispetto alle lampade a mercurio comunemente utilizzate. È stata sperimentata l’efficacia anche per la steriliz

NON SOLO LUCE CON LE LAMPADE ANTIBATTERICHE

Le nuove lampade illuminano e sanificano da batteri e virus scuole, uffici e luoghi pubblici di Gianpaolo Palazzo

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zazione in tempo reale di acqua con il flusso tipico di un comune rubinetto, così come per la sanificazione dell’aria in locali chiusi (uffici, aule scolastiche, negozi ecc.).

«La capacità sterilizzante dei Led UV-C, che emettono radiazione ultravioletta della banda C, è nota da tempo: la sua efficacia si basa sul fatto di essere assorbita efficacemen te dal Dna/Rna dei patogeni (virus, batteri, funghi), rompendone i legami e causandone quindi l’eliminazione o l’inattivazione. La tec nologia a Led UV-C - spiega Sarah Bollanti del laboratorio Enea di Applicazioni dei plasmi ed esperimenti interdisciplinari - è promettente e la nostra esperienza in ottica, e in particolare in sorgenti di luce ultravioletta, ci permette di progettare e realizzare dispositivi ad hoc per le diverse necessità. Siamo disponibili a nuove collaborazioni anche per valutare applicazioni in cui compattezza, trasportabilità e rapidità di utilizzo siano prioritarie, come ad esempio su treni, aerei e altri mezzi di trasporto».

Il dibattito scientifico su tali mezzi è an cora attivo dato che il documento dell’I stituto superiore di Sanità dal titolo “Raccomandazioni ad interim sul la sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19: ambienti/superfici” ricorda che «l’efficacia dell’a zione germicida della radiazione UV-C dev’essere valutata tenen do conto della possibilità d’inat tivazione incompleta del virus, in quanto va sottolineato che gli

Le lampade UV-C fluore scenti al mercurio rap presentano un pericolo poiché la radiazione UV-C di per sé non può essere percepita dall’essere umano dal momento che non è visibile e non dà al cuna sensazione termica. Alcune luci con lunghezze d’onda inferiori a 240 nm, producono ozono, un gas dannoso per la salute se inalato.

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studi che ne dimostrano l’efficacia, sono stati condotti in condizioni sperimentali controlla te, mentre alcune effettive di utilizzo possono ridurre l’efficacia. Infatti, la radiazione UV-C non può inattivare un virus o un batterio che non ne sia esposto direttamente. Quindi, ad esempio, i patogeni non saranno inattivati se coperti da polvere, incorporati in una super ficie porosa o se si trovano sul lato non irrag giato di una superficie, o se la lampada stessa risulta coperta da polvere o sporcizia. Va inol tre evidenziato che le lampade UV-C utilizzate per scopi di disinfezione possono comportare, in caso d’inappropriata esposizione diretta del le persone a tali radiazioni, effetti nocivi per la salute a carico in particolare della pelle e de gli occhi, la cui entità dipende dalla lunghezza d’onda di emissione, dall’intensità della radia zione e dalla durata dell’esposizione».

I l rischio con alcune lampade germici de può aumentare, ad esempio, se non fossero installate correttamente, se utiliz zate da persone non addestrate o se non ne viene verificata la loro conformità alle caratteristiche tecniche. I sistemi con lam pade UV-C fluorescenti al mercurio, tradi zionalmente montate a parete o a soffitto, potrebbero rappresentare un potenziale pericolo per gli operatori in assenza d’ido nei sistemi protettivi.

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46 GdB | Ottobre 2022 Ambiente © tn92/shutterstock.com I mozziconi di sigarette rappresentano il 42,2% dei rifiuti raccolti (13.483 su 31.961 totali) I POLMONI VERDI URBANI “FUMANO” TROPPO

“P

ark Litter” sono due parole che volontari e soci di “Le gambiente” conoscono, es sendo legate ai concetti di ambientalismo scientifico e attivismo dal basso. Quest’anno l’associazione del cigno verde è tornata a denunciare il proble ma dei rifiuti abbandonati che, purtroppo, non rispetta neppure i parchi urbani. La prova viene dai dati raccolti nella nuova indagine per il 2022 partita a maggio: sono 31.961 i rifiuti raccolti e ca talogati da 697 volontari nei 66 transetti realizzati in 56 parchi urbani di ventotto città, circa cinque rifiuti ogni metro quadrato monitorato.

Sul podio stravincono i mozziconi di sigarette accaparrandosi il 42,2% (13.483 su 31.961 totali), seguiti da tappi di bottiglia, di barattoli e linguette delle lattine (3.005 pari al 9,4% del totale), pez zi non identificabili di carta (2.575, l’8,1%), altri non individuabili di plastica (1.838, il 5,8%), bot tiglie di vetro e cocci (1.710, il 5,4%), sacchetti di patatine, dolciumi e caramelle (1.009, il 3,2%).

Riguardo ai cosiddetti DPI (Dispositivi di protezione individuale), le mascherine, che an drebbero tra gli indifferenziati, sono state ritro vate in 25 dei 56 parchi monitorati (44,6% delle aree verdi), mentre i guanti in 7 dei 56 (12,5%). La maggior parte della spazzatura rinvenuta, ol tre ad appartenere alla categoria legata al fumo, è attribuibile a quella dei prodotti “usa e getta” e degli “imballaggi” con, rispettivamente, il 21% (6.622 pezzi) e il 26% del totale (8.189 pezzi).

I monitoraggi sono stati effettuati in quasi ses santa grandi aree verdi pubbliche di ventotto città (Ancona, Avellino, Bari, Borgaro Torinese (TO), Cagliari, Castel Maggiore (BO), Cesena, Chia ravalle (AN), Firenze, Genova, Milano, Napoli, Nicolisi (CT), Perugia, Pescara, Piacenza, Pine to (TE), Policoro (MT), Pozzuoli (NA), Roma, Rovigo, San Donà di Piave (VE), San Pietro in Cariano (VR), Sant’Arpino (CE), Succivo (CE), Torino, Varese, Verona) ispezionando 6.600 mq.

Riuniti per categorie di materiali, ciò che l’incuria umana ha lasciato per terra sono per il 62,1% polimeri artificiali (plastiche) per un totale di 19.844, per il 13,5% carta e cartone (4.327), per il 12,7% metallo (4.055) e per il 7,1% vetro e ceramica (2.260). La percentuale restante (4,6%) è composta da avanzi in gomma, materiale orga nico, legno trattato, tessili, bioplastica, materiali misti e RAEE (Rifiuti di apparecchiature elettri che ed elettroniche). Se fissiamo lo sguardo sui primi in classifica, i mozziconi di sigarette, l’area

I volontari nel loro lavoro di controllo territoriale hanno usato la rotella metrica, il nastro segna letico bianco e rosso, la scheda di monitoraggio stampata, le buste per la raccolta dei rifiuti, i guanti e una macchina fotografica o il cellulare. Dopo una dura, ma appagante giornata, sotto il sole o un tempo nuvo loso, è stata compilata la scheda con le caratteristi che del parco e dell’area di monitoraggio, indicando anche la zona da transennare, quadrata o rettangolare, dell’am piezza di 10x10 oppure 50x2. Ogni risultato è stato poi trasferito sul modulo on-line, dando fattivamente una grossa mano per far aumentare l’interessamento della comunità verso un Am biente pulito e godibile.

in cui ne sono stati ritrovati di più si trova a Mi lano, il Parco della Martesana, con 1.090 pezzi; segue Avellino, Parco di Nunno, con 1.017 moz ziconi; Perugia, Parco Chico Mendes, con 953 mozziconi trovati in 100 m2, e San Donà di Pia ve, VE (Parco Europa) con 643 mozziconi.

La meticolosa analisi di quest’anno ha coin volto pure i cestini per la raccolta differenzia ta presenti in 62 dei 66 transetti creati: solo nel 24,2% dei casi (15 su 66 transetti) essi sono or ganizzati per la distinzione della spazzatura se condo materiali. La presenza di tombini e canali di scolo è stata constatata in 45 dei 66 transetti (68,2%). Tale parametro è stato annotato perché molti studi a livello mondiale hanno stabilito che uno dei principali colpevoli dell’inquinamento in ambiente marino sono proprio canali e corsi d’acqua connessi, di frequente, con la rete fogna ria urbana e la principale fonte dipende dall’inef ficiente controllo di quelli urbani.

«In questi trent’anni “Puliamo il mondo” –dichiara Stefano Ciafani, Presidente nazionale di “Legambiente” – ha contribuito a far crescere nei cittadini la consapevolezza sull’importanza della tutela dell’ambiente, della corretta gestione dei rifiuti e del ruolo dei singoli per migliorare il decoro degli spazi comuni. Lo abbiamo fatto con gli otto milioni di cittadini che hanno parte cipato alle pulizie dai primi anni Novanta, con cui abbiamo avviato anche numerosi percorsi virtuosi di valorizzazione del territorio una volta caratterizzato dal degrado. Ma oltre all’impegno dei cittadini, è bene che anche le istituzioni fac ciano la loro parte con interventi di promozione dell’economia circolare, facilitando ad esempio la realizzazione degli impianti di riciclo, a par tire dal Centro Sud, semplificando l’iter tor tuoso di approvazione dei decreti End of waste sulle materie prime seconde, promuovendo gli acquisti verdi, penalizzando economicamente sempre di più lo smaltimento in discarica e fa cendo pagare meno le utenze più virtuose con la tariffazione puntuale. Solo così ci libereremo una volta per tutte dalla dittatura degli impianti di smaltimento».

Nel 2021 i risultati delle indagini erano stati scoraggianti: circa sei rifiuti ogni metro quadra to monitorato, di cui il 27% mozziconi di siga rette, il 23% frammenti di carta, il 6,6% pezzi non identificabili di plastica, il 6,3% materiale da costruzione, il 4% bottiglie di vetro e fram menti, il 4% tappi di bottiglia, di barattoli o lin guette di lattine. (G. P.).

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medievali sembravano confermare tut to questo. Se non che nel 1983, un gio vane Miski nel pieno delle sue ricerche nei pressi del monte Hasan, in Cappa docia, si imbatté in questa rara erba dai fiori gialli. Al tempo, lo scienziato stava studiando sul posto le piante del gene re Ferula e constatò che la pianta era stata descritta nella letteratura scienti fica una sola volta (nel 1909), e che le era stato dato il nome di Ferula drude ana. Ricerche successive hanno dimo strato che nelle radici di questa pianta si trovano 30 diverse sostanze dalle va rie proprietà (antinfiammatorie, con traccettive ecc.), e la presenza in tale quantità di queste sostanze, rende la Ferula drudeana unica, quasi fosse un concentrato di più piante medicinali. Solo nel 2012, tuttavia, il farmacologo cominciò a notare le somiglianze tra la pianta e l’antico silfio di cui aveva letto nei vecchi testi di botanica.

LA FERULA DRUDEANA TRA STORIA ANTICA E SCIENZA

Gli studi del farmacologo Mahmut Miski avanzano l’ipotesi della possibile non estinzione di un pianta famosissima nell’antichità, il silfio

Mahmut Miski è un farma cologo dell’Università di Istanbul specializzato in farmacognosia, lo studio dei medicinali ricavati da piante e funghi. Nel 2021 lo scienzia to turco, condividendo i risultati di al cuni suoi studi in un articolo pubblicato sulla rivista “Plants”, ha avanzato un’i potesi importante riguardo la possibile non estinzione di un pianta famosissima nell’antichità, il silfio. Tanto caro ai gre ci quanto ai romani, mentre i primi lo usavano come rimedio per vari malesse ri nell’antica Roma era molto rinomato come spezia. Chiamato dai romani la

serpicio, questa pianta è citata in diversi testi antichi come la Naturalis historia di Plinio il Vecchio o il De re coquinaria di Marco Gavio Apicio (gastronomo, cuoco e scrittore romano vissuto tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C.). La testi monianza di Plinio, oltre a confermare le proprietà curative della resina del sil fio (il “laser”) e quanto fosse pregiato, è quella che ha dato modo di pensare una sua possibile estinzione.

Plinio nella Naturalis historia so stenne infatti che l’ultimo stelo presen te in Cirenaica (la regione in cui il silfio cresceva) fu mandato all’imperatore Nerone, e le ricerche svolte dagli storici

La Ferula drudeana ha radici tozze, simili a quelle del ginseng, uno stelo da cui si allungano grappoli di fiori quasi sferici, foglie simili a quelle del sedano e frutti a forma di cuori invertiti: tut te caratteristiche comuni al silfio. Pli nio il Vecchio scrisse inoltre che essa compariva d’improvviso dopo grandi temporali, e in Cappadocia la Ferula drudeana spunta generalmente dopo le piogge di aprile. Proprio come il sil fio è anche molto difficile da trapian tare, e i collaboratori di Miski sono riusciti a farlo solo grazie a tecniche contemporanee. Non si può tuttavia affermare che la Ferula drudeana sia il silfio per mancanza di prove defini tive. Affinché l’ipotesi di Miski possa essere confermata, sarebbe necessario trovare resti biologici dell’antica pian ta. Peraltro, se le due piante fossero la stessa, non c’è una spiegazione certa su come avrebbe fatto a passare dalla Cirenaica alla Cappadocia. L’ipotesi di Miski è che alcuni semi vennero por tati nella regione turca circa duemila anni fa dai greci che l’hanno abitata per secoli: alcuni studiosi ritengono che l’ipotesi di Miski sia verosimile, altri sono più scettici.

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Ambiente
di Michelangelo Ottaviano © Firnthirith/shutterstock.com

Nell’ultima scena del primo atto della celebre tragedia shakespeariana “Antonio e Cleopatra” si assiste alla sofferenza della Regina d’Egitto, che ordina con voce doloran te ad una sua ancella di darle da bere della mandragora per farla dormire «nel gran vuoto di tempo che Antonio è via». La mandragora (o mandragola) è una pianta appartenente alla famiglia delle solanacee, la stessa di alcuni or taggi e tuberi “classici” come pomo dori, melanzane e patate, ma anche di piante tossiche come la belladonna. Essa è ampiamente distribuita nel Me diterraneo, in Europa centrale e occi dentale e nel Nord America.

Tra le specie presenti in Italia vi sono la Mandragora officinarum che si trova nei boschi di latifoglie e fiorisce in pri mavera, e la Mandragora autumnalis, che invece si trova nei campi o in luo ghi incolti e aridi e, come suggerisce il nome, fiorisce in autunno. Si tratta di un’erba perenne con fiori blu pallido, foglie oblunghe, bacche gialle rotonde e una radice carnosa, spesso biforcuta. La radice ha sembianze antropomorfe e le foglie assomigliano a quelle di altre verdure a foglia verde, come la bietola o gli spinaci. La somiglianza con queste ultime però si ferma qui, perché tutte le parti della pianta di mandragora sono velenose. Il motivo per cui di recente è riemersa una certa attenzione attorno a questa pianta non è purtroppo legato a quella che si può definire una bella noti zia. Agli inizi di ottobre in diversi comu ni dell’area flegrea, in Campania, dieci persone sarebbero rimaste intossicate dopo aver consumato mandragora.

Non è la prima volta che si parla di avvelenamenti causati da questa pianta: nel corso degli anni sono state raccolte diverse segnalazioni di avvelenamento da consumo accidentale a causa dell’ele vata somiglianza con verdure commesti bili o uso improprio come farmaco afro disiaco. La tossicità della mandragora deriva dalla presenza di alcaloidi tossici come la scopolamina, l’atropina e la io scina. Questi ultimi sono potenti agenti

IN ITALIA, INTOSSICAZIONE DA MANDRAGORA

Nel corso degli anni sono state raccolte diverse segnalazioni di avvelenamento da consumo accidentale a causa dell’elevata somiglianza con verdure commestibili

anticolinergici, che cioè ostacolano e impediscono l’attività di alcuni recettori localizzati nel sistema nervoso centrale e periferico, provocando soprattutto con traccolpi psico-neurologici.

Alcuni report recenti hanno osser vato che i sintomi provocati dall’inge rimento delle foglie della mandragora assieme a quelle di bietola e spinaci, si manifestano generalmente a 1-4 ore dall’ingestione, e comprendono, per ciò che riguarda il sistema nervo so periferico, vista offuscata, vertigini, mal di testa, vomito, difficoltà nella deglutizione, dolori addominali e ta chicardia. Tra i sintomi a carico del si

stema nervoso centrale vi sono invece allucinazioni, iperattività, agitazione e deliri. Nonostante la mancanza di co noscenze scientifiche contemporanee sull’argomento, ancora una volta, la poeticità delle parole di Shakespeare sembra confermare tutto questo quan do definisce la mandragora come «la radice insana che imprigiona la men te». Generalmente, gli avvelenamenti da mandragora sono curati in ospedale con l’esecuzione di una lavanda gastri ca e la somministrazione di fisostigmi na, un composto che ha effetti opposti a quello degli alcaloidi contenuti nella mandragora. (M. O.).

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A PADOVA LA 10ª EDIZIONE DEL GALILEO-FESTIVAL

Itre grandi temi, praticamente sempre al centro di ogni conferenza, sono stati innovazione, sostenibilità e spazio e space economy

raccontato l’esperienza del volo umano nello spazio per poi soffermarsi sui pro gressi e sulle innovazioni tecnologiche dei veicoli e delle attrezzature spazia li. In piena continuità con l’intervento dell’astronauta milanese, sono state poi le analisi e le riflessioni di Serena Fuma galli e Simonetta Di Pippo. La prima, economista della direzione Studi e ricer che di Intesa Sanpaolo, ha presentato i numeri che testimoniano la crescita, e quindi il successo, del “made in Italy” nel settore della manifattura spaziale. In Italia vi sono infatti molte piccole im prese specializzate che si occupano di progettazione software, rielaborazione dei dati satellitari e produzione di com ponenti per veicoli spaziali e telecomu nicazioni via satellite.

Nei giorni di venerdì 14, sabato 15 e domenica 16 ottobre si è svolto a Pado va il Galileo Festival,uno degli eventi più importan ti d’Italia dedicato alle nuove frontiere della scienza e all’innovazione, arrivato alla sua 10ª edizione.

Promosso dal Comune di Padova e ItalyPost, diretto dal saggista ed edito rialista scientifico del Corriere della Sera Giovanni Caprara e curato da Goodnet Territori in Rete, il Galileo Festival ha visto avvicendarsi in questi tre giorni ospiti illustri (più di 150 speaker), che hanno portato a termine il ricchissimo

programma di incontri aperti al pub blico. I tre grandi temi, praticamente sempre al centro di ogni conferenza, sono stati innovazione, sostenibilità e, ancor più al centro degli altri, spazio e space economy. I vari interventi sono stati organizzati in sei sezioni diverse: “I grandi eventi”, “Dialoghi sul futuro”, “Impresa e innovazione”, “Space eco nomy”, “Robotica e intelligenza artifi ciale” e “Biotech e medicina”. Dopo il benvenuto di Andrea Colasio, assesso re alla Cultura Comune di Padova, c’è stata in apertura l’intervista di Caprara a Paolo Nespoli, astronauta dell’Agen zia Spaziale Europea (ESA). Nespoli ha

Simonetta Di Pippo, direttore dello Space Economy Evolution Lab di Sda Bocconi, ha parlato invece di futuro e investimenti per lo spazio, insistendo sul fatto che il talento delle eccellenze italiane deve essere valorizzato attra verso investimenti a lungo termine e progetti strutturati. L’Italia ha tutte le carte in regola per collocarsi ai vertici dell’economia spaziale mondiale, basti pensare che il nostro Paese è quinto al mondo per brevetti depositati, settimo per investimenti pubblici in percentua le sul Pil e quarto per il commercio di tecnologie spaziali. Tra i vari interventi da segnalare c’è anche quello di Marco Bianchi, protagonista della divulgazione delle nuove frontiere del nutrizionismo. A concludere il Festival in bellezza, han no parlato il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi e il massimo teorico del la centralità della intelligenza artificiale Luciano Floridi. Il fisico romano si è soffermato sulla centralità della scienza, sul tempo e sulla fiducia di cui la ricer ca scientifica necessita per realizzare un domani ciò che non sembra possibile fare oggi. Floridi, docente di Filosofia ed Etica dell’informazione Oxford Uni versity, invece, riallacciandosi alla parte finale del discorsi di Parisi sulle intelli genze artificiali, ha parlato dell’impor tanza di una giusta gestione di tali tec nologie.(M. O.).

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Ambiente
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PREVENZIONE

questo rischio poca comunicazione, anche se si tratta del rischio di tu more al polmone, se le persone sono esposte a determinati livelli. Il radon si trova solo in alcune zone, quelle in cui i suoli di origine vulcanica con tengono radio. Gli strumenti di pre venzione del rischio sono ben noti e piuttosto semplici, come l’areazione forzata o l’isolamento dei locali.

Il radon è un gas radioattivo di origine naturale, inodore, in colore e insapore non perce pibile dai nostri sensi e, per tanto, difficile da individuare e quantificarne la presenza. Il radon si trova, soprattutto, nei locali, specie quelli a diretto contatto con il suo lo, come cantine, scantinati, taverne, garage, perché il terreno è la fonte principale in cui questo gas abita. Il pericolo maggiore del gas radon è correlato all’inalazione: inspirato in quantitativi in eccesso e per periodi prolungati, può provocare seri danni

alla salute, in particolare ai polmoni. Invece, l’aspetto “positivo” è rap presentato dal fatto che difendersi dal radon è relativamente semplice grazie alla sua volatilità, cioè alla sua capacità di disperdersi rapidamente e facilmente nell’aria.

