Edizione mensile di Bio’s. Registrazione n. 113/2021 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna. Giornale dei Biologi Marzo 2024 Anno VII - N. 3 www.fnob.it Vantaggi per il risparmio energetico Ma attenti all’equilibrio sonno-veglia A quando un orario unico tutto l’anno?
CON
AVANTI
L’ORA LEGALE
9-10 aprile
16 crediti Ecm
REACH & CLP A PROTEZIONE E TUTELA DELL’AMBIENTE E DELLA SALUTE UMANA: IL RUOLO DEL BIOLOGO
2024
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Corso e-learning
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PRIMO PIANO
Ecco l’ora legale: pro e contro dello spostamento delle lancette di Rino Dazzo
Gli effetti sul ritmo circadiano di Rino Dazzo
Ora legale tutto l’anno: la situazione di Rino Dazzo
Farmacia dei servizi. D’Anna (Fnob): se la sanità diventa merce di Vincenzo D’Anna
Le azioni di tutela della Fnob per la categoria dei biologi
INTERVISTE
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Una nuova arma per combattere il medulloblastoma di Chiara Di Martino
La “Rose” nel percorso diagnostico e terapeutico multidisciplinare di Ester Trevisan
Alzheimer, una proteina cerebrale per difendere la memoria delle donne di Ester Trevisan
Le fragole (rispettando la stagionalità) contro lo stress ossidativo di Pierantonio Lutrelli
30 Cancro al seno: un test salivare per individuare biomarcatori specifici di Carmen Paradiso
Il ruolo cruciale dello stress nella promozione delle metastasi del cancro di Carmen Paradiso
Malattie rare: così l’eredità è sotto controllo e si allontanano i rischi di Elisabetta Gramolini
Micro e nanoplastiche trovate anche nelle placche aterosclerotiche di Elisabetta Gramolini
Plastiche, crescono i danni sull’uomo di Eleonora Caruso
Scoperto il possibile legame tra sinusite e malattie reumatiche di Domenico Esposito
Il cervello va pulito: ci pensano i neuroni spazzini durante il sonno di Domenico Esposito
Obesità in aumento: allarme mondiale di Domenico Esposito
Un test antigenico per scoprire i tumori di Domenico
Diidrossiacetone (dha) e autoabbronzanti
Diradamento: differenze tra uomo e donna
Trattamenti liscianti e rottura dei legami sulfurei di Biancamaria
Borghi del benessere, coesione sociale, sicurezza e salute diffusa di Giovanni Misasi e Teresa Pandolfi
Sommario Giornale dei Biologi | Mar 2024 C
Esposito
di Carla Cimmino
di Biancamaria Mancini
Mancini
32 34 36 38 SALUTE Tumore al pancreas: individuato il procedimento con cui si alimenta di Elisabetta Gramolini 28 40 42 44 45 10 EDITORIALE Non c’è peggior sordo... Vincenzo D’Anna 5 14 46 16 18 24 26 48 50 52
La deforestazione globale favorisce l’inquinamento da mercurio di Sara Bovio
I geni che “illuminano” le lucciole di Eleonora Caruso
Tra paradiso il domestico e le sfide del mondo esterno di Gianpaolo Palazzo
Proteggere e restaurare gli ecosistemi marini di Gianpaolo Palazzo
Innovazione e tecnologia alleati per conservare la natura selvatica di Gianpaolo Palazzo
La rinascita del mammut lanoso di Michelangelo Ottaviano
I fossili degli alberi più antichi di sempre di Michelangelo Ottaviano
Al via il piano Mer, un progetto per “restaurare” i mari italiani di Sara Bovio
Una “biopsia virtuale” con l’IA aiuterà a valutare le neoplasie polmonari di Pasquale Santilio
Intrappolare la luce e convertire l’energia di Pasquale Santilio
Green energy per stoccare idrogeno di Pasquale Santilio
Intestino infiammato cervello compromesso di Pasquale Santilio
Nuovi sensori per le terapie oncologiche di Pasquale Santilio
Ricostruito e rimesso in piedi il telamone del tempio di Zeus ad Agrigento di Rino Dazzo
A Napoli il Cristo di Caravaggio di Eleonora Caruso
Quadarella e Minisini, principi d’oro della vasca di Antonino Palumbo
Tennis, Nardi batte il suo idolo di Antonino Palumbo
Quant’è bella la giovane Italia dell’atletica leggera di Antonino Palumbo
Clericus Arretium. La squadra dei parroci di Antonino Palumbo
Concorsi pubblici per Biologi
Il microbial terroir del vino e la sua importanza nella produzione vitivinicola di Miriana Paolieri
Pangenoma umano: nuove frontiere per la genetica e la ricerca clinica di Daniela Bencardino
I problemi demografici del mondo umano, animale e vegetale di Giuliano Russini
Sommario D Giornale dei Biologi | Mar 2024 INNOVAZIONE
SCIENZE
90 96 LAVORO
88 100 SPORT
78 81 82 BENI CULTURALI
74 84 68 70 AMBIENTE
54 57 58 71 LIBRI Rubrica letteraria 86 60 77 62 64 65 66 72 73
Informazioni per gli iscritti
Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00
Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.
È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 3
UFFICIO CONTATTO Centralino 06 57090 200 Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it
Anno VII - N. 3 Marzo 2024
Edizione mensile di Bio’s
Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma
Diffusione: www.fnob.it
Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna
Giornale dei Biologi
Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it
Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione martedì 27 marzo 2024.
Contatti: protocollo@cert.fnob.it
Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.
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4 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Edizione mensile di Bio’s. Registrazione 113/2021 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna.
Marzo 2024 Anno VII - N. 3 www.fnob.it Vantaggi per il risparmio energetico Ma attenti all’equilibrio sonno-veglia A quando un orario unico tutto l’anno? AVANTI CON L’ORA LEGALE
Non c’è peggior sordo...
di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
Sono ormai sei anni che il “Giornale dei Biologi” online arriva, ogni mese, puntuale, sui vari device digitali degli iscritti. Giunge a Voi con il proprio carico di informazioni, notizie e dei preziosi crediti ECM gratuiti del servizio “formare informando” che sarà riattivato ad aprile prossimo, insieme con il “Diario Formativo” che garantirà ad ogni iscritto trenta crediti ECM sul triennio.
Molti seguono le vicende ordinistiche per “sentito dire”, affidandosi a fonti di informazioni spurie, spesso palesemente infondate oppure male intese
sono spesso improntati a sopire gratuite lamentele e varie commiserazioni da parte di quegli iscritti che seguono le vicende ordinistiche per “sentito dire”, affidandosi a fonti di informazioni spurie, spesso palesemente infondate oppure male intese, se non false ed inventate di sana pianta! Costoro formano e alimentano gruppi social chiusi, sorta di conventicole esoteriche che si parlano addosso e si scambiano elementi privi di consistenza e aderenza al vero.
È noto quindi, a coloro che leggono il periodico della FNOB, che i miei editoriali
Certo, abbiamo recuperato, nel corso degli anni, nell’accorciare le distanze tra amministra -
Editoriale Giornale dei Biologi | Mar 2024 5
tori e amministrati, e oggi abbiamo raggiunto la bella quota di circa sessantamila iscritti, il che equivale a un incremento del 20 per cento. Di questi circa cinquantamila utilizzano l’area riservata. Qui l’incremento è ancora maggiore toccando il duecento percento!
Tuttavia, questo ancora non basta perché sono molti quelli che non leggono e non seguono la vita degli Ordini regionali né quella della Federazione nazionale.
circa il 35% degli iscritti ignora informazioni e notizie e che il 20% non è nemmeno raggiungibile attravreso la Pec
poi, nell’arco temporale di vigenza di questi enti (ultimi sette anni!). Emergono quindi, costoro, come tanti sprovveduti filosofi della critica, pronti a ragionare da orecchianti, elevando lamentele nel momento in cui qualcosa giunge loro “non gradita”, ignorando tutto quanto di buono ci sia stato nel rimanente!
Pensate: è stato calcolato che circa il 35% degli iscritti ignora informazioni e notizie e che il 20% non è nemmeno raggiungibile via PEC! In questo contesto molti sono destinati a crescere ignari del mondo che è cambiato, dei progressi fatti dall’ONB prima e dalla FNOB
Certo che con il decentramento amministrativo contiamo di recuperare altra attenzione e partecipazione sui territori, soprattutto in quelle regioni dove la dirigenza non sempre è in grado di riferire agli iscritti correttamente e compiutamente lo stato delle cose. Le bugie per nascondere le proprie mancanze sono sempre di moda. Ma queste ultime sono piccole beghe che vanno È stato calcolato che
Editoriale 6 Giornale dei Biologi | Mar 2024
riducendosi per numero e rilevanza innanzi alla mutata prospettiva offerta ai colleghi e alla categoria in generale dei Biologi italiani nel suo complesso.
Quello che conta invece è l’attività complessiva svolta al servizio dei Biologi, la virtuosa sommatoria di eventi locali organizzati dagli Ordini e le attività nazionali messe in campo dalla FNOB. Un dato eclatante, calcolato per difetto, e inequivocabile è il numero di eventi scientifici, corsi ECM, Master e Summer School, svoltisi (o in corso di svolgimento) nei primi tre mesi di questo anno. Pensate: ai sette eventi patrocinati e finanziati dalla Federazione se ne sono aggiunti altri... quaranta distribuiti nelle singole regioni!
Il che significa che nell’arco dell’anno solare il combinato disposto delle attività della FNOB, in uno con la Fondazione Italiana Biologi e con lo sforzo profuso dagli undici Ordini regionali supererà la soglia dei duecento appuntamenti! Quasi tutti gratuiti!
In soli 3 mesi, ai sette eventi formativi patrocinati e finanziati dalla Federazione se ne sono aggiunti altri quaranta distribuiti nelle singole regioni
Se solo considerassimo questo aspetto, al netto di tutti quanti gli altri servizi, tutele e opportunità professionali messe a disposizione degli iscritti, non troveremmo scandaloso (oppure non conveniente) pagare qualche decina di centesimi al giorno in più per la quota d’iscrizione! Certo, ci sono anche quelli che essendo partecipi di enti pubblici, soprattutto ospedalieri, attingono una parte di quei
Editoriale Giornale dei Biologi | Mar 2024 7
servizi dalle associazioni sindacali e quindi sono insensibili al ritorno che pure viene loro in termini di servizi ed eventi dagli Ordini. Questi colleghi preferirebbero pagare poche decine di euro di quota annuale potendosene fregare dell’offerta complessiva che pure è (anche) loro destinata. Un atto di egoismo nei confronti di una categoria che fingono di difendere dagli aumenti!
Sarà offerta formazione gratuita anche in tanti campi di attività per una riconversione professionale di coloro che non trovano un impiego adatto
Un’altra voce che si è levata, per lo stesso motivo di aumento quota, è quella dei colleghi “disoccupati”, ossia di quanti ritengono improbo e gravoso qualsiasi aumento, dimenticando di comparare quest’ultimo al risparmio accumulato grazie all’Ente di rappresentanza professio -
nale, per la gratuità di tanti eventi e formazione. Ebbene, a questi colleghi va detto che se l’attività che svolgono non consente loro di muovere qualche decina di euro all’anno, la cosa lascia amaramente riflettere circa la scarsa remunerazione che ricavano dall’esercizio della professione! A questi allora offriremo formazione gratuita anche in altri campi di attività per una riconversione professionale. Anche questo credo valga il sacrificio economico.
In ogni caso, rimane il fatto che quel che è insopportabile per chiunque è l’ascolto di coloro che... non voglio sentire! Che lo facciano per ignoranza o per egoismo cambia poco o nulla...
Editoriale 8 Giornale dei Biologi | Mar 2024
È nata la FNOB
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Primo piano
ECCO L’ORA LEGALE
PRO E CONTRO DELLO
SPOSTAMENTO DELLE LANCETTE
Vantaggi in termini di risparmio energetico, economico e di emissioni nocive. Ma le conseguenze sul ciclo sonno-veglia non vanno sottovalutate
di Rino Dazzo
10 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Primo piano
Lancette in avanti, torna l’ora legale. L’appuntamento quest’anno è fissato per domenica 31 marzo, proprio il giorno di Pasqua. In teoria bisognerebbe aggiornare l’orario di tutti gli orologi, personali e di casa, ma anche di quelli dei vari dispositivi elettronici, dall’auto agli elettrodomestici, alle 2 di notte, spostandoli esattamente un’ora più avanti: le 3. Va bene, però, anche farlo con calma al mattino dopo. E da fine mese a fine ottobre si andrà avanti con questa convenzione, come se l’Italia fosse posizionata sul fuso orario della Grecia, o comunque di un paese più a est. Del resto, è un’abitudine che il nostro paese condivide (ancora) con tutti gli altri stati membri dell’Unione Europea. Quali sono i vantaggi derivanti dall’adozione dell’ora legale in termini economici, ambientali e di risparmio energetico? E quali sono gli svantaggi, a livello biologico, psicologico e di salute, provocati dal «vivere» in un orario diverso, seppur leggermente, rispetto a quello naturale?
Anzitutto, è curioso notare come il primo teorizzatore dell’ora legale sia stato proprio un
Giornale dei Biologi | Mar 2024 11 © Skylines/shutterstock.com
Primo piano
biologo, George Vernon Hudson, che nel 1895 propose alla Royal Society neozelandese di spostare le lancette dell’orologio un’ora avanti d’estate per poter sfruttare un po’ di luce in più. Già nel Settecento, però, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Benjamin Franklin, suggerì di adottare un espediente simile per favorire il risparmio energetico ma non fu preso troppo sul serio, forse perché lo scrisse con toni satirici in un articolo pubblicato nel 1784 sul più antico quotidiano parigino, il Journal de Paris. In Italia l’ora legale è stata adottata inizialmente in tempi di guerra, prima nel 1916 e poi nel 1940. Poi in modo permanente a partire dal 1966. L’orario di inizio e fine del periodo dell’ora legale è cambiato più volte nel corso dei decenni; dal 1996 coincide con l’ultima domenica di marzo e l’ultima domenica di ottobre, lo stesso periodo codificato dall’Unione Europea per tutti i paesi membri a partire dal 2001.
Naturalmente, spostare avanti le lancette consente di guadagnare ore di luce durante il giorno che altrimenti sarebbero “sprecate” di notte. Con l’ora solare, infatti, il sole durante l’estate sorgerebbe tra le 4:30 e le 5:30 del mattino e tramonterebbe tra le 19 e le 20. Con l’ora legale, invece, tutto si sposta avanti di sessanta minuti ed è facile intuire come un’ora di luce in più tra le 20 e le 21 sia più utile rispetto a un’ora di luce in più tra le 4:30 e le 5:30; non c’è bisogno di utilizzare l’energia elettrica per illuminare gli ambienti, con conseguente alleg-
Il primo teorizzatore dell’ora legale è stato un biologo, George Vernon Hudson, che nel 1895 propose alla Royal Society neozelandese di spostare le lancette dell’orologio un’ora avanti d’estate per poter sfruttare un po’ di luce in più.
gerimento delle relative bollette. Questo è valido soprattutto per i paesi mediterranei, come l’Italia. I vantaggi in termini energetici ed economici, infatti, sono evidenti. Secondo le stime di Terna, nei sette mesi di applicazione dell’ora legale nel 2023 l’Italia ha risparmiato 370 milioni di kWh, equivalenti al fabbisogno medio annuo di 140mila famiglie, con un risparmio quantificabile in 90 milioni di euro.
Interessante notare come rispetto alle stesse stime di Terna del 2016, però, il risparmio sia notevolmente diminuito: allora infatti si risparmiarono 573 milioni di kWh, equivalenti al fabbisogno annuo di 210mila famiglie. Molte cose, del resto, sono cambiate in questi ultimi anni, a cominciare dal minor impatto dell’industria pesante nei consumi e dal notevole ricorso allo smart working, soprattutto dopo la pandemia Covid e i conseguenti lockdown. Nei venti anni dal 2004 al 2023, comunque, il consumo minore di energia elettrica per l’Italia è stato di circa 11,3 miliardi di kWh, per un risparmio complessivo per i cittadini superiore ai 2,1 miliardi di euro. E a ringraziare non sono state soltanto le tasche dei contribuenti, ma anche l’ambiente. Sempre secondo Terna, l’anno scorso grazie all’ora legale si è evitata l’emissione di circa 180mila tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera.
Sin qui i vantaggi e i benefici. Il rovescio della medaglia, allora, qual è? Anzitutto, nella notte dello spostamento delle lancette si perde un’ora di sonno e quel giorno dura soltanto 23 ore. Ma non solo. Anche nei giorni seguenti è possibile incappare in disturbi del sonno, della fame, persino dell’umore simili a quelli del jet lag, il passaggio a un fuso orario differente. Si fa fatica ad addormentarsi, bisogna abituarsi a pranzare e a cenare in orari diversi, occorre familiarizzare in fretta con giornate che diventano improvvisamente più lunghe (o, nel caso del ritorno all’ora solare, più corte). E non si tratta di un problema da poco, né di una questione trascurabile dal momento che la differenza è di appena un’ora: diversi gli studi che hanno attestato come l’ora legale abbia la capacità di impattare sul ritmo circadiano degli individui, il ritmo fisiologico attraverso cui un organismo regola i periodi di sonno e di veglia. Per questo motivo, da qualche tempo, si sta facendo strada una proposta sempre più trasversale: estendere a tutto l’anno il periodo dell’ora legale.
12 Giornale dei Biologi | Mar 2024 © SERGIOKAT/shutterstock.com
George Vernon Hudson.
Non sono tutte rose e fiori, dunque, quando si passa dall’ora solare a quella legale, o anche – ma in misura minore – al contrario. Diversi studi certificano come l’ora legale abbia influenze negative sulla normale regolazione del ritmo sonno-veglia, oltre che sul malessere psichico e somatico degli individui, soprattutto nei soggetti maggiormente predisposti. Il dibattito tra studiosi ed esperti è aperto. Un intervento particolarmente interessante in questo senso è quello della professoressa Beth Malow, ordinaria di neurologia e pediatria al Vanderbilt University Medical Center di Nashville, nel Tennessee, che a The Conversation ha posto l’attenzione sull’aumento di ictus, attacchi di cuore e privazione del sonno negli adolescenti in corrispondenza della transizione annuale all’ora legale.
«È uno sbilanciamento che può necessitare alcune settimane per riprendersi», ha spiegato la dottoressa. «Questo perché l’ora dell’orologio viene spostata un’ora dopo. La luce del mattino è preziosa per aiutare a stabilire i ritmi naturali del corpo: ci sveglia e migliora la vigilanza. L’esposizione alla luce fino a tarda sera ritarda il rilascio da parte del cervello di melatonina, l’ormone che favorisce la sonnolenza. Questo può interferire con il sonno e farci dormire meno in generale, e l’effetto può durare anche dopo che la maggior parte delle persone si abitua a perdere un’ora di sonno all’inizio dell’ora legale. Poiché la pubertà provoca anche il rilascio di melatonina più tardi durante la notte, il che significa che gli adolescenti hanno un ritardo nel segnale naturale che li aiuta ad addormentarsi».
Il professor Giuseppe Plazzi, direttore del Centro del sonno Irccs dell’Istituto delle scienze neurologiche di Bologna, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano ha suggerito una possibile soluzione: «L’ora legale permanente potrebbe essere una soluzione percor-
GLI EFFETTI SUL RITMO CIRCADIANO
L’impatto sul malessere psichico e somatico degli individui con lo spostamento delle lancette: una possibile soluzione
ribile dal punto di vista della salute. Infatti, visto che il problema principale dell’ora legale sono i periodi di cambio d’ora, questi sparirebbero con l’ora legale permanente».
Si procederebbe col cambio d’ora una volta per tutte, dunque, e poi si proseguirebbe in pianta stabile con l’ora legale in luogo di quella solare, anche nei mesi invernali. «L’adattamento dell’orologio circadiano dell’individuo all’alternanza luce-buio è determinato da molteplici fattori influenzati dalla genetica e dall’ambiente», ha aggiunto il professore. «Consideriamo che ogni
persona presenta un cronotipo che influenza il suo adattamento ai ritmi sociali (quelli stabiliti dalle lancette dell’orologio). Ognuno può essere prevalentemente “gufo”, cioè prediligere maggiori attività in orari serali e dormire più a lungo la mattina; oppure essere “allodola”, con migliori performance di prima mattina e orario di messa a letto anticipata. In quest’ottica, la nostra società, a prescindere da ora solare e ora legale, può non essere completamente allineata alle necessità individuali, in quanto ogni tipo di orario condiviso è una forma di convenzione». (R. D.)
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piano Primo © New Africa/shutterstock.com
Primo
ORA LEGALE TUTTO L’ANNO: LA SITUAZIONE
L’Unione Europea aspetta che siano i Paesi membri a decidere: nel frattempo passano gli anni e non cambia niente
Paesi nordici contro paesi mediterranei. È singolare la contrapposizione che si è venuta a creare negli ultimi anni in seno all’Unione Europea sull’ora legale. La questione è semplice. Ai paesi posti più a sud, tra cui l’Italia, l’ora legale serve: a quelli del nord, no. Nelle nazioni scandinave, ad esempio, in piena estate il sole sorge prima delle quattro del mattino per tramontare intorno alle 23: l’ora guadagnata, insomma, non serve ad aver più luce alla sera, né ha impatti significativi sulla tutela dell’ambiente, né produce vantaggi per risparmiare
energia. Ecco perché Svezia e Finlandia si sono poste alla guida di un fronte piuttosto ampio di stati che ha chiesto e ottenuto una revisione della legislazione comunitaria.
In seguito a una consultazione pubblica avvenuta nell’estate del 2018, in cui l’84% degli intervistati aveva dato parere favorevole, il Parlamento UE ha approvato l’abolizione dell’obbligo per i paesi membri di adottare l’ora legale. Ogni stato avrebbe dovuto decidere in autonomia entro la fine del 2021 se adottare per sempre l’ora legale o quella solare, ma in realtà al momento non lo ha fatto nessuno.
Neppure Svezia e Finlandia, che più di ogni altro si erano battute per il cambio di rotta. Il fatto è che sono sopraggiunte altre questioni. Prima l’emergenza legata alla pandemia Covid, poi la difficile situazione internazionale, segnata da fattori di crescente instabilità, hanno indirizzato sforzi e attenzione su altre faccende considerate più urgenti.
Nel frattempo, comunque, è cresciuto il blocco dei paesi intenzionati ad adottare stabilmente, una volta per tutte, l’ora legale. A cominciare dalla Francia, che nel 2019 ha promosso attraverso l’Assemblea Nazionale una consultazione pubblica che si è espressa con percentuali vicine al 60% a favore dell’adozione perpetua dell’ora legale. E l’Italia? Al momento il nostro Paese non ha codificato una posizione definita sulla questione, dopo aver lottato a lungo – e inutilmente – per il mantenimento generalizzato dello status quo, vale a dire l’alternanza tra ora legale e solare. Il continuo avanzare dell’inflazione, il costo dell’energia e delle materie prime che non smette di aumentare e una sensibilità crescente sulle questioni legate all’ambiente, in ogni caso, stanno facendo moltiplicare le pressioni perché l’Italia si schieri a favore dell’adozione permanente dell’ora legale, o che legiferi in tal senso. Ne beneficerebbe l’economia, ci sarebbero minori emissioni di anidride carbonica anche nei mesi più freddi e ne trarrebbe giovamento pure, con tutta probabilità, la salute dei cittadini, che non dovrebbero più fare i conti due volte l’anno con lo spostamento delle lancette.
Attualmente, però, l’Italia rimane in attesa che a decidere sia l’Unione Europea. Mentre l’UE, dal canto suo, aspetta che a muoversi siano i singoli stati. Un balletto che, come spesso succede, ha portato a una mini paralisi. E per il momento si va avanti con ora legale e solare, proprio come prima del 2018. (R. D.)
