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SVELATO L’ENIGMA DI COME IL VIRUS DELL’EPATITE C
Si Nasconde Nel Fegato
La strategia di mascheramento del virus è legata al “capping” con il FAD, metabolita già presente nelle nostre cellule, e potrebbe essere la stessa adottata anche da altri patogeni
Il virus dell’epatite C ha la capacità di nascondersi e diffondersi nelle cellule epatiche senza essere intercettato dal nostro sistema immunitario. Questa sua caratteristica rende l’infezione silente e molto pericolosa perché il virus può rimanere nascosto mentre crea copie di se stesso per contagiare nuove cellule. Se non individuata per tempo, la patologia rischia di essere diagnosticata solo alla comparsa dei primi sintomi di gravi malattie che può causare, come la cirrosi o il tumore al fegato.
L’epatite C è stata scoperta nel 1989 ed è uno dei virus più studiati del pianeta. Tuttavia, per decenni, il modo in cui riesce a eludere il sistema immunitario umano e a diffondersi nell’organismo è stato un enigma che gli scienziati non sono riusciti a svelare. Ora, i ricercatori dell’Università di Copenaghen e dell’Ospedale di Hvidovre hanno finalmente risolto il mistero grazie a un nuovo metodo di analisi dei campioni contenenti il virus. Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, il virus indossa una “maschera” che lo nasconde sotto forma di un metabolita già presente nelle nostre cellule. Camuffato da questa molecola, il patogeno non è riconosciuto dal nostro sistema immunitario come qualcosa di estraneo e per questo motivo non è scoperto né identificato come potenziale aggressore.
Si stima che circa 50 milioni di persone in tutto il mondo siano affette da epatite C croni- ca. In Italia le persone colpite dalla patologia sono tra 600mila e 1,2 milioni, e molte di esse non si accorgono di essere state contagiate. Il virus dell’epatite C può causare infiammazioni e cicatrici del fegato e, nel peggiore dei casi, cancro al fegato.
Jeppe Vinther del Dipartimento di Biologia dell’Università di Copenaghen, che ha diretto la ricerca insieme a Troels Scheel e a Jens Bukh del Programma Epatite C dell’Ospedale di Hvidovre, afferma che i risultati dello studio potrebbero avere un impatto sul modo in cui identifichiamo e trattiamo le malattie virali in generale: «La nostra scoperta della strategia di mascheramento del virus potrebbe aprire la strada a nuovi modi di trattare le infezioni virali, poiché è verosimile che il virus dell’epatite C non sia l’unico a utilizzare questo espediente».
La maschera utilizzata dal virus dell’epatite per nascondersi nelle nostre cellule si chiama flavina adenina dinucleotide (FAD), una molecola composta dalla vitamina B2 e dalla molecola ATP che trasporta energia. Il FAD è fondamentale per la conversione energetica delle cellule. L’importanza e la familiarità della molecola FAD per il nostro organismo la rende un camuffamento ideale per un virus maligno.
Per diversi anni, il team di ricerca ha avuto il sospetto che il FAD aiutasse il virus a nascondersi nelle cellule infette, ma non è mai riuscito a dimostrarlo. Per risolvere la sfida, gli scienziati hanno pensato questa volta di utilizzare l’Arabidopsis, una pianta molto studiata poiché considerata dalla comunità scientifica un organismo modello. «Eravamo alla ricerca di un modo per dimostrare la nostra ipotesi, così abbiamo provato a purificare un enzima dalla pianta di Arabidopsis in grado di dividere la molecola FAD in due», spiega Anna Sherwood del Dipartimento di Biologia, primo autore dello studio. Utilizzando l’enzima, i ricercatori sono riusciti a scindere il FAD e a dimostrare che il virus dell’epatite C lo utilizza come maschera.
Gli autori hanno anche riflettuto sul fatto che come il coronavirus e il virus dell’influenza, l’epatite C è un virus a RNA. Il suo materiale genetico è costituito da RNA che deve essere copiato una volta che il virus è entrato nell’organismo ospite. Le nuove copie di RNA sono utilizzate per infettare nuove cellule e un’estremità del materiale genetico dell’RNA viene mascherata dal FAD. Nello studio i ricercatori hanno scoperto e dimostrato che il FAD è utilizzato come iniziatore dalla RNA polimerasi virale, dando luogo a un cappuccio
Si stima che circa 50 milioni di persone in tutto il mondo siano affette da epatite C cronica. In Italia le persone colpite dalla patologia sono tra 600mila e 1,2 milioni, e molte di esse non si accorgono di essere state contagiate.
© Jarun Ontakrai/shutterstock.com
5′-FAD sul virus dell’epatite C. Oltre a stabilire che il capping con metaboliti cellulari è una nuova strategia di rivestimento dell’RNA virale, i risultati dello studio suggeriscono che tale espediente potrebbe essere utilizzato anche da altri virus e influenzare il trattamento antivirale e la persistenza dell’infezione. In effetti, gli scienziati hanno già trovato un altro virus che utilizza la stessa strategia di mascheramento nei confronti dei sistemi di controllo cellulare e secondo Vinther, è molto probabile che ce ne siano altri poiché tutti i virus a RNA hanno la stessa necessità di nascondersi dal sistema immunitario. «Ora che conosciamo questo “trucco”, si apre la possibilità di sviluppare nuovi metodi, forse migliori, per individuare e trattare le infezioni virali in futuro», termina Vinther.
I risultati di questa ricerca, insieme ai progressi nella cura dell’epatite C e ai programmi di screening, contribuiranno al tentativo di raggiungere, entro il 2030, l’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di eliminare l’infezione su scala globale. Un traguardo che può diventare possibile grazie alla ricerca. (S. B.)