Il gruppo di ricerca Epidemiolo gica Ambientale di Ifc-Cnr ha pub blicato recentemente una revisione sistematica di letteratura sulla per cezione, la consapevolezza e la cono scenza del rischio radon. Il gas radon è conosciuto dagli esperti ma non dal grande pubblico, ed è stata fatta su

Siamo in questo periodo nella fase di applicazione della Direttiva Euratom (2013/59), che stabilisce le norme fondamentali di sicurezza relative alla protezione contro i pe ricoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti. Ogni paese europeo deve stabilire lo stato della situazione e le azioni di prevenzione da intraprendere per proteggere i la voratori e la popolazione in generale. Il Piano Radon ancora in vigore è del 2002 e, in seguito a quelle direttive, si cominciò a disegnare una mappa del rischio in ciascuna regione, mentre i Piani Nazionali di Prevenzione, che le Regioni adattano sui propri terri tori, già dal 2014 prevedono attività di monitoraggio e di prevenzione di questo importante inquinante inter no. La rassegna ha permesso di esa minare a fondo ben 40 articoli, di cui 4 scritti sulla base di esperienze italiane, e verificare quanto ci sia da fare in termini di diffusione delle co noscenze e comunicazione. Un lavo ro sistematico è iniziato negli Stati Uniti già dagli anni ’80, in altri paesi le esperienze sono meno strutturate e approfondite, ma si constata che la percezione del rischio rimane bassa o molto bassa. Il rischio radon, infatti, possiede caratteristiche che fanno in modo che sia facile minimizzarlo o evitare di porsi il problema: non è percepibile con i sensi, non provoca effetti evidenti, che sono anche lon tani nel tempo, il tipo di rischio (tu more al polmone) è tipicamente mul tifattoriale e si può sempre attribuire a qualcosa d’altro, bisogna fidarsi di chi da le informazioni e non pensare che abbia secondi fini.

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GAS RADON.
E COMUNICAZIONE Un gas radioattivo, poco conosciuto causa di tumore al polmone Innovazione
© Francesco Scatena/shutterstock.com
di Pasquale Santilio

L’Istituto per la bioecono mia del Cnr e l’Università degli studi dell’Insubria di Varese in collaborazio ne con diverse Comunità Montane, nell’ambito del progetto denominato Avabicarel- Analisi e valorizzazione della biodiversità del castagno nella Regione Lariana- stan no studiando il patrimonio genetico di una decina di popolazioni di ca stagno lombarde, rilevanti sia per il loro pregio, sia per la loro diffusione. I lavori prevedono indagini genetiche effettuate dal Professor Giorgio Bi nelli del Dipartimento di Biotecnolo gie e Scienze della Vita di Uninsubria e analisi morfologiche condotte dal Dottor Claudio Cantini del Cnr-Ibe.

Nel corso dei lavori sui territori lombardi è arrivata la segnalazione da parte dei tecnici del Consorzio Fo restale di Prata Camportaccio della presenza, in Valchiavenna, di nume rose piante di castagno in fioritura. Questo fenomeno rappresenta una importante e preoccupante anoma lia, in quanto la fioritura del castagno avviene nel mese di giugno, mentre a settembre i frutti già si preparano alla maturazione con varietà precoci che già aprono i ricci e fanno cadere le castagne a terra. L’analisi dei rami fa capire come questa fioritura set tembrina stia avvenendo sulla vege tazione formata nella primavera del 2022, coinvolgendo quindi le gemme che dovevano essere dormienti e che sarebbero dovute fiorire durante il prossimo anno. I ritmi naturali delle piante risultano fortemente stravolti e la colpa può essere imputata alle anomalie stagionali. Fenomeni simi li, infatti, sono già conosciuti su altre specie di interesse agrario ed erano stati notati anche sul castagno, in for ma limitata, in varie zone del centro Italia.

Claudio Cantini del Cnr ha dichia rato: ”Il forte stress idrico unito alle alte temperature hanno fatto saltare i meccanismi fisiologici di regolazione dei cicli naturali delle piante ed ap

STRESS IDRICO FA “IMPAZZIRE” LE PIANTE DI CASTAGNO

Siccità e alte temperature hanno provocato un’anomala fioritura in Valchiavenna

pena sono variate le condizioni cli matiche, con accorciamento del foto periodo, sopravvenienza di piogge e abbassamento delle temperature not turne, le piante hanno reagito come fanno di solito al termine del periodo invernale: le gemme sono andate in fioritura interrompendo la dormien za”. Il problema è determinato dal fatto che questa seconda fioritura non comporta una seconda produzio ne, ma rappresenta un dispendioso e dannoso uso delle sostanze di riser va delle piante, una sorta di “sparo a vuoto”. Infatti, le gemme che sono andate a fiore adesso non fioriranno

il prossimo anno, abbattendo quindi la produttività. Il Prof. Binelli segna la come “la risposta a questi stress ambientali non è omogenea e come sia quindi importante evidenziare le differenze genetiche presenti a livello varietale, in modo da individuare le piante capaci di meglio reagire a que sti andamenti stagionali anomali”. La capacità di adattamento delle piante è duramente messa alla prova dalla velocità dei cambiamenti climatici; la biodiversità presente nelle specie agrarie e arboree potrà aiutarci ad individuare le piante più capaci di re sistere o di reagire. (P. S.).

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Innovazione
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I SATELLITI STUDIANO LA GRANDINE

La ricerca, pubblicata sulla rivista Remote Sensing, ha riguardato l’area del Mediterraneo

La grandine è una precipita zione atmosferica formata da tanti pezzi di ghiaccio, generalmente sferici o sfe roidali, che cadono dalle nubi cumuliformi più imponenti, cioè i cumulonembi. Lo studio dei granelli di grandine viene condotto con un par ticolare strumento di misura chiamato grelimetro (il chicco di grandine più pesante è stato registrato nel distretto di Gopalganj in Bangladesh il 14 aprile 1986, con un peso di 1,02 Kg).

Una ricerca dell’Istituto di scien ze dell’atmosfera e del clima del Cnr,

pubblicata dalla rivista Remote Sen sing, ha utilizzato i dati satellitari per studiare la climatologia delle precipi tazioni di grandine nell’area del Medi terraneo negli ultimi 22 anni. Per tutti i fenomeni grandinigeni la tendenza è in crescita di circa il 30% nell’ultimo decennio. I fenomeni temporaleschi che danno origine alla formazione di grandine hanno sempre destato inte resse, anche in relazione ai danni che possono arrecare alle aree colpite. Lo studio delinea una nuova mappa di vulnerabilità delle precipitazioni di grandine avvenute nel Mediterraneo

nell’ultimo ventennio. Sante Laviola, ricercatore del Cnr-Isac e primo auto re della ricerca, ha spiegato:” Esami nando i dati raccolti dalle osservazioni satellitari dei radiometri a microon de della costellazione internazionale Global Precipitation Measurement mission, siamo riusciti a ricostruire la distribuzione spaziale e tempora le degli eventi grandinigeni nel baci no mediterraneo dal 1999 al 2021”. I fenomeni sono stai raggruppati in due categorie di severità: grandina te intense (caratterizzate da chicchi con diametro variabile da 2 a 10 cm) e grandinate estreme (associate alla formazione di aggregati ghiacciati con diametro superiore a 10 cm).

“ A differenza dell’Europa centra le, dove questi fenomeni avvengono principalmente in tarda primavera e in estate, nell’Europa meridionale (in particolare nel sud Italia, nella peni sola iberica e in Grecia), dove il clima è influenzato dall’elevata insolazione e dalla vicinanza al mar Mediterra neo, le condizioni ambientali sono le principali responsabili della formazio ne di forti grandinate durante la fine dell’estate e l’autunno. In questa fase dell’anno si registrano i valori più alti sia per quanto riguarda i fenomeni in tensi che per quelli estremi”, ha prose guito il ricercatore.

L’analisi del trend per tutto il pe riodo considerato mostra una ten denza in crescita per tutti gli eventi grandinigeni, rivelando nel decennio 2010-2021 una crescita media rispetto al decennio precedente di circa il 30% per entrambe le categorie di severità. Sante Laviola ha concluso:” Questo risultato sembra trovare piena ade renza con gli andamenti delle princi pali variabili climatiche alla base della formazione dei sistemi temporaleschi intensi. Va comunque considerata la possibile incidenza del cambiamento climatico sulla frequenza, distribuzio ne e intensificazione di questi feno meni, su scala globale e all’interno di hot-spot climatici, ovvero aree clima ticamente più vulnerabili”. (P. S.).

54 GdB | Ottobre 2022
Innovazione
© Suzanne Tucker/shutterstock.com

Nei Centri Ricerche Enea di Brasimone (Bologna) e Frascati (Roma) sono state realizzate le prime lampade Led che, oltre ad illuminare, sono anche in grado di sa nificare da batteri e virus, tra cui quello responsabile del Covid, scuole, uffici e luoghi pubblici, oltre a superfici, aria e acqua, in modo sicuro, rapido, sosteni bile ed economico. Le due tecnologie si chiamano SAVE e UV-CiSANA e si basano su sistemi Led di tipo UV-C non ingombranti, di facile installazione e utilizzo. Rispetto ai sistemi di illumi nazione “sanificanti” utilizzati da anni, soprattutto, in ambito ospedaliero, queste lampade sterilizzanti non utiliz zano il mercurio, nocivo per l’ambien te, non sono ingombranti e hanno tem pi di accensione e spegnimento rapidi.

SAVE, in particolare, è una lampa da da soffitto pronta per l’industria lizzazione, dotata di un sistema smart che abbina algoritmi e tecnologie radar per la gestione sicura del personale. Di facile installazione e già dotata di cer tificazione virucida, oltre a sanificare consente di programmarne il funzio namento e segnala l’eventuale ingresso indesiderato di persone o animali du rante le operazioni. In soli 45 minuti è in grado di sanificare da virus e batteri, incluso il SARS-CoV-2, un ambiente di circa 20 mq, in assenza di persone e animali.

Mariano Tarantino, responsabile della divisione Enea di Sicurezza e so stenibilità nucleare del Centro Ricer che di Bologna, ha dichiarato:” Con un livello di maturità tecnologica 6, il co siddetto Technology Readiness Level o TRL, il nostro prototipo SAVE è stato dimostrato in ambiente rilevante ed è pronto per l’industrializzazione. Per il futuro prevediamo di implementare le funzionalità con sistemi di assistenza per ipovedenti e di estenderne l’appli cazione, ad esempio, sui mezzi pubblici o in agricoltura, per la sanificazione da patogeni, come contributo al controllo della pandemia mondiale”. Il progetto SAVE è stato finanziato dal Ministero

LAMPADE AL

dell’Università e della Ricerca e, in par te, da risorse Enea.

Per quanto riguarda UV-CiSANA, si tratta di lampade innovative a Led UV-C per sanificare superfici, aria e acqua, in grado di eliminare oltre il 99,9% di batteri e virus, incluso il SARS-CoV-2, anche in pochi secondi di irraggiamento. Le lampade a Led UV-C sono compatte, facilmente tra sportabili, sostenibili e con dimen sioni e tempi di accensione e spegni mento ridotti rispetto alle lampade a mercurio comunemente utilizzate. La tecnologia è efficace anche per la ste

rilizzazione in tempo reale di acqua con flusso tipico di un comune rubi netto, così come per la sanificazione dell’aria in locali chiusi.

Sarah Bollanti del laboratorio Enea di Applicazioni dei plasmi ed esperi menti interdisciplinari, ha spiegato:” La capacità sterilizzante dei LED UVC, che emettono radiazione ultravio letta della banda C, è nota da tempo: la sua efficacia si basa sul fatto di esse re assorbita efficacemente dal DNA/ RNA dei patogeni, rompendone i le gami e causandone quindi l’elimina zione o l’inattivazione”. (P. S.).

55GdB | Ottobre 2022
LED PER SANIFICARE GLI AMBIENTI Oltre a illuminare, la tecnologia UV-C gli fornisce anche caratteristiche antibatteriche e anticovid Innovazione
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L’Alpe Pedroria sfiora i 2000 metri (si ferma a 1929), l’Alpe Madrera i 1500 (1435, per la precisione). Dalla loro sommità si può ammirare un panorama unico e incontaminato, uno spaccato alpino fatto di boschi, pascoli, antichi sentie ri e terreni che diventano via via più franosi man mano che ci si avvicina alle altitudini più significative. Con i loro 200 ettari di boschi, alpeggi e antiche casere l’Alpe Pedroria e l’Al pe Madrera sono il bene più esteso del FAI, una piccola, grande fetta di paesaggio alpino incastonata nel cuore del Parco delle Orobie Valtellinesi che il Fondo Ambiente Italiano ha ricevuto in eredità nel 2011 dall’architetto Ste fano Tirinzoni con un compito preciso: preser vare le testimonianze delle antiche tradizioni montane. Missione rinnovata e portata a termi ne di anno in anno, prevalentemente d’estate, con operazioni come quella che ha consentito di recente il consolidamento e il recupero del la stalla grande, il più esteso edificio rurale di montagna dell’alpeggio. L’ultima di una lunga serie di interventi volti a preservare l’aspetto e la funzione di un paesaggio che è un autentico scrigno di biodiversità.

Basti pensare che venti di que sti 200 ettari, per anni tri stemente abban

donati, oggi sono tornati a essere dei floridi pascoli, col recupero e la messa in funzione di baite, malghe, stalle e calècc, antiche co struzioni per la lavorazione del Bitto, delizio so formaggio d’alpeggio e di stalla valtellinese che si produce lavorando il latte vaccino cru do in loco per due volte al giorno, la mattina e la sera, subito dopo la mungitura. Il primo intervento è stato il recupero del sentiero che dal Rifugio Alpe Piazza porta all’Alpe Pedro ria, mezz’ora di cammino in un piccolo angolo di paradiso, ridenominato Sentiero Tirinzoni.

Poi si è proceduto al restauro della baita e del baitello del gestore dell’alpeggio, quindi a quelli dei calècc e della iconica tecia, termine dialettale che indica la tettoia aperta sotto la quale possono ripararsi gli animali al pascolo.

Il passo successivo è stata la riattivazione dei pascoli in quota col trasferimento di greggi di pecore, capre e di mandrie di vacche come le Brune Alpine e le Ca pre Orobiche, specie au toctone a rischio estinzione.

56 GdB | Ottobre 2022 Beni culturali
57GdB | Ottobre 2022 Beni culturali ALPE PEDRORIA E ALPE MADRERA, SCRIGNI DI BIODIVERSITÀ AD ALTA QUOTA Duecento ettari di paesaggio nel cuore delle Alpi Orobie, in Valtellina, culla di antiche tradizioni. Tra pascoli, boschi e alpeggi dove si produce il Bitto e si può ascoltare il canto del gallo forcello di Rino Dazzo © Annalisa Cama

Per millenni, del resto, l’economia del po sto è stata scandita dai ritmi della natura, dal lento e progressivo spostamento delle man drie tra gli alpeggi. Ne sono testimonianza le Baite Eterne, tutte dotate di stalle e formag gere e raggiunte puntualmente dai pastori alla guida dei loro animali. Lo sono anche i bàrek, recinti in pietra per mandrie fatti di muretti a secco che, proprio come i calècc, le stalle e

le malghe, contribuiscono a fortificare il pae saggio, rendendolo più resiliente alla sfida del cambiamento climatico. Proprio così: la pre senza dei muretti a secco in pietra favorisce anzitutto la proliferazione di piante e animali, che tra i loro anfratti trovano condizioni favo revoli per prosperare, consentendo ad esem pio a insetti, uccelli e piccoli rettili di trovare rifugio o nidificare.

Ma i muretti a secco, che l’Unesco nel 2018 ha inserito nella lista degli elementi immateria li dichiarati Patrimonio dell’umanità, svolgono anche una funzione di prevenzione dalle frane e di difesa del suolo, rallentando e incanalan do l’acqua piovana. Una sorta di meccanismo protettivo del territorio attivato sì dall’uomo, ma del tutto naturale.Tutta questa rete di mu retti fatta di calècc, bàrek, tecie, o anche di costruzioni più elaborate come stalle, baite e malghe costituisce una sorta di contrafforte per le grandi cime che si ammirano dagli alpeggi: i monti Pisello, Culino e Lago, tutti di altitudine compresa tra i 2250 e i 2350 metri. Montagne che si possono raggiungere con facilità grazie ai numerosi sentieri che offrono la base per sugge stive e impareggiabili escursioni panoramiche. Ecco perché tutte le misure intraprese hanno consentito di rilanciare l’attività pastorizia e la produzione del Bitto, ma anche di ripristinare pascoli e prati dove animali unici e rari possono vivere in armonia con le loro esigenze e abitudi ni. È il caso del gallo forcello, che di questi verdi alpeggi ha fatto le sue arene di canto: durante la stagione degli amori questo meraviglioso pen nuto, conosciuto anche come fagiano di monte, dà sfoggio della propria abilità, mettendosi in mostra con virtuosismi che denotano la sua stra ordinaria capacità canora. Ma sono tante le spe cie che trovano il loro habitat ideale tra i multi formi paesaggi delle Alpi Pedroria e Madrera: 70 dei 200 ettari del Bene sono infatti costituiti da boschi, gran parte dei quali dominati dalla presenza suggestiva e bella da vedere dell’abe te rosso, che costituisce l’esenza arborea mag giormente rappresentata. Non mancano, però, splendide testimonianze di altri arbusti, come alcuni fusti monumentali di faggio o di castagno. Raggiungere l’Alpe Pedroria e l’Alpe Madrera è facilissimo: sono poste, di fatto, sopra l’abitato di Talamona, in provincia di Sondrio, che dista poco più di 100 chilometri da Milano e da cui è raggiungibile attraverso la SS36 del Lago di Como e dello Spluga oppure in treno.

58 GdB | Ottobre 2022 Beni culturali
© Annalisa Cama

La città di Firenze sarà la sede dell’European Research Infra structure for Heritage Science (E-RIHS), l’ente che coordinerà i migliori laboratori, gli archivi fisici e digitali, nonché le tecnologie all’a vanguardia su tutto territorio europeo in tema di beni culturali. L’attività di studio sarà organizzata negli spazi della Manifat tura Tabacchi, in origine fabbrica di sigari fiorentina. A coordinare il lavoro dell’ERIHS sarà il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha ottenuto dalla Commis sione Europea di istituire la sede di que sta infrastruttura nel capoluogo toscano, simbolo del Rinascimento e del restauro del patrimonio culturale. Il polo si occu perà soprattutto di favorire l’innovazione nella conoscenza, conservazione e gestio ne dei siti archeologici, dei monumenti e delle opere d’arte, integrando le discipline scientifiche e d’avanguardia con le scienze umane. «Siamo orgogliosi che l’Italia sia capofila dell’European Research Infra structure for Heritage Science - dichiara Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr -. Sono lieta che un hub scientifico di tale portata trovi sede a Firenze, dove l’ar te dialogherà con la scienza e la tecnolo gia. La forza del nostro Paese e del nostro Ente - continua – è proprio nella collabo razione interdisciplinare grazie a cui sarà possibile approfondire le conoscenze sul patrimonio culturale, per salvaguardarlo e consegnarlo alle future generazioni. Il progetto E-RIHS permetterà di affrontare le problematiche legate ai beni culturali: dal restauro alla fruizione, dalla conserva zione alla valorizzazione, dal monitorag gio alla gestione, dalla tutela al mercato turistico. Questo strumento consentirà di mettere a sistema le migliori expertise per svolgere ricerca di eccellenza, costituendo un’unica infrastruttura all’avanguardia internazionale in materia di patrimonio culturale, naturale e archeologico, con la boratori e centri in tutta Europa».

Luigi Salvadori, presidente della Fon dazione CR Firenze, che con il Cnr ha

A FIRENZE L’HUB EUROPEO PER LA RICERCA SUI BENI CULTURALI

Negli spazi della Manifattura Tabacchi sorgerà un polo scientifico dedicato all’innovazione, alla gestione e alla conservazione di monumenti, siti archeologici e opere d’arte

collaborato alla realizzazione di questo imponente progetto, si dice orgoglioso dell’arrivo di una prestigiosa struttura europea nella sua città. «Una infrastrut tura di conoscenza di grandissimo respi ro – commenta Salvadori - che trasforma Firenze nella vera capitale mondiale per il restauro, la ricerca, l’innovazione e l’alta formazione». La sede di E-RIHS coinvol ge una parte della porzione centrale del B8, l’edificio originariamente destinato a Direzione e Servizi Generali della fab brica che segna l’ingresso monumentale della Manifattura Tabacchi. «La scelta di Firenze e in particolare di Manifattura Tabacchi quale sede di una struttura di ri

cerca di così grande prestigio ci riempie di orgoglio e siamo molto grati a Fondazione CR Firenze e CNR per la fiducia che ci hanno accordato - ha dichiarato Giovan ni Manfredi, Amministratore Delegato di Manifattura Tabacchi -. Immaginare la nuova casa fiorentina di E-RIHS è impe gnativo: l’edificio è straordinario – prose gue - e vogliamo recuperare in tutto il suo fascino, aggiornandolo tecnologicamente per raggiungere i più alti standard di so stenibilità ambientale. In linea coi principi dell’economia circolare, qui come nel re sto di Manifattura, abbiamo scelto di pre servare anziché ricostruire, di celebrare l’heritage nella progettazione».

59GdB | Ottobre 2022
Beni culturali
* Consigliere tesoriere dell’Onb di Pietro Sapia*

KITESURF

SARDEGNA

MONDIALI

60 GdB | Ottobre 2022 Sport WINDSURF E
SICILIA E
ISOLE...
di Antonino Palumbo Il Golfo di Mondello a Palermo ha assegnato i titoli iridati Windsurfer mentre il Golfo degli Angeli a Cagliari si è colorato con le vele della Formula Kite, disciplina olimpica dal 2024

Il windsurf in Sicilia, il kitesurf in Sar degna. Ottobre è stato un mese mese di grandi appuntamenti velistici nelle due maggiori isole italiane e nei rispet tivi capoluoghi: Palermo che ha ospi tato i Mondiali di windsurf, mentre Cagliari è stata teatro della rassegna iridata di Formula Kite, la classe olimpica che debutterà a Parigi 2024.

Il Windsurfer World Championship nel Golfo di Mondello è stato un autentico trionfo di chi quelle acque e quel vento li conosce bene. Fra i 400 atleti prove

61GdB | Ottobre 2022 Sport

nienti da 25 nazioni, con italiani e australiani in maggioranza, a dettar legge sono stati in fatti i siciliani: nella gara divisa per categorie di peso e di genere, i surfisti di casa si sono aggiudicati quattro medaglie d’oro su cinque nella Course race, brillando anche nello Sla lom e nella Long race.