14 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Primo piano
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Giornale dei Biologi | Mar 2024 15 www.fnob.it Master di I livello in SOSTENIBILITÀ DEI SISTEMI ALIMENTARI E DELLA DIETA MEDITERRANEA Master telematico asincrono marzo – luglio 2024
Primo piano
FARMACIA DEI SERVIZI D’ANNA (FNOB): SE LA SANITÀ DIVENTA MERCE
Il provvedimento non allevierà le lunghe liste d’attesa a cui i malati sono costretti nel Belpaese nonostante la continua profusione di denaro per finanziare progetti in grado di accorciarle
di Vincenzo D’anna
Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
Apprendiamo dalla stampa che il Consiglio dei Ministri si appresta a varare una nuova legge in materia sanitaria, quella che amplia a dismisura le prestazioni sanitarie affidate alle farmacie. Sembra una buona idea e come tale viene prospettata agli utenti sulla base di un migliore e più rapido accesso ad una variegata gamma di prestazioni in ambito sanitario.
Tuttavia, a ben guardare, così non è se non in senso lato e del tutto teorico e soprattutto a discapito della qualità e dell’accuratezza delle prestazioni stesse. Men che meno il provvedimento allevierà le lunghe liste d’attesa a cui i malati sono costretti nel Belpaese nonostante la continua profusione di denaro per finanziare progetti in grado di accorciarle. Un miliardo di euro stanziati per l’anno in corso, che si esaurirà in mille rivoli finendo nelle tasche di coloro i quali quei progetti avrebbero dovuto attuarli superando la disorganizzazione degli ambulatori a gestione statale.
Quei progetti, infatti, saranno verificati e controllati dagli stessi che li gestiscono senza controlli da parte di enti terzi, onde per cui se la canteranno e se la suoneranno da soli, come spesso capita alla cosiddetta sanità pubblica. Un mondo, quest’ultimo, che, secondo i nostri governanti (di ogni colore politico), se gestito in regime di monopolio dallo Stato avrebbe una superiorità etica dei fini, una mo-
rale che nasce dal fatto che non vi sia chi realizzi un profitto, scambiando in questo modo il profitto con i profittatori.
È un vecchia e sempre valida mistificazione della verità, un pregiudizio ideologico, che in quanto tale accredita come vera la tesi che la pubblicità del servizio sanitario debba corrispondere alla gestione statale in quanto immune dal guadagno. Una cosa falsa oltre che ridicola. Falsa perché la sanità che accumula debiti li distribuisce ai contribuenti sotto forma di debito pubblico e di tasse. Ridicola perché, in altri ambiti di servizio pubblico, lo stesso Governo invoca la concorrenza e la competizione con i privati come strumento di efficienza e di risparmio.
La telefonia, le autostrade, i collegamenti marittimi, le acciaierie, la chimica, l’energia elettrica, i trasporti aerei e così via, sono i grani di un rosario che in cinquant’anni ha creato debiti pubblici e successiva svendita ai privati. Ma volendo fare un’eccezione per la cura della salute, si dovrebbe allora consentire alla rete delle strutture private accreditate, ossia in possesso di tutti i requisiti organizzativi, tecnologici, strumentali e di personale equivalenti a quelli richiesti nel comparto pubblico, di poter competere con loro nell’interesse del cittadino!! Quest’ultimo ha, per legge costituzionale, il diritto di scegliere il professionista ed il luogo in cui curarsi, eppure questa facol-
16 Giornale dei Biologi | Mar 2024
tà gli viene negata con un artifizio: quello di far gravare sulle strutture private accreditate dei tetti di spesa e delle tariffe da fame per limitarne gli accessi.
Nell’analogo comparto pubblico, ove ancora mancano i requisiti già accertati per il privato (!!), si paga a piè di lista (quel che costa la prestazione) a differenza del privato dove invece la tariffa è fissa e predeterminata. Il risultato è che nel comparto statale i costi sono triplicati ed è lì, guarda caso, che si nasconde la gran parte del debito complessivo prodotto dalle Asl. Un regime di privilegio che surrettiziamente sposta i pazienti verso le strutture pubbliche, non gravate da tetti di spesa, con il risultato che la pacchia del cliente assicurato continua così come l’insipienza e la scarsa produttività di quel comparto.
Non bastasse tutto questo scempio finanziario, che costa circa 130 miliardi di euro ogni anno (la terza voce di spesa dello Stato), ecco intervenire un’altra levata d’ingegno da parte dei governanti (socialisti o liberali che si dichiarino) che dal sistema traggono soldi, clientele e voti. Si sposta presso le farmacia una serie di prestazioni sanitarie pagandole in taluni
“In altri ambiti di servizio pubblico, lo stesso Governo invoca la concorrenza e la competizione con i privati come strumento di efficienza e di risparmio”.
casi molto di più di quello che normalmente viene pagato a tariffa nelle strutture accreditate. Insomma: i farmacisti, che hanno avuto il presidente della FOFI (Ordine farmacisti) Andrea Mandelli vice presidente della Camera nella passata legislatura, ed oggi possono vantare un sottosegretario alla Sanità, diventano, come d’incanto, tuttologi ed onniscienti. Surrogano i cardiologi, gli analisti, i medici di base e la burocrazia sanitaria delle Aziende Sanitarie: un lucroso affare che affossa le strutture ambulatoriali accreditate, cariche di requisiti e di autorizzazioni (oltre che di personale abilitato per legge e con competenze professionali!!), per mettere in piedi una bottega che esegue sommariamente una serie di esami e di pratiche amministrative.
Ma il vero “malloppo” da spartire viene dalla cosiddetta telemedicina, sempre appaltata alle farmacie, con la quale si scialacquano appositi fondi!! Che il governo della destra fosse uguale a quelli che l’hanno preceduto lo si supponeva, che però riuscisse a fare di peggio è un amara sorpresa…
Roma, 24 marzo 2024
Giornale dei Biologi | Mar 2024 17
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Vincenzo D’Anna.
Primo piano
LE AZIONI DI TUTELA DELLA FNOB PER LA CATEGORIA DEI BIOLOGI
Parere del prof. Francesco Saverio Marini, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Gentili Colleghi, di seguito potrete leggere un excursus giuridico sulla legge delega inerente la cosiddetta “Farmacia dei servizi”. La nota è stata espunta dal parere chiesto al prof. Francesco Saverio Marini, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
Come saprete, la FNOB ha ingaggiato una battaglia su tutti i fronti per contrastare il disegno di depauperare le competenze professionali dei biologi analisti, oltre che di altre specialità mediche, in favore dei farmacisti. Reputo opportuno che ciascuno abbia contezza precisa della questione.
26 marzo 2024
Sen. dott. Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi ***
Le battaglie della FNOB non sono di retroguardia ma di tutela, irrinunciabile, della categoria dei Biologi e della loro professionalità, da una parte, e dell’accuratezza dei risultati diagnostici, dall’altra. E sono frutto di una conoscenza accurata delle norme, che
invece pare molto claudicante in chi ci accusa del contrario.
Nelle farmacie, de iure condito, è possibile eseguire, anzitutto, prestazioni analitiche di prima istanza rientranti nell’ambito dell’autocontrollo - art. 1, c. 2, lett. e), del d. lgs. n. 153 del 2009 -, nei limiti e alle condizioni stabiliti con d.m. 16.12.2010, restando in ogni caso esclusa l’attività di prescrizione e diagnosi, nonché il prelievo di sangue o di plasma mediante siringhe o dispositivi equivalenti; l’art. 2, comma 1, di tale d.m. introduce un elenco incontrovertibilmente tassativo di esami che, invece, è stato in passato, incredibilmente, considerato meramente esemplificativo, malgrado il decreto preveda espressamente che ogni modifica è possibile solo modificando l’atto regolamentare.
Si tratta di esami la cui accuratezza è, ovviamente, sideralmente inferiore rispetto agli esami effettuati su sangue venoso ma di tale differenza non viene data adeguata informazione agli utenti.
La legge di bilancio 2021 ha previsto la possibilità di eseguire presso le farmacie aperte al pubblico e “dotate di spazi idonei sotto il profilo igienico-sanitario e atti a garantire la tutela della riservatezza”, i “test mirati a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM e i tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARSCoV-2”, rimettendone la disciplina delle
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modalità organizzative e delle condizioni economiche alle convenzioni di cui all’art. 8, cc. 1 e 2, del d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m.i..
Ha, inoltre, aggiunto la lettera e-ter) all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 153 del 2009, la quale contempla “l’effettuazione presso le farmacie da parte di un farmacista di test diagnostici che prevedono il prelievo di sangue capillare”.
Al comma 471 (come sostituito dal d-l. n. 221 del 2021, conv. con mod. dalla l. n. 11 del 2022), la previsione in via sperimentale, da ultimo fino al 31.12.2022 (in forza dell’art. art. 12, c. 1, del citato d-l. n. 221 del 2021, conv. con mod. dalla l. n. 11 del 2022), della somministrazione di vaccini contro il SARS COV-2 nelle farmacie aperte al pubblico da parte dei farmacisti opportunamente formati, subordinandone l’operatività a specifici accordi con le organizzazioni rappresentative delle farmacie, anche relativi alla disciplina dei requisiti minimi strutturali dei locali per la somministrazione dei vaccini, nonché delle opportune misure per garantire la sicurezza degli assistiti.
Da ultimo, l’art. 2 del d.l. 24/2022 ha introdotto la possibilità di somministrare, con oneri a carico degli assistiti, “da parte di farmacisti opportunamente formati a seguito del superamento di specifico corso abilitante e di successivi aggiornamenti annuali, organizzati dall’Istituto superiore di sanità”, vaccini anti SARS-CoV-2 e vaccini antinfluenzali nonché l’effettuazione di test diagnostici che prevedono il prelevamento del campione biologico a livello nasale, salivare o orofaringeo, da effettuare in aree, locali o strutture, anche esterne, dotate di apprestamenti idonei sotto il profilo igienico-sanitario e atti a garantire la tutela della riservatezza.
Questo lo stato dell’arte, che, come si vede, vedrebbe un enorme ampliamento dei servizi erogabili nelle farmacie con l’approvazione del d.l. smplificazioni.
Ricordiamo, però, che l’art. 11 della legge 69 del 2009, con cui il Governo era stato delegato ad adottare il decreto legislativo sulla cd. Farmacia dei servizi (il d. lgs. 153 del 2009), limitava la delega ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) assicurare, nel rispetto di quanto previsto dai singoli piani regionali socio-sanitari, la partecipazione delle farmacie al servizio di assistenza domiciliare integrata a favore dei pa-
Primo piano
“Le battaglie della FNOB non sono di retroguardia ma di tutela, irrinunciabile, della categoria dei Biologi e della loro professionalità, da una parte, e dell’accuratezza dei risultati diagnostici, dall’altra”.
zienti residenti nel territorio della sede di pertinenza di ciascuna farmacia, a supporto delle attività del medico di medicina generale, anche con l’obiettivo di garantire il corretto utilizzo dei medicinali prescritti e il relativo monitoraggio, al fine di favorire l’aderenza dei malati alle terapie mediche;
b) collaborare ai programmi di educazione sanitaria della popolazione realizzati a livello nazionale e regionale, nel rispetto di quanto previsto dai singoli piani regionali socio-sanitari;
c) realizzare, nel rispetto di quanto previsto dai singoli piani regionali socio-sanitari, campagne di prevenzione delle principali patologie a forte impatto sociale, anche effettuando analisi di laboratorio di prima istanza nei limiti e alle condizioni stabiliti con decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, restando in ogni caso esclusa l’attività di prelievo di sangue o di plasma mediante siringhe”;
d) consentire, nel rispetto di quanto previsto dai singoli piani regionali socio-sanitari, la prenotazione in farmacia di visite ed esami specialistici presso le strutture pubbliche e private convenzionate, anche prevedendo la possibilità di pagamento delle relative quote di partecipazione alla spesa a carico del cittadino e di ritiro del referto in farmacia;
e) prevedere forme di remunerazione di tali attività da parte del Servizio sanitario nazionale entro il limite dell’accertata diminuzione degli oneri derivante, per il medesimo Servizio sanitario nazionale, per le Regioni e per gli Enti locali, dallo svolgimento delle stesse da parte delle farmacie, e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica;
f) rivedere i requisiti di ruralità di cui agli artt. 2 e seguenti l. 8 marzo 1968, n. 221, al fine di riservare la corresponsione dell’indennità annua di residenza prevista dall’art. 115 del testo unico delle leggi sanitarie, di cui al r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, in presenza di situazioni di effettivo disagio in relazione alla localizzazione delle farmacie e all’ampiezza del territorio servito. Quello che si profila con il d.l. Semplificazioni appare, anche a un lettore poco attento, tracimare dai limiti della Legge Delega in maniera molto evidente.
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Francesco Saverio Marini.
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UNA NUOVA ARMA PER COMBATTERE IL MEDULLOBLASTOMA
Lucia Di Marcotullio (La Sapienza) spiega il ruolo della proteina SALL4 e della sua inibizione nel trattamento del più comune tumore cerebrale pediatrico
di Chiara Di Martino
Il medulloblastoma è un tumore del sistema nervoso centrale che rappresenta il 4 per cento circa delle neoplasie infantili. In Italia, secondo i dati dell’Associazione Italiana Registri Tumori, sono colpiti da questo tipo di malattie circa 7 bambini ogni milione con un’incidenza leggermente più alta tra i maschi. Oggi un nuovo studio pionieristico dell’Università di Roma La Sapienza apre uno spiraglio nelle possibilità future di cura: è già da anni che il gruppo guidato da Lucia Di Marcotullio – docente di patologia generale al Dipartimento di Medicina Molecolare della Sapienza - svolge ricerche in campo oncologico per comprendere i meccanismi molecolari responsabili dello sviluppo dei tumori e identificare vie terapeutiche innovative. Di recente il gruppo ha aggiunto un nuovo tassello per chiarire e trattare meglio il medulloblastoma, in uno studio pubblicato sulla rivista Cell Death & Differentiation, che è valso anche un premio al 35° Meeting internazionale dell’Associazione Italiana Colture Cellulari. La ricerca ha permesso di identificare per la prima volta la proteina SALL4 quale importante regolatore della via di segnalazione di Hedgehog, essenziale per lo sviluppo embrionale. È la professoressa Di Marcotullio ad entrare più nel dettaglio.
Da dove parte questo studio?
È da diversi anni che ci occupiamo di tumori cerebrali, in particolare del medulloblastoma
che si presenta come molto eterogeneo: ne esistono infatti 4 diversi sottogruppi (WNT, SHH, gruppo 3 e gruppo 4) in base al profilo clinico e molecolare. Ognuno di questi sottogruppi ha caratteristiche ben distinte. Ancora più nello specifico, ci siamo concentrati sul sottogruppo SHH, dipendente da alterazioni a carico della via di segnalazione di Hedgehog, che costituisce circa il 30% dei medulloblastomi, con prognosi diverse – più o meno infauste - a seconda del sottotipo molecolare.
Qual è l’obiettivo?
Il goal terapeutico è quello di trattare il tumore come se fosse una malattia unica per ogni paziente perché ogni paziente è diverso, ed è perciò necessario arrivare a terapie più mirate e meno tossiche possibili. Senza mai dare false speranze, c’è grande attenzione su questo aspetto, sia per i pazienti più piccoli sia per i giovani adulti visto che, sebbene in piccola percentuale, il medulloblastoma possa svilupparsi anche oltre l’infanzia.
Ad oggi qual è lo standard per trattare questa malattia?
Chemioterapia e radioterapia restano strumenti fondamentali anche per il medulloblastoma, ma tutti i nostri sforzi sono profusi per trovare un’alternativa dal momento che sono terapie con effetti collaterali avversi. La radioterapia, in particolare, non viene presa in considerazione per i pazienti al di sotto dei due anni
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Intervista
perché può causare severi deficit cognitivi.
Ci sono stati step intermedi importanti che hanno portato al risultato di oggi?
I miei studi fin dal dottorato (che ho svolto all’Università de L’Aquila) si sono concentrati sul gene REN, che mappa sul cromosoma 17p, e che abbiamo scoperto essere in grado di sopprimere la crescita di cellule di medulloblastoma: abbiamo così cercato di caratterizzare i meccanismi molecolari attraverso cui REN regola la via di Hedgehog.
E?
E abbiamo scoperto che la proteina codificata dal gene REN ha un’attività onco-soppressoria ed è un regolatore importante della segnalazione di Hedgehog. Approfondendo negli anni lo studio di REN siamo incappati nella proteina SALL4 per caso, sa la serendipity…
Può dirci di più?
Abbiamo identificato per la prima volta la proteina SALL4 – che è una oncofetal protein - quale importante regolatore della via di Hedgehog: serve nella fase di sviluppo embrionale, poi la sua espressione si spegne o, meglio, dovrebbe. Ma non è tutto: abbiamo anche chiarito che l’anomalo accumulo della proteina interferisce con questa via di segnalazione, provocandone l’attivazione e la conseguente crescita tumorale. Mi spiego meglio: l’assenza dell’oncosoppressore REN fa esprimere proteine che invece dovrebbero essere spente. Nel caso di
Lucia Di Marcotullio.
“È da diversi anni che ci occupiamo di tumori cerebrali, in particolare del medulloblastoma che si presenta come molto eterogeneo: ne esistono infatti 4 diversi sottogruppi (WNT, SHH, gruppo 3 e gruppo 4) in base al profilo clinico e molecolare“.
SALL4, alte espressioni della proteina causate dall’assenza del gene REN, sono associate a prognosi più infauste nei pazienti affetti da medulloblastoma del sottogruppo Hedgehog.
Cosa potrebbe essere d’aiuto, con questo quadro?
SALL4 è uno dei bersagli della talidomide, un farmaco che - dopo varie vicissitudini per i suoi effetti altamente tossici per il feto - è stato ammesso come terapia antitumorale, oggi in particolare contro il mieloma multiplo. In studi clinici in corso si sta valutando la sua possibile efficacia per la cura dei tumori cerebrali, incluso il medulloblastoma, offrendo una prospettiva promettente e innovativa.
Come funziona?
La talidomide degrada SALL4: si è perciò rilevata efficace sia nel bloccare la crescita delle cellule tumorali, sia nel contrastare la controparte staminale del tumore responsabile di recidive e del fallimento delle attuali terapie. Siamo in attesa dei risultati di alcuni trials clinici in corso negli USA che ci fanno ben sperare sulla possibilità di trovare alternative terapeutiche.
Chi ha partecipato allo studio?
Ludovica Lospinoso Severini, prima autrice, vincitrice di una borsa di studio AIRC, e le colleghe Elena Loricchio e Shirin Navacci. Con noi hanno lavorato altri colleghi di Sapienza, dell’Istituto Curie d’Orsay, in Francia, e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
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LA “ROSE” NEL PERCORSO DIAGNOSTICO E TERAPEUTICO MULTIDISCIPLINARE
Rapid on-site evaluation, servizio di citoassistenza che si sta diffondendo sempre di più Ne abbiamo parlato con Antonella Pellegrini, presidente della Società Italiana di Citologia
di Ester Trevisan
Dottoressa Pellegrini, in cosa consiste questo metodo?
La ROSE (Rapid on-site evaluation) è la valutazione rapida dell’adeguatezza del materiale citologico o di piccole biopsie, prelevato durante procedure di diagnostica per immagini, sia ecografica che radiologica. È infatti essenziale avere, in tempo reale durante queste procedure, l’assicurazione del corretto campionamento di una lesione. Questo servizio, denominato anche citoassistenza, viene fornito da biologi e da patologi, esperti in citopatologia, e ha lo scopo di guidare e ottimizzare sia la procedura stessa sia il percorso diagnostico e terapeutico del paziente, in numerose patologie neoplastiche.
Quali sono i punti di forza di questo sistema di valutazione?
La ROSE garantisce innanzitutto che il campionamento sia adeguato ai fini della diagnosi. Ciò significa garantire che il materiale prelevato sia rappresentativo dello specifico organo che si sta indagando, ovvero siano presenti gli elementi cellulari che ne sono caratteristici; in altre parole che sia stato raggiunto il bersaglio. Campionamento adeguato significa anche fornire, attraverso una valutazione diagnostica preliminare, materiale quantitativamente e qualitativamente idoneo per il triage delle successive indagini immunoistochimi-
che e molecolari. La ROSE, dunque, garantisce un risparmio di tempo per clinici, citologi e anatomopatologi e interventi più rapidi nel trattamento dei pazienti.
Come si esegue la ROSE?
Per ogni passaggio della procedura aspirativa, il materiale deve essere strisciato e fissato immediatamente, colorato con una metodica di colorazione rapida ed esaminato al microscopio. Questa tecnica consente successivamente di eseguire solo le indagini effettivamente necessarie al completamento diagnostico, con una resa complessivamente costo-efficace.
In quali casi è utile affiancare la ROSE agli esami endoscopici?
La Rose può essere eseguita durante qualsiasi procedura di imaging e per qualsiasi sede anatomica. Le tecniche diagnostiche più utilizzate sono l’agoaspirazione transbronchiale con fibroscopio a fibre ottiche oppure con endoscopia a ultrasuoni (C-TBNA e EBUS-TBNA), l’agoaspirazione mediante endoscopia transesofagea a ultrasuoni (EUS-FNA), l’agoaspirazione e l’agobiopsia sotto guida TAC (FNA e FNAB).
In che senso la ROSE ottimizza il percorso diagnostico-terapeutico del paziente?
Per rispondere a questa domanda farò l’esempio delle neoplasie polmonari. Le Linee guida per la raccolta e la processazione dei
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Intervista
campioni citologici/piccole biopsie raccomandano di affiancare la ROSE alle procedure strumentali ogniqualvolta sia possibile: molto spesso i campioni citologici rappresentano il substrato primario utile non solo per ottenere informazioni sulla morfologia, ma anche a fornire il materiale per i biomarcatori prognostici e predittivi. Nei tumori polmonari l’alta mortalità è dovuta principalmente al significativo numero di pazienti che presentano al momento della diagnosi una malattia localmente avanzata o metastatica. In questi casi, per i quali il ruolo della chirurgia è ridotto, l’attuale management prevede la medicina personalizzata, dove la scelta terapeutica (target therapy) si basa proprio sulla specifica istologia (istotipo) e sulle caratteristiche molecolari del tumore. La stretta comunicazione tra il citopatologo e chi effettua la procedura può ridurre e ottimizzare il numero di passaggi di prelievo, aumenta la resa diagnostica e consente di interrompere il campionamento una volta che sia stato raccolto materiale sufficiente e adeguato per la diagnosi morfologica definitiva e per gli esami biomolecolari. La ROSE è di supporto all’operatore nelle procedure bioptiche, permettendo di concentrare i prelievi non solo nei punti macroscopicamente più rilevanti, ma anche in quelli che siano risultati più sospetti in termini microscopici.
Antonella Pellegrini.
Antonella Pellegrini è biologa specialista in Patologia Generale. Ha lavorato presso la UOC Anatomia Patologica dell’Azienda Ospedaliera S.Giovanni-Addolorata di Roma, dove ha svolto attività di citologia diagnostica, cervicale ed extra-cervicale, ricoprendo negli anni più recenti l’incarico di responsabile aziendale del Programma di screening del cervicocarcinoma della Regione Lazio. Dal 2015 è presidente della Società Italiana di Citologia.
Complessivamente, viene ridotta la durata della procedura, il numero di siti da biopsiare e, di conseguenza, il rischio di eventi avversi per il paziente.
Ma questa ROSE non ha spine?
Le spine principali sono la mancanza di personale, la necessità di addestramento e di expertise del personale, il notevole impegno di tempo per il citopatologo, non adeguatamente rimborsato.
Le prospettive future?
È necessario riorganizzare le risorse di laboratorio e del flusso di lavoro nell’ottica di un servizio ROSE. In alcune realtà lavorative si sta sperimentando l’utilizzo della telepatologia per valutare l’adeguatezza del materiale e per formulare la valutazione diagnostica preliminare da remoto, mentre l’allestimento del materiale può essere eseguito in loco da personale infermieristico o tecnico adeguatamente addestrato. Questo consentirebbe di sopperire alla carenza di citopatologi e a diminuirne l’impegno di tempo. Anche in questo periodo economicamente difficile per la Sanità è comunque opportuno concentrare e sfruttare tutte le risorse possibili, per non precludere ai pazienti la terapia più efficace. Per dirla con le parole di San Giovanni Crisostomo, i Magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella, ma videro la stella perché si erano messi in cammino.