Le ragioni per cui alcune persone sono meno sensibili a contrarre malattie infiammatorie o infezioni non sono ancora note. Tuttavia, una recente ricerca Pubblicata sulla rivista Nature Communications, coordinato da Sunil Ahuja, dell’Università del Texas a San Antonio, ha evidenziato che tale vantaggio potrebbe essere attribuibile, almeno in parte, a un’ottimale resilienza immunitaria (IR). La resilienza immunitaria si riferisce alla capacità di preservare e/o ripristinare rapidamente le funzioni immunitarie che promuovono la resistenza alle malattie e controllano l’infiammazione in caso di malattie infettive e altre forme di stress infiammatorio. La scoperta rappresenta il primo passo verso una prevenzione personalizzata. Questo obiettivo, sebbene ancora distante nel futuro, potrebbe aprire la strada a soluzioni che aiutino ogni individuo a fronteggiare specifiche condizioni patologiche in modo più mirato ed efficiente. Grazie a una migliore comprensione dei meccanismi immunologici e all’avanzamento delle tecnologie diagnostiche, sarà possibile sviluppare strategie preventive su misura che potenzino le difese naturali del corpo e riducano il rischio di malattie.
Nello studio condotto su circa 48.500 individui, sono stati utilizzati due indicatori nel sangue periferico per valutare i livelli di resilienza immunitaria. Questi indicatori misurano l’equilibrio tra le cellule T CD8+ e CD4+ e le firme di espressione genica associate all’immunocompetenza e all’infiammazione. I risultati hanno rivelato che alcune persone mantengono un alto livello di resilienza immunitaria durante l’invecchiamento e in presenza di fattori di stress infiammatorio. Questa resistenza offre diversi benefici per la salute, tra cui un minor rischio di contrarre malattie come l’HIV, l’AIDS, l’infezione influenzale sintomatica e recidiva del cancro della pelle (dopo il trapianto di rene), nonché una maggiore sopravvivenza durante COVID-19 e sepsi, e una maggiore longevità.
I risultati di questa ricerca dimostrano che una resilienza immunitaria ottimale è presente in tutte le fasce di età, risultando più comune nelle donne. Inoltre, è correlata a un preciso equilibrio tra immunocompetenza e infiammazione, il quale è associato a risultati positivi per la salute dipendenti dal sistema immunitario. Questa scoperta apre la strada a ulteriori indagini sui parametri e sui meccanismi dell’IR come biomarcatori per valutare la salute del sistema immunitario e migliorare gli esiti sanitari. I ricercatori hanno valutato la resilienza immunitaria in pazienti sottoposti a trapianto di rene che erano a rischio più elevato di sviluppare nuovamente il tumore della pelle. Matthew J. Bottomley, co-autore dello studio proveniente dall’Università di Oxford, ha commentato: «Abbiamo esaminato il rischio di contrarre un secondo cancro, basandoci sui gradi di salute immunitaria nel momento in cui ogni partecipante presentava il cancro per la prima volta. Abbiamo scoperto che, se qualcuno aveva una resilienza immunitaria ottimale al momento del primo cancro, era anche più resistente a una recidiva».
Nello studio condotto su circa 48.500 individui, sono stati utilizzati due indicatori nel sangue periferico per valutare i livelli di resilienza immunitaria. Questi indicatori misurano l’equilibrio tra le cellule T CD8+ e CD4+ e le firme di espressione genica associate all’immunocompetenza e all’infiammazione. I risultati hanno rivelato che alcune persone mantengono un alto livello di resilienza immunitaria durante l’invecchiamento e in presenza di fattori di stress infiammatorio. Questa resistenza offre diversi benefici per la salute, tra cui un minor rischio di contrarre malattie come l’HIV, l’AIDS, l’infezione influenzale sintomatica e recidiva del cancro della pelle (dopo il trapianto di rene), nonché una maggiore sopravvivenza durante COVID-19 e sepsi, e una maggiore longevità.
L’Italia ha svolto un ruolo significativo nello studio della resilienza immunitaria grazie al progetto SardiNIa, che ha fornito un vasto patrimonio di dati genetici. I ricercatori Edoardo Fiorillo e Valeria Orrù dell’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche a Monserrato (Cagliari) e Francesco Cucca dell’Università di Sassari hanno contribuito in modo significativo all’analisi dei dati. L’Italia ha l’opportunità di guidare ulteriori ricerche in questo campo attraverso il progetto SardiNIa, che mira a raccogliere dati su 100mila persone. Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo, sono necessari finanziamenti significativi. Infatti, come ha dichiarato Fiorillo «Il prossimo passo della ricerca sarà individuare altri fattori dell’equilibrio: oltre alle cellule, potremo considerare le molecole che hanno la funzione di mediatori dell’immunità. In seguito, si dovranno studiare i fattori genetici che regolano cellule e molecole immunitarie: bisognerà scoprirli e l’Italia, con la Sardegna, potrebbe avere un ruolo di primo piano. L’obiettivo è raccogliere dati su 100mila persone, ma servono fondi: circa 20 milioni di euro solo per i reagenti. In altri Paesi i governi stanno già finanziando ricerche analoghe, ma in Italia questo non accade. Alcune idee le abbiamo solo noi, ma gli altri si stanno muovendo»
Lo studio della resilienza immunitaria potrebbe aprire nuove possibilità per la prevenzione personalizzata delle malattie. Identificare i fattori che determinano la resilienza del sistema immunitario, comprese le molecole che agiscono come mediatori dell’immunità, potrebbe consentire diagnosi più precise e previsione del decorso delle malattie. Inoltre, questa ricerca potrebbe fornire strumenti per aiutare le persone con un sistema immunitario meno resiliente a reagire in modo più efficiente alle malattie. (C. P.).