A far risuonare l’Inno di Mameli nella Course race sono stati i palermitani Marco Casagrande dell’Albaria (leggeri), Alessandro “Tonno” Alberti del Clubino del Mare (me dio-pesanti), Riccardo Giordano dell’Albaria (pesanti) e la marsalese Laura Linares nella categoria femminile. A spezzare il dominio azzurro è stato un veterano della disciplina, l’olandese Stephan Van den Berg, oro olim pico a Los Angeles nel lontano 1984, e primo fra i “medio-leggeri”. Casagrande ha poi fatto il bis conquistando il titolo della Long distan ce, spettacolare regata che ha portato i velisti dall’Albaria in direzione dell’Addaura fino all’altezza dell’istituto Roosvelt per poi tor nare nuovamente all’Albaria dopo 70 minuti di regata. Nello Slalom successi di categoria per il francese Eric Belot (leggeri), per Silvio Catalano (medio-leggeri), per l’australiano Michael Lancey (medio-pesanti), per il pa lermitano Paco Wirz (pesanti) e la solita Lina Linares. Per i surfisti di casa da aggiungere la prestazione sorprendente del quattordicenne palermitano Blasco Aronica (Cv Sferracaval lo), sesto assoluto tra i leggeri, ma vincitore della classifica under 15.

Un’edizione da record, sia per i colori az zurri, sia per le cifre assolute. Il Windsurfer World Championship di Palermo ha infatti doppiato il numero di partecipanti dell’ultima edizione di Torbole, dove in lizza c’erano 200 atleti. Non solo tanti esponenti della specia lità, ma anche nomi prestigiosi - a Mondello sono arrivati 30 degli atleti che hanno preso parte alle ultime edizioni delle Olimpiadi – e campioni del futuro: 50 dei velisti in gara era no Under 18. Fra i big, oltre agli italiani che hanno fatto incetta di titoli, si sono visti anche Chris Sieber, oro nel 2000 ai Giochi di Sidney, e Tim Gourlay vincitore a Torbole all’ultimo Mondiale del 2019, oltre all’icona Van den Berg. La manifestazione si è articolata dal 3 al 9 ottobre fra varie discipline e diverse catego rie: course-race, slalom e freestyle.

Fra l’8 e il 16 ottobre, invece, la spiaggia del Poetto e il Golfo degli Angeli di Cagliari

Il Windsurfer World Championship nel Golfo di Mondello è stato un autentico trionfo di chi quelle acque e quel vento li conosce bene. Fra i 400 atleti provenienti da 25 nazioni, con italiani e au straliani in maggioranza, a dettar legge sono stati infatti i siciliani. Fra l’8 e il 16 ottobre, invece, la spiaggia del Poetto e il Golfo degli Angeli di Cagliari hanno ospitato il Campionato del Mondo di Formula Kite, nuova classe olim pica a partire da Parigi 2024. La manifestazione iridata ha accolto, come da regolamento, 150 atleti (92 uomini e 58 donne) provenienti da 44 Paesi e 6 Continenti.

hanno ospitato il Campionato del Mondo di Formula Kite, nuova classe olimpica a partire da Parigi 2024. La manifestazione iridata ha accolto, come da regolamento, 150 atleti (92 uomini e 58 donne) provenienti da 44 Paesi e 6 Continenti. A Cagliari è arrivato il primo titolo mondiale di Toni Vodisek che, sulla scia dei più illustri connazionali Luka Don cic (pallacanestro) e Tadej Pogacar (ciclismo), ha confermato come la piccola Slovenia sia un Paese capace di esprimere autentici fuo riclasse dello sport mondiale. A due settima ne dal titolo europeo conquistato a Lepanto, in Grecia, Vodisek si è ripetuto al Sardinia Grand Slam di Cagliari lasciandosi alle spalle un altro giovane campione, il 16enne di Sin gapore Maximilian Maeder, e il francese Axel Mazella, a coronamento di una settimana di alto spessore tecnico. Nella spettacolare fina le, Vodisek è partito in “pole” con due vitto rie, ma Maeder ha subito pareggiato i conti nella prima regata, favorito da una caduta di Vodisek che lo inseguiva a breve distanza. I destini si sono invertiti, però, nella successiva prova, con lo sloveno che ha potuto liberare tutta la sua esplosiva gioia. Quinto posto per l’italiano Riccardo Pianosi, nono per Lorenzo Boschetti: «Ho provato in tutti i modi a in filarmi anche all’ultima strambata ma non ce l’ho fatta. Era un’impresa quasi impossibile, concludo il Mondiale senza rimpianti» il pen siero di Pianosi.

La gara femminile è vissuta sin dalle qua lificazioni sul duello a distanza sulla pluri campionessa iridata statunitense Daniela Moroz e la fresca regina europea, la francese Lauriane Nolot. Arrivata in finale con il mi glior punteggio, la star americana ha potuto beneficiare di due vittorie in partenza, come da regolamento, ma ha dovuto fare i conti con una grande partenza di Nolot, parti colarmente a suo agio con i 13-17 nodi di scirocco della giornata conclusiva. Almeno fino a quando è caduta mentre era al coman do della prima regata di finale, spianando di fatto le acque al sesto trionfo iridato di Daniela. Alle loro spalle le britanniche Ellie Aldridge e Katie Dabson. Miglior azzurra l’italo-irlandese Maggie Eileen Pescetto, che ha chiuso al 14esimo posto, cogliendo anche un secondo posto parziale nella penultima giornata, caratterizzata dal classico maestra le a 10-14 nodi.

62 GdB | Ottobre 2022 Sport

BONIFICHE

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AMBIENTALE Luglio-dicembre 2022 Corso Fad www.onb.it

SOTTO RETE, SOLO ITALIA

I SUCCESSI NELL’ANNO D’ORO DEL VOLLEY AZZURRO

Oltre a vincere il Mondiale maschile dopo 24 anni, la pallavolo nazionale ha conquistato nel 2022 sei titoli europei (su sei), la Nations League femminile e altri tre successi di prestigio

Se nel 2021 c’è stato più gusto a es sere italiani, almeno nello sport e almeno finché gli azzurri del calcio non sono stati eliminati dalla corsa al Mondiale, quello in corso è stato l’anno della pallavolo. Tornando ai fasti del pas sato, guidata da un’icona della Generazione di Fenomeni, la Nazionale è tornata a trionfare al Campionato del Mondo, bissando il titolo eu ropeo e rivelandosi al contempo come lo zenit di un movimento in grande salute. Fra luglio e ottobre, nei grandi eventi sotto rete, l’Italia ha conquistato 11 medaglie d’oro e due di bronzo, mettendo in bacheca 6 titoli Europei giovanili, la Volley Nations League e i Giochi del Medi terraneo, entrambi gli ori dell’Eyof - Festival olimpico della gioventù europea, oltre natural mente al titolo iridato maschile. A questo im pressionante score, vanno aggiunge le medaglie di bronzo ai Mondiali femminili e ai Giochi del Mediterraneo fra gli uomini. «La Federazione Italiana Pallavolo investe molte risorse sulle nazionali azzurre - ha spiegato Vincenzo Man fredi, presidente della Fipav - ma i risultati che stiamo raccogliendo ci ripagano ampiamente e queste medaglie sono un premio da condividere con tutti i dirigenti e tutte le società che quoti dianamente mandano avanti il nostro mondo».

Senza nulla togliere ai trionfi in serie su (quasi) ogni palcoscenico, la notte più bella della pallavolo azzurra nel 2022 è stata quella della finale dei Mondiali maschili. A corona mento di un percorso autoritario, i ragazzi al

lenati dal salentino Ferdinando De Giorgi, alias Fefè, hanno sconfitto a Katowice i padroni di casa della Polonia, che andavano a caccia del terzo titolo consecutivo per emulare l’Italia dei Fenomeni (1990, 1994, 1998) e il Brasile (2002, 2006, 2010) che ne rilevò lo scettro. L’Italia ha espresso un gioco e una compattezza di squadra eccezionali, pigliandosi pure i premi di miglior libero con Fabio Balaso, miglior centrale con Gianluca Galassi e miglior palleggiatore con Simone Giannelli, eletto peraltro Mvp - ovvero miglior giocatore - della manifestazione.

Campione d’Europa in carica, l’Italia ha chiuso in testa la prima fase, passando però agli ottavi come terza dopo i team dei paesi orga nizzatori, Polonia e Slovenia. Una dopo l’altra sono cadute Cuba, gli olimpionici della Francia (giustizieri degli azzurri in Nations League) e la Slovenia argento europeo. In finale, la Polo nia ha provato a spaventarci - un set a zero, 2018 nel secondo - per poi ammutolire assieme a gran parte del pubblico della Spodek Arena.

Impresa che non è riuscita, invece, all’Ital volley femminile nel Mondiale disputato fra settembre e ottobre nei Paesi Bassi. A loro volta campionesse europee, le azzurre erano date per favorite ma sono state sconfitte, sia nel girone sia in semifinale, dal Brasile di coach Zé Rober to, riscattandosi parzialmente nella finale per il bronzo con gli Stati Uniti. Un vero peccato, per Sylla e compagne, che a luglio avevano sconfit to le sudamericane per 3-0 nella finale della Na tions League, succedendo nell’albo d’oro agli

64 GdB | Ottobre 2022
Sport

Nazionale italiana maschile di volley.

Stati Uniti che si erano imposte nelle tre edizio ni precedenti. Un trionfo figlio di 13 vittorie in 15 partite, 11 delle quali consecutive.

Un sabato magico, il 17 luglio: oltre al suc cesso in Volley Nations League donne, infatti, la pallavolo azzurra ha festeggiato tre successi continentali in poche ore. Al Pala Tatarella di Cerignola, le azzurre dirette da Luca Pieragnoli hanno superato in rimonta al tiebreak le pari età della Serbia inaugurando l’albo d’oro dell’Eu ropeo femminile U21. Stessa impresa per l’U22 maschile di coach Vincenzo Fanizza, che a Tar now (Polonia) ha impresso il nome dell’Italia sulla prima edizione della rassegna continentale della categoria, grazie al 3-1 sulla Francia. Tran salpini battuti anche a Tbilisi, dove la nazionale del ct Michele Zanin ha fatto suo in tre set l’Eu ropeo U18 maschile. Dalla Georgia alla Repub blica Ceca, a Hradec Králové, dove sette giorni più tardi le azzurrine della U17 si sono prese il titolo continentale grazie al 3-1 sulla Turchia. A proposito di Pieragnoli: a inizio luglio le sue ragazze si erano già imposte ai Giochi del Medi terraneo (Turchia ko in finale), mentre la squa dra di Fanizza aveva chiuso al terzo posto.

L’Europeo U19 femminile, disputato dal 27 agosto al 4 settembre a Skopjie, in Macedonia del Nord, si è concluso con una vibrante fina

Fra luglio e ottobre, nei grandi eventi sotto rete, l’Italia ha conquistato 11 medaglie d’oro e due di bronzo, mettendo in bacheca 6 titoli Europei giovanili, la Volley Nations League e i Giochi del Mediterraneo, entrambi gli ori dell’Eyof - Festival olimpico della gioventù europea, oltre naturalmente al titolo iridato maschile.

le fra Italia e Serbia, stesse rivali della rassegna delle “grandi” nel 2021: anche qui ha vinto l’Italia, 3-2, con Julia Ituma miglior giocatrice. La meravigliosa stagione europea a livello gio vanile è stata chiusa, a fine settembre, dal 3-2 in finale alla Polonia nella rassegna continen tale U20. Gli azzurrini allenati da coach Mat teo Battocchio che hanno vinto anche il titolo di MVP del torneo col figlio d’arte Alessandro Bovolenta, opposto, e premi individuali con lo schiacciatore Luca Porro, il centrale Nicolò Volpe e il libero Gabriele Laurenzano.

«Questa stagione ci ha regalato un incredi bile en-plein a livello giovanile, sei vittorie su sei in tutti i Campionati Europei di categoria: Un der 17F, Under 18M, Under 19F, Under 20M, Under 21F e Under 22M. Se aggiungiamo che a livello seniores siamo campioni europei in ca rica con entrambe le nazionali, posso solo dire che dobbiamo davvero essere orgogliosi del no stro movimento» il plauso del presidente fede rale Manfredi.

A fine luglio, l’Italia della pallavolo si è presa anche due medaglie d’oro all’Eyof, il Festival olimpico della gioventù europea: 3-1 delle U19 alla Turchia, tris secco degli U20 alla Bulgaria. Tanto per non farsi mancare nulla, nell’oggi e nel domani. (A. P.)

65GdB | Ottobre 2022
Sport
Fonte: Coni. Nazionale italiana femminile di volley. © Atakan Divitlioglu/shutterstock.com

CON MARIA SOLE E LE ALTRE IL “FISCHIETTO” È DONNA

Ferrieri Caputi ha diretto Sassuolo-Salernitana lo scorso 2 ottobre rompendo il “digiuno” femminile nella Serie A di calcio. Intanto, si impongolo altre sue colleghe

un movimento in continua crescita, in un calcio che si adatta ai tempi e supera gli stereotipi. In Can C (Commissione Arbitri Nazionale Serie C) dirigono Maria Marotta e Kateryna Monzul’. Sa lernitana, classe ’84, Marotta ha anche esordito in Serie B nel maggio 2021 in Reggina-Frosinone, a vent’anni dal suo debutto nel campionato Esordienti. Ucraina, 41 anni, fuggita dalla guerra, Monzul’ vanta invece un ricco CV in ternazionale con le finali delle maggiori competizioni femminili di calcio, in ulti mo quella dell’Europeo 2022 fra Inghil terra e Germania.

La pioniera è stata Nicole Pe tignat, svizzera, prima donna ad arbitrare un incontro in ternazionale maschile, AIKFylkir dei preliminari di Cop pa UEFA 2003-2004. Ma anche, senza andar lontano, Carina Vitulano, oggi vi ce-commissario designatore della CAN C, Campionato Primavera e Serie A femminile. L’idolo, invece, è la francese Stephanie Frappart, la prima a dirigere un match di Champions League nonché una finale di Supercoppa europea. A lei si è ispirata Maria Sole Ferrieri Caputi, 32 anni, livornese, che lo scorso 2 otto bre ha rotto il “digiuno” femminile nel la Serie A italiana.

Cresciuta brillantemente nelle cate gorie giovanili e dilettantistiche prima (debutto in Serie D il 14 novembre 2015 in Levico-Atl. San Paolo), diventata in ternazionale nel 2019 con debutto nelle qualificazioni per gli Europei femminili, Ferrieri Caputi è stata promossa in Se rie C l’anno successivo e designata per un match di B nell’ottobre 2021, prima del grande salto. Un mese speciale, se si considera che lo scorso anno ha segnato anche il debutto in A – in Udinese-Ve rona del 27 ottobre - per una assistente arbitrale, Francesca Di Monte, pesca rese di Popoli e internazionale della sezione Aia di Chieti. In Italia, Ferrieri Caputi e Di Monte sono le “stelle” di

Sempre in Can C si segnalano le as sistenti Stefania Genoveffa Signorelli, Veronica Martinelli, Giulia Tempestil li, Vittoria Vettorel e Nidaa Hader. Il 23 giugno scorso Signorelli ha festeg giato la sua prima volta in campo inter nazionale, nel match di qualificazione alla FIFA Women’s World Cup 2023 tra le Nazionali di Bulgaria e Israele, diretto da Martina Molinaro della Can D (sezione di Lamezia Terme). Con lei anche la lombarda Martinelli. Iscritta alla sezione di Lamezia Terme, in Can D, Molinaro è un altro promettente “fischietto” donna, tornata a dirigere all’estero a inizio autunno (qualifica zioni per Euro U17 donne) e scelta, fra l’altro, come IV arbitro della par tita di beneficenza organizzata dall’ex campione Samuel Eto’o a San Siro, - in compagnia di Marotta, Tempestilli e Martinelli.

Dal sud Italia arrivano anche altri ar bitri donne di Can D come la napoleta na Angela Capezza e la barese Cristiana Laraspata. Nel Nord la “locomotiva” è il Triveneto con Silvia Gasperotti (Ro vereto) e Anna Frazza (Schio). La pattu glia più nutrita, però, è quella del Cen tro con le umbre Valentina Finzi e Ilaria Possanzini (Foligno), le toscane Silvia Scipione (Firenze) e Deborah Bianchi (Prato), le marchigiane Curia (Ascoli P.) e Alice Gagliardi (San Benedetto del Tronto), l’abruzzese Stefania Menicucci (Lanciano). A loro si aggiungono, natu ralmente, anche puntuali e ambiziose assistenti. (A. P.)

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Sport © Vlad1988/shutterstock.com

Otto gare per una rimonta con sorpasso. Un’altra per l’al lungo. L’ultima, il prossimo 6 novembre, per la sperata consacrazione che riporte rebbe in Italia il titolo Piloti della Moto Gp, la classe regina del Mondiale di motociclismo. In pole position, è il caso di dirlo, è un ragazzo piemontese di 25 anni, Francesco Bagnaia detto Pecco, che qualche pecca in avvio di stagione l’ha pagata cara ma ha saputo farsi per donare con un recupero paziente e au toritario. I numeri non mentono: Pecco ha recuperato al campione uscente Fa bio Quartararo, francese, 105 punti in 9 gare, passando da -91 a + 14 dopo il Gp d’Australia. Poi il 23 ottobre ha pro vato a chiudere i conti per il titolo, ag giudicandosi il Gp di Malesia a Sepang recuperando dal nono posto in griglia al primo finale, ma ha dovuto fare i conti con l’orgoglio del “roi” in carica, terzo al traguardo malgrado un dito rotto. Ri sultato: Bagnaia primo a una prova dal la fine del motomondiale con 23 punti su Quartararo. Questo vuol dire che il prossimo 6 novembre, nel Gran Premio Motul de la Comunitat Valenciana, sul Circuit Ricardo Tormo di Valencia in Spagna, a Pecco basterà e conquistare 2 punti per essere campione. In tal caso, infatti, anche se il rivale francese doves se vincere e prenderne 25, l’ex-aequo di punti premierebbe Bagnaia in virtù del maggior numero di successi parziali in stagione: 7 contro 4.

Uno scenario che sembrava fanta scienza lo scorso giugno. Dopo 10 gran premi, Quartararo conduceva la clas sifica mondiale con 172 punti, mentre Bagnaia era solo sesto a quota 81. A disegnare queste cupe cifre, il succes so del francese su Yamaha sul circuito del Sachsenring e la contestuale caduta di Bagnaia, la quarta della stagione. Ma Pecco, che aveva già vissuto un momen to difficile al debutto in Moto3, nel 2013, rischiando addirittura la “non riconfer ma”, ha saputo invertire la rotta già pri ma delle ferie, vincendo il Gp d’Olanda e approfittando di un attacco insensato di Quartararo all’iberico Espargaro. L’i

LA RIMONTA (QUASI) MONDIALE DI BAGNAIA

taliano su Desmosedici ha fatto il bis a Silverstone, in Gran Bretagna, salendo a -49 da Quartararo (zavorrato da una penalità per i fatti di Assen) e a -27 da Espargaro. Vincendo anche in Austria e a Misano (poker di successi da record nella storia della Ducati), il torinese è sa lito a -30 dal leader della classifica, sca valcando Espargaro.

Il “dispetto” di Enea Bastianini (Du cati, ma Team Gresini) ad Aragon è stato addolcito dalla caduta di Quartararo e dal -10 di Bagnaia in classifica. La scivo lata da 0 punti a Motegi, in un attacco al leader che sarebbe valso l’ottavo posto nel Gp del Giappone, ha solo interrotto la cavalcata di Pecco. Nella pioggia della

Thailandia, Bagnaia si è preso un podio d’oro senza correre rischi salendo a -2 dal francese. Terzo posto anche in Australia, mentre Quartararo finiva al tappeto e sprofondava a -14. A Sepang, in Malesia, l’erede di Valentino Rossi ha provato a sfruttare il primo match point mondiale al meglio, rimontando dal nono al primo posto, “protetto” stavolta da Bastianini. Dodicesimo in prova dopo una frattura a un dito della mano sinistra, Quartararo ha guadagnato però una vitale terza posi zione malgrado una stecca protettiva.

Il Mondiale Piloti si deciderà a Va lencia, dove la Ducati spera di poter fe steggiare a 15 anni dal trionfo di Casey Stoner. (A. P.)

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Nella classe regina del Motomondiale, il 25enne italiano ha recuperato 91 lunghezze di distacco dal francese Quartararo, scavalcandolo. A Valencia bastano 2 punti per il titolo
Sport
Francesco Bagnaia. © Rainer Herhaus/shutterstock.com

QUANDO LA MENTE HA FAME LE NOSTRE SCELTE ALIMENTARI TRA GENI, LOGICA ED EMOZIONI

Perché da bambini odiamo le verdure e altri misteri neurogastronomici che ci rendono umani Dall’infanzia alla vecchiaia, come ci rapportiamo al cibo anche in relazione alle neuroscienze

Euro

Perché ci piace la torta della nonna più di un sano piatto di spinaci?

Perché i bambini odiano le verdu re? “Guida per cervelli affamati” sve la i meccanismi segreti che influenza no le nostre scelte alimentari, tra geni e memoria, logica ed emozioni.

Partiamo da un assunto. La chiave di volta dell’evoluzione umana, l’invenzione più impor tante per la nostra storia non è la ruota o il fuoco bensì il suo controllo, ovvero la cottura dei cibi.

In effetti, una delle frasi più forti è quella di Ri chard Wrangham (antropologo e primatologo inglese) secondo cui «non siamo noi ad aver in ventato il fuoco, ma è il fuoco che, in definitiva, ha inventato noi».

Certo, cuciniamo e mangiamo perché dobbia mo nutrirci ma vogliamo scegliere bene il nostro piatto. Tutti i nostri sensi sono coinvolti mentre ci alimentiamo. L’occhio vuole sempre la sua parte, l’olfatto anche e inaspettatamente pure le orec chie. Non si spiegherebbe altrimenti il piacere impagabile dello “scrocchiare” delle patatine o il rumore scoppiettante e stuzzicante delle bibite gassate. Basti pensare all’importanza che le im magini gastronomiche hanno sui social media, il

food porn alla quale siamo esposti continuamen te che ci stimola l’acquolina in bocca, anche dopo aver mangiato.

Allora cosa scatta nel nostro cervello quando decidiamo di fare un aperitivo? O di fermarci dopo l’ennesima portata durante una cena all you can eat? E soprattutto, come mai abbiamo sempre posto per il dolce?

Illustrando studi ed esperimenti scientifici, il saggio cerca di dare una risposta a molte di que ste domande portando alla luce nuove scoperte su anatomia e fisiologia del nostro modo di ali mentarci.

Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi spiegano come ci nutriamo passando in rassegna menù orientali e marziani, diete e abitudini alimenta ri e ce n’è per tutti i gusti. A questo proposito, dobbiamo sapere che ne esistono ben cinque più uno, una new entry: alcuni studi stanno valutan do il grasso come sesto gusto. Un viaggio neuro biologico all’interno del cervello, passando tra i limiti culturali che il cibo rappresenta e le nuove sfide da affrontare. Saremmo disposti a mangiare insetti per salvaguardare il pianeta?