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ALZHEIMER, UNA PROTEINA CEREBRALE PER DIFENDERE LA MEMORIA DELLE DONNE
Uno studio del Karolinska Institutet di Stoccolma individua una possibile protezione Ne abbiamo parlato con Silvia Maioli, coordinatrice del gruppo di studio
Professoressa Maioli, perché l’Alzheimer è più diffuso nella popolazione femminile?
Le donne costituiscono i due terzi degli individui affetti da Alzheimer. Il fatto che le donne abbiano una maggiore longevità non giustifica la maggiore diffusione della malattia nella popolazione femminile. Non sono ancora completamente conosciute le ragioni per cui le donne sono maggiormente esposte al rischio di sviluppare Alzheimer rispetto agli uomini. Diversi meccanismi biologici indubbiamente concorrono a una maggiore vulnerabilità nelle donne, per esempio la menopausa precoce o la transizione alla menopausa combinata a fattori di rischio ambientali o genetici. Comunemente le donne tra i 45 e i 55 anni attraversano la menopausa, un periodo transitorio nella vita di una donna causato da una drastica perdita di estrogeno, un ormone prodotto non solo dalle ovaie ma anche nel cervello, ed essenziale per mantenere la salute cerebrale e le capacità di apprendimento e memoria. La menopausa precoce, con insorgenza prima dei 45 anni, è stata riconosciuta come un fattore di rischio per la perdita di memoria e lo sviluppo della malattia di Alzheimer. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che le donne affette da Alzheimer e che hanno avuto una menopausa precoce presentano livelli più
alti di grovigli tau e amiloide nel cervello. Come si è articolata la ricerca e quali evidenze sono emerse?
Abbiamo utilizzato modelli transgenici di topo, sistemi di culture neuronali in vitro e campioni di fluido cerebrospinale da pazienti con Alzheimer’s Disease. Combinando diverse tecniche e modelli, il mio team di ricercatori del Karolinska ha osservato che l’attivazione di una proteina chiamata CYP46A1 sembra in grado di contrastare la perdita di memoria sia durante l’invecchiamento sia durante la menopausa, esclusivamente nei topi femmine. Abbiamo visto che quando i livelli di CYP46A1 aumentano nel cervello dei topi e successivamente aumenta la produzione del ossisterolo 24SOH, le femmine presentano neuroni più sani e un’attività estrogenica più elevata in una regione cerebrale essenziale per la memoria, che è l’ippocampo. In linea con questo dato, i topi femmina con livelli alti di CYP46A1 mostrano migliori capacità di apprendimento e memoria. Questi risultati sono stati successivamente supportati da studi su uomini e donne affetti da malattia di Alzheimer, in cui il 24SOH è stato misurato nel liquido spinale. Livelli più alti di 24SOH corrispondono a livelli più bassi di marcatori patologici dell’Alzheimer come tau, ma soltanto nelle donne.
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Intervista
Per quale motivo il vostro studio si è focalizzato sulla proteina CYP46A1?
CYP46A1 ha una funzione molto importante nel cervello, che consiste nell’eliminare l’eccesso di colesterolo, trasformandolo in un sottoprodotto chiamato 24S-idrossicolesterolo (24SOH). L’alterazione del metabolismo di colesterolo è uno dei primi processi patologici che si osservano in Alzheimer e nei cervelli di pazienti di Alzheimer è stata rilevata una riduzione di CYP46A1 e 24SOH. Studi precedenti, condotti però solo su topi femmine, hanno dimostrato che l’attivazione di CYP46A1 riduce placche di amiloide. Inoltre, l’esistenza di una possibile relazione tra ormoni sessuali e metaboliti del colesterolo ci ha portato a studiare il ruolo di questo enzima in maschi e femmine, e a capire come cambiasse durante processi di invecchiamento, tra i quali il calo di estrogeni conseguente alla menopausa.
I risultati della vostra ricerca potrebbero aprire uno spiraglio nel trattamento di questa malattia?
Si, l’attivazione di CYP46A1 potrebbe avere effetti diversi su uomini e donne affette da Alzheimer e pensiamo che possa aiutare a prevenire la malattia in donne a più alto rischio di AD (ad esempio donne carriers per ApoE4 o donne che sono andate incontro a menopausa precoce).
Silvia Maioli ha conseguito la laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche e il Dottorato in Farmacologia e Tossicologia all’Universita di Bologna. Nel 2011 si è trasferita a Stoccolma con un contratto da post doc presso il Karolinska Institutet. Dopo sei anni di post dottorato, è diventata Assistant Professor nel 2017 e Associate Professor nel 2022. Al momento, è alla guida di un team di sette ricercatori presso Division of Neurogeriatrics, NVS Department, Karolinska Institutet. Silvia Maioli.
Quali sono i possibili risvolti terapeutici?
Ricerche precedenti hanno dimostrato che CYP46A1 può essere attivato da basse dosi di un farmaco per l’HIV chiamato Efavirenz. Questo nuovo studio suggerisce che gli attivatori di CYP46A1, come ad esempio Efavirenz, potrebbero offrire un nuovo approccio terapeutico per promuovere la protezione cerebrale mediata dall’estrogeno nelle donne a rischio di malattia di Alzheimer, quali, per citare un caso, le donne con menopausa precoce. Questo approccio sarebbe diverso dalle comuni terapie ormonali usate per la menopausa che hanno prodotto risultati variabili finora.
Perché questo approccio sarebbe diverso?
L’uso della terapia ormonale per la menopausa sembra ridurre il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer solo se somministrata al momento dei sintomi della menopausa, senza avere alcun effetto protettivo se somministrati dopo la menopausa. Inoltre, la terapia ormonale è stata collegata a un rischio maggiore di cancro. In questo scenario, nuove possibilità di aumentare l’attività dell’estrogeno nel cervello delle donne hanno il potenziale per diventare una nuova terapia preventiva contro malattie terribili come l’Alzheimer. (E. T.)
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LE FRAGOLE (RISPETTANDO
LA STAGIONALITÀ) CONTRO LO STRESS OSSIDATIVO
Intervista a Livia Galletti, biologa e membro del Comitato centrale della FNOB: “Possono essere inserite in una dieta equilibrata e salutare per la maggioranza delle persone”
di Pierantonio Lutrelli
La fragola è tra i frutti più desiderati della primavera. Dei suoi apporti benefici nella dieta umana ne abbiamo parlata con la biologa esperta di nutrizione nonché membro del Comitato centrale della FNOB, Livia Galletti.
Quali sono le principali proprietà benefiche della fragola per la salute umana?
Le fragole sono botanicamente un falso frutto, infatti la parte rossa che consumiamo è l’ovaio modificato della pianta, i veri frutti sono i semini, che si chiamano “acheni” in termini tecnici. Sono un alimento che apporta benefici in termini di protezione dallo stress ossidativo. Promuovono, quindi, la prevenzione di malattie non trasmissibili legate a invecchiamento e infiammazione, come le malattie cardiovascolari, diabete di tipo II, tumori, malattie neurodegenerative.
In che modo la fragola può contribuire a una dieta equilibrata e salutare?
Nutrizionalmente consideriamo la fragola come frutta. Come tale, contribuisce a un’alimentazione bilanciata e salutare apportando acqua, fibra, sali minerali e vitamine. Le fragole rientrano perfettamente in uno stile di vita mediterraneo, basta rispettarne la stagionalità, che va da marzo a maggio, e non pretendere di consumarle quotidianamente tutto l’anno. Non va trascurato l’aspetto del palato: le fragole sono dolci e succose, piacciono quasi a tutte le persone, ma non apportano troppi zuccheri semplici; questa
caratteristica fa anche sì che la “voglia di dolce” possa essere soddisfatta senza ricorrere a dolci o cibi industriali meno salutari.
Quali sono i nutrienti chiave presenti nelle fragole e come influiscono sulla nostra salute?
Le fragole sono ricche di acqua, fibre, vitamina C e folati. Acqua e fibre concorrono in generale alla salute, apportando idratazione, senso di sazietà e benessere generale. La vitamina C protegge dall’invecchiamento, dalle malattie infettive respiratorie e tutela la salute dei vasi sanguigni, nonché della pelle. I folati supportano la salute di pelle, capelli e del sistema nervoso e partecipano anche a diverse reazioni del nostro organismo, supportando in generale la salute. In particolar modo, i folati contenuti nelle fragole sono utili per i bambini, per supportare il loro neurosviluppo durante l’accrescimento. Hanno anche un importante ruolo nel controllo dell’attività dei nostri geni, consentendo al DNA di esprimere al meglio le istruzioni corrette per il nostro corpo. Inoltre, le fragole contengono diverse molecole che definiamo come “bioattive”, cioè che non hanno proprietà nutrizionali, ma hanno un’attività nel corpo umano. Tra queste molecole troviamo flavonoidi, antocianine e acidi fenolici, che hanno tutte potere antiossidante.
Qual è il ruolo delle fragole nella prevenzione di alcune patologie o nel sostegno del sistema immunitario?
La vitamina C e gli antiossidanti bioattivi con-
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Intervista
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tenuti nelle fregole rivestono un importante ruolo a livello cellulare: proteggono le cellule dall’invecchiamento. Perciò, aiutano a prevenire tutte quelle malattie causate da invecchiamento, scorretti stili di vita e infiammazione, quali possono essere il diabete di tipo II, le malattie cardiovascolari e i tumori. Il sistema immunitario è coinvolto non solo nella difesa dell’organismo dalle malattie trasmissibili (per esempio influenza e raffreddore), ma anche nella complessa catena dell’infiammazione. L’infiammazione acuta è un processo fondamentale per la sopravvivenza: senza di essa, per esempio, le ferite non potrebbero rimarginare e non potremmo guarire dalle malattie infettive. Purtroppo, però, gli stili di vita delle nostre società occidentali fanno sì che l’infiammazione cronica, che non è per nulla benefica, sia sempre più diffusa nelle persone. Questo comporta un aumento della predisposizione a malattie croniche non trasmissibili (obesità, diabete di tipo II, problemi cardiovascolari…). Ecco, sia la vitamina C che i bioattivi antiossidanti partecipano all’abbassamento dell’infiammazione cronica, di conseguenza alla protezione da un invecchiamento precoce e, a seguire, alla prevenzione da malattie croniche.
Esistono rischi o controindicazioni legati al consumo abbondante di fragole?
Le fragole sono un alimento istamino-lberatore, cioè, una volta che le ingeriamo, possono scatenare il rilascio di istamina da parte di alcune cellule del nostro corpo. Le persone intolleranti all’ista-
Livia Galletti è biologa con un dottorato di ricerca in Scienze Antropologiche a Biologia e si occupa di Nutrizione Umana come libera professionista a Bologna. È anche docente per tre master diversi dell’Università di Bologna, dell’Università La Sapienza di Roma, dell’Università di Pavia e per diversi enti di formazione per biologi privati. Dallo scorso ottobre è stata eletta come membro del Comitato centrale di FNOB, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi e sono ora ricopre l’incarico di delegata per la nutrizione.
mina o sensibili ad essa devono evitarne il consumo. A causa di questa caratteristica, solitamente il consumo di fragole viene sconsigliato nei bambini sotto l’anno di vita. La letteratura scientifica più recente, però, suggerisce che un inserimento più precoce di alimenti potenzialmente allergizzanti nello svezzamento possa aiutare a contrastare lo sviluppo di allergie più avanti. Quindi, nel caso delle fragole, come per gli altri alimenti, è necessario rivolgersi al pediatra di fiducia e a un biologo nutrizionista esperto in nutrizione pediatrica”.
Quali consigli darebbe a chi desidera includere le fragole nella propria dieta in modo salutare e bilanciato?
Le fragole possono essere inserite in una dieta equilibrata e salutare per la maggioranza delle persone. Anche chi soffre di diabete può consumarle senza grossi problemi, perché il loro contenuto di fruttosio - lo zucchero della frutta - è moderato. Apportano fibra, come tutti gli alimenti di origine vegetale, che promuove il senso di sazietà e la salute del microbiota intestinale (l’insieme di tutti i microbi che vivono in simbiosi con noi nel nostro intestino). É importante rispettare le porzioni quotidiane, che sono identificate dalle linee guida in un paio, da circa 150-200 ggrammi l’una. Un altro accorgimento è quello di non consumarle da sole, ma accompagnate ad altri alimenti, come per esempio lo yogurt intero bianco, il cioccolato fondente o la frutta secca, così da evitare di avere fame dopo poco tempo.
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Livia Galletti.
TUMORE AL PANCREAS INDIVIDUATO IL PROCEDIMENTO CON CUI SI ALIMENTA
Lo studio internazionale, svolto in collaborazione con diversi centri italiani, svela per la prima volta il meccanismo di progressione e apre la strada a nuove terapie
Inumeri che riguardano il tumore al pancreas sono ancora impietosi: nel 2022, sono stati stimati 14.500 nuovi casi, secondo il rapporto “I numeri del cancro in Italia”, a cura dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum), ed è stato calcolato come il tasso di sopravvivenza rimanga inalterato sia a distanza di un anno (34% nell’uomo e 37,4% nella donna) sia dopo cinque anni (11% nell’uomo e 12% nella donna). La diagnosi precoce del tipo di cancro rappresenta un evento poco frequente e, nella fase avanzata della malattia, le cellule neoplastiche mostrano una marcata resistenza alle attuali terapie oncologiche.
Lo studio internazionale pubblicato sulla rivista “Nature Signal Transduction and Targeted Therapy”, che ha visto la collaborazione multidisciplinare di diversi centri, statunitensi e italiani, svela per la prima volta il meccanismo di sopravvivenza e progressione di questo tumore, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici. Il lavoro si è concentrato sull’adenocarcinoma duttale pancreatico che rappresenta la tipologia maggiormente diffusa fra le neoplasie di quest’organo. L’incidenza del tipo di carcinoma aumenta ogni anno a un tasso compreso tra lo 0,5% e l’1,0% e si prevede,
come scrivono gli autori dello studio, che diventerà la seconda causa di mortalità correlata al cancro nei prossimi anni. Ad oggi, infatti, il tasso di sopravvivenza a cinque anni non supera il 10% dei casi.
In particolare nel caso del pancreas, da un punto di vista biologico, le cellule tumorali sono continuamente sottoposte a stress poiché il microambiente è povero di ossigeno e soprattutto scarsamente munito di nutrienti. Nonostante questa carenza, il tipo di tumore è in grado di mantenere un alto tasso di proliferazione. Proprio su questa capacità si è concentrato lo studio che ha condotto i ricercatori a indentificare il procedimento che vede alla base la mancata espressione di una piccola molecola di Rna non codificante (microRna) denominata miR-15a, la quale è normalmente espressa nel pancreas sano ma viene spesso persa durante le fasi precoci di trasformazione neoplastica. Il miR-15a rappresenta una sorta di freno molecolare che mantiene costantemente bassi i livelli della proteina Fra-2, un fattore di trascrizione di cruciale importanza per la risposta del tumore allo stress. In assenza di miR-15a, le cellule tumorali sollecitate dalla carenza di nutrienti sono libere di esprimere il fattore di trascrizione Fra-2 che, a cascata, attiva la trascrizione di geni fondamentali per la loro sopravvivenza. Tra i geni targets di Fra-2, vi è
28 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute
il recettore per Igf1 (Igf1-recettore), responsabile dello stimolo proliferativo.
«La scoperta di questo meccanismo - spiega Gian Luca Rampioni Vinciguerra, primo nome dello studio e ricercatore del dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare dell’Università Sapienza di Roma - accresce la nostra comprensione della malattia e fornisce un razionale utile per l’impostazione delle terapie. Nei nostri modelli - continua -, il tumore del pancreas in carenza di nutrienti diventa dipendente dall’attivazione di IGF1-recettore e, quindi, estremamente sensibile alla sua inibizione farmacologica, che diventa un’arma estremamente efficace per contrastare la crescita tumorale». Il lavoro è stato concepito dal professor Carlo Maria Croce della Ohio State University, negli Stati Uniti, lo scienziato italiano più citato al mondo, secondo il sito topitalianscientists.org, che nella sua lunga carriera ha compiuto scoperte fondamentali nel campo della genetica dei tumori. La ricerca si è avvalsa inoltre della collaborazione multidisciplinare di diversi centri in Italia (oltre alla Sapienza di Roma), quali l’Università di Modena e Reggio Emilia e il Centro di riferimento oncologico di Aviano. Particolare non trascurabile è il fatto che lo studio sia stato sostenuto da un finanziamento della ricerca corrente del ministero della Salute. (E. G.)
Gian Luca Rampioni Vinciguerra.
“La scoperta di questo meccanismo - spiega Gian Luca Rampioni Vinciguerra, primo nome dello studio e ricercatore del dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare dell’Università Sapienza di Romaaccresce la nostra comprensione della malattia e fornisce un razionale utile per l’impostazione delle terapie”.
Aifa approva un nuovo farmaco
Per il tumore del pancreas, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) a febbraio ha approvato l’irinotecano liposomiale pegilato (Nal-Iri) per il trattamento di seconda linea, riconoscendolo come farmaco orfano. La nanotecnologia liposomiale, alla base del medicinale, agevola la biodistribuzione del principio attivo e allo stesso tempo la stabilità e la farmacocinetica. L’efficacia clinica di Nal-Iri, in associazione con 5-fluorouracile (5-FU) e leucovorin (LV), è stata dimostrata dallo studio registrativo globale di fase III Napoli-1, che ha documentato un miglioramento della sopravvivenza mediana da 4,2 a 6,1 mesi rispetto al solo 5-FU/LV, con una riduzione del rischio di morte del 33%.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 29
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CANCRO
AL SENO: UN TEST SALIVARE PER INDIVIDUARE BIOMARCATORI SPECIFICI
Un passo avanti nella diagnosi precoce in tutto il mondo. Impatto significativo in aree svantaggiate grazie al biosensore economico e non invasivo
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30 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute
Salute
La prevalenza del cancro al seno nelle donne sottolinea l’importanza cruciale di sviluppare metodi di rilevamento innovativi ed efficienti. Il cancro al seno è una delle principali cause di morte tra le donne in tutto il mondo, e la sua rilevazione precoce è fondamentale per aumentare le possibilità di successo nel trattamento e nella sopravvivenza.
La ricerca è descritta nel Journal of Vacuum Science & Technology B, guidata dall’Università americana della Florida e dall’Università Nazionale Yang Ming Chiao Tung di Taiwan. Lo studio, che ha utilizzato la piattaforma Arduino, nata in Italia nel 2005, rappresenta un passo significativo nella lotta contro il cancro al seno. L’innovativo biosensore portatile offre un metodo non invasivo per lo screening, utilizzando semplicemente un campione di saliva anziché richiedere procedure più invasive come la mammografia. Il biosensore portatile è basato su strisce reattive di carta, tale caratteristica rende questa tecnologia potenzialmente accessibile anche in aree con risorse limitate, dove risulta difficile ottenere l’accesso a strumentazioni sofisticate per la diagnosi del cancro. La capacità di rilevare biomarcatori specifici del cancro al seno come HER2 e CA15-3 offre una maggiore precisione nella diagnosi, consentendo ai medici di identificare il tumore in modo tempestivo, iniziando rapidamente i trattamenti richiesti.
Questa ricerca offre speranza per migliorare la diagnosi precoce e ridurre il tasso di mortalità associato al tumore del seno che continua ad essere una delle principali cause di morte per le donne in tutto il mondo. L’autore dello studio, Hsiao-Hsuan Wan dell’Università della Florida, ha evidenziato che il dispositivo proposto è utilizzabile da tutto il personale medico nelle comunità o negli ospedali. La sua portabilità, delle dimensioni approssimative di una mano, lo rende facilmente trasportabile consentendone l’uso in varie situazioni. Inoltre, la capacità di riutilizzo del dispositivo lo rende economicamente vantaggioso.
Un altro punto chiave sollevato riguarda l’efficienza. Il tempo di analisi per campione è inferiore a cinque secondi, il che significa che il processo di screening può essere completato rapidamente. Questa rapidità è fondamentale per garantire che il personale medico possa effettuare screening su un gran numero di persone in tempi brevi, migliorando così la capacità dia-
Il biosensore portatile è basato su strisce reattive di carta, tale caratteristica rende questa tecnologia potenzialmente accessibile anche in aree con risorse limitate, dove risulta difficile ottenere l’accesso a strumentazioni sofisticate per la diagnosi del cancro. La capacità di rilevare biomarcatori specifici del cancro al seno come HER2 e CA15-3 offre una maggiore precisione nella diagnosi, consentendo ai medici di identificare il tumore in modo tempestivo, iniziando rapidamente i trattamenti richiesti.
gnostica e la possibilità di interventi tempestivi. Il biosensore utilizza impulsi elettrici per rilevare i biomarcatori presenti nella saliva. Questo approccio offre diversi vantaggi rispetto alle tecniche diagnostiche convenzionali come mammografie, ecografie e risonanze magnetiche. Risulta non invasivo, veloce e dai costi contenuti. Il campione di saliva è facilmente ottenibile, eliminando la necessità di procedure dolorose o invasive. Il tempo richiesto per ottenere i risultati è notevolmente ridotto rispetto alle tecniche diagnostiche tradizionali, poiché la saliva può essere facilmente raccolta e il test può essere eseguito rapidamente e i risultati possono essere disponibili in tempi molto più brevi, potenzialmente anche in pochi minuti. Il processo potrebbe essere più conveniente rispetto alle tecniche diagnostiche tradizionali, poiché richiede apparecchiature meno costose e meno specializzate.
Le dimensioni del dispositivo biosensore potrebbero rendere più accessibile la diagnosi, specialmente in contesti in cui l’accesso alle strutture mediche è limitato. Wan ha sottolineato che in molti luoghi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, tecnologie avanzate come la risonanza magnetica per i test del cancro al seno potrebbero non essere prontamente disponibili. La tecnologia sviluppata, invece, è più economica: la striscia reattiva costa solo pochi centesimi e il circuito riutilizzabile costa 5 dollari. Le strisce monouso utilizzate sono simili a quelle per la rilevazione del glucosio. Wan ha espresso entusiasmo per il potenziale impatto significativo della loro innovazione in aree dove le risorse per i test di screening del cancro al seno potrebbero essere limitate o assenti.
Il biosensore sviluppato richiede solo una goccia di saliva e può fornire risultati accurati anche con una concentrazione del biomarcatore nel campione di soli femtogrammi per (un quadrilionesimo di grammo) millilitro, un’accuratezza impressionante che potrebbe rivoluzionare i test di screening. Il biosensore ha la capacitò di distinguere chiaramente individui sani e quelli affetti da cancro. Wan e il suo team sono riusciti a creare una tecnica che potrebbe veramente aiutare molte persone in tutto il mondo, anche in luoghi dove prima le risorse per tali test erano limitate. Tuttavia, è importante sottolineare che non sarà imminente il suo utilizzo nella pratica clinica. (C. P.).
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Giornale dei Biologi | Mar 2024 31
Lo studio fornisce evidenze cruciali sul ruolo dello stress nella promozione delle metastasi del cancro attraverso la formazione di NET. L’identificazione di nuovi bersagli terapeutici associati alla formazione di NET potrebbe aprire la strada allo sviluppo di terapie più efficaci per contrastare la diffusione del cancro e migliorare l’esito clinico dei pazienti colpiti da questa devastante malattia.
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Lo stress costituisce una componente importante nella vita moderna e può avere delle implicazioni significative sulla salute umana, è un fenomeno complesso che coinvolge una serie di fattori ambientali, psicosociali e biologici.
Numerosi studi hanno evidenziato il legame tra stress cronico e lo sviluppo, nonché la progressione di diverse patologie, tra cui malattie cardiovascolari, disturbi autoimmuni e cancro. Tuttavia, nonostante il crescente l’interesse nel comprendere la relazione tra stress e cancro, rimangono in gran parte poco chiari i meccanismi molecolari sottostanti a tale interazione. Uno studio pubblicato sulla rivista Cancer Cell e guidato dal Laboratorio americano di Cold Spring Harbor ha scoperto il ruolo dei neutrofili nell’induzione di metastasi in condizioni di stress cronico.