Un libro scritto a quattro mani che ripercorre gli usi e i costumi alimentari della nostra specie,

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Libri
di Anna Lavinia Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi
“Guida per cervelli affamati”
Il
Saggiatore, 2021
22

dall’infanzia alla vecchiaia. Come mai l’amaro delle verdure respinto da (quasi) tutti i bambini viene raffinato in età adulta, diventando quasi pia cevole? Le nostre reazioni di fronte a certi alimen ti sono perlopiù condizionate dal nostro vissuto, dalle abitudini e dalla cultura in cui ci troviamo.

Ma il cibo non serve solo a sfamarsi, fa molto di più. È al centro della nostra vita individuale e sociale, racchiude al suo interno la nostra identità e la storia del mondo.

Le neuroscienze e la cucina non sono due am biti così distanti tra di loro. Le prime spiegano i comportamenti alimentari dell’uomo e possono influenzare la seconda, ovvero il modo di prepa rare le pietanze, sia per sfruttare appieno i nutri menti per il fisico sia per le tasche, se si tratta di industrie alimentari.

Alla luce delle tante scoperte, possiamo intra vedere cosa aspettarci per il futuro in tema di so stenibilità ambientale, bistecche artificiali e pasti stampati per i viaggiatori spaziali.

Per utilizzare un riferimento culinario, il sag gio è pieno di ingredienti e sapori, conditi sa pientemente con scienza e ricerca, quanto basta a spiegarci perché mangiamo quello che mangia mo. In fondo, anche il cervello ha fame.

Avni Doshi

“Zucchero bruciato” Editrice Nord 2022, 19 Euro

Lo zucchero bruciato del titolo potrebbe es sere quello dimenticato sui fornelli da Tara a causa dell’Alzheimer. La malattia scava tra le pieghe del rapporto madre-figlia e riesce a mettere in luce tutte le sue contraddizioni. Ma quando ce n’è bisogno, Antara si occu perà di quella madre che non si è mai presa cura di lei. (A. L.)

Enrica Tesio

“Tutta la stanchezza del mondo” (Bompiani 2022)

«Siamo il popolo del multitasking che di venta multistanching».Tra lavoro, social, fi gli e incombenze domestiche non possiamo più permetterci di fermarci e soprattutto di stancarci. Con uno sguardo illuminato e ric co di humor, questo è un diario di fatiche moderne, esattamente dodici come quelle di Ercole. (A. L.)

Giulio Boccaletti

“Acqua. Una biografia” (Mondadori 2022)

«Tutto è acqua» sentenziava Talete. Que sto il filo conduttore di Giulio Boccalet ti, uno dei massimi esperti di sostenibilità ambientale che attraverso civiltà e storia mostra il rapporto millenario tra uomo ed acqua. Un legame indissolubile che ci fa porre domande sul futuro della nostra ter ra. (A. L.)

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Libri

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI

AZIENDA UNITÀ SANITARIA

LOCALE DI VITERBO

Scadenza, 6 novembre 2022

Procedura di stabilizzazione per la copertura di tre posti di dirigente biolo go, disciplina di patologia clinica Gaz zetta Ufficiale n. 80 del 07-10-2022.

AZIENDA SOCIO SANITARIA TERRITORIALE DEI SETTE LA GHI – VARESE

Scadenza, 13 novembre 2022

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente sanitario, biologo specialista in genetica medica, a tempo indeter minato e pieno, per la S.C. Ostetricia e ginecologia, per il Centro di procre azione medicalmente assistita. Gazzetta Ufficiale n. 82 del 14-10-2022.

ISTITUTI FISIOTERAPICI OSPI TALIERI DI ROMA

Scadenza, 13 novembre 2022

Procedura di stabilizzazione per la copertura di un posto di dirigente bio logo a tempo indeterminato, disciplina di patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 82 del 14-10-2022.

AZIENDA UNITÀ SANITARIA

LOCALE DI BOLOGNA

Concorso, 20 novembre 2022

Concorso pubblico, per titoli ed esa mi, per la copertura di posti di ricerca tore sanitari, categoria D, a tempo de terminato, da svolgersi presso l’IRCCS Istituto delle scienze neurologiche di Bologna. (Gazzetta Ufficiale n. 84 del 21-10-2022.

CONSIGLIO NAZIONALE DEL LE RICERCHE – ISTITUTO DI RI

CERCA SULLE ACQUE DI BRU GHERIO (MB)

Scadenza, 3 novembre 2022

È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da collo quio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche ine renti l’Area scientifica “Scienze dell’am biente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR, sede se condaria di Brugherio, nell’ambito dei progetti Invasi3, CIPAIS I-CH Sostan ze Pericolose e Cariplo GASMI, sotto la responsabilità scientifica della Dott.ssa Laura Marziali. Tematica: Analisi della contaminazione ambientale ed effetti sugli organismi viventi, con particolare riferimento agli ecosistemi d’acqua dol ce. Per informazioni, www.cnr.it, sezio ne “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DEL

LE RICERCHE – Istituto Nanoscienze di Modena Scadenza, 4 novembre 2022

È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno Post Dottorale (Tipologia–B) per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Neuroscien ze” da svolgersi presso la Sede Seconda ria di Modena dell’Istituto NANO del CNR sulla seguente tematica: “Studio dei meccanismi molecolari e cellulari alla base dei danni neuronali e tissutali pre senti nel morbo di Alzheimer e sindromi simili” nell’ambito del Progetto TRI PARTITEAD PRIN 2020AMLXHH “Interazione tra trasmissione sinaptica colinergica e glutamatergica nelle sinapsi Tripartite nella fisiologia e nel Morbo di Alzheimer”. Per informazioni, www.cnr. it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E PATOLOGIA MOLE COLARI DI ROMA

Scadenza, 7 novembre 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimen to di n. 1 assegno di ricerca, Tipologia A “Assegni Professionalizzanti” per lo svolgimento di attività di ricerca ine renti l’Area Scientifica “Biochimica e Biologia Molecolari” da svolgersi pres so l’Istituto di Biologia e Patologia Mo lecolari del CNR che effettua ricerca nell’ambito del programma “Membra ne Lipid Remodelling And Organelle Dynamics: From Mechanisms To Dise ase And Back” finanziamento – PRIN 2020, Progetti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (cod. progetto 2020PKLEPN _LS3) per la seguente tematica: “Caratterizzazione struttura le e funzionale di singoli domini della proteina nsp3 di SARSCoV-2 e dei suoi complessi funzionali”. Per informazio ni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E PATOLOGIA MOLE COLARI DI ROMA

Scadenza, 7 novembre 2022

É indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferi mento di n. 1 assegno di ricerca, tipo logia B “Assegni Post Dottorali”, per lo svolgimento di attività di ricerca ine renti l’Area Scientifica “Biochimica e Biologia Molecolari” da svolgersi pres so l’Istituto di Biologia e Patologia Mo lecolari del CNR che effettua ricerca nell’ambito del programma “Membra ne Lipid Remodelling And Organelle

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Lavoro

Dynamics: From Mechanisms to Di sease and Back” finanziamento – Pro getti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (Bando 2020 cod. progetto 2020PKLEPN_LS3 per la seguente te matica: “Caratterizzazione strutturale di proteine nsps di SARS-CoV-2 che svolgono un ruolo chiave nei proces si di rimodellamento delle membrane cellulari”. Per informazioni, www.cnr. it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE

DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIO NE DI AVELLINO

Scadenza, 7 novembre 2022

É indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferi

mento di n. 1 “Assegno PostDottorale” per lo svolgimento di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica “Chimica” da svolgersi presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR nell’am bito del Progetto DBA.AD005.178

“FUNZIONAMENTO ISA”, (CUP B32F11000540005), GAE P0000630 per la seguente tematica: “Formulazio ne di snack ad alto valore salutistico ar ricchiti in molecole bioattive ad attività antiossidante e loro caratterizzazione chimico-nutrizionale”. Per informazio ni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI ROMA

Scadenza, 14 novembre 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 borsa di studio per laureati, per ricer che inerenti l’Area Scientifica “Scien ze del Sistema Terra e Tecnologie per l’ambiente” da usufruirsi presso l’Isti tuto di Ricerca Sulle Acque del CNR Sede di Montelibretti (RM), nell’am bito dei progetti REVENUE (Fon dazione Cariplo) e NEWLAB per la seguente tematica: “Biotecnologie innovative finalizzate alla produzione di composti ad alto valore aggiunto ed al recupero di energia da scarti alimentari e fanghi di depurazione”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

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Lavoro

Farmaci e vaccini a RNA: la nuova frontiera della terapia genica

Potrebbero

L’

RNA sta vivendo un periodo d’oro. Al centro dell’at tenzione scientifica e mediatica grazie alla pandemia COVID-19, il fratello “minore” e meno noto del DNA è protagonista di un intero filone di ricerca. Le terapie su RNA comprendono piccole molecole pro grammabili e personalizzabili che si legano all’RNA messagge ro per modulare l’espressione dell’informazione contenuta nei nostri geni. L’emergenza sanitaria ha aperto il vaso di Pandora delle terapie a RNA, ma il loro futuro è ancora tutto da scoprire. Tecnologia dirompente, semplice da produrre e programmabile a seconda delle esigenze: potrebbe essere applicata alle infezioni virali, al cancro, alle malattie autoimmuni, e cambiare il panora ma di malattie oggi considerate incurabili, come l’atrofia musco lare spinale (SMA) o la malattia di Huntington.

RNA: storia di una scoperta

Il compito dell’RNA nell’organismo è quello di copiare le istruzioni contenute nel DNA e trasportarle ai ribosomi che co struiscono le proteine. Nella trascrizione (il processo che porta alla sintesi dell’RNA) il DNA viene srotolato e uno dei due fila menti fa da stampo per l’RNA polimerasi. La molecola di RNA messaggero che viene sintetizzata durante questa reazione è una copia a singolo filamento (al contrario del DNA che ha una strut tura a doppia elica) e la sua sequenza di nucleotidi è complemen tare a quella della catena stampo di DNA.

Gli scienziati hanno cominciato a studiare la molecola dell’R NA poco più di cento anni fa, senza sapere ancora cosa fosse e a cosa servisse. Dopo la scoperta della struttura del DNA nel 1953, furono necessari altri 8 anni prima di isolare la molecola di RNA messaggero (mRNA). Nel 1954, il biologo americano James D. Watson e il fisico russo-americano George Gamow fondarono l’RNA Tie Club, un “club di gentiluomini” che aveva lo scopo di

“risolvere l’enigma della struttura dell’RNA e capire come ven gono costruite le proteine” al solenne motto di “do or die; or don’t try”. I 20 membri (uno per ogni amminoacido), più quat tro membri onorari (uno per ogni nucleotide), avevano come se gno di riconoscimento un’eccentrica cravatta di lana nera con su ricamata un’elica di RNA gialla e verde.

Durante le riunioni, i membri dell’RNA Tie Club hanno mes so per iscritto le basi della biologia molecolare, come il concetto di “codone” e l’ipotesi dell’adattatore. Oggi sappiamo che ogni amminoacido viene codificato da una tripletta di nucleotidi, o codone, e che esistono 20 “molecole adattatrici”, gli RNA tran sfer, che trasportano ogni amminoacido al ribosoma nell’ordine corretto. (1)

Il dogma centrale della biologia

La storia dell’RNA prosegue nel 1961 con Sidney Brenner, microbiologo a Cambridge. Giunge a Cambridge quando anco ra del DNA si sa poco o niente e lui stesso ammette di avere “two half ideas both of which were more than half wrong” sul DNA. Ma la scoperta di Watson e Crick gli apre un mondo. Brenner ha poi dimostrato che l’mRNA è l’intermedio instabile che porta il messaggio dal DNA ai ribosomi: è la nascita della biologia mo lecolare. La strada ormai è tracciata: tra gli anni cinquanta e ses santa del secolo scorso, si pongono le basi per il dogma centrale della biologia: l’informazione genetica fluisce dal DNA alle pro teine passando per il tramite dell’RNA. Si fa strada anche l’idea che agire sull’RNA permetterebbe di modulare l’espressione di una proteina senza toccare l’informazione genetica contenuta nel DNA. Alla fine degli anni novanta trova finalmente le sue radici il filone di ricerca delle terapie su RNA. (1)

Il silenziamento genico

Alla base delle terapie su RNA c’è un processo noto come silenziamento genico. È un meccanismo di difesa comune a molti organismi e trasmesso attraverso le generazioni. Si basa su piccole molecole di RNA in grado di “spegnere” l’espressione di alcuni geni e impedire la produzione delle proteine corrispondenti. (2)

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Scienze
essere applicati alle infezioni virali, al cancro, alle malattie autoimmuni, all’atrofia muscolare spinale (SMA) o alla malattia di Huntington di Erika Salvatori* * Ricercatrice in biotecnologie, collaboratrice di BioPills: il vostro portale scientifico.

Scoperto per caso dal genetista statunitense Richard Jorgen sen con un esperimento che riguardava la colorazione delle pe tunie. Jorgensen voleva aumentare la sintesi delle antocianine per ottenere colore più vivaci, ma ottenne l’effetto contrario: alcuni fiori rimasero privi di colore. La molecola responsabile del silen ziamento dei “geni del colore” era l’RNA.

Fu il genetista britannico David Baulcombe a scoprire gli attori principali di questo fenomeno chiamati piccoli RNA interferenti o siRNA (Short interfering RNA). I siRNA sono molecole a RNA a doppio filamento lunghe tra i 19 e 21 nucleotidi, che conducono alla degradazione di un mRNA con sequenza complementare in modo da impedire la sintesi della proteina. Craig Fire, per primo, coniò l’espressione di “interferenza dell’RNA (RNAi, RNA Inter ference)” per indicare i complessi meccanismi di silenziamento genico che avvengono nelle cellule. Lui e Mello vinsero il Nobel nel 2006 per avere intuito che questo meccanismo naturale, nato per rispondere agli attacchi dei virus a RNA, potesse essere sfrut tato per ideare nuovi agenti terapeutici in grado di silenziare l’e spressione di specifiche proteine responsabili di patologie.

Interferenza dell’RNA: siRNA, shRNA e ASO

I farmaci su RNA agiscono in maniera diversa rispetto ai me dicinali odierni, cioè silenziando gli mRNA, i precursori genetici che codificano le proteine che causano la malattia.

Esistono tre tipi di terapie su RNA basate sul silenziamento genico:

- Small interfering RNA (siRNA)

- Short hairpin RNA (shRNA)

- Oligonucleotidi antisenso (ASO)

Small interfering RNA (siRNA)

I siRNA sono prodotti naturalmente dalla cellula o per via sinte

tica. Quando l’RNA a doppio filamen to viene introdotto nelle cellule, viene processato dall’enzima Dicer, una ribonucleasi della famiglia RNasi III. Uno dei due filamenti viene distrutto, mentre l’altro si lega a una sequenza di mRNA complementare e recluta il complesso enzimatico RISC (RNA-in duced silencing complex), che nella cellula ha la funzione di degradare l’RNA a doppio filamento di origine virale. (3) Il suo centro catalitico è una RNAsi chiamata argonaute (AGO), cioè un enzima che scinde l’RNA (4). Alcuni farmaci che sfruttano questo meccanismo sono: patisiran, per l’a miloidosi ereditaria mediata da tran stiretina (hATTR),; givosiran per la porfiria epatica acuta; lumasiran per l’ iperossaluria primaria; e inclisiran per l’ipercolesterolemia.

Short hairpin RNA (shRNA)

I shRNA (“corti RNA a forcina”) sono molecole di RNA a doppio filamento lunghe circa 80 nucleotidi prodotte solo per via sintetica e con una caratteristica forma a forcina. All’interno della cellula, i shRNA vengono processati per generare i siRNA, che hanno la funzione di inattivare i geni. I shRNA possono es sere incorporati in un vettore genetico, ad esempio un plasmide, e integrarsi nel genoma, così da garantire una espressione più stabile e duratura.

Oligonucleotidi antisenso (ASO)

Gli oligonucleotidi antisenso (ASO) sono oligonucleotidi a singolo filamento con una lunghezza compresa tra i 16 e i 21 nucleotidi e possono essere a base di DNA o RNA. Gli ASO degradano l’mRNA complementare per mezzo dell’RNAsi H1, ma possono anche interagire con la prima bozza di RNA mes saggero durante il processo dello splicing, che è l’eliminazione di alcune sequenze per formare l’mRNA maturo. Nove farmaci ASO sono stati approvati per l’uso commerciale in pazienti con malattie rare, compreso il primo farmaco su RNA, Nusinersen. Molti degli ASO in fase di sviluppo clinico avanzato e inter medio sono pensati per il trattamento di pazienti con malattie molto comuni (5). Gli ASO, infine, possono sfruttare un enzi ma chiamato ADAR per modificare i filamenti di RNA. L’en zima modifica una lettera del codice dell’RNA, l’adenosina, in un’altra, l’inosina – che viene “letta” dal ribosoma come se fosse una guanosina. Se inizialmente le ricerche sull’editing dell’R NA sono state messe in secondo piano dalla scoperta di CRI SPR-Cas9, che modifica il DNA, oggi l’interesse verso questa tecnica è nuovamente cresciuto. Al contrario della proteina bat terica Cas, ADAR è un enzima naturalmente presente nel corpo

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umano. Gli effetti dell’editing dell’RNA, inoltre, sono reversibili e non modificano in maniera permanente il DNA.

Le sperimentazioni in corso

La ricerca sulle terapie a RNA prosegue senza sosta e le speri mentazioni in corso riguardano diverse altre patologie. Di segui to alcuni esempi:

- Sindrome di Dravet: una forma di encefalopatia epilettica cau sata da una mutazione nel gene SCN1A. La terapia utilizza gli ASO per aumentare la produzione della proteina SCN1A. Lo studio è stato pubblicato a gennaio su Brain Research (7).

- Malattia di Charcot Marie Tooth: la più frequente neuropatia di tipo ereditario. Un gruppo di ricerca francese ha messo a punto una strategia per degradare l’RNA che codifica per la proteina mutata. Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Communications Biology (8).

- Malattia di Hunghtinton: AMT-130 è una terapia sperimentale basata su un vettore virale che veicola all’interno dell’organismo un micro-RNA in grado di legarsi in maniera complementare all’mRNA che produce l’huntingtina mutata, silenziandolo. A fine 2019 è stato avviato negli Stati Uniti un trial di Fase I/II su 26 pazienti (9).

- Demenza fronto-temporale: è associata a mutazioni nel gene MAPT che codifica per la proteina TAU. Questa proteina viene prodotta in due isoforme, presenti nella stessa quantità. Ma se si genera una mutazione e viene prodotta un’eccessiva quantità di un tipo di proteina si formano gli agglomerati di proteina TAU e si sviluppa la malattia. Una terapia a base di siRNA potrebbe eli minare in maniera selettiva l’mRNA in eccesso così da riportare in equilibrio le due isoforme.

- Malattia di Batten: una patologia neurodegenerativa che pro voca nel bambino cecità, alterazioni cognitive e lo paralizza in modo progressivo. Per questa patologia, i ricercatori del Boston Childern’s Hospital hanno messo a punto una terapia a base di oligonucleotidi antisenso a tempo di record e destinato a una sola paziente: una bambina di nome Mila. Il farmaco, che porta il suo nome (Milasen), è stato progettato su misura per legarsi a una mutazione a carico del gene MFSD8 che era presente esclusiva mente nelle cellule di Mila e di sua madre. (10)

I farmaci a RNA messaggero

Una terza classe di farmaci a RNA è composta da molecole più grandi, formate da RNA messaggero che codifica per una proteina. L’mRNA può essere prodotto in via sintetica o trascrit to in vitro con una reazione di laboratorio a partire da una mo lecola “stampo” di DNA. I farmaci a base di mRNA possono codificare per nucleasi per l’editing del genoma, sostituire protei ne difettose o produrre antigeni che conferiscono immunità a un patogeno. Oggi l’RNA sta vivendo il suo momento d’oro grazie alla nuova classe di vaccini contro COVID-19 (11). Sviluppati a tempo di record dalle aziende Pfizer/BioNtech e Moderna, sono stati i primi farmaci a mRNA autorizzati dagli enti regolatori e hanno permesso di frenare la corsa della pandemia prima di

qualsiasi altro vaccino. Entrambi hanno dimostrato una elevata efficacia nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2 e soprattutto le forme gravi della malattia. I vaccini a RNA sono composti da un filamento sintetico di mRNA racchiuso in una nanoparticella lipidica, che ha il compito di trasportarlo all’interno delle cellule. Nel caso dei vaccini contro COVID-19, l’mRNA codifica per la proteina Spike, che il virus usa per entrare nelle cellule umane.

Storia dei vaccini a mRNA

Anche se hanno conquistato la scena solo negli ultimi due anni, i vaccini a RNA si basano su decenni di ricerca scientifica. Un esperimento storico fu condotto nel 1987 da Robert W. Ma lone, medico e biochimico americano: mescolò filamenti di RNA e goccioline di grasso e li mise in contatto con cellule animali e umane, che iniziarono a esprimere la proteina. Ancora neolaure ato, Malone era riuscito a “riprogrammare” la macchina cellula re, fornendole dall’esterno le istruzioni per produrre una protei na. A scommettere sull’RNA, in seguito, fu la biologa ungherese Katalin Karikò, che molti indicano come una possibile candidata al Nobel. L’ipotesi di trasformare l’RNA in terapia era ancora poco più che un miraggio, poiché la molecola è stabile solo a -80°C e facilmente degradata dalle RNasi, ampiamente diffuse nell’ambiente. Un altro problema era il “rigetto”: le cellule rico noscono l’mRNA introdotto dall’esterno come estraneo, e que sto nei pazienti può portare a una reazione infiammatoria, con effetti collaterali anche gravi. Karikò, insieme all’immunologo americano Drew Weissmann, trovò una soluzione al problema del rigetto, sostituendo una delle basi azotate che compongono l’RNA con un’altra simile, ma naturalmente presente nel corpo (l’uridina con la pseudouridina) (12). I due collaborarono per anni per sviluppare un vaccino a RNA per l’HIV, che ancora non ha visto la luce (ma l’azienda Moderna ha lanciato uno studio clinico di recente).

Nuove applicazioni per l’mRNA

Da fratello minore e bistrattato del DNA, trenta anni dopo l’RNA è ormai protagonista della ricerca mondiale. A oggi, i risultati hanno dimostrato che i vaccini a mRNA proteggono anche dalle varianti di SARS-CoV-2 che sono emerse fino a ora (13). Un vaccino a mRNA contro una nuova variante potrebbe essere prodotto molto velocemente, in 4-6 settimane, al contrario dei vaccini tradizionali basati su proteine. L’mRNA, inoltre, per mane nelle cellule umane solo per poche ore, il tempo necessario per produrre la proteina, poi viene degradato e non ne rimane nessuna traccia né può integrarsi nel genoma. Il successo dei vac cini contro COVID-19 ha ispirato quindi lo sviluppo di terapie a base di mRNA per molte malattie infettive, tra cui influenza, citomegalovirus, herpes simplex virus 2, norovirus, rabbia, ma laria, tubercolosi, dengue, Zika, HIV, epatite C e l’intera famiglia di coronavirus. Ma la ricerca sulle terapie a mRNA si sta espan dendo anche a certi tipi di cancro, alle allergie alimentari e am bientali e alle malattie autoimmuni. (14) Molte malattie oggi sono curate con la somministrazione di proteine, come gli anticorpi

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monoclonali, ma la loro produzione è lunga e costosa. L’mRNA invece potrebbe essere usato per insegnare al corpo a produrli direttamente nell’organo bersaglio (15).

Le terapie a mRNA del futuro

Che aspetto avranno le terapie a mRNA del futuro? Potrebbe ro, ad esempio, avere una forma circolare. L’idea è venuta a Robert Kruse, ricercatore clinico alla Medical School di Harvard. Kruse ha dimostrato che anche l’mRNA circolare, al pari di quello lineare, può essere trasdotto nelle cellule umane. Ma avrebbe anche diver si altri vantaggi: la sua emivita, che è il tempo che occorre perché la sua concentrazione si riduca alla metà di quella iniziale, è circa 3-4 volte maggiore di quella della molecola lineare. In altre parole, l’mRNA circolare viene espresso più a lungo e può essere usato a dosi minori, riducendo i costi e gli eventuali effetti collaterali. Un altro tipo di mRNA che sta per entrare sulla scena è quello auto amplificante o sa-mRNA (dall’inglese self-amplifying RNA). La molecola contiene una porzione extra che codifica per una replica si, un enzima che consente all’RNA di auto-replicarsi. Un vaccino basato sul sa-mRNA potrebbe essere somministrato a dosi minori: l’mRNA, infatti, sarebbe in grado di produrre molte copie di se stesso, e ogni copia formerebbe la proteina di interesse. L’espressio ne della proteina potrebbe aumentare fino a 80-100 volte rispetto a un mRNA normale, con una dose iniziale molto più bassa. L’ef fetto della terapia, inoltre, avrebbe una maggiore durata nel tempo: l’espressione della proteina continua ad aumentare fino a 7 giorni dopo la somministrazione del vaccino.

I progressi riguardano anche l’editing dell’RNA. CRISPR-Cas13 (16) è l’unico tra i sistemi CRISPR in uso al momento che taglia specificamente l’mRNA. Può essere usato come strumento dia gnostico o per combattere i virus a RNA, ma anche per regolare l’espressione genica o modificare l’mRNA in vivo.

I sistemi di delivery

Le applicazioni dell’RNA in clinica sono ancora limitate rispet to alle sue potenzialità. Lo scoglio maggiore, forse, è rappresentato dalla delivery, ossia dal trasporto all’interno delle cellule in modo sicuro ed efficiente. I vaccini per il COVID-19, ad esempio, sono formulati con lipoparticelle, un rivestimento lipidico che potrebbe essere modificato per portare la molecola in tessuti o organi diversi, a seconda del disturbo o della malattia che deve essere curata.

La ricerca sui sistemi di delivery procede in parallelo a quella sulle nuove terapie.

Le principali strategie sono (17): - Vettori virali deprivati dei geni essenziali per la replicazione - Esosomi: vescicole secrete dalla maggior parte delle cellule in vi tro e in vivo, sono in grado di impacchettare in maniera selettiva i piccoli RNA negli esosomi e rifornire in maniera costante le cellule presso cui tali RNA devono agire. Si possono anche indirizzare gli esosomi, facendo esprimere recettori specifici sulla loro superficie. Nanoparticelle lipidiche: quelle approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) contengono quattro componenti di base: un lipide cationico o ionizzabile, il colesterolo, un lipide di suppor

to e un lipide di poli(glicole etilenico) (PEG).

- Polimeri e nanoparticelle polimeriche: PLGA o acido poli(latti co-co-glicolico), polietilenammina (PEI), polilisina (PLL), PBAE.

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Un nuovo approccio terapeutico per la miastenia

“La miastenia grave generalizzata (gMG) è una malattia autoimmune rara, cronica e debilitante,” dice il dott. Renato Mante gazza, presidente della associazione AIM, Associazione Italiana Miastenia (www. miastenia.it),”L’associazione oltre a dare supporto a malati e loro famiglie, incentiva la ricerca e il mio team presso l’IR CSS Istituto Besta collabora a livello europeo con gli ERN, ovvero gli European Reference Network, gruppi di studio per le malattie rare, voluti dalla Commissione europea in cui le associazioni dei pazienti vengono coinvolte anche nella stesura dei protocolli di cura per le diverse patologie”. Lo studio di recente pubblicato sulla rivista Nejm Evidence il 26 aprile 2022 è il risultato di un trial multinazionale rando mizzato, in doppio cieco, controllato con placebo. In totale sono stati arruolati 175 pazienti. Ravulizumab ha aumentato significativamente l’entità delle variazioni medie dal basale alla settimana 26 rispetto al placebo nei punteggi totali. I miglioramenti in entrambe le misure si sono verificati entro una settimana dall’inizio di ravulizumab e sono stati mante nuti fino alla settimana 26. I punteggi totali sono migliorati di cinque punti o più in una proporzione significativamen te maggiore di pazienti trattati con ravulizumab rispetto a quelli trattati con placebo. Non sono state osservate diffe renze significative negli eventi avversi.

“Con questo studio abbiamo evidenziato come l’atti vazione del sistema del complemento da parte di autoan ticorpi contro il recettore postsinaptico dell’acetilcolina (AChR) porti alla distruzione della membrana postsinaptica e all’interruzione della trasmissione neuromuscolare. Que sto studio ha valutato ravulizumab, un inibitore a lunga du rata d’azione della proteina C5 del complemento terminale, come trattamento per la miastenia grave,” sottolinea il dott. Renato Mantegazza,”Abbiamo assegnato in modo casuale (1:1) ai pazienti con miastenia gravis un anticorpo-positivo anti-AChR a ravulizumab per via endovenosa o placebo per 26 settimane. I pazienti hanno ricevuto una dose di carico

il giorno 1, seguita da dosi di mantenimento il giorno 15 e successivamente ogni 8 settimane. L’endpoint primario e il primo endpoint secondario (variazione dal basale alla setti mana 26 nella scala Myasthenia Gravis-Activities of Daily Living segnalata dai pazienti e punteggi totali Quantita-ti ve Myasthenia Gravis riportati dal medico rispettivamente) sono stati confrontati tra i gruppi trattati con ravulizumab e placebo. Ravulizumab ha dimostrato miglioramenti rapidi e duraturi negli esiti riportati sia dal paziente che dal medico e ha avuto un profilo di effetti collaterali e eventi avversi che non ha limitato il trattamento negli adulti con miaste nia gravis anti-AChR anticorpo-positivo”. Lo studio è stato finanziato e la sperimentazione ha visto i costi coperti da parte di Alexion Pharmaceuticals Inc., che è diventata parte di AstraZeneca il 21 luglio 2021, ed attualmente è Alexion, AstraZeneca Rare Disease (rif.numero ClinicalTrials.gov, NCT03920293; numero EudraCT, 2018-003243-39). Il team internazionale comprende studiosi dell’University of South Florida Morsani College of Medicine,dell’IRCSS Ist. Besta e di altre realtà di rilievo del mondo scientifico. Un elenco dei membri del gruppo di studio Champion Miastenia Gravis è disponibile nell’appendice supplementare al sito evidence. nejm.org.

“Ci sono varie tipologie di miastenia, tutte rare e ancora poco adeguatamente conosciute, che vengono diagnosticate in modo tardivo. I centri di riferimento a livello internazio nale lavorano in rete ma associazioni come AIM sono fonda mentali per aiutare i cittadini a comprendere da chi andare e rivolgersi per cure adeguate e mirate”, spiega il dott. Renato Mantegazza. I primi sintomi, spesso, consistono nell’indebo limento della muscolatura degli occhi con palpebre cadenti e visione doppia. A volte si possono riscontrare difficoltà re spiratorie. Le attività ripetitive, il caldo e lo stress aggravano lo stato di debolezza, ma il riposo agevola il recupero delle forze. Ci sono però anche altre tipologie di miastenia che colpiscono vari organi eccetto il cuore.

I pazienti in questo trial sono stati assegnati in modo

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Scienze
L’attivazione
del sistema del complemento da parte di autoanticorpi contro il recettore postsinaptico dell’acetilcolina (AChR) porti alla distruzione della membrana postsinaptica e all’interruzione della trasmissione neuromuscolare
di Cinzia Boschiero

randomizzato centralmente, si è utilizzata una tecnologia di risposta interattiva e randomizzata, il tutto stratificato per re gione (Nord America, Europa, Asia-Pacifico, e Giappone). Dopo il completamento delle 26 settimane randomizzate, periodo di prova in doppio cieco, controllato con placebo (randomizzato periodo di prova; i cui risultati sono riportati in questo studio), i pazienti hanno potuto accedere ad un’e stensione dello studio e ricevere un trattamento in aperto con ravulizumab fino a 4 anni. Da marzo 2019 a novembre 2020 sono stati 175 i pazienti arruolati e assegnati in modo casua le al trattamento in 85 centri in 13 Stati: 86 pazienti (49%) hanno ricevuto ravulizumab e 89 (51%) hanno ricevuto il placebo. I dati demografici di base e le caratteristiche clini che erano equilibrate. Complessivamente, il 51% dei pazienti erano donne, l’età media era di 56 anni, e la maggior parte dei pazienti (54%) pesava da 60 a 100 kg. La media dell’età alla diagnosi di miastenia gravis era di 46 anni e il tempo medio dalla diagnosi era di 10 anni (mediana, 6,5 anni; intervallo, 0,5–39,5 anni). La popolazione del trial era leggermente più gio vane e aveva una percentuale inferiore di partecipanti neri o afroamericani di quanto ci si aspetterebbe nella popolazione di pazienti con miastenia grave negli Stati Uniti. La maggior parte dei pazienti (90%) stava ricevendo terapie con im munosoppressori; il 47% era trattato con due o più terapie immunosoppressive. Complessivamente 162 pazienti (93%) hanno completato le 26 settimane del trial. Miglioramenti nei punteggi MG-ADL e QMG con ravulizumab sono sta ti osservati entro una settimana dal trattamento e sono stati mantenuti per 26 settimane di trattamento. Un totale di 27 su 76 pazienti (35,5%) nel gruppo trattati con ravulizumab gruppo e 10 su 78 pazienti (12,8%) nel gruppo placebo han no sperimentato un miglioramento di 5 punti o più nel loro Punteggio QMG alla settimana 26. Le percentuali di pazienti che hanno avuto reazioni avverse o eventi avversi, che sono stati considerati dal gruppo di ricercatori, erano simili tra i gruppi ravulizumab e placebo. Non ci sono state differenze notevoli nei tipi di eventi avversi tra i due gruppi. L’even to avverso più frequente è stato il mal di testa, sperimentato da 16 pazienti (19%) nel gruppo ravulizumab e 23 (26%) nel gruppo placebo. Si ricorda che la partecipazione ad una sperimentazione clinica, con più frequenti visite e il contatto prolungato con il personale clinico potenziato a seguito di vi site organizzate per un trial può comportare risultati migliori anche nei pazienti trattati con placebo.

Ravulizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega in modo specifico con elevata affinità al terminale umano complemento alla proteina C5, prevenendo l’interru zione della trasmissione neuromuscolare; presumibilmente inibisce la membrana attacca la distruzione mediata da com plessi della giunzione neuromuscolare. Ravulizumab è stato progettato per mantenere le concentrazioni sieriche terapeu tiche per lungo tempo con un intervallo di somministrazione

di otto settimane. I dati dello studio confermano che ha un valore accettabile sotto il profilo degli effetti collaterali e degli eventi avversi e che migliora quindi la qualità di vita dei pazienti. Nello studio ravulizumab, somministrato ogni 8 settimane, ha fornito e un controllo sostenuto dell’attività della malattia nella miastenia gravis dimostrandosi efficace. Si ricorda che la miastenia gravis, se non adeguatamente controllata, può predisporre i pazienti al deterioramento clinico, comprese le crisi miasteniche pericolose per la vita. L’obiettivo primario nella gestione della miastenia gravis è quindi mantenere il controllo continuo dell’attività della malattia e ridurre al minimo i sintomi associati. La maggior parte dei pazienti con gMG (circa l’85%) ha autoanticorpi contro il recettore postsinaptico dell’acetilcolina (AChR). Il legame degli anticorpi anti-AChR porta all’attivazione della cascata classica del complemento, alla formazione del com plesso del complemento terminale (complesso di attacco di membrana), e conseguente distruzione della membrana po stsinaptica della giunzione neuromuscolare. Le terapie im munosoppressive usate per trattare la miastenia gravis sop primono i mediatori cellulari della risposta immunitaria, ma la maggior parte ha un inizio lento dell’azione e non mira direttamente al sistema del complemento. Inoltre, il tratta mento a lungo termine con glucocorticoidi e altre terapie immunosoppressive può essere associato a gravi effetti col laterali. “Ecco perché si sono cercate altre vie terapeutiche e questo trial ha dato risultati rivoluzionari in tal senso,” dice il dott. Renato Mantegazza,”ci siamo impegnati molto e abbiamo riscontrato nel nostro studio che Ravulizumab ha fornito un trattamento rapido ed efficace di pazienti adulti con miastenia gravis, positivo per anticorpi anti-A

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ChR con un profilo di effetti collaterali e eventi avversi ac cettabile, come determinato sia dai pazienti che dai clinici. I risultati di questo studio, che è il secondo studio di fase 3 per riportare gli effetti dell’inibizione terminale del complemen to nella gMG, confermano il ruolo critico svolto dal com plemento nella patogenesi della gMG e dimostrano che ra vulizumab, con un meccanismo d’azione volto a ridurre il conseguenze dell’attivazione aberrante del complemento, può fornire un trattamento precoce e prolungato della gMG anti-AChR anticorpo-positiva, senza i gravosi effetti collate rali spesso osservati con altri trattamenti. Questo migliora significativamente la qualità di vita dei pazienti”. L’associa zione AIM è stata molto attiva durante la pandemia covid 19 e sia a livello europeo che internazionale ha evidenziato la necessità di inserire i pazienti con miastenia negli elenchi prioritari per le vaccinazioni anti-covid 19 presso il ministe ro della salute e presso la Commissione europea e questo trial è stato portato avanti malgrado i problemi dovuti alla pandemia. “I limiti della sperimentazione includono l’in fluenza della pandemia di Covid-19,” dice il dott. Renato Mantegazza,”Sebbene le misure di mitigazione abbiano con sentito allo studio di continuare a raccogliere dati in base al disegno dello studio, non è determinato in che modo la pan demia possa aver influenzato le valutazioni, in particolare quelle relative alla HR-QoL. Sia come AIM che come team di ricerca internazionale, pertanto, proseguiamo a monitora re i pazienti per studiare anche gli effetti della vaccinazione anti-covid 19 e le implicazioni sulle cure e intendiamo pro seguire per evidenziare come la cura debba essere a proto colli molto personalizzati e mirati. Inoltre. una app gratuita denominata MyRealWorld ci aiuta a monitorare giorno dopo giorno come i pazienti seguono le terapie, come la pa tologia impatta sulla loro qualità di vita”. Lo studio ha evi denziato l’efficacia prolungata di vulizumab, compresi gli effetti benefici sull’incidenza del deterioramento clinico e l’uso della terapia di salvataggio, che riduce potenzialmente il carico della malattia, raggiunto il dosaggio di ravulizumab somministrato in questo studio e approvato in altre condi zioni cliniche, questo studio mostra l’inibizione della C5 me diata, completa e prolungata durante l’intero intervallo di somministrazione, e il regime posologico basato sul peso è stato da noi ottimizzato per ridurre le differenze di esposi zione nell’intervallo di peso corporeo dell’adulto. “Il miglio ramento clinico sostenuto ottenuto da un dosaggio coerente e prevedibile (ogni 8 settimane) ci ha consentito di affronta re l’imprevedibilità di una malattia cronica e fluttuante e il significativo carico di trattamento in corso per i pazienti coinvolti nel trial” dicono i ricercatori. Nel trial Ravulizu mab non ha avuto un profilo di effetti collaterali limitanti il trattamento nei pazienti con miastenia gravis, ha mantenuto un profilo di sicurezza coerente con quello osservato negli studi di fase 3 sull’emoglobinuria parossistica notturna e sul la sindrome emolitico-uremica atipica e negli studi sull’inibi

tore del complemento terminale eculizumab. Nessun caso di infezione meningococcica si è verificato durante il periodo di studio randomizzato, ciò ha confortato e fatto riflettere sulla efficacia delle misure di mitigazione del rischio riporta te per la somministrazione di inibitori del complemento ter minale. “Uno dei punti di forza di questo studio di fase 3 è la gamma di gravità della malattia dei pazienti arruolati” dice il dott. Renato Mantegazza,”per questo trial infatti abbiamo incluso pazienti con sintomi da lievi a gravi, quelli che non stavano ricevendo terapie immunosoppressive al basale e quelli a cui era stata diagnosticata solo 6 mesi prima dello screening. Sebbene la popolazione dello studio possa essere leggermente più giovane della popolazione complessiva con miastenia gravis, è probabile che i risultati dello studio siano generalizzabili alla popolazione più ampia della malattia, poiché i partecipanti allo studio provenivano da razze ed et nie da un’ampia geografia e rifletteva la fascia di età e lo spet tro delle caratteristiche cliniche dei pazienti con miastenia gravis”. L’Associazione AIM monitora ben duemila pazienti di 10 Stati nel mondo con miastenia grazie ad una app gratu ita legata ad uno studio, realizzata proprio per migliorare il monitoraggio della loro qualità di vita e per osservare e rac cogliere dati su come questa patologia impatti nella vita di tutti i giorni per i malati ma anche per i caregivers, ovvero le persone che se ne prendono cura. “Ad oggi,” dice il dott. Renato Mantegazza, presidente di AIM - Associazione Italia na Miastenia,” ci sono ben 763 pazienti italiani che utilizza no la app i cui dati vengono poi elaborati dai ricercatori e monitorati da noi medici che li seguiamo. Sicuramente que sta app ha consentito di comprendere come ancora oggi ave re la miastenia crei stigma, non sia compreso soprattutto nei luoghi di lavoro, diminuisca la qualità di vita, crei incertezza e insicurezza nei pazienti e nelle loro famiglie. Inoltre, le ri sposte e i dati inseriti in questa app consentono di affiancare ai dati relativi alla patologia anche i dati relativi all’efficacia delle cure e alla aderenza dei pazienti a quanto viene loro prescritto come trattamento”. L’app MyRealWorld è gratui ta e scaricabile dall’autunno 2020 su smartphone con siste ma operativo iOS o Android e ideata per le persone affette da Miastenia Grave, ha consentito con i dati di elaborare un altro studio sul “caregiver burden” che ha fornito dati anche sui caregivers e le loro difficoltà. Lo studio a carattere so cio-economico ha coinvolto persone di cinque Stati europei ed aiuta a comprendere l’impatto della patologia sulla quali tà di vita e sul benessere di queste figure, inclusi gli operato ri sanitari. Le informazioni raccolte da MyRealWorld MG rispecchiano l’“ordinario” andamento della patologia: a es sere colpite maggiormente sono le donne (71,9%) e ciò im plica anche una serie di problematiche legate alla vita fami liare e al percorso lavorativo. L’età in cui appaiono i sintomi e quindi si ottiene poi una diagnosi oscilla tra i 20 e i 40 anni. I livelli di ansia e depressione, influenzati dalle condizioni che questi pazienti vivono quotidianamente, si attestano su

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una media di 7,5 su una scala di valori che arriva fino a 20. Un numero rilevante, soprattutto se si considera che lo stress incide sullo stato della patologia. “Sull’app è stata aggiunta una sezione dedicata al covid-19,” sottolinea il dott. Renato Mantegazza, Presidente Associazione AIM Amici del Besta e Direttore U.O.C. Neurologia 4- Neuroimmunologia e Malat tie Neuromuscolari della Fondazione IRCCS Istituto Neuro logico Carlo Besta di Milano,”e monitoriamo pazienti parte cipati al trial pubblicato sulla rivista Nejm Evidence. Sicuramentte evitare sforzi psico-fisici può sicuramente alle viare i sintomi della Miastenia Gravis e il ricorso alla teleme dicina e alla teleassistenza è necessario adesso più che mai. Noi come AIM abbiamo attivato una serie di servizi e di sup porti psicologici e di assistenza on line per rispondere alle domande delle persone. Abbiamo attivato anche altri studi internazionali per comprendere se, ad esempio, i pazienti con Miastenia Grave e i loro trattamenti immunosoppressivi rischino maggiormente di contrarre il covid-19 o di essere affetti da una forma più grave”. Questo trial di recente pub blicazione è utile per valutare l’efficacia e la sicurezza di ra vulizumab negli adulti pazienti con gMG anti-AChR anticor po-positivo. Di rilievo sono i dati raccolti grazie allo studio, condotto una fase 3, randomizzata, in doppio cieco, controllata con placebo; questo studio multicentrico segna un importante traguardo per il trattamento della miastenia gravis (rif. CHAMPION MG; Clinical- Numero Trials.gov, NCT03920293; numero EudraCT, 2018-003243-39). Le te rapie immunosoppressive usate per trattare la soppressio ne della miastenia gravis utilizzano mediatori cellulari della risposta immunitaria, ma la maggior parte ha a inizio lento dell’azione e non mirano direttamente al sistema di comple mento. Inoltre, il trattamento a lungo termine con glucocor ticoidi e altre terapie immunosoppressive possono essere as sociate a gravi effetti collaterali. Un efficace, terapia mirata al complemento che ha un dosaggio favorevole come questa evidenziata da questo trial multicentrico ha evidenziato di avere un effetto collaterale accettabile ed è molto efficace nel controllare costantemente la malattia continua ecco perché risulta una valida opzione di trattamento. Il protocollo del trial è stato approvato dal comitato di etica indipendente e dal comitato di revisione istituzionale in ogni istituzione e centro di ricerca partecipante. Tutto il processo del trial è stato condotto in conformità con le disposizioni della Dichia razione della World Medical Association di Helsinki, la Con ferenza internazionale sull’armonizzazione E6 Linee guida per la buona pratica clinica e tutti i requisiti normativi appli cabili. Tutti i pazienti hanno fornito e sottoscritto consape volmente il loro consenso scritto e informato. Durante tutta la sperimentazione, visite cliniche aggiuntive e/o soccorso te rapia (ad es. glucocorticoidi ad alto dosaggio, plasmaferesi/ plasmaferesi o immunoglobuline per via endovenosa) sono state applicate e consentite nel caso un paziente avesse ma nifestato un peggioramento dei sintomi o un deterioramento

clinico. L’efficacia del trial è stata valutata utilizzando dati e risultati convalidati misurabili tramite la scala MG-ADL, la scala a punteggio quantitativa Miastenia Gravis (QMG), il rivisto questionario sulla qualità della vita della miastenia grave (MG-QOL15r), e la misurazione degli standard scien tifici della Qualità Neurologica della Vita (Neuro-QoL)Sottoscala della fatica. “E’ fondamentale lavorare in team multicentrici in rete e ogni anno, proprio per questo, come Associazione Italiana Miastenia,” dice il dott. Renato Man tegazza, presidente di AIM (www.miastenia.it) e Direttore del Dip. Ricerca e Sviluppo clinico – Dir. Neurologia 4Neuroimmunologia e Malattie Neuromuscolari della Fon dazione IRCCS Istituto Neurologico C. Besta,”organizzia mo le ‘Neuroimmunology Lectures’, che sono due giornate dedicate a medici, ricercatori, specializzandi e associazioni di pazienti, per fare il punto sugli avanzamenti della ricerca e cura nel settore della neuroimmunologia. Quest’anno le abbiamo dedicate al ricordo di una delle più brillanti ri cercatrici che faceva parte del nostro team, la dott.ssa Pia Bernasconi”. Il tema della terza edizione delle Neuroim munology Lectures è il processo della neuroinfiammazione dal muscolo al cervello. “Si tratta,” spiega il dott. Renato Mantegazza,” di un fenomeno di interesse trasversale in patologie neurologiche molto diverse tra loro, con interes samento del sistema nervoso centrale o periferico. Proprio in relazione alla trasversalità dell’infiammazione rispetto a contesti diversi, verranno presi in considerazione i legami tra infiammazione e sistema del complemento coinvolto in patologie che spaziano dalla giunzione neuromuscolare in ambito periferico fino a patologie a genesi tipicamente infiammatoria come la neuromielite ottica nel contesto del sistema nervoso centrale”.