Nello specifico è emerso che lo stress indurrebbe i neutrofili (NET) alla formazione di trappole extracellulari. I globuli bianchi, neutrofili, fanno parte del sistema immunitario e svolgono un ruolo chiave nella difesa dell’organismo dalle infezioni batteriche e fungine. Queste cellule sono prodotte nel midollo osseo e circolano nel sangue, dove possono essere reclutate nei tessuti in risposta a segnali di infezione o infiammazione. Nelle situazioni di stress le cose cambiano.
Secondo Xue Yan He, ex postdoc presso il laboratorio del professore aggiunto Makaela Egeblad del Cold Spring Herbor Laboratory, una diagnosi di cancro è inevitabile vivere una situazione di forte stress, pertanto risulta fondamentale indagare gli effetti negativi dello stress sul corpo.
Per studiare gli effetti dello stress sullo sviluppo delle metastasi del cancro, è stato utilizzato un modello di tumore al seno. I topi affetti da neoplasia mammaria sono stati sottoposti a stress cronico tramite esposizione a stimoli stressanti continuativi. Successivamente, sono stati condotti esperimenti in vivo per valutare la presenza e l’estensione delle metastasi nei polmoni dei topi stressati rispetto ai controlli non stressati. In aggiunta, sono stati eseguiti esperimenti in vitro per analizzare gli effetti dello stress sui neutrofili e la formazione di NET (Neutrophil Extracellular Traps) in risposta ai glucocorticoidi, gli ormoni dello stress. I risultati hanno evidenziato un significativo aumento delle metastasi polmonari nei topi sottoposti a stress cronico rispetto ai controlli non stressati. Le analisi istologiche hanno rivelato la presenza di NET nei tessuti polmonari dei topi stressati, suggerendo un potenziale ruolo degli stessi nella promozione delle metastasi del cancro. Inoltre, gli esperimenti in vitro hanno confer-
IL RUOLO CRUCIALE
DELLO
STRESS NELLA PROMOZIONE
DELLE METASTASI DEL CANCRO
Lo studio americano pubblicato sulla rivista Cancer Cell apre la strada a nuove prospettive terapeutiche e preventive nei pazienti oncologici
di Carmen Paradiso
32 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute
mato che i neutrofili stressati mostrano una maggiore propensione a formare Neutrophil Extracellular Traps in risposta ai glucocorticoidi rispetto ai neutrofili non stressati. Questi risultati confermano il collegamento tra lo stress cronico, la formazione di NET e lo sviluppo delle metastasi del cancro al seno.
Gli autori dello studio hanno testato sia la rimozione dei neutrofili dai topi e sia la somministrazione di un farmaco che distrugge le reti formate da questi globuli bianchi: “Rimuovendo i neutrofili dall’equazione”, ha dichiarato He, “i topi stressati non sviluppavano più metastasi”.
Inoltre, si è visto come lo stress causi danni anche in assenza di tumori. Nei topi sani, ha indotto comunque i neutrofili a costruire le loro reti appiccicose: “È come se si stessero preparando i tessuti ad accogliere il cancro”, spiega Mikala Egeblad (ora all’Università Johns Hopkins), che ha coordinato lo studio insieme a Linda Van Aelst. Secondo i ricercatori, dunque, l’implicazione è chiara, sebbene sorprendente: “La riduzione dello stress”, afferma Van Aelst, “dovrebbe essere una componente fondamentale del trattamento e della prevenzione del cancro”.
Inoltre, poiché lo stress è una componente inevitabile nella vita di molti pazienti oncologici, gestirlo potrebbe diventare un’importante strategia complementare nel trattamento e nella prevenzione delle metastasi del cancro. Ciò potrebbe implicare l’integrazione di pratiche di gestione dello stress, come la meditazione, la terapia cognitivo-comportamentale, l’esercizio fisico e altre tecniche,
nei protocolli di trattamento standard per i pazienti oncologici. Questo approccio potrebbe non solo migliorare il benessere generale dei pazienti, ma anche avere un impatto positivo sul loro outcome oncologico.
In conclusione, questo studio fornisce evidenze cruciali sul ruolo dello stress nella promozione delle metastasi del cancro attraverso la formazione di NET. L’identificazione di nuovi bersagli terapeutici associati alla formazione di NET potrebbe aprire la strada allo sviluppo di terapie più efficaci per contrastare la diffusione del cancro e migliorare l’esito clinico dei pazienti colpiti da questa devastante malattia. Ulteriori ricerche sono necessarie per approfondire la comprensione dei meccanismi sottostanti e per tradurre queste scoperte in nuove strategie terapeutiche applicabili nella pratica clinica.
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Salute
MALATTIE RARE COSÌ L’EREDITÀ È SOTTO CONTROLLO E SI ALLONTANANO I RISCHI
L’indagine genetica e la successiva sorveglianza per la poliposi adenomatosa familiare e la sindrome di Lynch sono le “armi” migliori al momento per prevenire lo sviluppo di alcuni tumori
di Elisabetta Gramolini
Per alcune malattie occorre giocare d’anticipo e affidarsi ai centri di riferimento. È il caso della poliposi adenomatosa familiare e della sindrome di Lynch, due malattie rare ed ereditarie che aumentano il rischio di cancro al colon-retto in età giovanile. Per la diagnosi e per la strategia terapeutica da seguire sono necessari degli strumenti innovativi di medicina di precisione, come i sofisticati test genetici sul sangue che individuano le specifiche mutazioni all’origine della malattia. Tali test biomolecolari vengono eseguiti solo in centri di riferimento accreditati, altamente specializzati, e offrono la possibilità di intraprendere un percorso assistenziale personalizzato prima della comparsa del tumore o di metastasi a distanza.
«Nel nostro ambulatorio sono stati presi in carico 390 pazienti con sindrome di Lynch e 250 pazienti con poliposi adenomatosa familiare, ma seguiamo anche tutte le altre forme di poliposi, quali la poliposi giovanile, le poliposi multiple, la poliposi serrata, la sindrome di Peutz Jeghers, i tumori familiari del colon, i tumori familiari o sospetti ereditari dello
stomaco e del pancreas. Al momento sono in follow-up circa 700 pazienti tra affetti e portatori», dichiara Vittoria Stigliano, responsabile della Gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell’Istituto nazionale Regina Elena e referente malattie rare dell’Ifo di Roma, dove è attivo un ambulatorio riservato ai tumori ereditari dell’apparato digerente da oltre 40 anni e dal 2005 è centro di riferimento regionale nell’ambito della Rete nazionale delle malattie rare.
34 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute
La poliposi adenomatosa familiare è caratterizzata dalla presenza di una serie di polipi benigni nel colon-retto che in genere compaiono tra i dieci e i 25 anni di età e nell’arco di dieci anni possono trasformarsi in tumore. La malattia è causata da una mutazione genetica a carico del gene Apc e per forme ancora più rare dalla mutazione del gene Mutyh. La malattia vie-
ne ereditata da uno dei genitori: le persone affette hanno il 50% di probabilità di trasmetterla a ciascuno dei propri figli per i pazienti portatori di mutazione del gene Apc. I pazienti con mutazione del gene Mutyh ereditano invece da entrambi i genitori. La colonscopia consente di riconoscere la presenza di decine, centinaia di polipi a carico del colon e del retto, ma la conferma diagnostica si ottiene dopo il test genetico. Se la mutazione del gene viene identificata, come nella maggioranza dei casi, il team medico invita a estendere il test a tutti i familiari di primo grado, al fine di identificare i portatori della malattia che potranno seguire un programma di screening e successivamente di sorveglianza.
Per quanto riguarda la sindrome di Lynch, invece, questa è determinata da una mutazione a carico dei geni del mismatch repair, i riparatori del Dna, che predispone a sviluppare i tumori in vari organi, in particolare al colon-retto e all’endometrio (solo con frequenza inferiore allo stomaco, ovaio, reni, intestino tenue, pancreas, vie biliari, mammella e prostata). I campanelli d’allarme sono una storia familiare positiva per cancro del colon-retto, altri tumori dello spettro della sindrome, cancro del colon-retto o dell’endometrio in età inferiore ai 40 anni, sviluppo di tumori primitivi multipli a carico del colon. I criteri clinici utilizzati per selezionare i soggetti da sottoporre allo screening consentono di identificare circa un terzo dei pazienti affetti dalla sindrome.
«I percorsi di screening per queste rare sindromi offrono una opportunità di prevenzione da sostenere, ampliare e diffondere al fine di effettuare una diagnostica precoce e intraprendere un percorso assistenziale personalizzato. In tal senso la Regione Lazio, adeguandosi anche al Piano nazionale oncologico, sta valutando la fattibilità di un percorso strutturato nell’ambito dello screening su popolazione generale», spiega Stigliano che ricorda come all’Istituto nazionale Regina Elena si effettua da tempo lo “screening universale” per la sindrome di Lynch, tutti i pazienti operati di tumore al colon-retto o all’endometrio siano sottoposti a un test molecolare sul pezzo operatorio e, in caso di esito positivo, sia eseguito il test genetico sul sangue.
Per la prima volta al mondo, è nato a Roma, grazie alla fecondazione in vitro e alla diagnosi genetica preimpianto, un bambino sano da una donna affetta dalla sindrome di Lynch. «Un risultato straordinario, che ci inorgoglisce e dimostra la validità di queste tecniche d’intervento nel contrastare gli effetti e le conseguenze negative dei tumori ereditari», afferma Ermanno Greco, presidente della Società italiana della riproduzione e professore di ostetricia e ginecologia all’Università UniCamillus di Roma. Secondo il docente «in attesa di una terapia genica non ancora presente, la fecondazione in vitro e, in particolare, la diagnosi genetica preimpianto sono strumenti scientificamente certi per non trasmettere la malattia ai figli».
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Salute
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MICRO E NANOPLASTICHE TROVATE ANCHE NELLE PLACCHE ATEROSCLEROTICHE
Uno studio italiano pubblicato sulla rivista “The New England journal of medicine” ha identificato per la prima volta la presenza delle particelle nelle arterie che raddoppiano il rischio infarto
di Elisabetta Gramolini
Salute
Dopo averle trovate in diversi organi e tessuti umani, uno studio italiano, coordinato da ricercatori dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e pubblicato sulla rivista “The New England journal of medicine”, ha rivelato per la prima volta la presenza di nano e microplastiche nelle placche aterosclerotiche, cioè nei depositi di grasso collocati nelle arterie del cuore. I dati mostrano che le particelle di polietilene (PE) e polivinilcloruro (PVC), due dei composti plastici di maggior consumo nel mondo, infiammano le placche, aumentando di almeno due volte il rischio di infarti e ictus rispetto a quelle che risultano prive.
L’indagine è stata condotta su 257 pazienti con oltre 65 anni, sottoposti ad endoarterectomia per stenosi carotidea asintomatica, durante la quale sono state rimosse placche aterosclerotiche, in seguito analizzate al microscopio elettronico, al fine di rilevare l’eventuale presenza di micro e nanoplastiche. «L’analisi - spiega Giuseppe Paolisso, coordinatore dello studio e ordinario di medicina interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” - ha dimostrato la presenza di particelle di polietilene (PE) a livelli misurabili (circa 20 microgrammi per milligrammo di placca) nel 58,4% dei pazienti e di particelle di polivinilcloruro o PVC (in media 5 microgrammi per milligrammo di placca) nel 12,5%; tutti i partecipanti sono stati seguiti per circa 34 mesi e si è osservato che in coloro che avevano placche ‘inquinate’ dalle plastiche il rischio di infarti, ictus o
di mortalità per tutte le cause era almeno raddoppiato rispetto a chi non aveva placche aterosclerotiche contenenti micro e nanoplastiche, indipendentemente da altri fattori di rischio cardio-cerebrovascolari come età, sesso, fumo, indice di massa corporea, valori di colesterolo, pressione e glicemia o precedenti eventi cardiovascolari. I dati mostrano - aggiunge - un incremento locale significativo di marcatori dell’infiammazione in presenza delle micro e nanoplastiche». L’effetto infiammatorio potrebbe essere uno dei motivi per cui le micro e nanoplastiche comportano una maggiore instabilità delle placche e quindi un maggior rischio che si rompano, dando luogo a trombi e provocando così infarti o ictus. «Dati raccolti in vitro e negli animali da esperimento - afferma Raffaele Marfella, ideatore dello studio e ordinario di medicina interna dello stesso ateneo - hanno già mostrato che le micro e nanoplastiche possono promuovere lo stress ossidativo e l’infiammazione nelle cellule dell’endotelio che ricopre i vasi sanguigni, ma anche che possono alterare il ritmo cardiaco e contribuire allo sviluppo di fibrosi e alterazioni della funzionalità del cuore: questi risultati mostrano per la prima volta nell’uomo una correlazione fra la presenza di micro e nanoplastiche e un maggior rischio cardiovascolare».
Lo studio italiano è accompagnato da un editoriale pubblicato sulla stessa rivista scientifica, a firma dell’epidemiologo Philip J. Landrigan, fondatore e direttore del Global public health program del Boston College. «Il primo passo - scrive Landrigan - è riconoscere che il basso costo e la convenienza della plastica sono ingannevoli e che, di fatto, nascondono grandi danni, come il contributo della plastica agli esiti associati alla placca aterosclerotica. Dobbiamo incoraggiare i nostri pazienti a ridurre l’uso della plastica, in particolare degli articoli monouso non necessari e sostenere il Trattato globale sulla plastica delle Nazioni Unite per rendere obbligatorio un tetto globale alla produzione di plastica. Come per i cambiamenti climatici - conclude -, anche la risoluzione dei problemi associati alla plastica richiederà una transizione su larga scala dal carbonio fossile».
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PLASTICHE, CRESCONO I DANNI SULL’UOMO
Nuove evidenze di nanoplastiche e microplastiche nei tessuti umani che aumenterebbero il rischio di infarti e ictus
Grazie a uno studio dell’Università della Campania “Vanvitelli”, in collaborazione con vari enti di ricerca, tra cui l’Harvard Medical School, di Boston, l’IRCSS Multimedica di Milano, le Università di Ancona e La Sapienza di Roma, di Salerno e l’IRCSS INRCA di Ancona, è stata portata alla luce una scoperta che è stata definita rivoluzionaria in un editoriale del The New England Journal of Medicine: «Anche se non sappiamo quali siano le altre esposizioni che potrebbero aver contribuito agli esiti negativi tra i pazienti in questo studio, la rilevazione della presenza di micropla-
stiche e nanoplastiche nel tessuto della placca aterosclerotica è di per sé una scoperta rivoluzionaria che solleva una serie di domande urgenti».
I risultati dimostrano per la prima volta la presenza di un mix di inquinanti nelle placche arteriosclerotiche e oltre a questo hanno provato la loro pericolosità, poiché le placche inquinate sono più infiammate e quindi aumentano di oltre 2 volte il rischio di infarti e ictus rispetto a chi ha placche non inquinate.
Per 34 mesi sono stati seguiti 257 over 65 dopo un intervento di endoarterectomia alle carotidi, procedura chirurgica per rimuovere le placche che
occludono i vasi, poi osservate al microscopio per valutarvi la presenza di nanoplastiche. Grazie a queste analisi sono giunti a nuove scoperte, come ha dichiarato Giuseppe Paolisso, coordinatore dello studio e ordinario di Medicina Interna alla Vanvitelli: «ha dimostrato la presenza di particelle di PE polietilene a livelli misurabili nel 58.4% dei pazienti e di particelle di PVC nel 12.5%». Questi composti plastici sono quelli di maggior consumo, volti a formare contenitori, rivestimenti, materiali per l’edilizia e pellicole.
Una domanda che sorge spontanea è: come riusciamo a ridurre l’esposizione al rischio cardiovascolare? L’ epidemiologo Philip J. Landrigan, direttore del Global Public Health Program del Boston College, ritiene che «Il primo passo è riconoscere che il basso costo della plastica è ingannevole e che, di fatto, nasconde grandi danni, come il contributo della plastica agli esiti associati alla placca aterosclerotica. Dobbiamo incoraggiare i nostri pazienti a ridurre l’uso della plastica e sostenere il Trattato Globale sulla Plastica delle Nazioni Unite per rendere obbligatorio un tetto globale alla produzione»
L’aumento della produzione di plastica è sempre più nocivo per la nostra salute. Si pensi che nel mondo dal 1950 a oggi la produzione annuale è passata da 2 milioni di tonnellate a 400 milioni. Secondo il rapporto di Future Brief della Commissione Europea, ogni anno un adulto inala dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche, cioè 5 grammi di plastica alla settimana. Principalmente, come ha anche puntualizzato Antonio Ceriello dell’IRCSS Multimedica di Milano, le particelle che con maggiore probabilità penetrano nei tessuti sono quelle più piccole. Recentemente, però, sono state rinvenute anche di maggiori dimensioni.
«La qualità di questo studio dimostra - ha ribadito Gianfranco Nicoletti, il rettore dell’Università Vanvitelli - quanto la nostra Università sia cresciuta e che grandi potenzialità di sviluppo essa ha nel prossimo futuro».
38 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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di Eleonora Caruso
Genova,
ALIMENTAZIONE, AMBIENTE E SICUREZZA NUTRIZIONALE
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24 aprile 2024
SCOPERTO IL POSSIBILE
LEGAME TRA SINUSITE
E MALATTIE REUMATICHE
Secondo la ricerca degli scienziati della Mayo Clinic su oltre 1.700 pazienti, chi soffre di sinusite ha il 40% in più di possibilità di sviluppare malattie reumatiche
40 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute © Emily frost/shutterstock.com
Da un nuovo studio emerge che chi soffre di sinusite corre rischi maggiori di sviluppare malattie reumatiche. Ma procediamo con ordine e partiamo proprio dalla sinusite, un’infiammazione dei seni paranasali dovuta a infezioni virali, batteriche o fungine o a reazioni allergiche. Tra i sintomi più comuni ostruzione e congestione nasale, rinorrea purulenta, dolore o pressione facciale. Talvolta si palesano anche mal di testa e febbre. È piuttosto comune, tanto è vero che colpisce il 7% della popolazione italiana. Ma si tratta di un dato destinato a peggiorare nel tempo a causa dell’inquinamento e dell’aumento della resistenza degli antibiotici. In realtà già ora è considerata una complicanza anche piuttosto frequente delle malattie da raffreddamento, tant’è che si stima che nel 90% dei casi di raffreddore ci sia un interessamento sinusitico.
La sinusite è un qualcosa che si può prevenire mettendo in atto una serie di buone abitudini. La prima è naturalmente evitare il fumo, che spesso si associa alla forma cronica della patologia. Un valido aiuto lo forniscono una dieta equilibrata, ricca di frutta e verdura, e il praticare attività fisica. Bisogna allo stesso tempo mantenere il giusto grado di umidità e una corretta igiene del naso attraverso l’utilizzo di decongestionanti. Ma che cosa può causare a lungo termine la sinusite? Si parla di un rischio del 40% più elevato di sperimentare malattie reumatiche per le persone che ne soffrono.
A sostenerlo è stato uno studio pubblicato sulla rivista Rheumatic and Musculoskeletal Diseases Open e condotto dagli esperti di Mayo Clinic. Il team, guidato da Cindy Crowson e Vanessa Kronzer, ha utilizzato i dati del Rochester Epidemiology Project (REP), un sistema di collegamento delle cartelle cliniche di oltre 500mila residenti nella contea di Olmsted, nel Minnesota. L’indagine è stata condotta tra il 1966 e il 2014 su un campione di 1.729 adulti a cui era stata diagnosticata una malattia reumatica autoimmune sistemica. I ricercatori hanno tenuto conto di fattori potenzialmente influenti, come l’età, il genere, il peso corporeo, la provenienza e l’etnia. Il tempo medio trascorso tra un episodio di sinusite e la diagnosi di malattia reumatica è stato di poco più di 7,5 anni, con l’artrite reumatoide riportata come la patologia più
Possiamo distinguere due tipi di sinusite: acuta e cronica. Nel primo caso il tutto si può risolvere spontaneamente con l’utilizzo di un antinfiammatorio in caso di dolore e di un antipiretico, se accompagnata pure da febbre. Qualora la patologia sia invece di natura allergica, la terapia può prevedere corticosteroidi o antistaminici. Particolarmente utili, inoltre, si rivelano i lavaggi nasali con soluzioni isotoniche o ipertoniche.
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comune. Complessivamente, secondo quanto rivelato dagli autori della ricerca, l’associazione tra sinusite e malattia reumatica era più forte nelle persone che non avevano mai fumato. Non è stato possibile stabilire quale sia la causa di questa correlazione, data la natura prettamente osservativa dell’analisi portata avanti dal team. Ecco perché sarà interessante avviare nuove indagini che consentano di allargare il campione da analizzare. «Gli agenti patogeni batterici come quelli coinvolti nella sinusite potrebbero avere un ruolo nelle malattie reumatiche - spiegano gli scienziati -. Inoltre, la sinusite è associata ad un’accelerazione dell’indurimento delle arterie, dando ulteriore peso ai suoi potenziali effetti infiammatori. Tirando le somme, questi risultati indicano un ruolo dell’infiammazione dei seni nella presentazione, e forse nella patogenesi, della malattia reumatica. Speriamo di rispondere presto agli interrogativi ancora irrisolti». Un ulteriore limite della ricerca, evidenziato anche da chi l’ha condotta, è nella popolazione prevalentemente bianca presa in esame e i pochi casi di alcuni tipi di malattie reumatiche. Allo stesso modo non si può escludere un nesso causale inverso, per cui le stesse malattie reumatiche aumentano il rischio di sinusite. Insomma, c’è ancora molto da comprendere e da studiare. Quello che è certo è che la sinusite va combattuta adeguatamente anche per evitare potenziali rischi o complicazioni. L’eventuale ristagno può infatti favorire lo sviluppo e la replicazione di microrganismi patogeni che dal naso o dalla gola sono in grado di raggiungere i seni paranasali: in questi casi all’infiammazione si sovrappone l’infezione. Tra le altre complicanze da citare ascesso o cellulite orbitaria, trombosi del seno venoso cerebrale, osteomielite. Non è pertanto da prendere sottogamba, ma, anzi, da affrontare con l’ausilio di uno specialista che ne possa individuare la forma per poi applicare la terapia più adeguata alla risoluzione. Esistono anche dei casi, da considerare più estremi, nei quali diventa necessario un intervento chirurgico per allargare le aperture che permettono il drenaggio dei seni nasali. Questa è un’opzione che viene valutata in due casi particolari: elevata frequenza d’infezione e scarsa risposta alle altre terapie disponibili. (D. E.).
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La scoperta potrebbe portare «a ritardare o prevenire le malattie neurologiche, tra cui l’Alzheimer e il morbo di Parkinson, patologie in cui i rifiuti in eccesso - quali sono i rifiuti metabolici e le proteine spazzatura - si accumulano nel cervello e portano alla neurodegenerazione.
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L’uomo e il rapporto con il sonno. Talvolta desiderato, in altre occasioni detestato, in alcuni momenti ricercato con disperazione. Da giovani, magari, si cerca di riposare il meno possibile, perché una sana dormita viene a volte interpretata come una perdita di tempo. Al contrario, da adulti, si inizia ad apprezzarne l’effetto rigenerante, soprattutto dopo una faticosa e stressante giornata di lavoro. Se il sonno è sinonimo di relax, dovete sapere che in realtà, mentre si dorme, nel cervello si registra un’attività frenetica. Questo perché le cellule cerebrali producono esplosioni di impulsi elettrici che si accumulano in onde ritmiche.
Secondo gli scienziati della Washington University School of Medicine di St. Louis il loro intenso lavoro aiuterebbe a eliminare le scorie dal cervello. Le singole cellule nervose si coordinano per produrre onde ritmiche che spingono il fluido attraverso il tessuto cerebrale denso, lavandolo nel processo. Che cosa accade di preciso lo ha spiegato Li-Feng JiangXi, il primo autore dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature. «Questi neuroni sono pompe in miniatura. L’attività neuronale sincronizzata alimenta il flusso dei fluidi e la rimozione dei detriti dal cervello». La scoperta potrebbe portare «a ritardare o prevenire le malattie neurologiche, tra cui l’Alzheimer e il morbo di Parkinson, patologie in cui i rifiuti in eccesso - quali sono i rifiuti metabolici e le proteine spazzatura - si accumulano nel cervello e portano alla neurodegenerazione».