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Le biopiscine: un’alternativa che rispetta l’ambiente

Rimaste a lungo poco conosciute, le biopisci ne, o piscine naturali, sono oggi argomento di grande attualità. Si tratta per l’appunto di specchi d’acqua realizzati per la prima volta in Austria negli anni ’80 a seguito della crescente riduzione di aree umide e nicchie ecologiche nonché della scoperta degli effetti avversi del cloro e di altri solventi chi mici, comunemente utilizzati come disinfettanti nelle pisci ne tradizionali, sulla salute umana. Studi scientifici hanno infatti dimostrato come diverse problematiche respiratorie, quali l’aggravarsi di asma e allergie riscontrate soprattutto in soggetti in età infantile e adolescenziale, siano legate alla prolungata esposizione al cloro presente nelle cosiddette “piscine chimiche”.

Per gli amanti della natura e dell’ambiente ma soprat tutto per un futuro sempre più sostenibile, le piscine na turali rappresentano una valida alternativa alla classica pi scina, contribuendo a creare un complesso ecosistema che rimuove efficacemente i nutrienti in eccesso e filtra i batteri potenzialmente pericolosi. La mutua partecipazione delle piante e dei microrganismi crea pertanto un ambiente non sterile ma comunque sicuro e ripulito, dove l’acqua viene purificata senza l’utilizzo del cloro ed è tale da poterne per mettere la balneazione senza correre alcun rischio.

Se in una piscina chimica i detriti sono considerati con taminanti, in una biopiscina questi rappresentano dei nu trienti. In poche parole, in una piscina chimica si rimuovo no costantemente i contaminanti per evitare che organismi patogeni potenzialmente presenti nell’acqua possano cre scere e moltiplicarsi utilizzando questa fonte come nutrien te. Al contrario, una piscina naturale sostiene la crescita dei microrganismi benefici che proprio grazie alla disponibili tà di questi nutrienti, riesce a competere con successo con quelli indesiderati, le cui popolazioni vengono in questo modo controllate e soppresse.

A differenza delle piscine tradizionali, le biopiscine for niscono una moltitudine di servizi per tutto l’arco dell’an

no, offrendo un habitat agli insetti impollinatori, favorendo la biodiversità vegetale ed animale e valorizzando l’estetica del paesaggio naturale.

All’interno di questo complesso ecosistema, gli equili bri tra microrganismi e piante ruotano attorno alla presen za di due nutrienti chiave, l’azoto (N) e il fosforo (P), le cui concentrazioni devono essere tenute sotto controllo. N e P sono nutrienti essenziali per la vita: l’N è presente in aminoacidi, proteine, acidi nucleici e clorofilla; il P oltre ad essere presente in DNA ed RNA, fornisce energia alle cellule in forma di ATP e NADPH nel metabolismo pri mario (respirazione e fotosintesi nelle piante). Un eccesso di queste sostanze oltre i limiti raccomandati, favorisce il processo di eutrofizzazione (dal greco eutrophos) che si verifica appunto quando elevati livelli di N e P in un eco sistema acquatico, spesso dovuti all’attività antropica, sti molano la crescita di determinate specie vegetali. Questo arricchimento del sistema conduce ad una condizione di totale (anossia) o parziale (ipossia) assenza di ossigeno che culmina con la proliferazione incontrollata e dannosa, sulla superficie delle acque, di monocolture algali o di piante acquatiche come la lenticchia d’acqua (Lemna minor L.).

Questo fenomeno noto ormai da anni, interessa preva lentemente laghi, fiumi e corsi d’acqua e può modificare in maniera permanente l’ecosistema acquatico. Scarichi domestici e agricoli, ricchi di azoto e fosforo, favoriscono la proliferazione di fitoplancton e di alghe che consuma no l’ossigeno nell’acqua sottraendolo agli altri organismi marini come i pesci, anche se questo non è il caso delle biopiscine dove la presenza di pesci non è contemplata in quanto renderebbero più difficile la depurazione a causa delle deiezioni.

Le alghe rappresentano un rischio per la sicurezza dal momento che interferiscono con la visibilità del fondale e competono con le piante per la disponibilità di nutrien ti essenziali. A tale riguardo, oltre ad inibire lo sviluppo delle macrofite acquatiche per sottrazione di nutrienti, le

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Studi scientifici dimostrano come diverse problematiche respiratorie, come asma e allergie riscontrate soprattutto in soggetti in età infantile e adolescenziale, siano legate alla prolungata esposizione al cloro presente nelle cosiddette “piscine chimiche”

alghe provocano cambiamenti repentini del pH e dei livelli di ossigeno dissolto nell’acqua, compromettendo le normali funzioni fisiologiche delle macrofite. In ultimo si aggiunge il fatto che nella maggior parte dei casi la presenza di alghe viene associata ad impurità nell’acqua, scoraggiando l’uso della piscina e richiedendo un controllo della loro presen za mediante una riduzione dei livelli di nitrati (NO3) e P. Al contrario, è molto importante che sulla superficie delle acque si formino dei biofilm popolati da comunità di mi crorganismi fungini e batterici liberi di fluttuare ma che allo stesso tempo siano in grado di ancorarsi e catturare nutrien ti indispensabili per la loro crescita.

Risulta pertanto essenziale che l’ecosistema raggiunga il giusto equilibrio e che questo venga mantenuto dall’inse diamento di appropriate popolazioni di microrganismi che insieme ai vegetali, siano capaci di portare avanti processi chimici, fisici e biologici che agiscano in sincrono per assi curare una “filtrazione biologica” estremamente efficace e senza rischi per la salute. I processi chimici più importanti che si verificano in una biopiscina riguardano la volatiliz zazione dell’ammoniaca (NH3) che, a seguito dell’aumento del pH, passa dalla forma acquosa a quella gassosa e viene rilasciata nell’atmosfera e la precipitazione del P che avvie ne quando sono presenti ferro o calcio e i livelli di fosfato (PO4³¯) sono relativamente alti. I processi fisici sono inve ce quelli che implicano la filtrazione meccanica di grosse porzioni di materia organica e di sedimenti, generalmente ottenuta con un filtro. Infine, l’ammonificazione, la nitrifi cazione e la denitrificazione sono compresi in quei processi biologici che permettono la rimozione dell’azoto. Partico larmente rilevante è il ciclo dell’azoto, che vede coinvolti in un primo momento i batteri eterotrofici, capaci di cre scere rapidamente in presenza di ossigeno e di attaccare la materia organica ed ossidarla per produrre diossido di car bonio (CO2), NH3 e acqua. Varie specie di batteri aerobici appartenenti al genere Nitrosomonas spp. convertono poi l’ammoniaca in nitriti, che in ultima fase vengono convertiti in nitrati da batteri aerobici specializzati del genere Nitro bacter spp. In questo modo, l’azoto viene reso disponibile

in una forma non tossica e può essere utilizzato dalle piante come fertilizzan te naturale.

Il sistema chiuso delle biopiscine viene quindi completato dalla presenza delle piante acquatiche, anche denomi nate idrofite, che si prestano partico larmente bene ad un ambiente estremo come quello acquatico grazie alle loro caratteristiche morfologiche e fisiologi che. Tra i vari adattamenti fisiologici, le idrofite presentano un elevato fab bisogno idrico e possono sopravvivere completamente sommerse o sviluppare un apparato radicale che cresce nell’acqua. Inoltre, ogni specie ricopre una funzione ecologica, per cui occorre di stinguere tra piante accompagnatrici, con valore ornamen tale e piante con capacità rigenerativa e di fitodepurazio ne. Queste idrofite si caratterizzano nella maggior parte dei casi per la presenza di un esteso tessuto parenchimati co che prende il nome di aerenchima, il quale consente il trasporto di ossigeno assicurandone la distribuzione a tut te le cellule grazie alla presenza di numerosi spazi intercel lulari. Nello specifico, l’aerenchima può avere origine per schizogenia e quindi allontanamento delle cellule l’una dall’altra per creare degli spazi vuoti dove passa l’ossige no o per lisogenia, che invece implica una morte cellulare programmata mediata dalla presenza dell’etilene che pro muove la produzione delle specie radicaliche dell’ossigeno (ROS) dannose per le cellule.

E’ questo il caso della ninfea (Nymphaea spp. L.) che sfrutta gli aerenchimi presenti nel fusto anche per rimane re a galla e svolge una funzione ombreggiante grazie allo sviluppo di grandi foglie che poggiano sull’acqua. Allo stesso modo il fiore di loto, di cui sono unicamente note le specie americana (Nelumbo Iutea) ed asiatica (N. nuci fera), domina la scena con i suoi petali linguati di colore bianco, giallo o rosa e le sue brillanti foglie decorative che espandendosi lungo la superficie, contribuiscono a ridur re la formazione di alghe e il riscaldamento dell’acqua.

Altre natanti spesso impiegate sono il giacinto d’acqua (Eichhornia crassipes L.), che sebbene di piccole dimen sioni viene considerata una delle piante acquatiche più in vasive per la sua capacità di proliferare rapidamente e per questo deve essere contenuta e il cavolo del Nilo (Pistia stratiotes L.) che cresce fluttuando sull’acqua e forma una rosetta con le foglie e radici fitte e sommerse sott’acqua. Presente pressoché in tutte le aree del mondo, la stiancia o più semplicemente tifa (Typha latifolia L.) si presenta con le sue foglie verdastre e il suo alto fusto su cui si inserisce all’apice l’infiorescenza costituita dal grosso spadice fem minile di colore marrone e da quello maschile biancastro (più sottile a forma conica) posto al di sopra di esso. So

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litamente le fronde delle piante sommerse nascondono un ambiente confortevole per girini e altre forme di vita che si apprestano a maturare. Il giaggiolo acquatico o iris delle paludi (Iris pseudacorus L.) è un’altra tipologia di piante sommerse che merita di essere citata non solo per la sua spiccata efficacia nella fitodepurazione e il fascino dei suoi fiori dai colori sgargianti ma anche per la sua capacità di produrre sostanze antibiotiche che aiutano a contenere la proliferazione di batteri nocivi. Inoltre, l’iris delle paludi è una pianta a rischio di estinzione in molte regioni italiane, perché minacciata dalla progressiva scomparsa del suo ha bitat naturale.

Esempi di piante emergenti sono invece i giunchi (Jun cus effusus L.) che popolano zone con clima umido, come le paludi o le aree marittime, ma anche i boschi ombreggia ti e le canne comuni (Arundo donax L.) che offrono riparo a rane e libellule. Pertanto, l’aggiunta di queste piante in una zona di rigenerazione apporta maggiore biodiversità nell’ambiente.

Inoltre, una combinazione di specie con differenti pe riodi di acquisizione dei nutrienti rappresenta un vantag gio da non sottovalutare. Si rivela quindi vincente la scel ta di utilizzare la bandiera blu (Iris versicolor) originaria del Nord America che sfoggia i suoi fiori blu-viola in pri mavera e per questo una delle prime piante a rompere la dormienza dopo l’inverno in coppia con l’ibisco (Hibiscus palustris), una pianta mediterranea che con i suoi fiori dai

colori rosso, rosa e bianco ingentilisce il limitare di corsi d’acqua e paludi e fiorisce tardivamente in autunno duran te il quale accumula P.

Dal punto di vista fisiologico, le piante recuperano preferenzialmente azoto nella forma di NO3 e ammonio (NH4+) e fosforo inorganico nella forma di PO4³¯. L’ac cumulo di N e P nei tessuti vegetali è specie-dipende ma molte piante acquatiche obbligate accumulano più elevate concentrazioni di P rispetto ad altre piante terrestri per cui fattori come il clima e le condizioni di crescita influenzano l’assorbimento e l’accumulo di questi nutrienti.

Oltre alla rimozione di N e P, la presenza dei vegetali è importante per la regolazione del pH e della circolazione di ossigeno nell’ambiente acquatico, nonché per la capaci tà di offrire una superficie più estesa alle popolazioni mi crobiche. La maggior parte dell’assorbimento di P si verifi ca all’inizio della primavera quando i tessuti vegetali vanno incontro ad una rapida espansione e viene accumulato nei tessuti più interni nel periodo estivo finché non viene tra slocato verso le radici o i rizomi come riserva invernale. I processi di decomposizione della biomassa vegetale forni scono carbonio al processo di denitrificazione e rilasciano lentamente nutrienti che possono essere impiegati in nu merosi altri processi chimici.

Le piante non sempre contribuiscono alla rimozione dei nutrienti, soprattutto il P, ma comunque giocano un ruolo importante come “ingegneri dell’ecosistema”. Intrappola no i sedimenti e riducono la turbolenza mentre le radici aumentano la superficie disponibile per la crescita batte rica e ossigenano la rizosfera. In una biopiscina, i batteri decompongono le sostanze organiche in sali minerali che vengono assorbiti e utilizzati dalle piante per crescere; in compenso, le piante forniscono ossigeno ai batteri median te le loro radici. Esistono due principali tipologie possibili di biopiscine, di cui uno si basa sul sistema a depurazione integrata e l’altro sulla presenza di vasche separate. Il pri mo prevede la costruzione di una vasca balneabile circon data da un’area adibita alla crescita della vegetazione per la fitodepurazione mentre il secondo si avvale dell’impiego di due vasche separate, di cui una è balneabile mentre l’altra delimita la presenza delle piante acquatiche.

Da questa distinzione, ne deriva che le biopiscine a de purazione separata, permettono di ottenere una qualità dell’acqua balneabile superiore rispetto alle biopiscine a costruzione tradizionale.

Nella biopiscina a vasche separate, generalmente la va sca di depurazione si trova ad un livello più alto rispet to alla vasca balneabile per sfruttare il passaggio di acqua dall’una all’altra con un salto che ricrea una piccola casca ta, per poi ritornare nella vasca contenente le piante, spin ta da una pompa che aspira e rimanda l’acqua. Per realiz zare una biopiscina vengono disposti dei teli di copertura sull’area di scavo e si può adoperare il TNT (tessuto non

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tessuto) disponendolo direttamente a contatto con il terre no, in modo che protegga il più delicato EPDM (Ethyle ne-Propylene Diene Monomer), dalla presenza di sassolini o schegge che possano perforarlo. L’area rigenerativa viene invece ottenuta mediante la stesa di un TNT sul quale ven gono poi disposti nell’ordine ghiaia, sabbia, terra e breccia to così da ricreare nel miglior modo possibile le condizioni del terriccio di una palude. La vasca di balneazione può poi essere definita da un cordolo di blocchi di tufo o altro materiale. Nei casi in cui la vasca di balneazione venga ri petutamente sfruttata e per garantire un ricircolo frequente dell’acqua, si può inserire un sistema di pompaggio, cui se gue il riempimento parziale della vasca. Le idrofite vengono poi messe a dimora nell’area predisposta e man mano che l’acqua sale e si riempie la piscina, le piante troveranno il giusto equilibrio con l’ambiente circostante. Dopo circa 1 anno, la biopiscina sarà completamente funzionante e si cura per l’utilizzo. Uno studio condotto dall’Università di Siena ha dimostrato l’efficacia della fitodepurazione in una biopiscina. In un laghetto balneabile contenente un filtro depurante sono stati introdotti vari batteri patogeni quali Escherichia coli, Staphilococcus aureus, Enterococcus fe calis, Pseudomonas aeruginosa e Criptococcus laurentii e successivamente condotte delle analisi sui campioni di ac qua prelevati. I risultati significativamente positivi, hanno rivelato come dopo un solo ciclo di depurazione, la carica degli agenti patogeni fosse stata ridotta del 90% e come in sole 24 ore si fosse ottenuto l’abbattimento della carica vira le e quindi dei microrganismi in esame. L’esperimento, che ha quindi validato l’utilizzo delle piante e dei microrganismi per depurare l’acqua, è stato inoltre svolto nel periodo au

tunnale in cui l’attività fitodepurante delle piante è oltretutto ridotta, dimostrandone in sostanza l’efficacia di azione. La depu razione nell’area di filtraggio è inoltre af fidata anche alla presenza di protozoi che contribuiscono al risultato finale, nutren dosi di batteri patogeni.

Proprio per le loro caratteristiche, le piscine naturali risultano una soluzione sostenibile e na turale che si sostituisce alle piscine con sistemi di depurazione tradizionale, apportando giova mento e benessere mentale e fisico. L’assenza di sostanze irritanti e quindi aggressive per l’e pidermide, ostacola l’insorgenza di fenomeni di irritazione ed infiammazione che comunemente si verificano in soggetti particolarmente delicati e affetti da dermatiti atopiche, psoriasi, eczemi o anche solo con una pelle poco idratata come nel caso degli anziani o dalle funzioni fisiologi camente ridotta come nei neonati. Sono inoltre noti gli effetti avversi del cloro sui capelli, il cui fusto subisce una perdita del colore e si sfibra o sugli occhi, soggetti invece a frequenti congiuntiviti con arros samento e talvolta anche dolore e fotofobia anche dovuti alla for mazione di gas che ristagnano nell’aria di impianti al coperto. Ad oggi, i comuni virtuosi che vantano una biopiscina pubblica sono, solo per citarne alcuni, il Comune di Campo Tures (Bolzano), il Comune di Roana (Vicenza), il Comune di Mercallo (Varese), il Comune di Monclassico (Trento) e il Comune di Castelnuovo –Val di Cecina (Pisa) ma ci auspichiamo che il loro numero possa crescere negli anni.

Bibliografia

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6. Hoffman, M. C. (2013). Nutrient removal in natural swimming pools: A mass balance analysis, (Unpubli shed doctoral dissertation). Pennsylvania State Univer sity: State College, Pennsylvania, USA

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Nucleare in Italia

Dibattito, referendum e molto altro

La costruzione delle centrali negli anni sessanta e il loro funzionamento

di Antonella Pannocchia

La decisione di costruire la prima centrale nucleare ven ne presa già all’indomani della conferenza “Atomi per la pace” tenutasi a Ginevra dal 8 al 20 agosto 1955 e portò l’Italia, nel corso degli anni sessanta, ad avere sul proprio territorio tre impianti di prima generazione ba sati sulle tre più innovative tecnologie dell’epoca: i reattori di tipo BWR e PWR di origine statunitense e quello di tipo Magnox di origine britannica. Considerato che le tecnologie disponibili nelle prime fasi dello sfruttamento dell’energia nucleare erano molteplici e che non si conoscevano ancora tutti i vantaggi ed i problemi relativi a ciascuna tecnologia, l’Italia si dotò di tre mo delli pressoché prototipali che servirono anche a Regno Unito e USA per sperimentare all’estero dei reattori capostipite delle rispettive filiere.

La prima centrale nucleare italiana venne realizzata a Latina, un impianto con un unico reattore di tipo Magnox da 160 MWe lordi che, una volta ultimato il 12 maggio 1963, ne rappresentava l’esemplare più potente a livello europeo. Otto mesi più tardi fu approntata la centrale di Sessa Aurunca e meno di un anno dopo vi fu l’installazione di Trino, che aveva a disposizione un reat tore PWR Westinghouse da 270 MWe lordi e che al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale nucleare più potente nel mondo. L’energia prodotta da queste tre centrali era comunque poca cosa rispetto alla produzione nazionale, a cui contribuivano mediamente per il 3-4%. Il 1º gennaio 1970 iniziò la costruzione della quarta centrale, quella di Caorso.

Il primo Piano Energetico Nazionale del 1975

Fino alla metà degli anni settanta la situazione della genera zione elettrica in Italia era piuttosto confusa, essendo indefinite le esigenze produttive e quindi il parco centrali necessario. Nel 1975 avvenne il varo del primo Piano Energetico Nazionale (PEN) che prevedeva un forte sviluppo della componente nu cleare. In aggiunta alle tre centrali già in funzione e a quella in via di realizzazione a Caorso, vennero proposti una serie di siti per nuove centrali ed il 1º luglio 1982 fu messa in cantiere la centrale di Montalto di Castro con due reattori nucleari ad acqua bollen

te BWR ciascuno di potenza elettrica netta di 982 MW. Venne anche ipotizzata l’installazione di una seconda centrale a Trino, basata sull’allora nascente Progetto Unificato Nucleare”, con due reattori nucleari ad acqua pressurizzata PWR da 950 MW .

Il referendum del 1987[5 -6]

Sulla scia dell’incidente di Three Mile Island del 1979, la si curezza degli impianti nucleari divenne una preoccupazione cre scente negli anni ottanta. Inoltre, date le difficoltà crescenti per lo smaltimento delle scorie radioattive, e il dibattito sulla sicurez za degli impianti, la posizione antinucleare in vari paesi, trovò voce ed ascolto tanto da mettere in discussione la scelta nucleare soprattutto nel nostro paese. L’inizio dell’esercizio commerciale dell’impianto di Caorso fu pertanto posticipato per provvedere ad alcuni aggiornamenti ai sistemi di sicurezza. Nel 1982 l’im pianto di Sessa Aurunca viene fermato definitivamente anche a seguito di valutazioni sull’antieconomicità delle riparazioni pe riodiche, richieste dall’impianto.

L’incidente di Černobyl’ del 1986 portò a indire in Italia l’an no successivo tre referendum nazionali sul settore nucleare. In tale consultazione popolare, circa l’80% dei votanti si espresse a favore delle istanze portate avanti dai promotori. I tre referen dum pur non vietando in modo esplicito la costruzione di nuove centrali, né imponendo la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione, abrogando i cosiddetti “oneri compensativi” spet tanti agli enti locali relativi e rendendo insostenibile per le ammi nistrazioni locali la progettazione di nuovi impianti. Venne abro gata anche la norma che concedeva al CIPE la facoltà di scelta dei siti stessi anche in assenza di accordi con le amministrazioni locali e venne inoltre inserita una norma per impedire all’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero.

Tra il 1988 e il 1990 i Governi Goria, De Mita e Andreotti, posero termine all’esperienza nucleare italiana con l’abbandono del Progetto Unificato Nucleare e la chiusura delle tre centrali ancora funzionanti (Latina, Trino e Caorso). Le due centrali di Latina e di Trino erano già praticamente a fine vita, essendo state progettate per poter funzionare per 25-30 anni dall’accensione

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del reattore, e dunque l’unica centrale che venne effettivamente chiusa con grande anticipo sul ciclo previsto fu quella di Caorso. Fu interrotto il cantiere della centrale di Montalto di Castro la cui area, sfruttando le prese per l’acqua a mare già realizzate, venne poi riutilizzata per la realizzazione della centrale a policombusti bile Alessandro Volta mentre per il progetto della seconda instal lazione di Trino era stato solo individuato e predisposto il sito che fu in seguito impiegato per l’approntamento di un impianto a gas a ciclo combinato. Dal 1999 tutti i siti di queste centrali sono di proprietà e di gestione SOGIN e, assieme agli altri complessi nucleari presenti sul territorio italiano, sono in fase di smantella mento e programmati per essere definitivamente dismessi entro il 2025.

Nel periodo di attività antecedente al 1987, le centrali nucleari italiane avevano prodotto scorie radioattive che, ad ottobre 2011, si trovavano per il 98% negli impianti di ritrattamento di Areva a La Hague in Francia (da dove verranno restituite riprocessate nel 2025) e di BNFL a Sellafield nel Regno Unito. In preceden za, erano sistemate nelle piscine delle centrali stesse o in quella dell’impianto EUREX di Saluggia.

La mancata produzione di energia elettrica da fonte nucleare, che nel 1986 ebbe un picco pari al 4,5% del totale, ma che negli anni precedenti si era attestata intorno al 3-4%, fu compensata con l’aumento dell’utilizzo di combustibili fossili, in particolare carbone e gas ma anche petrolio/olio combustibile, e con un ul teriore incremento delle importazioni, passate complessivamente da 23 TWh del 1987 a 31 TWh del 1988, in aggiunta a quello

già necessario ogni anno a coprire il generale aumento dei consumi, che nel 1987 era stato del 4,9% e nel 1988 del +5,1%. Nel tempo poi, l’u so di carbone e petrolio/olio combustibile è stato sempre più abbandonato in favore del gas, attualmente principa le fonte fossile utilizzata per la produzione elettrica. Il dibat tito politico che si era riaperto dopo l’impennata dei prezzi di gas naturale e petrolio negli anni tra il 2005 e il 2008, ha condotto il Governo Berlu sconi IV a ripristinare in Ita lia intensi contatti diplomatici per favorire la costruzione di nuovi impianti nucleari nel nostro paese, sia perché le due nazioni sono tra i princi pali esportatori di tecnologia nucleare, sia per allontanare l’Italia dalla dipendenza dal gas metano, tramite cui la Russia avrebbe potuto esercitare influenze sulla politica ita liana. Il ministro dello Sviluppo Economico di quel periodo (Claudio Scajola) propose di costruire dieci nuovi reattori con l’obiettivo di arrivare a una produzione di energia elettrica da nucleare in Italia pari al 25% del totale, la qual cosa, associata all’aumento fino al 25% di quella fornita da fonti rinnovabili, avrebbe portato a un ridimensionamento al 50% di quella di origine fossile.

Interventi legislativi

L’intento di tornare alla produzione nucleare in Italia è sta to dapprima postulato con la definizione della “Strategia ener getica nazionale” ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 e successivamente regolato dagli articoli 25, 26 e 29 della legge 23 luglio 2009, n. 99 e con il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31. Dieci Regioni italiane (Basi licata,Calabria,Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Marche, Moli se, Puglia, Toscana e Umbria) impugnarono la legge 23 luglio 2009, n. 99 (nella parte che conferiva al Governo la delega per la riapertura degli impianti nucleari in territorio nazionale) in quanto da loro ritenuta incostituzionale ricorso poi rigettato dalla Consulta il 24 giugno 2010.Tre di queste Regioni (Emi lia-Romagna, Puglia e Toscana) hanno anche fatto istanza per illegittimità costituzionale contro alcuni punti del decreto legi slativo 15 febbraio 2010, n. 31.

Con la sentenza numero 33/2011 la Corte Costituzionale si è espressa in merito ai ricorsi citati, giudicando che prima di

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costruire un impianto nucleare fosse obbligatorio chiedere alla Regione ospitante l’opera, il suo parere per altro non vincolante.

Referendum consultivo in Sardegna[7]

Il 15 e il 16 maggio 2011 la Regione Sardegna ha tenuto un referendum regionale consultivo proposto da Sardigna Natzione Indipendentzia, sull’eventuale costruzione di impianti nucleari nell’isola, con il Decreto n. 1 del 30 gennaio 2011. Il quesito refe rendario, recitava semplicemente: «Sei contrario all’installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti?», coinvolgendo dun que anche i depositi di scorie, a differenza di quello nazionale, che si sarebbe limitato alle centrali per la produzione di elettricità a scopo commerciale. La consultazione, ha visto una partecipa zione di circa il 60% del corpo elettorale e una vittoria dei “Sì” con una percentuale di oltre il 97%. Tale referendum ha avuto solo valore consultivo, non impegnando né il governo regionale né quello nazionale, servendo comunque come messaggio po litico, date le dimensioni della partecipazione popolare e l’esito della consultazione.

Referendum del 2011 e chiusura del programma nucleare [8-9]

L’Italia dei Valori il 9 aprile 2010 presentò una proposta di referendum sul nuovo programma nucleare italiano che mirava ad abrogare parte del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 con vertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, il quesito referendario viene dichiarato ammissibile dalla Corte costituzio nale e vengono proposte come date per lo svolgimento del refe rendum il 12 e 13 giugno 2011.

Anche a seguito dell’incidente di Fukushima (11 marzo 2011), il Consiglio del ministri, con un decreto legge che sospen de gli effetti del D.Lgs. n. 31/2010 sulla localizzazione dei siti nucleari, stabilisce una moratoria di 12 mesi del programma nu cleare italiano. La moratoria non riguarda l’Agenzia per la sicu rezza nucleare, né il deposito di scorie. Svoltosi regolarmente il referendum che raggiunge un quorum di circa il 54% di votanti e una maggioranza di oltre il 94%, le norme inerenti al nucleare del cosiddetto decreto Omnibus vengono i abrogate, determi nando la chiusura del nuovo programma nucleare.

Sembrava che la questione fosse stata ormai chiusa per sem pre e dimenticata. E invece, dopo due referendum contrari sopra menzionati, il nucleare torna a far parlare di sé. Perché se è vero che il Green Deal a cui aderiamo impone di portare a zero il bilancio netto di emissioni di gas serra in Europa entro il 2050, è anche vero che da qualche parte l’energia dobbiamo pur pren derla. E il nucleare, con tutti i suoi difetti, ha un indubbio vantag gio: non produce gas serra.

La questione è tornata di attualità a inizio 2022, sia perchè la Commissione Europea ha deciso di inserire il nucleare all’interno di una lista di attività economiche considerate sostenibili dal pun to di vista ambientale, sia perchè la Russia ci sta facendo pagare l’appoggio alla Ucraina con forniture di gas naturale sempre più esigue e sempre più costose,

È giusto classificare il nucleare come fonte energetica “gre en”? Al di là degli slogan, è importante capire di che cosa stiamo parlando, vediamo quindi quali vantaggi e quali rischi comporta no le centrali nucleari di nuova generazione.

Il funzionamneto delle centrali nucleari [10-11]

Il principio su cui si basano tutte le centrali nucleari è quello della fissione, in base al quale il nucleo di un elemento di grande massa come l’uranio-235 si scinde in due nuclei più piccoli emet tendo un neutrone (i nuclei atomici sono composti da neutroni e protoni tenute insieme dalle forze nucleari). Questo neutrone libero a sua volta può colpire un altro nucleo di uranio-235, sti molando un’altra reazione di scissione. In questo modo, si può innescare un processo a catena che genera energia e altri elemen ti di scarto (scorie). L’energia che si libera è tanta, molta più di quella che possono produrre in proporzione le tradizionali re azioni chimiche di combustione; e questo è il motivo per cui si costruiscono le centrali nucleari. Le scorie, e gli incidenti come quelli di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011), invece, sono i principali motivi per cui il nucleare è mal visto da ampie fasce della popolazione.

Nel frattempo, però, la tecnologia ha fatto passi avanti, per cui in un lasso di tempo relativamente breve si è passati dai reat tori sperimentali di prima generazione, come quello di Latina del 1963, a quelli di quarta generazione che promettono di risolve re non solo il problema della sicurezza ma anche quello delle e scorie; non solo di quelle future, ma anche di quelle gia’ esistenti. Tipologie di impianti nucleari Prima generazione

Il primo impianto nucleare costruito del mondo (EBR-I), si trova ad Arco, nell’Idaho (Usa). Genericamente si indicano come reattori di prima generazione quelli nati negli anni ‘60-’70. I reattori di prima generazione erano di piccole dimensioni, cioè attorno ai 2-300 megawatt (MW, o milioni di watt) di potenza. Seconda e terza generazione

La seconda generazione è caratterizzata da reattori più gran di, per ridurre i costi sulla base di un’economia di scala: il nu cleare – al contrario dei combustibili fossili – richiede infatti un elevato investimento iniziale per costruire l’impianto, mentre il funzionamento costa relativamente poco.La maggior parte degli impianti di questo genere sono stati costruiti negli anni ‘80 e ‘90. Oggi nel mondo ci sono 440 centrali, quasi tutte di seconda ge nerazione, progettate negli ultimi 15-20 anni. L’Europa, che ha oltre 100 reattori, produce quasi un terzo di energia elettrica da fonti nucleari. Le centrali di Montalto di Castro (costruzione so spesa dopo il referendum) e il tristemente noto reattore di Fuku shima in Giappone sono di questo genere. In molti casi il loro tempo di vita viene esteso di 10-20 anni a fronte di miglioramenti in termini di combustibile, componenti e sicurezza.

A partire dal 2000, vengono progettati soprattutto reattori di terza generazione, per esempio AP1000 negli Stati Uniti, VVER1200 in Russia, gli EPR francesi. Anche i cinesi stanno appron

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tando nuovi impianti. Nel mondo, ci sono 50 reattori di terza generazione in costruzione. Rispetto alla generazione precedente, tutta la progettazione delle centrali è migliorata sono aumentate le taglie (fino a 1.600 MW).

Già in questi impianti sono state introdotte tecnologie che consentono la cosiddetta sicurezza passiva. L’idea è semplice e consiste nel fatto che invece di avere impianti di emergenza ag giuntivi che possono essere attivati i attivano se qualcosa non fun ziona, si utilizzano automatismi a livello di alcuni step del normale ciclo di lavoro dell’ impianto in modo da “fermare” l’impianto immediatamente qualora si registrassero delle anomalie di fun zionamento chiudendo immediatamente il ciclo produttivo ed attivando i relativi sistemi di sicurezza.

Tecnologia modulare

Nell’arco di 10 - 15anni si dovrebbero avere disponibili an che i cosiddetti Small Modular Reactors, cioè piccoli reattori di 100-300 MW, nei quali molti componenti che prima stavano fuori dal reattore (pompe, generatore di vapore ecc.) sono integrati in un’unica struttura semplificando il design e consentendo l’ado zione di sistemi di sicurezza passiva. In più, essendo piccoli, questi reattori costano meno e possono essere pensati come una sorta di “Lego” , in quanto sono costituiti da pezzi standardizzati da assemblare sul posto, evitando enormi cantieri e consentendo la costruzione di grandi centrali formate da moduli più piccoli aggiunti nel tempo.

Ci sono infine i microreattori, che sono ancora più piccoli (da 1 a 10 MW) e semplici da costruire. Sono pensati per obiettivi specifici, come miniere, strutture situate in luoghi isolati o imper vi, e situazioni di emergenza. I microreattori, potrebbero stare in un container ed essere trasportati dove serve.

IV generazione

La linea più avanzata della ricerca riguarda però la quarta ge nerazione che in linea generale punta all’abbandono dell’acqua come refrigerante, in favore di fluidi che consentano di operare a temperature più alte (quindi con rendimenti più alti) e a pressioni più basse, con combustibile riciclato e con composizioni chimi che del combustibile più efficienti (nitruri o carburi di uranio e plutonio invece dei tradizionali ossidi).

Alcuni design di quarta generazione prevedono anche la pos sibilità di stoccare l’eccesso di energia nei momenti di bassa do manda per poter seguire meglio il carico di rete elettrica, mentre altri ancora (ma qui la ricerca è più indietro) puntano a sfruttare il torio invece dell’uranio come combustibile.

Mentre gli impianti attuali (I-II-III generazione) si basano su un’idea che risale a Enrico Fermi: immergere le barre di combusti bile nell’acqua, per raffreddarle e al tempo stesso per rallentare la velocità dei neutroni emessi dalle reazioni, che si muovono da una barra all’altra favorendo la combustione nucleare ed utilizzando “neutroni lenti”, i reattori di quarta generazione, usano neutroni veloci e sono raffreddati con metalli liquidi (sodio, piombo o sali fusi) o a gas ad alta temperatura.

La sottostante lista di tipologie di reattore è stata ridotta per focalizzarsi sulle tecnologie più performanti; in generale la IV ge

nerazione dovrebbe inoltre rendere il nucleare più flessibile ren dendolo adatto a esigenze diverse e complementari alla genera zione di elettricità. Le nuove tecnologie appaiono promettenti.

Ad esempio, uno dei filoni di ricerca della quarta generazio ne punta a realizzare reattori ad altissima temperatura (moderati a grafite e refrigerati a elio), che sono in grado di produrre idro geno sfruttando solamente il calore di scarto.

Altri filoni di ricerca puntano alla realizzazione di reattori in grado di riciclare le scorie nucleari e quindi alla chiusura del ciclo combustibile: appartengono a questa categoria i reattori refrigerati con metalli liquidi (principalmente sodio, ma anche piombo); vi sono poi i reattori a sali fusi, che a seconda della composizione chimica del refrigerante possono comportarsi come reattori veloci (quindi in grado di bruciare le scorie nucle ari) o come reattori ad altissima temperatura (quindi in grado di generare calore di scarto utile per processi industriali e idrogeno a sua volta impiegabile per diversi utilizzi).

Di seguito alcune tipologie: • Il sistema VHTR è studiato per la capacità di genera re calore di alta qualità (cioè ad altissima temperatura) per la produzione d’idrogeno impiegabile forse in un futuro nelle celle a combustibile o per altre applicazioni industriali. Il re attore nucleare VHTR, (acronimo di Very High Temperature Reactor) utilizza un nocciolo con grafite come moderatore e un ciclo di utilizzo dell’uranio a singolo passaggio (quindi il ciclo del combustibile non è “chiuso”). La temperatura di uscita del refrigerante è di circa 1 000 °C. Il nocciolo del reattore può es sere sia una pila di blocchi prismatici in grafite (rivestita o meno da ceramiche ad alta resistenza termica e meccanica) oppure un insieme di sfere di grafite multistrato contenente il combustibile all’interno. Le alte temperature consentono applicazioni indu striali come la produzione di “calore di processo”, ovvero calore utilizzabile per usi chimici, come il cracking o il reforming, op pure la produzione d’idrogeno tramite il ciclo termo-chimico zolfo-iodio.

• Il reattore nucleare a sali fusi (MSR, acronimo di Mol ten Salt Reactor) è un reattore nucleare a fissione dove il com bustibile è un sale mantenuto a temperature oltre la propria temperatura di fusione. Sono stati proposti molti progetti per questo tipo di reattore, ma sono stati costruiti pochi prototipi. I primi prototipi,, prevedono che il combustibile nucleare venga disciolto dentro un fluoruro, come ad esempio il tetrafluoruro di uranio (UF4); il fluido raggiungerebbe la condizione critica fluendo dentro un nocciolo in grafite. Molte delle proposte correnti si affidano all’impiego di combustibile disperso in una matrice di grafite, con il sale fuso che opera da refrigerante, assi curando il raffreddamento a bassa pressione e alte temperature.

• Il reattore nucleare ad acqua supercritica (SCWR, acro nimo di Super Critical Water Reactor) utilizza l’acqua supercri tica come fluido di lavoro. I SCWR sono fondamentalmente reattori ad acqua leggera (LWR - Light Water Reactor) operanti a temperature e pressioni maggiori ai dati critici (374 °C, 22,1 MPa): opererebbero quindi con un ciclo diretto, simile a quel

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lo dei reattori ad acqua bollente BWR (Boiling Water Reactor), ma, impiegando come fluido termodinamico acqua, oltre le con dizioni di pressione e temperatura critiche, questa si presente rebbe in un’unica fase, come nel reattore ad acqua pressurizzata PWR (Pressurized Water Reactor). Gli SCWR opererebbero a temperature molto più elevate rispetto agli attuali PWR e BWR.I reattori refrigerati con acqua supercritica (SCWR) sono sistemi avanzati molto promettenti, perché avrebbero un maggiore ren dimento termico. Attualmente i prototipi fondamentali dei re attori SCWR sono allo studio di 32 organizzazioni in 13 paesi.

• Reattori veloci autofertilizzanti (FBR). Si tratta di reatto ri privi di moderatore e che sfruttano neutroni veloci. La caratte ristica principale consiste nell’autosostentamento (breeding) con produzione da parte dei reattori di materiale fissile (plutonio) in quantità maggiore a quella consumata perchè sfrutta più isotopi radioattivi rispetto al solito uranio, ed il suo combustibile perde gradualmente massa ed è destinato a esaurirsi. I reattori veloci autofertilizzanti sono chiamati, in inglese, Fast Breeder Reactors, da cui la sigla FBR.

• Il reattore nucleare a neutroni veloci refrigerato a gas (GFR acronimo di Gas-cooled Fast Reactor) presenta uno spet tro neutronico ad alta velocità e un ciclo del combustibile nucle are chiuso per la più efficiente trasmutazione dell’uranio fertile e per la gestione degli attinidi. Il reattore è raffreddato a elio, con una temperatura di uscita pari a 850 °C, che viene impiegato come fluido termodinamico per muovere direttamente una tur bina a gas in un ciclo Brayton per consentire un’elevata efficienza termica. Vari tipologie e configurazioni del combustibile vengo no studiati in base al loro potenziale per operare a temperature molto alte e per assicurare una eccellente ritenzione dei prodotti di fissione: combustibili in ceramiche composite, particelle di combustibile avanzate, o capsule di composti attinidi rivestiti in ceramica. Si studiano configurazioni del “core” che si basano su assemblaggi ad aghi o a piastre degli elementi di combustibile oppure i più tradizionali blocchi prismatici.

• Il reattore nucleare a neutroni veloci refrigerato a sodio, (SFR, acronimo di Sodium-cooled Fast Reactor) è un progetto che si basa su altri due molto strettamente legati, lo LMFBR e il reattore nucleare integrale veloce. Gli obiettivi sono l’incremen to dell’efficienza nell’utilizzo dell’uranio grazie alle tecnologie autofertilizzanti del plutonio e la eliminazione della necessità di svuotare il reattore degli isotopi transuranici una volta esausto il combustibile. Il reattore utilizza un core non moderato con spettro neutronico veloce, progettato per bruciare ogni tipo di isotopo transuranico che si possa generare come sottoprodotto della reazione di cattura (e in alcuni casi può caricare questi isoto pi come combustibile iniziale). Oltre ai benefici della rimozione degli isotopi transuranici a lunga emivita dal ciclo delle discariche nucleari, il combustibile impiegato dallo SFR si espanderebbe quando il reattore si surriscalda, e dunque la reazione a catena rallenterebbe automaticamente. In questo modo, alcuni scienzia ti affermano che lo si possa considerare passivamente sicuro.