Le cellule cerebrali gestiscono i pensieri, i sentimenti e anche i movimenti del corpo, oltre a creare reti dinamiche essenziali per la formazione della memoria e la risoluzione dei problemi. Si tratta di compiti dall’elevato dispendio energetico per il quale diventa necessario del carburante. Il loro consumo di nutrienti dalla dieta crea rifiuti metabolici nel processo. A fornire qualche elemento in più per comprendere a fondo la rilevanza dello studio è Jonathan Kipnis, professore di patologia e immunologia, autore senior dell’articolo: «È fondamentale che il cervello smaltisca questi rifiuti metabolici, che possono accumularsi e contribuire alle malattie neurodegenerative. Sapevamo che il sonno è un momento in cui il cervello avvia un processo di pulizia per eliminare i rifiuti e le tossine che
accumula durante la veglia. Ma non sapevamo come ciò accade. Questi risultati potrebbero essere in grado di indicarci strategie e potenziali terapie per accelerare la rimozione dei rifiuti dannosi e rimuoverli prima che possano portare a conseguenze disastrose». Pulire il cervello non è affatto un compito semplice. Il liquido cerebrospinale che circonda il cervello si muove attraverso un’intricata rete di cellule, raccogliendo i rifiuti tossici. Quando lascia il cervello, il fluido contaminato deve passare attraverso una barriera prima di fluire nei vasi linfatici della dura madre, lo strato esterno di tessuto che circonda il cervello sotto il cranio. Ma che cosa facilita il movimento del fluido dentro e fuori dal cervello? Dopo aver studiato il cervello di topi addormentati, i ricercatori hanno scoperto che sono i neuroni a guidare il processo di pulizia inviando segnali elettrici coordinati per generare onde ritmiche nel cervello. Il team ha silenziato alcune aree del cervello in modo che i neuroni in esse presenti non generassero onde ritmiche. I risultati hanno mostrato che senza queste onde, il liquido cerebrospinale fresco non poteva fluire attraverso le regioni cerebrali silenziate e i prodotti di scarto intrappolati non potevano lasciare il tessuto cerebrale. «Uno dei motivi per cui dormiamo è per purificare il cervello - continua Kipnis -. Se riusciamo a migliorare questo processo,
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Salute
forse è possibile dormire di meno e rimanere in salute. Non tutti hanno il vantaggio di dormire otto ore ogni notte e la perdita del sonno ha un impatto sulla salute. Altri studi hanno dimostrato che i topi geneticamente programmati per dormire meno hanno un cervello sano, probabilmente perché puliscono i rifiuti dal loro cervello in modo più efficiente.
Ecco: potremmo aiutare le persone che soffrono d’insonnia migliorando le capacità di pulizia del loro cervello». Ciò che ora i ricercatori sono chiamati a chiarire è perché i neuroni emettono onde con ritmici -
tà variabile durante il sonno e quali regioni del cervello sono più vulnerabili all’accumulo di scorie. Jiang-Xie paragona la pulizia del cervello al lavaggio dei piatti: «Si inizia, ad esempio, con un movimento ampio, lento e ritmico per pulire i rifiuti solubili schizzati sul piatto. Successivamente si diminuisce l’ampiezza del movimento e si aumenta la velocità di questi movimenti per rimuovere i residui di cibo particolarmente appiccicosi. Nonostante la diversa ampiezza e ritmo dei movimenti delle mani, l’obiettivo generale rimane lo stesso: rimuovere diversi tipi di rifiuti dalle stoviglie. Forse, dunque, il cervello adatta il suo metodo di pulizia a seconda del tipo e della quantità di rifiuti».
Quando
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CI
IL CERVELLO VA PULITO
PENSANO I NEURONI SPAZZINI DURANTE IL SONNO
per via dei neuroni
malattie neurologiche di Domenico Esposito
si dorme nel cervello si registra un’attività frenetica
che rimuovono i detriti: il possibile impatto della scoperta sulle
OBESITÀ IN AUMENTO: L’ALLARME È MONDIALE
I dati Oms pubblicati su The Lancet sono chiari: le persone che convivono con la patologia sono più di un miliardo
Èsempre più allarme obesità. I numeri sono in costante aumento e non lasciano ben sperare riguardo al futuro. Urge un cambio di rotta, come avvisa da tempo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e anche in base a quanto emerge dall’analisi globale che è stata di recente pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet e che fa riferimento ai dati del 2022. Pensate: più di un miliardo di persone convive con l’obesità.
In pratica, una persona su otto. Entrando nel dettaglio, gli adulti obesi sono 879 milioni; 159, invece,
i bambini e gli adolescenti affetti da questa patologia che può comportare gravi ripercussioni sulla salute. Il confronto col recente passato è impietoso e deve spingere a riflettere sul fatto che non c’è più tempo da perdere. Già, perché rispetto al 1990 i casi di obesità tra gli adulti sono raddoppiati, mentre quelli che riguardano bambini e adolescenti e quindi la fascia d’età compresa dai cinque ai 19 anni risulta addirittura quadruplicata.
C’è poi un altro aspetto di cui tener conto e assolutamente da non prendere sottogamba: se si fa riferimento al
sovrappeso, dunque, non all’obesità che rappresenta uno stadio successivo, il numero degli adulti chiamati in causa sale a 2,5 miliardi. L’emergenza è su scala globale. Investe ogni angolo del pianeta. Due i luoghi dove la situazione si rivela particolarmente grave, come rivelato dall’OMS: il sud-est asiatico e l’Africa sub-sahariana. Per quanto riguarda l’Europa e nel dettaglio l’Italia c’è poco da stare allegri. Se la Germania è il Paese del Vecchio Continente dove si registra il tasso di obesità più elevato (19%), lo Stivale è appena giù dal poco invidiabile podio dietro a Spagna e Francia con l’11,7%. Dati che devono spingere a una seria riflessione sulle iniziative da intraprendere. Sì, perché nel 2019 un BMI (indice di massa corporea) superiore a quello ottimale ha causato circa cinque milioni di decessi per malattie non trasmissibili come malattie cardiovascolari, diabete, tumori, disturbi neurologici, malattie respiratorie croniche e disturbi digestivi.
Il sovrappeso nell’infanzia e nell’adolescenza, invece, è associato a un rischio maggiore e a un’insorgenza precoce di varie malattie come il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari, oltre ad avere conseguenze psicosociali negative, ricorda l’Oms. «Questo nuovo studio - ha sottolineato il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus - mette in risalto l’assoluta importanza di prevenire e gestire l’obesità, a partire dalla prima infanzia e fino all’età adulta. Come riuscirci? Attraverso una dieta corretta, l’attività fisica e anche cure adeguate». In occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità del 2022, gli Stati membri hanno approvato il piano di accelerazione dell’OMS per fermare l’obesità che, come la denutrizione, rientra nella schiera della malnutrizione e, in quanto tale, va fronteggiato attraverso interventi concreti e mirati. Perché non c’è più tempo da perdere. (D. E.).
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Scoprire un tumore o una patologia neurodegenerativa grazie a un test antigenico. In soli venti minuti. È l’ambizioso progetto cui stanno lavorando tre ricercatori dell’Università di Bari (Luisa Torsi, Eleonora Macchia e Gaetano Scamarcio) e un collega dell’Università di Brescia (Fabrizio Torricelli). Si arrivasse alla commercializzazione, sarebbe una vera e propria rivoluzione, perché il dispositivo su cui stanno lavorando - da tempo - gli scienziati italiani potrebbe consentire screening di massa e, dunque, scovare eventuali patologie in chi non presenta alcun sintomo.
In un’intervista a La Repubblica Luisa Torsi, presidente del Centro di Innovazione Regionale Single-Molecule Digital Assay e docente di Chimica dell’Università di Bari Aldo Moro, ha rivelato che «dal 2016 stiamo studiando questo dispositivo antigenico che offre le stesse prestazioni di un molecolare, con uguale sensibilità e affidabilità». Le speranze sono alte e fondate. «Lo abbiamo provato sul Covid, sulla Xylella e anche sul tumore del pancreas, in collaborazione con patologi di Düsseldorf. E i risultati sono stati pazzeschi». Come pazzesca è l’idea avuta dai ricercatori del Belpaese, che, grazie a intuito e competenza, potrebbero presto fornire un aiuto prezioso nella lotta ai tumori.
Del resto, il cancro è una patologia in costante crescita in ogni angolo del globo e, come più volte sottolineato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, una delle principali cause di morte nel mondo. Ecco, quindi, che la prevenzione diventa un’arma fondamentale, perché il tempismo è una delle condizioni necessarie per rendere la malattia una nemica meno spaventosa. «Il dispositivo, in una goccia di un fluido, riesce ad analizzare una sola molecola sia di un marcatore antigenico, come una proteina, sia di un marcatore come il Dna. Nessun altro riesce a farlo nello stesso momen-
UN TEST ANTIGENICO PER SCOPRIRE I TUMORI
Possibile svolta nella lotta al cancro grazie a un dispositivo sviluppato a Bari e ora in fase di sperimentazione
to» sottolinea Torsi. Un contributo importante è arrivato dalla Regione Puglia, che ha finanziato il progetto, entrato in una fase sperimentale dalla durata di circa un anno e mezzo presso l’unità operativa di ginecologia oncologica clinicizzata dell’Istituto Tumori di Bari, diretta dal professor Gennaro Cormio.
In questo arco di tempo saranno coinvolti cinquanta pazienti, sottoposti a 1.500 rilevazioni di campioni di sangue, plasma e urine. La sperimentazione permetterà di validare le prestazioni analitiche del dispositivo denominato SiMoT che, poi, potrà essere
utilizzato per verificare la presenza di marcatori dei tumori ginecologici nei campioni biologici delle pazienti. «Un progetto che ci proietta nel futuro e che ci permette di realizzare appieno una parte importante della mission di questo Istituto: l’innovazione tecnologica a servizio degli screening di massa che ci consentirà di intervenire prima dell’insorgere della malattia, con immediate e significative ricadute sulla qualità di vita dei pazienti e sulle risorse del sistema sanitario nazionale» ha commentato il direttore generale dell’Istituto Tumori di Bari, Alessandro Delle Donne. (D. E.).
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DIIDROSSIACETONE (DHA) E AUTOABBRONZANTI
Prestazioni, tolleranza, debole tossicità e assenza di sostanze concorrenti spiegano la sua longevità tra i cosmetici, nonostante il suo aspetto innovativo di Carla Cimmino
46 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Salute © Beauty Stock/shutterstock.com
Il d.Lgs del 21 maggio 2011, n.110, ha vietato l’uso di lampade solari ai minori di diciotto anni, alle donne in gravidanza, a tutti quelli che soffrono o hanno sofferto di tumori cutanei. Inoltre, sono state introdotte delle limitazioni anche per la potenza massima sviluppata e per i tempi di esposizione.
Tutto ciò ha ridotto fortemente l’uso di lampade, e nello stesso tempo ha fatto aumentare l’impiego di autoabbronzanti, i quali presentano sostanze chimiche come il diidrossiacetone (DHA), capace di creare una molecola colorata che si lega con la cheratina cutanea. L’autoabbronzante induce una colorazione cutanea, che somiglia all’abbronzatura ma che non è l’abbronzatura.
Sono disponibili diverse metodologie per colorare la pelle, ma si tratta comunque di una colorazione superficiale che non interessa solo la pelle, ma che può essere più o meno permanente. I coloranti diretti sono ormai in uso da tempo, infatti, la cheratina contenuta nell’epidermide è recettiva a un’elevata quantità di sostanze coloranti, spesso queste sono di origine vegetale.
Il DHA è alla base dei prodotti destinati all’autoabbronzatura, infatti è necessario, che nelle formulazioni con questo obiettivo vengano rimossi gli ingredienti capaci di combinarsi al DHA, aminoacidi, proteine, peptidi, sali di ammonio e trietanolamina, ed il pH delle preparazioni deve essere mantenuto a circa 5, senza che questa acidità possa provocare fenomeni di irritazione. Negli ultimi anni in alcuni studi di tossicità valutati dal Scientific Commitee on Consumer Safety (SCCS) è emerso che il DHA è privo di tossicità, sia dermatologica che sistemica, e che la dose letale media (DL50) per via orale è di 16 g/kg. Inoltre, si è visto che la tossicità sistemica dopo l’ingestione di dosi (1000 mg/kg al giorno) ripetute per 90 giorni nel ratto non causa alcun danno. Infine non è stata rilevata la concentrazione media letale (LC50) per inalazione nei ratti è di 5 mg/quarto d’ora.
La direttiva europea raccomanda di limitare al 10% la concentrazione del DHA nelle creme e nei latti autoabbronzanti, con aggiunta di ulteriori restrizioni: evitare ina -
Sono disponibili diverse metodologie per colorare la pelle, ma si tratta comunque di una colorazione superficiale che non interessa solo la pelle, ma che può essere più o meno permanente. I coloranti diretti sono ormai in uso da tempo, infatti, la cheratina contenuta nell’epidermide è recettiva a un’elevata quantità di sostanze coloranti, spesso queste sono di origine vegetale.
lazione, ingestione, applicazione su mucosa (labbra, naso), al di sopra dell’occhio. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (FDA) ha accettato il DHA come colorante (21 CFR § 73.2150) per uso esterno solo nei farmaci e in alcuni cosmetici.
Il Comité de liaison pour la parfumerie (COLIPA) approva l’uso di DHA in creme per il viso e lozioni per il corpo con concentrazione fino al 10%, gestita a seconda del tipo di pelle, e cioè: 3-5% per le pelli chiare (tipi I-II), 5-10% per le pelli scure (fototipi III-IV) e 1-2% nei prodotti di cura. Tuttavia, il centro tossicologico danese ha riferito che alcuni spray per il corpo contenevano circa il 14% di DHA, discostandosi dalla percentuale consentita. Da alcuni studi ancora inattesa di conferma è emerso che il DHA avrebbe la proprietà interessante di agire sui dermatofiti e Candida spp, in una concentrazione di 1,6-50 mg/ml.
È stato scoperto che i Melanotan 1 e 2 sono sostanze biomimetiche del melanocyte stimulating hormone (MSH), che stimolano la melanogenesi e, quindi, la pigmentazione della cute, che può, svilupparsi senza l’azione eccitante del sole, questo potrebbe portare a classificarli nella categoria degli abbronzanti artificiali.
Attualmente, però, non sono dei prodotti cosmetici, poiché sono somministrati per via parenterale o tramite impianti sottocutanei. In conclusione, gli autoabbronzanti non sono dannosi, non comportano alcun coinvolgimento della melanina, e non stimolano la melanogenesi.
L’unico aspetto sfavorevole è che, essendo la reazione superficiale, in cui è coinvolta la cheratina in fase di esfoliazione, la pigmentazione cutanea ha durata molto breve. Per aumentarla è consigliabile utilizzare il gommage meccanicamente, prima di applicare qualsiasi prodotto autoabbronzante. Nonostante ci siano delle alternative, il Diidrossiacetone (DHA) resta attualmente ancora l’unica opzione valida per un’abbronzatura artificiale.
Le sue prestazioni, la sua buona tolleranza, la sua debole tossicità e l’assenza di sostanze concorrenti spiegano la sua longevità tra i cosmetici, nonostante il suo aspetto innovativo.
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L’alopecia androgenetica (AGA), è la più comune forma di diradamento che colpisce sia uomini che donne. Nella popolazione maschile prende a volte il nome di MAGA (Male AGA) e mostra tipicamente unità follicolari (HF) e capelli più miniaturizzati soprattutto nella zona del vertice e sulle tempie. Nelle donne invece, il diradamento si manifesta maggiormente nella zona centrale del cuoio capelluto, in aggiunta alle zone del frontale e dei parietali, e prende il nome di FAGA (Female AGA) o FPHL (female pattern hair loss). La FPHL è multifattoriale e contribuiscono al fenotipo sia i meccanismi androgeno-dipendenti che androgeno-indipendenti. A livello genetico esistono due principali loci di rischio in
MAGA (il locus AR/EDA2R del cromosoma X e il locus del cromosoma 20p11), mentre alcuni studi hanno mostrato associazioni tra FPHL e SNP specifici come i geni CYP19A1 e ESR2. A livello ormonale il DHT, l’androgeno con maggiore affinità ai recettori AR, è la principale causa di AGA e la sua inibizione è il trattamento più diffuso per MAGA, ma ha dato risultati meno coerenti nel trattamento di FPHL. A causa delle poche conoscenze ormonali e genetiche nel differenziare l’AGA nei due sessi, assume una
2024 Jan 8. doi:
Salute
Kamishima T, Hirabe C, Myint KZY, Taguchi J. Divergent progression pathways in male androgenetic alopecia and female pattern hair loss: Trichoscopic perspectives. J Cosmet Dermatol.
10.1111/ jocd.16177. Epub ahead of print. PMID: 38189587.
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grande importanza in dermatoscopia evidenziare caratteristiche tricoscopiche tra MAGA e FPHL. La tricoscopia differenziale fra i due sessi è stata l’obiettivo di un gruppo di ricercatori giapponesi guidati dal dott. Tomoko Kamishima. I risultati dello studio hanno mostrato come in generale, i pazienti MAGA iniziano il processo di diradamento con un assottigliamento dei fusti, seguito poi da una minore crescita e quindi da una minore densità capillare. Al contrario, il modello appena descritto per MAGA è stato invertito nella FPHL, dove si osservata da subito una diminuzione del numero di capelli e solo dopo con l’età un assottigliamento. L’analisi delle differenze di diradamento è stata svolta in un gruppo di soggetti più giovani (20-39 anni) e soggetti più anziani (60-89 anni) ed è emerso che il numero di capelli per unità follicolare (FU) era simile nei diversi gruppi di età del MAGA, ma si verificava una tendenza al peggioramento all’aumentare dell’età in FPHL.
Sulla base di questi risultati e della letteratura esistente, si è ipotizzata una relazione tra la progressione di AGA attraverso due percorsi differenziali:
1) MAGA: riduzione del diametro dei capelli causata dalla miniaturizzazione dell’HF. Si osserva una fase di anagen più breve che si traduce in capelli più sottili e più corti. In tale processo gli androgeni agiscono sulle cellule della matrice di HF geneticamente sensibili nelle aree dipendenti dagli androgeni, sopprimendo la crescita dei capelli e promuovendo la miniaturizzazione
Esiste una differenza nel diradamento maschile e femminile: i maschi MAGA iniziano il processo di diradamento con un assottigliamento dei fusti, seguito poi da una minore crescita e quindi da una minore densità capillare. Al contrario nelle donne FPHL si è osservata da subito una diminuzione del numero di capelli e solo dopo con l’età un assottigliamento ©
dell’HF alterando le dinamiche del ciclo di crescita dei capelli.
2) FPHL: diminuzione del numero di capelli correlato alla disfunzione nel sistema HF. Si osserva una degenerazione del muscolo pilo erettore (APM), estesa infiltrazione di grasso attorno all’APM degenerato e perdita di contatto tra HF miniaturizzati e APM.
Nei due percorsi la ricerca indica che il sistema tri-lignaggio APM-nervo simpatico-HFSC (cellule staminali di HF) svolge un ruolo nella regolazione della crescita dei capelli. L’APM funge da ancoraggio stabile per l’innervazione simpatica degli HF. Senza la segnalazione simpatica, le HFSC entrano in uno stato di quiescenza profonda, rallentando il loro processo di crescita. Questa interruzione della nicchia può prolungare la fase catagen (regressione), portando alla miniaturizzazione dell’HF e alla successiva riduzione del diametro dei capelli. In breve, la disfunzione del sistema tri-lignaggio APM-SN-HFSC è associata sia ad una diminuzione sia del diametro dei capelli (percorso 1) che del numero di capelli per FU (percorso 2).
L’importanza dello studio trattato sta proprio nel fatto che per la prima volta si mette in chiaro che esistono delle differenze genetiche-ormonali-tricoscopiche tra il diradamento maschile e quello femminile. Il MAGA avanza prevalentemente con il peggioramento del diametro dei capelli e in seguito con la diminuzione del numero di capelli per FU, mentre il FPHL progredisce al contrario. Tuttavia, sono essenziali studi più ampi e diversificati per confermare questi risultati e la loro applicabilità a tutte le etnie. Il team a capo di tale studio conclude affermando che se comprenderemo appieno la relazione tra i cambiamenti tricoscopici e le opzioni di trattamento, potremo adottare approcci terapeutici più sistemici su misura per ciascun paziente.
DIRADAMENTO DIFFERENZE FRA UOMO E DONNA
I risultati ottenuti sono un passo avanti verso i futuri cosmetici che porteranno lo styling dei capelli a un nuovo livello
di Biancamaria Mancini
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Giornale dei Biologi | Mar 2024 49
1) G. Malle, P. Barbarat, I. Pasini, Method for straightening keratinous fibers using heating means and an acid derivative, Dec. 2, 2010, US patent 2010/0300471.
2) P. Coppola, V.C. Bucario, Reactive keratin protein formulation and methods of using for revitalizing hair, Aug. 27, 2009, US patent 2009/0211593 A1.
3) Mannozzi, Process for semi-permanent straightening of curly, frizzy or wavy hair, Feb. 23, 2011, Jan. 26, 2012
4) Barreto T et al.: What Do We Know So Far on Hair Straightening? Skin Appendage Disord. 2021 Jun;7(4):265-271. doi: 10.1159/000514367. Epub 2021 Mar 30. PMID: 34307473; PMCID: PMC8280444.
5) Miranda-Vilela AL, Botelho AJ, Muehlmann LA. An overview of chemical straightening of human hair: technical aspects, potential risks to hair fibre and health and legal issues. Int J Cosmet Sci. 2014 Feb;36(1):2-11. doi: 10.1111/ ics.12093. Epub 2013 Oct 18. PMID: 24102549. 21
Iprimi trattamenti liscianti erano chiamati Hell’s own curls e risalgono al tempo di Luigi XIV per lisciare le parrucche arrotolando le ciocche su cilindri di terracotta, ma solo nel 1906 si utilizzò la chimica bagnando le ciocche con il borace. A livello biochimico, nel capello liscio le catene polipeptidiche di cheratina assumono una struttura di tipo β , mentre nel capello riccio di tipo α. Il riccio con α -elica contiene legami covalenti S-S cistinici incrociati intercatena, interazioni elettrostatiche tra residui amminoacidici laterali, legami ad idrogeno e interazioni idrofobiche.
Per modificare la struttura del capello riccio in modo permanente bisogna rompere e riarrangiare questi tipi di legame. Proprio i forti legami cistinici sono anche il punto debole della struttura capillare in quanto più suscettibili all’attacco chimico destabilizzando la catena peptidica e rompendo il fusto. Per questi motivi non è affatto banale deformare i capelli senza danneggiarli. Proprio nel mese di Marzo due biologhe esperte del settore tricologico, le dottoresse Pamela D’Amico e Maria Elena Baldassari, hanno approfondito e condiviso attraverso un webinar lo studio biochimico del capello sottoposto a stiratura.
Nello studio condiviso da D’Amico e Baldassari, si apprende che attualmente la deformazione permanente del capello viene effettuata a freddo in 2 modalità. Nella prima
modalità si rompono i ponti di-sulfurei mediante l’impiego di un agente riducente, si mette il capello nella forma da prendere e si passa infine un agente ossidante, detto anche fissatore, che permette la ricostruzione dei legami di-solfurei. Gli agenti riducenti più utilizzati sono soprattutto l’acido tioglicolico, i solfiti o bisolfiti. Nel 2004 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha riclassificato la formaldeide come noto cancerogeno per l’uomo e non si utilizza
TRATTAMENTI E ROTTURA DEI LEGAMI I risultati ottenuti sono un passo che porteranno lo styling dei
Salute
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più per queste pratiche. Nella seconda modalità si ha una reazione di lantionizzazione a seguito della quale non occorre alcuna fissazione, dato che la formazione del legame tioetereo fra due residui cisteinici è irreversibile. In questo caso le composizioni usate contengono solitamente idrossido di sodio, ma anche di guanidino o di litio. Entrambe le tecniche sono utilizzate sia per arricciare i capelli che per lisciarli.
La lantionizzazione sembra avere maggiori vantaggi rispetto all’uso di tioli e solfiti evitando il cattivo odore e data l’assenza
I forti legami cistinici sono anche il punto debole della struttura capillare in quanto più suscettibili all’attacco chimico destabilizzando la catena peptidica e rompendo il fusto. Per questi motivi non è affatto banale deformare i capelli senza danneggiarli.
dello stadio della ossidazione rende il processo più veloce. Tuttavia, la causticità degli idrossidi può provocare irritazioni al cuoio capelluto fino a provocare la rottura del capello. Pertanto, l’uso di questi agenti deve essere strettamente controllato e non è adatto alla permanente ma è riservato a trattamenti veloci come la stiratura dei capelli. In particolare, il pH alcalino degli idrossidi gonfia il fusto del capello, ne apre la cuticola e consente la penetrazione del composto lisciante nella corteccia. Dopo l’asciugatura/ trattamento con il calore, viene applicato un agente a pH acido per neutralizzare il processo, rimodellando i capelli nella nuova struttura. Uno dei danni che si verificano è la rimozione dello strato monomolecolare di acidi grassi legati covalentemente alla cuticola, incluso l’acido18-metil eicosanoico.
LEGAMI DI SULFUREI
passo avanti verso i futuri cosmetici dei capelli a un nuovo livello
Questo strato idrofobico impedisce all’acqua di bagnare e penetrare nel fusto del capello e di modificarne le proprietà fisiche. La rimozione dello strato di acidi grassi diminuisce la luminosità dei capelli, rendendoli più sensibili all’elettricità statica e all’effetto crespo indotto dall’umidità. Nei capelli danneggiati si osserva inoltre una riduzione del 21% della cistina e del 50% della metionina dalla radice alla punta del fusto del capello. C’è da notare che quando si vanno a rompere i ponti disolfuro il capello è molto fragile ma è proprio il momento in cui vi è la necessità mantenere la forma dritta con dei pesi o mediante un pettine o una piastra calda provocando in ogni caso la rottura dello stesso. Questo grosso limite ha portato la scienza alla ricerca di formulazioni capaci di permettere lo stiraggio mediante piastra riscaldata senza che avvenga la rottura del capello, questo però a discapito della durata dell’effetto e della durata del trattamento. Si è infatti passati da uno stiraggio permanente ad uno stiraggio semipermanente, la cui durata viene stimata dai 4 ai 6 mesi a seconda del tipo di capello. In questo tipo di trattamento non si agisce sui ponti di-solfurei ma su altri tipi di legami reversibili nel tempo. (B. M.).
TRATTAMENTI LISCIANTI
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BORGHI DEL BENESSERE COESIONE SOCIALE, SICUREZZA E SALUTE DIFFUSA
Il benessere collettivo è la mission del progetto dell’Associazione Scientifica Biologi senza Frontiere. “La felicità pubblica deve diventare il motore dello sviluppo”
di Giovanni Misasi e Teresa Pandolfi Associazione Scientifica Biologi senza Frontiere
In un’epoca in cui il benessere individuale e colle ttivo è sempre più al centro delle nostre preoccupazioni, il progetto “I Borghi del Benessere” dell’Associazione Scientifica Biologi senza Frontiere, si propone di creare comunità felici e sicure, rispettose della salute umana e ambientale.
Ma cosa significa veramente vivere in un borgo felice e sicuro?
La felicità pubblica è un concetto che va oltre il benessere personale e abbraccia l’idea di una comunità prospera e armoniosa. È una combinazione di elementi che vanno dalla qualità della vita alla coesione sociale, passando per la salute, l’istruzione e l’occupazione.
Una popolazione felice è una popolazione sana e istruita. Pertanto, la presenza di un sistema sanitario efficiente e di una scuola che non solo trasmette conoscenze, ma anche valori e il senso di appartenenza, è essenziale. In un borgo del benessere, ognuno ha un ruolo utile e necessario nella società, e ciò porta a una maggiore coesione sociale e a una sensazione di appagamento e realizzazione personale.
Gli anziani e i giovani sono due fasce di popolazione particolarmente importanti quando si tratta di felicità pubblica. Gli anziani hanno bisogno di sentirsi valorizzati e coinvolti nella comunità, attraverso programmi di socializzazione, assistenza sanitaria e supporto psicologico. I giovani, d’altra parte, hanno bisogno di
opportunità di apprendimento, svago e crescita personale. Offrire spazi dedicati e programmi mirati alle diverse età e interessi è fondamentale per garantire il benessere generale della popolazione.
I Borghi del Benessere mirano a creare comunità in cui la felicità pubblica è il motore principale dello sviluppo. Attraverso un approccio olistico che integra salute, istruzione, occupazione e coesione sociale, questi borghi si pongono come esempi di come sia possibile vivere in armonia con sé stessi, gli altri e l’ambiente circostante.
Il concetto di benessere individuale e collettivo è fondamentale per comprendere come le azioni dell’amministrazione locale possano influenzare positivamente la vita dei cittadini e la prosperità della comunità nel suo complesso.
Il benessere individuale si riferisce al livello di soddisfazione e realizzazione personale di ciascun individuo. Include elementi come la salute fisica e mentale, il livello di istruzione e competenze, il grado di soddisfazione lavorativa e la qualità delle relazioni personali.
Il benessere collettivo, d’altra parte, riguarda il benessere della comunità nel suo insieme e dipende dalla somma dei benesseri individuali.
Per rendere un borgo sicuro, felice e funzionale, l’amministrazione locale ha un ruolo fondamentale promuovendo il benessere attraverso una serie di azioni:
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1. Fornire servizi essenziali: l’amministrazione locale deve garantire l’accesso ai servizi pubblici fondamentali come assistenza sanitaria, istruzione di qualità, trasporti efficienti e infrastrutture sicure. Questi servizi sono essenziali per il benessere individuale e collettivo della comunità.
2. Creare un ambiente sicuro e salubre: l’amministrazione locale ha il compito di garantire un ambiente sicuro e salubre per i suoi cittadini, adottando politiche e normative che proteggano la salute pubblica e l’ambiente naturale, ponendo attenzione al ripristino degli ecosistemi degradati, al recupero della biodiversità, all’incremento degli spazi verdi finalizzati allo sviluppo di una green economy basata su una serie di servizi necessari al raggiungimento del benessere.
3. Promuovere l’occupazione e lo sviluppo economico: creare opportunità di lavoro e sostenere lo sviluppo economico locale sono fondamentali per il benessere individuale e collettivo. Ciò può essere realizzato attraverso incentivi fiscali per le imprese, programmi di formazione professionale e sostegno all’imprenditorialità locale.
4. Favorire la coesione sociale e la partecipazione civica: promuovere la partecipazione attiva dei cittadini alla vita della comunità e favorire la costruzione di legami sociali solidi può migliorare il benessere collettivo. Ciò può esse-
L’Associazione Biologi Senza Frontiere (ASBSF) promuove iniziative di carattere scientifico sul territorio nazionale ed è aperta alla collaborazione con altre associazioni, enti pubblici e privati. All’associazione aderiscono oltre a biologi, anche diverse figure professionali quali medici, infermieri, veterinari, psicologi, biotecnologi, tecnici di laboratorio, tecnologi alimentari, ingegneri, architetti, geologi, agronomi e forestali, economisti, antropologi, sociologi.
re fatto attraverso la creazione di spazi pubblici accoglienti, la promozione del volontariato e l’organizzazione di eventi e attività che coinvolgano diverse fasce della popolazione.
5. Sostenere l’istruzione e la cultura: investire nell’istruzione e nella cultura è essenziale per il benessere individuale e collettivo. L’amministrazione locale può sostenere le scuole, le biblioteche e le attività culturali, creando opportunità di apprendimento e arricchimento per tutti i cittadini.
In collaborazione con le amministrazioni locali dei Borghi del Benessere, ASBSF si impegna a restituire al borgo una vita sana a misura d’uomo, dove la felicità pubblica e il benessere diventano la normalità. Attraverso un approccio integrato con servizi essenziali, ambiente sicuro, sviluppo economico, coesione sociale e cultura, ci adoperiamo per creare un ambiente in cui ogni individuo possa prosperare e godere di una vita appagante. Insieme, puntiamo a costruire un futuro in cui il benessere individuale e collettivo sia il fondamento su cui si basa la vita nel nostro borgo, rendendolo un luogo in cui tutti possono trovare soddisfazione e realizzazione.
Il progetto “Borghi del Benessere” di ASBSF è una realtà già in essere e può rappresentare la svolta per una migliore qualità della vita in un contesto sano, naturale e a misura d’uomo.
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LA DEFORESTAZIONE GLOBALE FAVORISCE L’INQUINAMENTO DA MERCURIO
Il disboscamento aumenta il rilascio dell’inquinante tossico dal suolo con il pericolo che l’elemento si diffonda nei corpi idrici e, attraverso la catena alimentare, arrivi all’uomo
di Sara Bovio
54 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Ambiente
Circa il 10% delle emissioni di mercurio in atmosfera da sorgenti antropiche è il risultato della deforestazione globale. L’hanno scoperto gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology che, per la prima volta, sono riusciti a quantificare le emissioni dell’inquinante tossico finora trascurate. Negli ultimi decenni, infatti, gli scienziati si sono concentrati soprattutto sullo studio della deforestazione come fonte di emissioni globali di anidride carbonica. Il mercurio, un elemento in traccia, non ha ricevuto la stessa attenzione, in parte perché il ruolo della biosfera terrestre nel ciclo globale del mercurio è stato quantificato meglio solo di recente.
«Abbiamo trascurato una fonte rilevante di mercurio, soprattutto nelle regioni tropicali», afferma Ari Feinberg, primo autore dello studio pubblicato su Environmental Science and Technology. Il modello, messo a punto dai ricercatori,
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mostra che la foresta amazzonica svolge un ruolo particolarmente importante nell’assorbire e stoccare il mercurio, contribuendo a circa il 30% del serbatoio terrestre globale. Secondo gli scienziati la riduzione della deforestazione amazzonica potrebbe quindi avere un impatto sostanziale sulla riduzione dell’inquinamento da mercurio.
Gli alberi, spiegano i ricercatori, fungono da deposito della sostanza poiché le foglie delle piante assorbono il mercurio dall’atmosfera, in modo simile a come assorbono l’anidride carbonica. Ma a differenza dell’anidride carbonica, il mercurio non svolge una funzione biologica essenziale per le piante e rimane in gran parte all’interno della foglia finché non cade sul suolo della foresta, dove è assorbito dal terreno. Se però finisce nei corpi idrici, l’elemento diventa un serio problema perché qui può essere metilato dai microrganismi. Il metilmercurio è una potente neurotossina che può essere assorbita dai pesci e bioaccumulata attraverso la catena alimentare. Questo può portare a livelli rischiosi di metilmercurio nel pesce mangiato dall’uomo. «Nei terreni, il mercurio è molto più legato di quanto lo sarebbe se fosse depositato nell’oceano. Le foreste stanno svolgendo una sorta di servizio ecosistemico, perché sequestrano il mercurio per tempi più lunghi», spiega Feinberg, ricercatore presso l’Institute for Data, Systems, and Society (IDSS) del MIT. In questo modo, sostengono gli autori, le foreste riducono la quantità di metilmercurio tossico negli oceani.
I ricercatori hanno anche stimato che gli sforzi di riforestazione globale potrebbero aumentare
La foresta amazzonica svolge un ruolo particolarmente importante nell’assorbire e stoccare il mercurio, contribuendo a circa il 30% del serbatoio terrestre globale.
l’assorbimento annuale di mercurio di circa il 5%. Il dato, sebbene significativo, non appare comunque sufficiente, e non dovrebbe quindi sostituire l’esigenza di controllo dell’inquinamento a livello mondiale.
«I Paesi si sono impegnati molto per ridurre le emissioni di mercurio - afferma Noelle Selin, autore responsabile della ricerca e professore presso l’IDSS e il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Atmosfera e dei Pianeti dell’MIT - soprattutto i Paesi industrializzati del Nord, e per ottime ragioni. Ma il 10% di fonte antropica globale è notevole, e c’è la possibilità che diventi ancora più grande in futuro. Affrontare le emissioni legate alla deforestazione deve essere parte della soluzione».
Molti studi sul mercurio si concentrano sulle fonti industriali del mercurio, come la combustione derivante dai combustibili fossili, l’estrazione dell’oro su piccola scala e la fusione dei metalli ma non considerano gli impatti della deforestazione. Lo studio nasce proprio per colmare questa mancanza. Anche la Convenzione di Minamata del 2013 che ha l’obiettivo di proteggere la salute e l’ambiente dalle emissioni di mercurio e dei suoi composti, non comprende gli impatti del disboscamento.
Il team ha inoltre sviluppato una nuova formula per quantificare le emissioni di mercurio dal suolo. Il calcolo tiene conto del fatto che la deforestazione riduce la superficie fogliare, aumentando la quantità di luce solare che colpisce il suolo e accelerando il degassamento del mercurio dal suolo. Complessivamente, i ricercatori hanno scoperto che, come risultato della deforestazione, circa 200 tonnellate di mercurio sono emesse nell’atmosfera, in altre parole circa il 10% delle emissioni totali annuali prodotte dall’uomo. Ma nei Paesi tropicali e subtropicali le emissioni da deforestazione rappresentano una percentuale maggiore delle emissioni totali. Per esempio, in Brasile le emissioni da deforestazione rappresentano il 40% delle emissioni totali prodotte dall’uomo. La situazione è poi aggravata dal fatto che le persone spesso accendono incendi per preparare le aree forestali tropicali alle attività agricole, il che provoca altre emissioni rilasciando il mercurio immagazzinato dalla vegetazione.
In futuro i ricercatori intendono includere nella loro analisi modelli più dinamici del sistema terrestre, che consentano di seguire in modo interattivo l’assorbimento del mercurio e di definire meglio i tempi di ricrescita della vegetazione.
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Ci si è chiesti per molto tempo quali fossero gli interruttori genetici che fanno illuminare le lucciole. La spiegazione è stata possibile grazie a uno studio cinese, che ha portato alla luce l’esistenza di due fattori di trascrizione appartenenti a una famiglia di geni, gli home0box, che donano alle lucciole la bioluminescenza. Questi geni hanno funzioni fondamentali nello sviluppo degli insetti. A scoprire l’effetto di bioluminescenza dovuto agli homebox sono stati gli scienziati dell’Università Huazhong, in Cina. Sulla rivista Nature Communications hanno pubblicato un articolo che ha reso pubblici i risultati degli studi effettuati. Il team, guidato da Xinhua Fu e Xinlei Zhu, è partito dall’analisi dell’organo fondamentale per le lucciole: la lanterna, che produce i segnali luminosi negli insetti in questione.
Generalmente la bioluminescenza è utilizzata dalle lucciole sia per la comunicazione che avviene nel momento del corteggiamento, sia per proteggersi da eventuali predatori. Da questi studi si è potuto capire meglio in che modo vengono combinati dei regolatori genetici, che portano poi allo sviluppo della struttura organica, la quale dà la possibilità agli insetti di illuminarsi. I ricercatori cinesi hanno provato a decodificare il genoma di una specie di lucciola acquatica, chiamata Aquatica Ieii. Grazie a questa analisi, gli studiosi sono giunti a identificare due fattori di trascrizione, AIABD e AIUNC-4: entrambi appartengono alla famiglia dei geni homeobox. E proprio questi geni, oltre a contribuire allo sviluppo degli insetti, hanno anche un ruolo fondamentale nella formazione della lanterna negli insetti adulti. Infatti permettono all’organo luminoso di posizionarsi correttamente all’interno dell’addome e inoltre sono responsabili dell’attivazione di alcuni geni generatori di luce: la luciferasi e le perossine.
Generalmente ogni specie di questi insetti ha una modalità di lampeggio uni-
I GENI CHE “ILLUMINANO” LE LUCCIOLE
Studio cinese descrive due interruttori della famiglia dei geni homeobox, che contribuiscono alla bioluminescenza
ca e costituisce il segnale per trovare il proprio compagno.
«Questi insetti notturni usano infatti la luce per la comunicazione sessuale», specifica Daniela Lupi, docente di entomologia applicata all’Università degli Studi di Milano. «Spesso il maschio vola emettendo una luce intermittente, la femmina ferma tra la vegetazione lo vede e si illumina con una luce fissa: il maschio la nota e la raggiunge. Ci possono però essere altre modalità, e ogni specie ha un suo “codice” di luminosità e intermittenza. Da noi le lucciole si accoppiano prevalentemente tra giugno e luglio, ma anche fino ad agosto, a seconda di specie e zona».
Purtroppo però, negli ultimi anni le lucciole stanno subendo una grave crisi e sono in pericolo. Si nota dal declino delle loro popolazioni in tutto il mondo, a causa di fattori come il disboscamento, la perdita di foreste o aree verdi, o ancora per l’inquinamento e lo smog. Inoltre è stato dimostrato da uno studio dell’Università del Sussex che la luce artificiale rende complicato trovare le femmine per i maschi delle lucciole. Questo implica molte complicazioni nella riproduzione delle future popolazioni globali di lucciole. Sono state censite fino ad oggi duemila specie di lucciole, che però sono a rischio di estinzione. (E. C.)
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Negli ultimi mesi, solo per citare esempi recenti, i mass media hanno fatto conoscere all’opinione pubblica una serie di atti brutali nei loro confronti. Un caso emblematico è quello del gatto Leone ad Angri (SA), morto a metà dicembre dopo giorni di sofferenza, poiché era stato scuoiato vivo e lasciato in strada. Diverse centinaia di persone si ritrovarono per ricordarlo con una fiaccolata e chiedere giustizia, affinché violenze simili non si ripetano e non restino impunite. La manifestazione fu trasmessa in diretta sui social: a chi seguiva da casa venne chiesto di accendere una candela per partecipare.
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«C
hi non ama cani e gatti, non fa bene i suoi fatti». L’antico proverbio popolare potrebbe essere la chiosa giusta del focus “A-mici in Città” di Legambiente. Nonostante l’affetto profondo che molti italiani nutrono per quei felini, emerge una realtà inquietante: l’Italia potrebbe non essere il paradiso che tutti immaginiamo, poiché gli episodi di maltrattamento, uccisione e abbandono sono in aumento.
Nel 2022 le forze di polizia hanno registrato 751 reati e 2.408 illeciti amministrativi verso animali dome- stici, con 412 persone denun- ciate.
In media, ogni giorno si segnalano due crimini, con più di un individuo accusato e oltre sei violazioni punite amministrativamente. L’assenza di reati nel Codice Penale e la mancata revisione di limiti edittali e sanzioni pesano notevolmente sul piatto della bilancia sotto la
voce tutela degli innocenti. «Da Grey ad Alberobello, fatto annegare nelle acque gelide di una fontana, a Leone scuoiato vivo in provincia di Salerno, i gatti, purtroppo, - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - sono sempre più spesso al centro di maltrattamenti e comportamenti illegali. Se da una parte è urgente una maggiore tutela con leggi e sanzioni più severe, in grado di prevenire e reprimere efficacemente abbandono, maltrattamenti e uccisioni, dall’altra è sempre più urgente attivare servizi adeguati, attività di sensibilizzazione e supporto per facilitare la convivenza, garantire il loro benessere e tutelare i gatti».
L’Italia è in ritardo anche per quanto riguarda sterilizzazioni, adozioni e campagne informative. Il 40% dei Comuni (dati 2022 su 552 Amministrazioni locali e 38 Aziende sanitarie) di-
TRA IL PARADISO DOMESTICO E DEL MONDO ESTERNO
Ambiente
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I gatti in Italia vivono realtà contrastanti: amati da molti, ma spesso vittime di maltrattamenti e abbandono. La mancanza di protezione legislativa aggrava la situazione
chiara di avere colonie feline sul proprio territorio, mentre il 33,9% sa quanti ospiti ci siano lì. L’8,7% ha sterilizzato più del 90% nelle proprie comunità; solo il 17,7% ha fatto campagne di eliminazione della fecondità e il 6,7% ha realizzato iniziative per l’affidamento. Appena il 9,4% dei Municipi dichiara di avere, sul proprio territorio o convenzionati, gattili sanitari, strutture pubbliche necessarie per curare quelli liberi malati o feriti; il 4,5% di possedere oasi. Dando un’occhiata ai centri urbani con più registrazioni all’anagrafe spicca Milano con ben 56.879 (di cui 20.000 in colonie feline), Prato (15.950), Bari (15.602) e Taranto (12.936).
Sono molte, quindi, le problematiche da risolvere e migliorare. Al momento, si appianano tante difficoltà grazie anche all’impegno di migliaia fra volontari e volontarie. Donando tempo e risorse economiche, si adoperano per proteggere il benessere dei nostri “concittadini” a quattro zampe e per prevenire e denunciare gli atti di violenza.
Legambiente chiede al Parlamento di approvare celermente la proposta di legge firmata dell’on. Michela Vittoria Brambilla, che inasprisce i delitti contro gli animali, i quali hanno trovato posto nella rinnovata Costituzione. © Anca
Nonostante l’Italia sia uno dei Paesi che più amano i mici, con una stima di 10-15 milioni nelle case dei cittadini e tra 700.000 e 1.150.000 liberi, ma attorno ad uno stesso luogo, registrati nelle città, il benessere e la tutela non sono garantiti per tutti.
Legambiente chiede al «Direttore generale della sanità animale e dei farmaci veterinari (Dgsaf) del Ministero della Salute di approvare rapidamente e bene il fondamentale decreto con le istruzioni di dettaglio per l’implementazione del Sistema informativo Nazionale degli Animali da Compagnia (SINAC), previsto dal decreto legislativo n. 134/2022, che consentirà l’anagrafe di tutti i gatti domestici». Sollecitano ai presidenti di regione e ai sindaci la messa in opera di un piano coordinato che preveda: «1) attivare accordi con le associazioni per la protezione degli animali per l’applicazione di leggi e regolamenti comunali; 2) la mappatura completa, entro il 2024, delle colonie feline presenti nei contesti urbani e periurbani; 3) una campagna ad hoc, entro il 2027, di anagrafe e sterilizzazione di tutti i gatti presenti nelle colonie feline; 4) la piena operatività, entro il 2030, di 400 gattili sanitari (uno ogni 150 mila abitanti) per consentire la gestione pubblica sanitaria delle popolazioni di gatti nelle aree urbane e periurbane».
Lombardia e Valle d’Aosta si dimostrano fiori
LE SFIDE
all’occhiello sul fronte anagrafe registrando, nel 2022, uno ogni 22 cittadini (il valore medio nazionale è di uno ogni 48). Tra i comuni più virtuosi, invece, quello di Berzano di San Pietro (AT) con più di uno ogni 4 residenti, di Vigarano Mainarda (FE) uno quasi ogni 5 e Berceto (PR) uno per poco più di 5. Sul tema affidi, al primo posto Ferrara 1.951, seguito da Vicenza (700) e San Donà di Piave (VE) con 500. (D. E.).
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maltrattamenti situazione
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PROTEGGERE E RESTAURARE GLI ECOSISTEMI MARINI
L’Ispra lancia il progetto Mer, un’iniziativa che, utilizzando la tecnologia LiDAR, unita ad altri sensori, vuole mappare e conservare gli habitat costieri italiani
L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha aperto le porte a questa avventura con il lancio del progetto Marine Ecosystem Restoration (MER). L’iniziativa, parte del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), mira a mappare e ripristinare gli ecosistemi marini italiani. È stato, infatti, assegnato un appalto, selezionando il consorzio guidato da Fugro, per esplorare i nostri habitat costieri. Le attività di rilievo prevedono l’esplorazione delle praterie di Posidonia oceanica e Cymodocea nodosa, con sensori, tra cui LiDAR (Light detection and range), altri ottici aviotrasportati, gravimetria aerea (tecnica che li utilizza misurando la gravità, essenziali se si vuol arrivare ad un dettaglio più particolareggiato) e satellitari. Questo permetterà di coprire una superficie di 10.200 km2, usufruendo, in aggiunta, di una tecnologia multibeam e di un veicolo sottomarino autonomo per osservare 4.000 chilometri di costa. Ci sarà, inoltre, una cartina completa dei litorali fino a 800 metri a partire dalla linea di costa verso l’interno. Ad essere convolte tre sotto-regioni costiere (Mar Mediterraneo Occidentale, Jonio e Mediterraneo Centrale, Adriatico), per rafforzare il Sistema Nazionale di Osservazione delle rive marittime avviando una campagna, prima nel suo genere, che fornirà dati molto precisi, arricchendo così
il processo decisionale delle autorità locali per la salvaguardia dell’Ambiente.