• Lead-cooled fast reactor (LFR. Il reattore nucleare a

neutroni veloci refrigerato a piombo, (LFR, acronimo di Le ad-cooled Fast Reactor), consiste in un reattore veloce raffred dato da piombo liquido (oppure da una miscela eutettica che lo contiene come quella bismuto/piombo) con ciclo chiuso del combustibile nucleare. Varie opzioni includono un ventaglio di impianti che vanno da una “batteria” capace di generare da 50 a 150 MW di elettricità con un lunghissimo intervallo tra le ri cariche d’uranio, a un sistema tarato dai 300 ai 400 MW, fino a un grosso impianto “monolitico” di 1.200 MW. Il termine bat teria è usato perché si riferisce a “core” a lunga-vita, fabbricati in serie in fabbriche specializzate, soltanto per la produzione di elettricità, senza alcun dispositivo per la conversione in energia elettrochimica. Il carburante proposto è un metallo oppure una base nitrica contenente uranio fertile ed elementi transuranici. Il nocciolo del reattore nucleare LFR viene refrigerato dal meccani smo termodinamico di convezione naturale con una temperatura di uscita del refrigerante secondario dallo scambiatore di calore immerso nel reattore di circa 550 °C, che potrebbe arrivare fino a 800 °C con materiali avanzati come ceramiche. La temperatura più elevata consente la produzione dell’idrogeno, grazie a pro cessi termochimici, utilizzabile p. es. in celle a combustione.

Reattori di quarta generazione operativi [10-11]

Sono quattro i reattori di IV generazione operativi nel mondo:

1. Dal 1980 è operativo il reattore autofertilizzante (Fast breeder reactor) BN-600 raffreddato a sodio liquido all’interno della Centrale nucleare di Belojarsk impianto da 1470 MW ter mici, il quale eroga 560 MW di elettricità. Il sodio si trova a una temperatura compresa tra 377 °C e 550 °C. Nella stessa centrale nucleare russa, il BN-800 ha raggiunto lo stato di criticità, ovvero una reazione di fissione nucleare controllata e stabile, il 27 giugno 2014. Si tratta della stessa tipologia tecnologica ma il reattore a spettro veloce raffreddato a sodio in funzione è più potente.

2. Tramite la famiglia di impianti “FBR” il programma nu cleare russo ha l’obiettivo di usare come fissile le scorie nucleari, riciclando le barre esauste in modo da produrre una quantità minore di scorie radioattive a parità di output e aumentare l’effi cienza delle barre di combustibile. Il 31 ottobre 2016 il BN-800 ha raggiunto l’operatività nominale: 2100 MW termici, potenza elettrica massima di 885 MW elettrici, di cui 820 MW elettrici netti disponibili.

1. Sono due i reattori di quarta generazione nella centrale nucleare cinese di Shidao Bay: i reattori sono due gemelli modu lari raffreddati a elio, il cui acronimo è “HTGR”, ovvero High Temperature Gas [Cooled] Reactor, reattore [raffreddato] con gas ad alta temperatura (fino a 750 °C), utili per la produzione di elettricità oltre che di idrogeno e per il riscaldamento con il calore di scarto. Il fissile è costituito da un letto di sfere di uranio arricchito all’8,9%, dette “ciottoli” (pebble-bed.L’unità 1 è stata connessa alla rete il 20 dicembre 2021, mentre la seconda aveva raggiunto la criticità sei settimane prima. Entrambi i reattori sono attaccati a una singola turbina da 200 MW elettrici, contribuen do ognuno a 100 MW

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Come detto i reattori a neutroni “veloci” offrono la possibilità di “bruciare” molti tipi di elementi della serie degli attinidi (i ri fiuti nucleari più pericolosi) e gli elementi transuranici, che hanno un tempo di vita molto lungo). I russi vorrebbero avere entro il 2029 un reattore dimostrativo, un impianto triplo: uno che ge nera energia, uno che separa i rifiuti radioattivi (composti da un mix di elementi) e uno che li inserisce nel nuovo combustibile, da bruciare nel reattore. Se si riuscisse in questo, si porterebbe il tem po della radiotossicità del combustibile esaurito da 100mila anni a 300 anni, e non ci sarebbe più bisogno di cercare siti geologici stabili e profondi per la loro conservazione».

Ci sarebbe anche un altro vantaggio: l’uranio-235 e il pluto nio usati negli attuali reattori possono trovare applicazione anche nello sviluppo di armi atomiche. Usando altri combustibili, i re attori di quarta generazione potrebbero dunque sollevare meno problemi di natura geopolitica. Come mostrato in fig. 1 ogni anno le attività industriali in Europa producono milioni di tonnellate di rifiuti tossico-nocivi (arsenico, mercurio ecc.) mentre i rifiuti nu cleari sono nell’ordine delle migliaia di metri cubi. Fino ad oggi per i rifiuti radioattivi più pericolosi l’unica soluzione era interrarli dei depositi geologici; può darsi che in futuro ci possa essere una diversa soluzione.

Attuale gestione delle scorie radioattive Gestione dei rifiuti e depositi geologici

Nel 2003, su decreto del Consiglio dei Ministri, un sito minera rio di Scanzano Jonico fu designato come luogo per la costruzione di un deposito nazionale di scorie radioattive, in profondità, che avrebbe ospitato circa 60000 m³ di rifiuti. Questa decisione pro vocò forti proteste popolari che si conclusero con la cancellazione del nome del comune di Scanzano dal decreto. Al 2011 in Italia sono stati stoccati complessivamente 28194 m³ di rifiuti radioattivi in oltre 20 siti; di questi, 1727 m³ sono scorie di III categorie, cioè rifiuti ad elevata attività e con vita media lunga. Per questi rifiuti

è previsto lo stoccaggio di superficie solo come misura tempora nea in attesa del deposito geologico, mentre per quelli di I e II categoria lo smaltimento definitivo avviene in siti di superficie. Il volume più elevato di scorie è presente nel Lazio, nel deposito NUCLECO, mentre i rifiuti a maggiore contenuto di radioattivi tà sono attualmente stoccati in Piemonte, presso l’impianto EU REX a Saluggia. Entro il 2025 dovranno rientrare in Italia i rifiuti prodotti dal riprocessamento delle barre di combustibile delle centrali nucleari italiane, spedite in Inghilterra e in Francia. Il vo lume di rifiuti proveniente dall’Inghilterra ammonterà a 5500 m³, ci cui 17,3 m³ ad alta attività, condizionati in matrice vetrosa, e i rimanenti a bassa e media attività, in matrice cementizia.

Per semplificare e ridurre i costi delle operazioni di trasporto, la BNFL, società che si occupa del riprocessamento del combu stibile irraggiato, ha proposto di sostituire le scorie a bassa e me dia attività con quantità radiologicamente equivalenti (cioè con la stessa attività) di rifiuti ad alta attività, che quindi salirebbero a 18,7 m³

La SOGIN, la società responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani, si sta occupando della progetta zione di un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. Questa infrastruttura, per la quale non è ancora stata scelta l’ubicazione, permetterà lo stoccaggio definitivo in superficie di 75000 m³ di rifiuti a bassa e media attività, e quello temporaneo di 15000 m³ di rifiuti ad alta attività. Di questi circa 90000 m³ di scorie, circa il 60% risulterà proveniente dalle opere di decommissioning degli impianti esistenti, mentre il restante 40% sarà di origine medica, industriale o di ricerca.

Cosa sono i rifiuti radioattivi: sono materiali solidi o liquidi contaminati da sostanze radioattive. Occorre precisare che le scorie nucleari non coincidono con l’insieme dei rifiuti radioatti vi: questi ultimi vengono infatti prodotti, oltre che dagli impianti nucleari, anche dalla medicina, da alcune industrie e da alcuni centri di ricerca. I rifiuti radioattivi sono classificati in vari modi,

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FIG. 1. Evidenziata in modo schematico la quantità di rifiuti nucleari generati nel mondo ogni anno, in proporzione ai rifiuti industriali tossici, spesso ignorati.

a seconda della loro durata e dell’energia che emettono:

• I rifiuti di basso livello, ad esempio, richiedono di esse re stoccati separatamente solo per un periodo limitato di tempo (pochi anni o decenni), poi, divenuti inerti e si possono smaltire come rifiuti comuni.

• I rifiuti radioattivi di livello intermedio hanno attività più elevate e per questo vanno schermati anche durante il loro trasporto. Alcuni hanno tempi di dimezzamento brevi, altri pos sono richiedere anche qualche secolo di stoccaggio in sicurezza. Sia i rifiuti di basso livello che quelli di livello intermedio vengo no abitualmente prodotti anche da quei Paesi che non fanno uso di energia nucleare, e infatti tutti i paesi europei tranne l’Italia hanno uno o più depositi attrezzati per gestire questi rifiuti par ticolari.

• I rifiuti di alto livello sono quelli con livelli di attività tali da richiedere, oltre alla schermatura, anche un raffreddamento, almeno nelle fasi iniziali. Si tratta di materiali prodotti esclusiva mente dalle centrali nucleari, e sono quelli a cui ci si riferisce abi tualmente come “scorie”. Sono di difficile gestione perché con tengono diversi elementi transuranici, caratterizzati da tempi di dimezzamento molto lunghi (anche di decine di migliaia di anni) e da emissioni prevalentemente di tipo alfa: questo significa che anche se l’attività è bassa (in Bq) l’energia emessa è comunque molto alta (in Gy). In Francia, dove l’energia nucleare fornisce il 70% del fabbisogno elettrico nazionale, le scorie nucleari sono poco più dell’1% del totale dei rifiuti radioattivi, ma contengono il 99% di tutta la radioattività artificiale.

Se per i rifiuti radioattivi di livello basso e intermedio, lo stoc caggio temporaneo è più che sufficiente, per le scorie nucleari propriamente dette si pone il problema di una gestione a lun ghissimo termine, addirittura per centinaia di migliaia di anni; si tratta quindi di trovare dei luoghi geologicamente stabili e isolati e seppellire lì questa spazzatura millenaria. Lo stoccaggio così a lungo termine può facilmente sembrare una “non soluzio ne”. Quando pensiamo ad un problema “risolto”, in effetti, non pensiamo a qualcosa di accantonato, pensiamo a qualcosa che non c’è più. In realtà l’approccio del confinamento è quello che seguiamo con quasi tutti i rifiuti che produciamo: li mettiamo in discariche più o meno isolate dall’ambiente e aspettiamo che i processi naturali facciano il loro corso, che in alcuni casi può anche richiedere tempi lunghissimi.

Di recente però si e’ andato affermando il concetto di “eco nomia circolare”, per cui invece di aspettare i tempi della natura siamo noi stessi a far rientrare nei nostri processi produttivi i ma teriali di cui ci liberiamo. Questo concetto è applicabile anche alle scorie nucleari: la maggior parte degli elementi transuranici di cui abbiamo parlato prima sono infatti fissili (quindi possono essere a loro volta rotti per ottenere energia) o fertili (possono essere trasmutati in altri elementi fissili tramite bombardamen to neutronico). Dunque le scorie nucleari potrebbero divenire completamente riciclabili

Questa via è ancora poco praticata e i reattori in grado di smaltire gli elementi transuranici delle scorie nucleari utilizzan

doli come combustibile sono ancora poco diffusi, principalmen te per via del fatto che sono abbastanza costosi: la situazione cambierà probabilmente in futuro, man mano che sempre più Paesi investiranno nei reattori di quarta generazione.

Una volta che gli elementi transuranici (Plutonio, Uranio etc) sono stati fissionati, si ottengono elementi ancora altamente ra dioattivi, ma con tempi di dimezzamento molto più brevi e mo dalità di decadimento principalmente beta e gamma, che pertan to richiedono di essere stoccati per molto meno tempo (alcune centinaia di anni invece di alcune centinaia di migliaia).

Il problema dei costi dell’economia circolare è peraltro tra sversale alle fonti energetiche: anche i pannelli solari, ad esem pio, potrebbero essere riciclati al 99%, ma al momento non vie ne fatto quasi da nessuna parte, perché costa troppo.

L’ultimo aspetto importante che va menzionato quando si parla di scorie nucleari, è la quantità L’uranio ha una densità energetica estremamente alta, e questo fa sì che si possa ottenere moltissima energia con poco materiale, e quindi con un volume di scorie prodotte abbastanza ridotto. Un reattore moderno con suma all’incirca 25-30 tonnellate di uranio all’anno per produrre 13 TWh di energia. Se dividiamo questo valore per il consumo medio annuale di una persona e poi lo moltiplichiamo per la sua aspettativa di vita, otteniamo un volume pari a quello di una lat tina di alluminio. Questo è l’ammontare di scorie nucleari che produrremmo in una vita se utilizzassimo solo energia nucleare per tutte le nostre esigenze. Quando si parla di scorie nucleari si parla quindi di materiali pericolosi, la cui difficile gestione viene però molto semplificata dal fatto che si tratta di quantità molto piccole. Anche per questo motivo, fino ad ora non si sono mai verificati casi di contaminazioni ambientali o di danni alla salute di persone dovute a scorie nucleari (mentre si sono avuti casi analoghi dovuti a rifiuti chimici).

La situazione in Italia

Anche il nostro Paese, come praticamente tutti quelli indu strializzati, produce varie tipologie di rifiuti radioattivi: abbiamo quelli di origine medica e industriale, quelli dovuti alle attività di ricerca (in Italia abbiamo ben 4 reattori nucleari di piccola taglia destinati alla ricerca e non alla produzione di energia) e quelli che derivano dalle ex centrali nucleari che sono state operative in Italia tra il 1962 e il 1987. Questi ultimi comprendono sia le scorie radioattive (ovvero il combustibile irraggiato), che in to tale ammontano a 400 metri cubi (un cubo di 7 metri e mezzo di spigolo), sia i rifiuti provenienti dallo smantellamento degli ex-impianti nucleari. Le scorie radioattive italiane si trovano in Francia e in Inghilterra, dove sono state sottoposte a riproces samento (che consiste nella separazione di alcuni isotopi fissili per riciclarli): dovranno però rientrare nel nostro Paese entro qualche anno. Infatti le normative europee prevedono che ogni Paese gestisca i propri rifiuti radioattivi in autonomia. E’ per tanto indispensabile che anche l’Italia si doti al più presto di un deposito definitivo per i suoi rifiuti radioattivi. Il progetto esiste già da molti anni, ma è andato incontro a numerosi ritardi, in

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gran parte dovuti al fatto che l’individuazione dei siti idonei trova sempre resistenze molto forti da parte della popolazione che risie de nell’intorno del sito.

Il Deposito Unico Nazionale è progettato per contenere 90.000 metri cubi di materiali radioattivi, ovvero tutti quelli che l’Italia ha già prodotto e che produrrà da qui alla fine del secolo (anche supponendo che l’Italia non torni ad utilizzare l’energia nucleare, continueremo a produrre rifiuti radioattivi di origine medica e industriale, che già oggi ammontano al 40% del totale); i rifiuti radioattivi resteranno stoccati nel deposito nazionale per 300 anni, un tempo sufficiente a rendere quasi inerti tutti i rifiuti di livello basso o intermedio.

All’interno del deposito, i rifiuti di medio e basso livello saran no prima inseriti in una matrice cementizia, e poi in un canister cilindrico, detto “manufatto”. Questi barili vengono poi inseriti all’interno di un blocco di cemento, che poi a sua volta viene in cluso in una ulteriore struttura di protezione; Il tutto viene poi ricoperto da un triplo strato di terreno.

Ci sono due date importanti relative alla realizzazione del de posito nazionale delle scorie nucleari: la prima è dicembre 2023, la seconda il 2029. Entro la fine del 2023 il governo deve indivi duare la località dove sorgerà l’impianto in cui stoccare 95mila metri cubi di rifiuti radioattivi; entro il 2029 il deposito deve es sere cantierizzato. La mappa delle aree idonee con i necessari requisiti di sicurezza, stabilita’ geologica etc in grado di ospitare il deposito delle scorie nucleari e’ stata consegnata da SOGIN nel gennaio 2021, e individua 67 località in diversi Comuni italiani i cui amministratori si sono, come atteso, subito schierati dalla par te del no.

L’iter di scelta prevede un accordo tra Sogin, (la società di sta to incaricata del decommissioning nucleare e la gestione dell’im pianto) e le autorità locali. Come detto finora nessuno dei 67 siti interessati si è mostrato disponibile; anzi, dai Comuni alle Regio ni, le autorità si sono attivati per contestare i criteri della Cnapi e addurre ragioni per non doversi sobbarcare il deposito delle sco rie atomiche. La partita, insomma, è in salita.

I 67 siti sono dislocati tra Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. 12 siti in particolare, collocati nelle province di Torino, Alessandria e Viterbo, rispondono a pieni voti ai criteri stabiliti da Sogin. Il deposito occuperà 150 ettari e sarà composto da novanta costruzioni in calcestruzzo armato, dette le celle, che a loro volta conterranno i moduli in cemento, dove saranno collocati i contenitori di metallo con i rifiuti. Un sistema a matrioska per sigillarli per i successivi 300 anni. Sorgerà anche un parco tecnologico per la ricerca e lo studio sui rifiuti nucleari.

Sogin, ricevute 600 tra domande, osservazioni e proposte, per un totale di 25mila pagine di documenti sulla base dei quali e’ stata formulata una seconda bozza consegnata al Ministero della transizione ecologica che dovrà ottenere il via libera dell’Ispetto rato nazionale per la sicurezza nucleare (Isin), l’ente nazionale che vigila la filiera dell’atomo.

Successivamente il Ministero delle Infrastrutture e mobilità sostenibile (Mitm) e Mite dovranno approvarla e pubblicarla. A

quel punto si conoscerà la rosa di potenziali indirizzi del depo sito delle scorie.

Il Ministrero della transizione ecologica ha anche precisato che “ad oggi non sono state prese in considerazione autocan didature in quanto non previste dalla normativa. Entro trenta giorni dall’approvazione della carta, SOGIN inviterà le Regioni e gli enti locali delle aree idonee alla localizzazione del parco tec nologico a comunicare, entro i sessanta giorni successivi, il loro interesse a ospitare il parco stesso avviando, nel contempo, le trattative bilaterali finalizzate al suo insediamento.

In caso di assenza di manifestazioni d’interesse, Sogin pro muoverà trattative bilaterali con tutte le Regioni nel cui territorio ricadono le aree idonee”. Se anche queste fallissero, toccherà al governo decidere d’imperio dove costruire il deposito.

È un’ipotesi che la politica vuole evitare. Nonostante esempi nel resto d’Europa, come quello di Aube in Francia o Cabril in Spagna, dimostrino che questi impianti possono convivere con agricoltura tradizionale e turismo (quello fran cese è nella regione dello Champagne) o con oasi naturali (nei cui pressi sorge quello iberico), il deposito è inviso. Né attirano le compensazioni di cui beneficerebbero le comunità locali. L’Italia non si può permettere altre esitazioni. È uno dei pochi paesi in Europa a non avere ancora una struttura di questo tipo. E ha contratti milionari per tenere alcune sco rie in Francia e nel Regno Unito, benché Sogin sia riuscita a strappare qualche sconto. Parigi e Londra, tuttavia, vogliono rassicurazioni sul rientro dei rifiuti in patria.

Bibliografia

1. International Atomic Energy Agency - PRIS database - Italy (Italian Republic): Nuclear Power Reactors - By Status

2. Indagine straordinaria sulla radioattività ambientale sul sito di Saluggia (PDF), in Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

3. Rapporto Energia Ambiente 2006, p. 181

4. La Nuova Ecologia n. 4 anno XXVI, aprile 2006.

5. Referendum consultivo in Sardegna Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive.

6. CAMERA DEI DEPUTATI N. 4307 — DISEGNO DI LEGGE APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLI CA il 20 aprile 2011 (v. stampato Senato n. 2665)

7. Zone sismiche - INGV, su zone sismiche.mi.ingv.it.

8. Rifiuti radioattivi, traffici e gestione illecita. Il nuovo report di Legambiente • Legambiente, su Legambiente, 8 marzo 2021. .

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10. A Forecast for the Future of GEN IV Reactors ~ A 50/50 Chance of Success for Three Types, su neu tronbytes.com. URL consultato il 16 febbraio 2022.

11. Advanced Reactor Systems to Watch by 2030, su energy.gov, 12 aprile 2021. URL consultato il 16 febbra io 2022.

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Anno V - N. 10 Ottobre 2022

Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132 Ottobre 2022 Anno V - N. 10 IL FUTURO DELLA BIOLOGIA NELLA GENOMICA AVANZATA Per sei mesi, nei laboratori del Dante Labs, eccellenza nel sequenziamento del Dna, i biologi hanno studiato mutazioni genetiche, sequencing tumorale e bioinformaticaIL VIRUS MUTA ANCORA CON LE SOTTOVARIANTI DI OMICRON La variante BQ1 e la sua sottovariante BQ1.1 diventeranno ceppi dominanti da novembre. Stabili i nuovi casi, non preoccupanti le percentuali di occupazione degli ospedali, in leggero aumento il numero dei morti.

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L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

CONSIGLIO DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI

Vincenzo D’Anna – Presidente E-mail: presidenza@peconb.it

Pietro Miraglia – Vicepresidente E-mail: analisidelta@gmail.com

Pietro Sapia – Consigliere Tesoriere E-mail: p.sapia@onb.it

Duilio Lamberti – Consigliere Segretario E-mail: d.lamberti@onb.it

Gennaro Breglia E-mail: g.breglia@onb.it

Claudia Dello Iacovo E-mail: c.delloiacovo@onb.it

Stefania Papa E-mail: s.papa@onb.it

Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it

Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it

CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI

Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti

Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi

Andrea Morello

Marco Rufolo Erminio Torresani

93GdB | Ottobre 2022
UFFICIO TELEFONO Centralino 06 57090 200 Ufficio ragioneria 06 57090 222 Anagrafe e area riservata 06 57090 241 Iscrizioni e passaggi 06 57090 210 - 06 57090 223 Quote e cancellazioni 06 57090 216 - 06 57090 21706 57090 224 Ufficio stampa 06 57090 205 - 06 57090 225 Ufficio legale protocollo@peconb.it Consulenza fiscale consulenzafiscale@onb.it Consulenza lavoro consulenzalavoro@onb.it Ufficio CED 06 57090 230 - 06 57090 231 Presidenza e Segreteria 06 57090 229 Organi collegiali Ufficio formazione 06 57090 207 - 06 57090 218 06 57090 239 Ufficio Pec, assicurazione 06 57090 202 certificati, timbro e logo Ufficio abusivismo 06 57090 288 Consulenza privacy consulenzaprivacy@onb.it Contatti Ufficio segreteria Ctu 06 57090 215

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