«Grazie alla tecnologia LiDAR, - afferma il Presidente di Ispra, Stefano Laporta - creeremo l’Atlante digitale dei nostri mari. Con il piano Mer, abbiamo avviato un ambizioso pacchetto d’interventi per la tutela e la valorizzazione dell’ecosistema Mediterraneo. Tra questi rientrano le attività con il sensore LiDAR, uno dei pilastri su cui si fonda il nostro programma straordinario di restauro dei mari. Grazie ai rilievi condotti su tutta la costa per un totale di 7.500 km, senza precedenti in Italia in termini di estensione, ma anche di dettaglio, avremo informazioni estremamente preziose sia nell’ambito della scoperta di nuove specie e habitat sia nella conformazione dei fondali per la geotermia».
Il Mer, finanziato con un fondo da 400 milioni di euro per il periodo 2022-2026, è in fase sempre più avanzata. Verranno realizzati, inoltre, campi di ormeggio, per ridurre ed eliminare i disturbi causati dall’ancoraggio e il conseguente danneggiamento dei fondali. Si è dato il via a 18 progetti che coinvolgono aree marine protette, Parchi Nazionali e oltre 29 Zone Speciali di Conservazione secondo l’Unione Europea. Entro il 2026 ne verranno installati 91 per un totale di 1.769 posti. L’ancoraggio sul fondo è vietato, ma sono previsti gavitelli assicurati con sistemi a basso impatto
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ambientale e visivo preservando fanerogame marine, coralligeno, aree con presenza di specie bentoniche tutelate e d’interesse comunitario.
Parallelamente, è stata avviata la procedura per aggiudicare il servizio di rimozione e conferimento delle cosiddette “Ghost Nets” insieme a tutti gli attrezzi da pesca abbandonati. Le tabelle Ispra mostrano che l’86,5% dei rifiuti è legato alle attività di pescagione e il 94% di questi sono reti abbandonate, alcune, addirittura, lunghe chilometri. Per tale motivo, vengono identificati i siti critici tutelando flora e fauna locali. Ad essere coinvolta sarà una squadra di subacquei altamente specializzati e con strumentazioni avanzate come Rov (Remote Operating Vehicle), multibeam e side scan sonar. Le operazioni saranno condotte tra i 20 e i 70 metri di profondità. Il piano, che include rimozione, raccolta, trasporto, smaltimento e riciclo durerà 28 mesi, con scadenza il 30 giugno 2026.
Inoltre, è stato avviato l’allevamento con un milione di larve per rinforzare l’ostrica piatta europea (Ostrea edulis, specie autoctona dell’Adriatico), in cinque regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. A livello globale, si stima che l’85% dei banchi naturali sia andato perduto, rendendoli fra i più minacciati al mondo. I molluschi bivalvi hanno la
capacità di costruire veri e propri reef calcarei, cioè l’equivalente, alle nostre latitudini, delle scogliere coralline tropicali, da qui il nome “ingegneri ecosistemici”. Grazie, infine, alla collaborazione con la Marina Militare, in particolare Maristat e Navarm, si sta progettando una moderna nave da ricerca oceanografica. L’unità sarà equipaggiata con tecnologie avanzate per condurre indagini in acque profonde, utilizzando Rov fino a 4.000 metri di profondità, Auv (Automated Unmanned Vehicle) sino a 3000 metri e strumenti acustici di alta precisione. L’intero sistema verrà alimentato da una propulsione diesel-elettrica sostenibile e avrà una certificazione di classe green-plus. Inoltre, per garantire un monitoraggio affidabile del rumore sottomarino, si presterà molta attenzione alla silenziosità.
(G. P.).
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In un’epoca in cui l’innovazione tecnologica sta ridefinendo i confini del possibile, la conservazione del biosistema può scoprire nuovi orizzonti. Legambiente ha pubblicato un report intitolato “Natura selvatica a rischio in Italia” per mettere in evidenza come si possa far crescere il monitoraggio e la tutela della biodiversità.
Vengono raccontate otto esperienze pilota avviate in Italia, alcune delle quali sono state possibili grazie ai progetti cofinanziati dal Programma LIFE dell’UE. Tra queste, l’app di citizen science
“Marine Ranger”, lanciata nel 2021 come parte del progetto “Life DELFI”. Ha permesso ad oltre tremila utenti di segnalare 723 avvistamenti di delfini nel Mediterraneo. È stata sviluppata, infatti, per controllare i circa 10.000 cetacei (Delphīnus delphis), minacciati principalmente dalle catture accidentali. In quel caso entrano in azione i Rescue Team (Squadre di Primo Soccorso) per: liberarli dagli attrezzi per la pesca; dare una risposta rapida di pronto soccorso e salvataggio per ferite o spiaggiamenti; organizzare la riabilitazione in vista del rilascio o, in caso contrario, provvedere all’eutanasia; pianificare una formazione per i pescatori con l’intento di mostrar loro i metodi utili a regalare nuovamente l’autonomia agli intrappolati nelle reti.
Altro esempio è l’app “Life Sea.Net”, che fornisce informazioni specifiche su otto specie minacciate: la cicala grande, il corallo rosso, il dattero di mare, la patella ferruginea, la posidonia oceanica, il riccio diadema, la tartaruga marina Caretta caretta e il tursiope. Si può segnalare la loro presenza, scattando una foto e inviando le coordinate con il proprio telefono cellulare. Continuando con le buone pratiche dall’Italia, si dà conto della prima criobanca del seme in Europa, nata nel 2021, per salvare la trota mediterranea autoctona nei fiumi molisani. Con le 23.000 uova embrionate in questi anni è stato possibile far rivivere i corsi d’acqua della regione nell’ambito di “LIFE Nat.Sal.Mo”.
I droni, dal canto loro, stanno diventando strumenti fondamentali, rilevando le aree di nidificazione della tartaruga marina Caretta caretta lungo le coste italiane. Nel 2023 sono stati censiti 454 nidi in dieci regioni. Analizzano anche le minacce specifiche, come l’innalzamento del mare, che potrebbe causare inondazioni nelle zone di riproduzione. Il piano “Turtlenest” sta portando avanti questa missione in Italia, Francia e Spagna, esaminando oltre 630 km di litorale sabbioso, un habitat ideale per le testuggini. Parallelamente, la stampa 3D dà una grossa mano alle barriere coral-
di Gianpaolo Palazzo
INNOVAZIONE E TECNOLOGIA
ALLEATI PER CONSERVARE
LA NATURA SELVATICA
Dalle app di scienza realizzate grazie ai cittadini, ai droni, alla stampa 3D numerosi cambiamenti stanno contribuendo alla salvaguardia della diversità biologica
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line. Viene impiegata per creare strutture artificiali da posizionare in acqua, favorendo così la proliferazione di vari organismi. Una prova tangibile si può osservare in Sardegna, nel Golfo Aranci, dove la tecnica è attualmente in fase di sperimentazione.
Le belle notizie si estendono pure ai parchi e alle superfici protette. Legambiente ricorda che il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha stanziato un totale di cento milioni in euro per la loro digitalizzazione con l’obiettivo di stabilire procedure standardizzate utili a modernizzazione, efficienza e funzionamento efficace in vari ambiti, tra cui la protezione, la semplificazione delle procedure amministrative e i servizi ai visitatori. Tuttavia, l’attuazione di questo progetto finanziario è in ritardo.
L’associazione del cigno verde propone, quindi, tre macrotemi: sfruttare l’opportunità offerta dai fondi del Pnrr e definire i Piani d’azione ecosistemi a rischio, approvando quelli in attesa e aggiornando gli altri già ratificati. Riguardo l’obiettivo 2030 e lotta alla crisi climatica, l’Italia deve intensificare gli sforzi per creare più luoghi a tutela integrale, istituendo gli oltre 70 ancora in sospeso e completando la designazione dei siti nella rete “Natura 2000”. È fondamentale stabilire strategie di adattamento e mitigazione per il cambiamento climatico, indirizzando le risorse economiche in questa direzione. Pensando alla transizione ecologica, oc-
«La biodiversità del nostro Pianeta sta affrontando una crisi senza precedenti - dichiara Stefano Raimondi, responsabile nazionale biodiversità di Legambiente - causata da inquinamento, frammentazione degli habitat, erosione del suolo, uso massiccio di pesticidi e desertificazione. Le tecnologie digitali e non invasive sono oggi un ausilio fondamentale per conoscere e pianificare le azioni per la salvaguardia delle specie a rischio».
corre accelerare la promozione di un percorso dedicato a partecipazione e condivisione tra istituzioni, mondo della ricerca e portatori d’interesse, proteggendo flora e fauna, riducendo i conflitti legati alla convivenza tra uomo e animali selvatici e gestendo gli “ospiti” alieni. Un settore particolarmente delicato da cui partire è quello della pesca in mare.
«La biodiversità del nostro Pianeta sta affrontando una crisi senza precedenti - dichiara Stefano Raimondi, responsabile nazionale biodiversità di Legambiente - causata da inquinamento, frammentazione degli habitat, erosione del suolo, uso massiccio di pesticidi e desertificazione. Le tecnologie digitali e non invasive sono oggi un ausilio fondamentale per conoscere e pianificare le azioni per la salvaguardia delle specie a rischio, ma da sole non possono risolvere tutti i problemi. Servono scelte serie e coerentWi da parte dei legislatori e decisori politici, italiani ed europei, che mettano davvero al centro la tutela della natura. Purtroppo, oggi tanti i provvedimenti parlamentari o governativi, gli orientamenti della Commissione Europea e gli atti di comuni, province autonome e regioni, stanno riportando indietro la tutela delle specie a rischio di 50 anni, come se la stessa Convenzione di Washington non fosse mai stata firmata, allontanando il Paese dagli obiettivi al 2030 della Strategia Europea per la Biodiversità. Per questo chiediamo un cambio di rotta e un maggiore senso di responsabilità».
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LA RINASCITA
DEL MAMMUT LANOSO
Colossal Biosciences è la prima startup al mondo impegnata nel progetto di de-estinzione delle specie
«Fdi Michelangelo Ottaviano Ambiente
ar ripartire il battito ancestrale della natura»: è questa la prima frase che si legge sul portale virtuale della Colossal Biosciences, prima, e ad oggi unica, startup al mondo impegnata nel progetto di de-estinzione delle specie. Ma cosa vuol dire de-estinzione? O meglio, a cosa si riferiscono gli scienziati dell’azienda americana con questo termine? Ebbene, il significato potrebbe essere meno intuitivo di quello che si può pensare: l’obiettivo non è solo la “resurrezione biologica” delle specie estinte, ma una “ricostruzione” del
passato funzionale alla salvaguardia della biodiversità e degli ecosistemi del presente e del futuro.
Si tratta di ambiti di ricerca e campi di studio completamente nuovi e in continua evoluzione, i cui risultati sono ancora qualcosa di non molto tangibile. Il primo progetto su cui la Colossal ha iniziato a lavorare, e attorno al quale essa è nata, è quello legato alla reintroduzione del Mammuthus primigenius Blumenbach, meglio noto come “mammut lanoso”, celebre antenato dell’elefante vissuto in Europa, Asia e Nordamerica ed estintosi in tempi relativamente recenti (circa 5mila anni
fa). Ciò che gli scienziati vorrebbero compiere, in realtà, non è una vera e propria “resurrezione”, bensì una modifica genetica di un organismo già esistente e che condivide gran parte del patrimonio genetico con l’antenato da rivitalizzare: nel caso del mammut lanoso si fa riferimento all’elefante asiatico, suo discendente più vicino.
Per far sì che il progetto di de-estinzione si compia, il gruppo di scienziati dovrà apportare modifiche genetiche corrette in un esemplare, far crescere delle cellule modificate all’interno di piccoli e completamente formati esemplari “funzionali” e, infine, trovare l’habitat adatto nel quale essi possano prosperare. Al di sopra di ogni meritato onore scientifico, ci sono però anche degli oneri a cui la Colossal dovrà rispondere: nonostante i buoni propositi che sembrano muovere i de-extinction projects, questa pratica porta con sé numerose controversie. Molti critici e scienziati sostengono prima di tutto la maggiore centralità dei progetti di conservazione: la reintroduzione di specie estinte potrebbe avere un impatto negativo su quelle già esistenti e sugli ecosistemi, e il vuoto lasciato negli habitat dagli antenati scomparsi potrebbe, con ogni probabilità, essere già stato riempito, trasformando l’esemplare ipotetico da “reintrodotto” ad “invasivo”.
Inoltre, più semplicemente, il tentativo di de-estinzione potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua in virtù di diverse ragioni: prima fra tutte quella legata ai continui mutamenti degli habitat causati dalla nostra ingombrante presenza sul pianeta, o ai mutamenti già verificatisi, che non permetterebbero alla specie di prosperare. Infine, a lasciare qualche perplessità nella comunità scientifica è anche l’aspetto etico di un simile progetto. Il monito degli scienziati di dare la priorità ai programmi di conservazione è legato anche a un’idea di un non-diritto da parte dell’uomo di interferire ulteriormente con gli ecosistemi attuali.
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Un team di ricercatori delle università di Cambridge e Cardiff ha rinvenuto i fossili degli alberi più antichi del mondo, risalenti a 390 milioni di anni fa, al periodo del Devoniano medio. Questa serie stratigrafica, compresa nella più nota era geologica del Paleozoico, è un periodo che si estende per quasi 60 milioni di anni, caratterizzato da un clima caldo e umido, dovuto a oceani con delle temperature più alte rispetto a quelle attuali.
Il Devoniano è anche conosciuto come “Età dei pesci” proprio per via della proliferazione della vita acquatica. Nel corso di quest’epoca anche la superficie terrestre ha subito degli importanti cambiamenti geografici, dovuti alla formazione di montagne, di bacini e ad un’attività tettonica particolarmente intensa. Alla fine di questa era, sulla terraferma, si erano diffuse le prime piante a seme e i primi animali terrestri, soprattutto artropodi.
Come raccontato in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Journal of the geological society, i fossili degli alberi in questione sono stati ritrovati sulla sponda meridionale del Canale di Bristol, in Inghilterra, vicino alla piccola città di Minehead. Il lavoro archeologico è stato condotto sul complesso più elevato delle scogliere inglesi, in un sito attualmente raggiungibile solo in barca e che in un primo momento non era considerato particolarmente interessante dagli esperti. Neil Davies, professore del Churchill college di Cambridge e autore principale dello studio, ha infatti sottolineato come sia stato fondamentale un riesame scrupoloso di questo sito già battuto, e di come più in generale le rocce britanniche non hanno ancora finito di raccontare la loro storia.
I fossili appartengono alla specie Calamophyton, delle piante caratterizzate da un lungo tronco cavo e da una chioma a ciuffo i cui
I FOSSILI DEGLI ALBERI PIÙ ANTICHI DI SEMPRE
Il lavoro archeologico è stato condotto sulle scogliere inglesi, in un sito attualmente raggiungibile solo in barca
rami sono privi di foglie (in qualche modo simili alle palme). Date le loro peculiarità, sono stati definiti dagli scienziati “proto-alberi”: il bosco di Calamophyton sarebbe sorto nella regione del Somerset, tra 419 e 358 milioni di anni fa, quando la vita iniziava la sua prima grande espansione sulla terraferma. La foresta che si deve immaginare pensando ad un tempo così remoto è molto diversa da quella attuale: ai piedi degli alberi non c’era nemmeno l’ombra di un sottobosco, e su un tappeto di suolo spoglio, poiché l’erba non era ancora comparsa,
planavano sgraziati e si adagiavano i loro rami. Gli unici che potevano osservare questa prorompente danza primordiale non erano i mammiferi, bensì le poche e fortunate specie di uccelli allora esistenti, che erano molto più simili ai rettili che ai volatili oggi conosciuti. L’importanza dei Calamophyton nel periodo del Devoniano medio era legata al rapporto tra gli ambienti della terraferma e quelli marini, poiché i detriti degli alberi si accumulavano all’interno di strati sedimentari, che influenzavano lo scorrere dei fiumi nel paesaggio. (M. O.).
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Ambiente
AL VIA IL PIANO MER UN PROGETTO PER “RESTAURARE” I MARI ITALIANI
È prevista la mappatura dell’intera costa italiana: la campagna restituirà dati ad altissima risoluzione utili per creare l’Atlante digitale dei mari e tutelare la biodiversità
di Sara Bovio
«Prende il largo il più grande progetto di mappatura e ripristino degli ecosistemi marini, il piano MER (Marine Ecosystem Restoration) del PNRR, un vero e proprio laboratorio di restauro degli habitat e osservatorio dei fondali che traccerà la rotta per interventi futuri». Lo comunica in una nota l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) dopo aver assegnato la gara d’appalto per censire gli habitat dell’intera costa italiana. Elemento senza precedenti del progetto è la mappatura degli habitat di tutta la fascia costiera italiana fino a 800 metri verso l’interno, con l’uso di tecnologie all’avanguardia e l’intenzione di trasformare la conservazione e gli sforzi per il ripristino degli ecosistemi marini.
Grande attenzione sarà prestata a specie marine di interesse conservazionistico come le praterie di Posidonia oceanica e Cymodocea nodosa che saranno mappate utilizzando sensori di ultima generazione, tra cui LiDAR e sensori ottici aviotrasportati, gravimetria e sensori satellitari, arrivando a coprire una superficie di 10.200 km2, una tecnologia multibeam e l’impiego di un veicolo sottomarino autonomo per l’osservazione diretta di 4000 chilometri di costa.
La campagna di monitoraggio restituirà dati ad altissima risoluzione ai governi locali che si occuperanno della protezione degli habitat e della biodiversità. «Il progetto di mappatura
delle nostre coste compie il primo passo, grazie alla tecnologia LiDAR creeremo l’Atlante digitale dei nostri mari», afferma il Presidente di ISPRA, Stefano Laporta. «Grazie ai rilievi condotti su tutta la costa per un totale di 7.500 km – aggiunge Laporta - senza precedenti in Italia in termini di estensione ma anche di dettaglio, avremo informazioni estremamente preziose sia nell’ambito della scoperta di nuove specie e habitat che nell’ambito della conformazione dei fondali per la geotermia».
«La mappatura degli habitat marini profondi - aggiunge Maria Siclari, direttore generale di ISPRA - si occuperà di censire anche più di 70 monti sottomarini, da 500 fino a 2.000 metri di profondità, indagando aree quasi completamente sconosciute. Grazie a questo progetto potremo identificare gli habitat marini costieri con una elevata risoluzione e fornire informazioni dettagliate sulla batimetria e la morfologia della costa, consentendo di effettuare previsioni affidabili sui fenomeni di erosione costiera e la vulnerabilità delle coste in caso di eventi estremi quali le mareggiate e le inondazioni costiere».
Il piano Mer, finanziato nell’ambito del PNRR, prevede in totale un finanziamento di 400 Mln di Euro per il 2022-2026, e comprende tra le altre, attività di ormeggio protetto, pulizia dei mari e il ripopolamento dell’ostrica piatta europea. Entro il 2026 saranno installati 91 campi ormeggio per un totale di 1769 ormeggi.
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Nei campi ormeggio, dove è vietato l’ancoraggio sul fondo marino, ci saranno gavitelli assicurati al fondale da sistemi a basso impatto ambientale e visivo a tutela delle zone con fondali sensibili con presenza di specie bentoniche protette e di interesse comunitario.
Per quanto riguarda la pulizia dei mari è stata aperta la procedura per affidare il servizio di rimozione e conferimento delle cosiddette “Ghost Nets”, le reti fantasma e tutti gli attrezzi da pesca abbandonati in mare. Le reti abbandonate, lunghe anche chilometri, sono secondo i dati ISPRA il 94% dei rifiuti che si ritrovano in mare legati alle attività di pesca. L’Istituto ha già avviato il monitoraggio per identificare con precisione i siti critici per la rimozione di questi oggetti e preservare la flora e la fauna locale: una procedura che coinvolgerà una squadra di subacquei altamente specializzati e che prevederà anche l’impiego di strumentazioni avanzate come ROV, Multibeam e Side Scan Sonar. Il piano durerà 28 mesi e si concluderà entro il 30 giugno 2026.
Un altro progetto compreso nel piano MER ha come protagonista l’ostrica piatta europea Ostrea edulis, una specie autoctona dell’Adriatico. Forse in pochi sanno che queste ostriche sono in grado di costruire nei nostri mari dei veri e propri reef calcarei,
La campagna di monitoraggio restituirà dati ad altissima risoluzione ai governi locali che si occuperanno della protezione degli habitat e della biodiversità.
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l’equivalente, alle nostre latitudini, delle barriere coralline tropicali, e per questo motivo sono chiamate “ingegneri ecosistemici”. Purtroppo si stima che l’85% dei banchi naturali di ostriche sia andato perduto, rendendo questo habitat uno dei più minacciati al mondo. Per questa ragione è stato avviato da Ispra l’allevamento di un milione di larve di ostriche piatte europee con l’obiettivo di ricostruire i banchi in ben cinque regioni dell’Adriatico: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo.
Le informazioni e i dati acquisiti con il progetto MER saranno inseriti in una piattaforma informativa, attualmente in fase di sviluppo, che sarà utile per valutare la sostenibilità delle attività marine e pianificare le misure necessarie per affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici che si stanno verificando anche nel Mediterraneo. (S. B.)
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UNA “BIOPSIA VIRTUALE”
CON L’IA AIUTERÀ A VALUTARE LE NEOPLASIE POLMONARI
La tecnica non invasiva messa a punto dai ricercatori dell’Imperial College permette di classificare i tipi di cancro al polmone e fornisce prognosi affidabili sulla malattia
di Sara Bovio
Analizzare le immagini mediche attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale (AI) può fornire informazioni sulla composizione chimica dei tumori del polmone e permette di ottenere una “biopsia virtuale” ai pazienti affetti da questa malattia. L’hanno dimostrato i ricercatori dell’Imperial College di Londra e dell’Imperial College Healthcare NHS Trust, che hanno pubblicato il loro studio sulla rivista npj Precision Oncology.
Secondo gli autori dello studio, la tecnica potrebbe essere impiegata dai medici quando non è possibile o conveniente ottenere una biopsia fisica del tessuto del paziente. Il metodo non è invasivo ed è in grado di classificare il tipo di tumore polmonare da cui dipende la scelta del trattamento giusto e di prevedere se la malattia è destinata a progredire.
Eric Aboagye, ricercatore responsabile dello studio, ha dichiarato: «Attualmente, per cercare di ottenere informazioni approfondite su tessuti e tumori è necessario ricorrere a biopsie invasive, che possono risultare fastidiose per il paziente, ritardare le decisioni terapeutiche ed essere costose per i servizi sanitari. Sebbene le scansioni TC siano comunemente utilizzate in clinica, non sono in grado di offrire informazioni dettagliate sul tipo di cellula o sulla prognosi delle malattie». Marc Boubnovski Martell, primo autore della ricerca, ha aggiunto:
«La nostra tecnica permette di classificare i tipi di cancro al polmone e, cosa importante, fornisce previsioni affidabili sugli esiti dei pazienti». Poiché i sintomi del tumore polmonare non si manifestano nelle fasi iniziali, lo studio nasce anche dall’urgente necessità di trovare nuovi metodi per individuare e trattare la malattia prima che si diffonda ad altre parti del corpo. Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale è stata utilizzata per analizzare le scansioni mediche e cercare segni di malattie che possono sfuggire ai medici o che potrebbero non essere visibili a occhio nudo. L’IA generativa, un tipo di IA in grado di apprendere dai dati per creare nuovi contenuti, è attualmente in fase di studio per molteplici applicazioni. Il team dell’Imperial ha fatto un altro passo avanti e si è chiesto se le informazioni sulla chimica del tumore polmonare contenute nel profilo metabolomico, derivante da specifici processi cellulari tumorali, potessero apparire nelle scansioni TC. Per addestrare il modello di intelligenza artificiale i ricercatori hanno utilizzato i dati di 48 pazienti affetti da cancro ai polmoni trattati presso l’Ospedale Universitario Reina Sofia (UHRS) di Córdoba, in Spagna. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a una TAC e a una dettagliata profilazione metabolomica del tessuto tumorale e del tessuto sano vicino al tumore. I pazienti disponevano inoltre di una diagnosi definitiva e di molte informazioni cliniche ag-
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giuntive. Analizzando tutti questi dati, l’équipe dell’Imperial ha sviluppato uno strumento di valutazione basato sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento profondo, chiamato tissue-metabolomic-radiomic-CT (TMR-CT). I ricercatori hanno trovato una correlazione significativa e potente tra i profili metabolomici dei pazienti e le immagini che appaiono come aree più chiare o più scure nelle loro TC.
Con il metodo TMR-CT, i ricercatori hanno ipotizzato di poter evitare l’utilizzo di campioni fisici di tessuto e di dedurre le caratteristiche metaboliche del tumore dalla sola scansione TC. Per verificarlo, hanno utilizzato il loro modello TMR-CT in un gruppo separato di 723 pazienti con tumore al polmone trattati presso il Royal Marsden Hospital, il Guy’s and St Thomas’ Hospital o l’Imperial College NHS Healthcare Trust. Tutti i pazienti avevano una TAC, ma non erano disponibili dati di metabolomica. Come si legge nello studio, le informazioni chimiche della metabolomica tissutale forniscono un potente mezzo per elaborare la fisiologia del tessuto o le caratteristiche del tumore a livello cellulare e di microambiente tumorale. Tutta-
Poiché i sintomi del tumore polmonare non si manifestano nelle fasi iniziali, lo studio nasce anche dall’urgente necessità di trovare nuovi metodi per individuare e trattare la malattia prima che si diffonda ad altre parti del corpo.
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via, il processo per ottenere tali informazioni richiede biopsie invasive, è costoso e può ritardare la gestione clinica del paziente. La TC è invece un esame rapido, ma non contiene informazioni istologiche o prognostiche. I risultati hanno dimostrato che la TMR-CT è riuscita a classificare il tumore al polmone e, soprattutto, ha fornito previsioni affidabili sugli esiti dei pazienti, superando le prestazioni dei metodi tradizionali.
Il desiderio dei ricercatori è di confermare la validità del metodo TMR-CT in altri gruppi di pazienti affetti da tumore al polmone e potenzialmente estendere il suo utilizzo anche a persone con tumori al cervello, alle ovaie e all’endometrio, per i quali può essere difficile ottenere biopsie.
Aboagye termina: «Questa ricerca mostra il potenziale dell’uso delle scansioni TC per ottenere una comprensione più profonda della composizione chimica dei tessuti e dei tumori, finora accessibile solo attraverso il campionamento diretto dei tessuti. Questo metodo potrebbe potenzialmente trasformare i protocolli diagnostici e di trattamento delle malattie tumorali».
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INTRAPPOLARE LA LUCE E CONVERTIRE L’ENERGIA
La ricerca, pubblicata su Nature, potrebbe favorire sviluppi nella tecnologia quantistica e nei dispositivi fotonici
Uno studio internazionale, che ha visto insieme ricercatori italiani dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli, statunitensi della Molecular Foundry di Berkeley e studiosi della National University of Singapore (Nus), ha permesso di centrare un importante risultato nel campo della nanofotonica, vale a dire il settore della ricerca che studia il comportamento della luce e la sua interazione con la materia a livello nanometrico.
La ricerca, che è stata pubblicata
sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, ha condotto alla dimostrazione di un nuovo fenomeno fisico chiamato “accoppiamento supercritico”, grazie al quale l’efficienza di conversione di fotoni a bassa energia (invisibili) in fotoni ad alta energia (visibili) può essere amplificata di diversi ordini di grandezza. Tale scoperta apre certamente nuove strade per manipolare la luce in molti ambiti scientifici e potrebbe promuovere sviluppi interessanti nella tecnologia quantistica, nell’imaging ad alta risoluzione e nei dispositivi fotonici come laser, cavità ottiche e risonatori.
Gianluigi Zito (Cnr-Isasi), che è il coordinatore dello studio assieme a Xiaogang Liu del Dipartimento di Chimica della National University of Singapore, ha così argomentato gli esiti della ricerca: «La conversione di fotoni è una tecnica cruciale con numerose applicazioni, dalla generazione di luce alla microscopia a super risoluzione. Per aumentare l’efficienza di tale processo è necessario amplificare l’interazione tra i fotoni e gli atomi che innescano il processo di conversione: è qui che entra in gioco il concetto di accoppiamento supercritico. Abbiamo, cioè, sfruttato la proprietà fisica dei cosiddetti stati legati nel continuo grazie alla quale un fotone può supportare una configurazione del campo elettromagnetico in cui la luce, anziché propagarsi nello spazio rimane “intrappolata”, senza perdere energia. In questo modo abbiamo dimostrato un aumento della conversione di luce di otto ordini di grandezza, nonché la propagazione diretta dei fotoni convertiti in luce visibile con eccezionale precisione».
Intrappolando i fotoni a bassa energia, essi possono interagire innumerevoli volte con la materia che li converte in fotoni visibili, sfruttando e controllando le proprietà del fenomeno in modo estremamente più efficiente: questo permette, inoltre, di amplificare altri fenomeni fisici di interesse nelle più moderne tecnologie.
Xiaogang Liu della National University of Singapore, ha aggiunto e spiegato: «Questo studio, oltre a rappresentare una scoperta fondamentale, rappresenta altresì un vero e proprio cambio di paradigma nel campo della nanofotonica, che porta a modificare la nostra comprensione della manipolazione della luce a livello nanometrico. Le implicazioni dell’accoppiamento supercritico vanno oltre la conversione dei fotoni e offrono potenziali avanzamenti nella fotonica quantistica e in vari sistemi basati su risonatori accoppiati».
70 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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di Pasquale Santilio
Innovazione
Gli idruri sono composti binari costituiti da un metallo o non metallo (non appartenente al gruppo degli alogeni) e dall’idrogeno, dove esso assume come numero di ossidazione -1 o +1, a seconda dell’elemento con cui si trova. La varietà di composti formata dall’idrogeno è vasta, si pensa maggiore di quella di ogni altro elemento. Virtualmente ogni elemento della tavola periodica formano uno o più tipi di idruri, che possono essere classificati in tre categorie principali in base alla natura predominante del loro legame: idruri ionici, noti anche come idruri salini; idruri covalenti; idruri interstiziali, che possono essere descritti come costituenti un legame metallico, perché legano l’elettrone addizionale dalla nuvola elettronica della massa metallica.
Un gruppo di ricerca internazionale composto, per l’Italia, da ricercatori dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste e dell’Università Roma Tre, in collaborazione con i colleghi dell’University College di Londra, dell’Università di Bristol (Regno Unito), dell’University of Technology di Delft (Olanda) e dell’Università di Zurigo (Svizzera) ha raggiunto importanti risultati per affrontare in modo tecnologicamente più efficiente il problema dello stoccaggio dell’idrogeno.
Lo studio si è concentrato sugli idruri metallici, considerati tra i più promettenti per guidare la futura transizione ecologica basata sulla capacità di utilizzo e stoccaggio efficiente dell’idrogeno. Si tratta di materiali metallici in cui sono stati immagazzinati atomi di idrogeno, potenzialmente utilizzabili “on-demand” in maniera regolabile e reversibile. Identificare il carattere elettronico e l’ambiente chimico dell’idrogeno negli idruri metallici rappresenta, quindi, una sfida chiave in ambito energetico.
GREEN ENERGY PER STOCCARE IDROGENO
Lo studio, pubblicato su Prx Energy, identifica il collegamento tra elettronica e le proprietà di alcuni materiali
Il team ha utilizzato tecniche di spettroscopia e di analisi fine della materia presso grandi infrastrutture quali i sincrotoni Diamond Light Source nel Regno Unito, e Desy, in Germania. Giancarlo Panaccione, direttore del Cnr-Iom, ha spiegato: «Combinando attività teoriche e sperimentali, siamo riusciti a identificare in due idruri metallici tecnologicamente rilevanti, l’idruro di titanio e l’idruro di ittrio, le loro proprietà elettroniche, la forza e la stabilità del legame chimico metallo-idrogeno. Questi risultati hanno permesso di ottenere il collegamento tra la struttura elettronica di questi
materiali e le loro proprietà termodinamiche, fattore estremamente rilevante da un punto di vista applicativo ed energetico».
Francesco Offi, fisico del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre, ha aggiunto: «L’utilizzo e l’immagazzinamento efficiente dell’idrogeno rappresentano un crocevia cruciale per settori importanti della tecnologia e della società dei prossimi decenni, quali ad esempio i settori dell’automotive e della sensoristica intelligente. Questo tema rimarrà al centro delle attività scientifiche e delle collaborazioni nazionali ed internazionali dei nostri Istituti». (P. S.).
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Innovazione
INTESTINO INFIAMMATO
CERVELLO COMPROMESSO
Una ricerca Enea ha evidenziato le ripercussioni delle infiammazioni intestinali nei processi cognitivi cerebrali
Da uno studio condotto nel Laboratorio Enea di Tecnologie biomediche, è emerso che le infiammazioni dell’intestino possono compromettere l’area del cervello coinvolta nei processi cognitivi. In particolare, sono stati considerati gli effetti della colite cronica e acuta sulla formazione di nuovi neuroni (neurogenesi) nell’ippocampo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Neural Regeneration Research.
Simonetta Pazzaglia, responsabile del Laboratorio Enea di Tecnologie biomediche e coautrice dello studio
insieme ai colleghi Roberta Vitali, Clara Prioreschi, Eleonora Colantoni, Daniela Giovannini, Sarah Frusciante, Gianfranco Diretto, Mariateresa Mancuso e Arianna Casciati, ha dichiarato: «Negli ultimi anni l’interazione tra intestino e cervello è diventata un tema di crescente interesse e diverse ricerche hanno evidenziato come le alterazioni del microbiota intestinale possono causare obesità, diabete e patologie autoimmuni, ma anche essere associate a disturbi psichici e cognitivi come ansia, depressione, attacchi di panico e malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer».
Innovazione
I risultati ottenuti in laboratorio mostrano che la colite si associa alla comparsa di neuroinfiammazioni e di significative alterazioni nella produzione di nuovi neuroni da parte dell’ippocampo. Inoltre, la ricerca ha rivelato che in presenza di infiammazione intestinale si genera un’alterazione chimica del metabolismo degli amminoacidi, dei lipidi e della vitamina B1 (tiamina), quest’ultima fondamentale per la vita delle cellule e per il normale funzionamento di cervello, nervi e cuore.
La ricercatrice ha proseguito: «Queste alterazioni sono correlate a patologie come la sindrome dell’intestino irritabile o morbo di Crohn, la colite ulcerosa, il cancro del colon-retto e l’autismo a conferma che altri tipi di disturbi mentali potrebbero essere associati all’infiammazione intestinale e allo squilibrio metabolico. Questi risultati indicano che l’infiammazione intestinale non è un fenomeno isolato, ma può influenzare la salute dell’organismo, alterando i metaboliti che possono avere un impatto sul cervello. Studiare i meccanismi che regolano questa complessa rete di comunicazione bidirezionale tra i due organi sarà molto utile per individuare nuove strategie terapeutiche per l’infiammazione intestinale, reintegrando correttamente la flora batterica oppure usando farmaci di nuova generazione o anche molecole di origine naturale».
Le evidenze scientifiche accumulate negli ultimi dieci anni hanno suggerito che questo collegamento può rappresentare anche un nuovo bersaglio terapeutico per il trattamento delle malattie neurodegenerative.
Simonetta Pazzaglia ha concluso: «Curare il microbiota intestinale specifico dei pazienti potrebbe alleviare anche i sintomi neurologici nelle malattie neurodegenerative, la malattia di Alzheimer e di Parkinson».
L’incidenza delle malattie infiammatorie intestinali è elevata nei paesi industrializzati ed anche nelle economie emergenti. (P. S.). ©
72 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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Nuovi dispositivi smart e compatti in grado di rivelare gli effetti delle radiazioni ionizzanti su cellule e tessuti tumorali e sani, migliorando l’efficacia di terapie oncologiche innovative, come la protonterapia. Questo è quanto stato messo a punto nell’ambito del progetto Biotrack coordinato da Enea e finanziato dalla Regione Lazio. Questi rivelatori innovativi di tracce nucleari fluorescenti abbinano il fluoruro di litio, materiale trasparente molto sensibile alle radiazioni ed equivalente al tessuto umano, con film di microgel biocompatibili per culture cellulari, utilizzati per studiare gli effetti radiobiologici della protonterapia, trattamento oncologico che, rispetto alle cure più tradizionali a raggi X, ha il vantaggio di colpire e distruggere in modo mirato la massa tumorale, preservando i tessuti e gli organi sani adiacenti.
Rosa Maria Montereali, responsabile del Laboratorio Enea di Micro e nanostrutture per la fotonica, ha sottolineato: «Questo risultato è stato possibile grazie alla combinazione delle tecnologie innovative della fotonica e dei nanomateriali con quelle degli acceleratori di particelle e della dosimetria, consentendo di facilitare e gettare una nuova luce sulle terapie innovative per vincere la sfida contro il cancro».
Massimo Piccinini del Laboratorio Enea di Micro e nanostrutture per la fotonica, ha evidenziato: «La rivelazione delle tracce nucleari fluorescenti si basa su tecniche di microscopia ottica. Quando i protoni di bassa energia attraversano un cristallo trasparente di fluoruro di litio, formano dei difetti puntiformi che, illuminati da una luce blu emettono una debole fotoluminescenza, evidenziando i singoli protoni sotto forma di puntini luminosi impressi nel fluoruro di litio».
Enrico Nichelatti del Laboratorio Enea di Micro e nanostrutture per la
NUOVI SENSORI PER LE TERAPIE ONCOLOGICHE
Grazie al progetto Biotrack, coordinato da Enea, dispositivi smart per migliorare l’efficacia di terapie innovative
fotonica, ha dichiarato: «Questi risultati sono stati ottenuti anche grazie a simulazioni e modelli matematici sviluppati ad hoc per ricostruirne la cosiddetta curva di Bragg, cioè la curva di deposizione dell’energia, che è stata registrata per intero come immagine luminescente anche in film sottili di fluoruro di litio».
Maria Aurora Vincenti del Laboratorio Enea di Micro e nanostrutture per la fotonica, ha aggiunto: «I film sottili di fluoruro di litio vengono prodotti presso i nostri laboratori di Frascati per evaporazione termica. Grazie al controllo delle condizioni
di deposizione, risultano trasparenti anche quando depositati su substrati riflettenti, quali il silicio, consentendo la misura relativa di dose e la sua accurata mappatura bidimensionale».
Concetta Ronsivalle, responsabile del Laboratorio Enea Acceleratori di Particelle e applicazioni medicali, ha sottolineato: «La linea verticale dell’acceleratore Top-Implart, progettata per irraggiamenti di campioni cellulari per lo studio della risposta di sistemi biologici alle radiazioni, è stata anche impiegata per valutare quantitativamente la risposta dei nuovi tipi di rivelatori di radiazione». (P. S.).
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Innovazione
RICOSTRUITO E RIMESSO IN PIEDI IL TELAMONE DEL TEMPIO DI ZEUS AD AGRIGENTO
Il colosso di quasi otto metri è stato riassemblato con frammenti di diverse statue. L’iniziativa, però, ha diviso esperti e studiosi
di Rino Dazzo
74 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Beni culturali
Guarda verso Agrigento dalla zona a nordest del Tempio di Zeus Olimpio, come a voler ancora assolvere alla sua antica missione: proteggere la struttura votiva di cui era parte integrante e la stessa città di Akragas che, nel 480 a.C., ne aveva deciso la costruzione per celebrare la cruciale vittoria su Cartagine nella battaglia di Hiera, avvenuta sotto il tiranno Terone. Dopo secoli in cui era rimasto disteso sul terreno, frantumato in più pezzi, torna ad alzarsi in piedi un Telamone dell’Olympieion. Lo fa con la maestosità dei suoi otto metri d’altezza, poggiato su una struttura in acciaio corten che, da sola, supera i dodici metri e su cui sono state sistemate delle speciali mensole per reggere le varie parti del colosso.
A inizio marzo la cerimonia di svelamento della ricostruzione, a cui hanno presenziato diverse figure istituzionali della Regione Siciliana: il presidente Renato Schifani, l’assessore ai Beni culturali Francesco Paolo Scarpinato, il direttore del Parco Archeologico e paesaggistico della Valle dei templi, Roberto Sciarratta, oltre al sindaco di Agrigento Francesco Micciché, all’esperto scientifico del progetto di musealizzazione, Alessandro Carlino, e al curatore del progetto stesso, Carmelo Bennardo. Un passo funzionale al
Giornale dei Biologi | Mar 2024 75
Beni culturali
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2025, in cui Agrigento sarà Capitale italiana della Cultura, e che non ha visto la partecipazione di esponenti del Governo nazionale. Un intervento che, assicurano gli ideatori, rappresenta il cuore di un significativo processo di musealizzazione dell’intera area, da effettuarsi in base agli studi condotti tra il 2005 e il 2008 dallo stesso Parco Archeologico insieme al’Istituto Archeologico Germanico di Roma, sotto la guida di Heinz-Jürgen Beste.
Il Telamone, insieme a 37 «fratelli», era posto tra le imponenti colonne, alte quasi 18 metri, che sorreggevano il tetto del tempio di Zeus. Erano chiamati anche Atlanti, come l’Atlante condannato proprio da Zeus a reggere il mondo quale punizione per aver aiutato i Titani, ed erano dei veri e propri giganti di pietra. Quello riportato in piedi è stato assemblato combinando blocchi originali e frammenti scoperti negli Anni 20 del secolo scorso intorno all’area del tempio e appartenenti a diversi telamoni. Un dettaglio, questo, che ha scatenato qualche polemica e finanche dell’ironia. C’è chi, tra gli addetti ai lavori, ha parlato di «Operazione Frankenstein» e chi, come il Museo Archeologico di Venezia, ha ironizzato sui social sull’iniziativa, paragonando il Telamone ricostruito a una statua di Agrippa conservata in Laguna, salvo poi cancellare il post.
di capitelli, oltre che frammenti di architrave, fregio e cornice. «Il progetto vuole musealizzare una serie di elementi architettonici e statuari particolarmente importanti presenti nell’area del Tempio di Zeus, ultima esile testimonianza delle finiture del santuario», le parole del direttore Sciarratta.
Al di là delle critiche, che hanno scatenato un vivace e in qualche caso colorito dibattito tra sostenitori e detrattori dell’iniziativa, l’assemblamento e la messa in piedi del Telamone rientrano nell’ambito del già citato processo di musealizzazione dell’Olympieion, tendente a ricostruire, in modo attendibile, le architetture del tempio e dell’area archeologica. Processo che ha portato a localizzare una novantina di frammenti appartenenti alle sculture del tempio, ad alcuni telamoni, a diversi blocchi modanati che facevano parte del frontone e della trabeazione, un paio
Dopo secoli in cui era rimasto disteso sul terreno, frantumato in più pezzi, torna ad alzarsi in piedi. Lo fa con la maestosità dei suoi otto metri d’altezza, poggiato su una struttura in acciaio corten che, da sola, supera i dodici metri e su cui sono state sistemate delle speciali mensole per reggere le varie parti del colosso.
© Zyankarlo/shutterstock.com
Del resto, il Telamone rimesso in piedi e che tanto ha fatto discutere ha già un «gemello», un altro Telamone ricomposto nel XIX secolo da Raffaello Politi su disegno di Charles Cockerell e conservato presso il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, intitolato all’ex sovrintendente Pietro Griffo. Una scultura riassemblata, rimodellata e sistemata nella sala «Cavallari» in posizione eretta. Inoltre, vari altri colossi giacciono in pezzi tra i resti del più grande tempio greco della Sicilia, compresa una riproduzione in tufo dello stesso Telamone esposto nel museo. Questo per dire che di resti di colossi la zona attigua al tempio è piena. L’idea del Parco dei Templi è stata quella di riportarne letteralmente in piedi uno e di esporlo in tutta la sua imponenza nella stessa area archeologica, offrendo un’ulteriore attrazione ai visitatori.
«Occorre migliorare la capacità attrattiva e la fruizione del nostro inestimabile patrimonio culturale», l’input del governatore Schifani. «Nonostante i dati sul turismo del 2022 e del 2023 ci dicano che la Sicilia è una delle mete turistiche più gettonate, il rapporto tra patrimonio culturale e flussi turistici non è ancora, a mio avviso, soddisfacente. Si può fare di più e meglio. Dobbiamo migliorare i servizi di accoglienza, soprattutto per le persone con disabilità, dobbiamo aumentare la capacità ricettiva nei confronti dei turisti stranieri, occorre lavorare per rendere attrattivi i nostri gioielli 365 giorni all’anno, nell’ottica di processo di destagionalizzazione dei flussi turistici».
76 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Beni culturali
Torna a Napoli una delle più importanti opere di Caravaggio: La Presa di Cristo, nella sua prima versione. Si tratta di una delle composizioni più ricche di pathos dell’artista, composta durante il suo soggiorno a Roma. La Presa di Cristo, insieme alle tele della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, costituisce una svolta nella rappresentazione espressiva dei soggetti, prima generalmente mitologici. Quest’opera fu recentemente restaurata e fu oggetto di meticolosi studi, per poi essere recentemente esposta a Palazzo Chigi ad Ariccia (Roma) dopo moltissimi anni. Prima questo quadro era stato esposto solo nel 1951 nella “Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi” curata da Roberto Longhi. Esistono due versioni autografe della Presa di Cristo: una ritrovata nella collezione Ruffo di Calabria nel 1943 e un’altra della Compagnia dei Gesuiti di Dublino, situata nella National Gallery of Ireland dal 1993. Le opere, nonostante siano autografe, differiscono notevolmente tra di loro in stile ed espressione artistica, così da ritenere la versione Ruffo l’originale e quella irlandese una replica. La prima versione è quella che si trova a Napoli attualmente fino al 16 giugno 2024. Il capolavoro di Caravaggio è esposto nelle sale di Palazzo Ricca, sede della Fondazione Banco di Napoli, in una mostra curata da Francesco Petrucci e don Gianni Citro.
«La presa di Cristo esposta nelle sale di Palazzo Ricca è il più importante ritrovamento dell’opera di Caravaggio degli ultimi decenni per la complessità della composizione e per i contenuti spirituali che esprime – spiega Francesco Petrucci –. Caravaggio è un pittore concettuale e quello che gli interessa sono soprattutto i contenuti espressivi. Il quadro, che ritorna a Napoli, dove, nella collezione Colonna di Stigliano, era presumibilmente rimasto fino al 1830 circa, è la prima versione della Presa di Cristo, seguita, poi, dalla replica di Dublino, che non ha la stessa potenza espressiva, è mol-
A NAPOLI IL CRISTO DI CARAVAGGIO
Dopo molti anni, la celebre tela torna in mostra nel capoluogo campano dal 2 marzo al 16 giugno 2024
di Eleonora Caruso
to più piccola e non ha la cornice nera rabescata d’oro, che aveva il prototipo. Cornice, peraltro, comune ad altre opere romane del Merisi. L’opera esposta a Napoli compare nei corposi inventari Mattei con tale cornice, presenta inoltre numerosi pentimenti tipici di una prima versione, assenti nella replica irlandese».
Oltre ad ammirare la mostra, i visitatori saranno immersi nelle nobili sale barocche di Palazzo Ricca, con le volte affrescate da Giacinto Diana. Inoltre sono stati allestiti pannelli didattici e installazioni interattive, così da poter comprendere la complessa storia dell’opera di Caravaggio.
Don Gianni Citro, uno degli organizzatori della mostra, ha messo in evidenza il legame tra l’arte e la vita quotidiana: per lui l’osservazione di un’opera così importante farebbe emergere nel pubblico valori come la misericordia e la redenzione.
Napoli fu una città importantissima per la vita del pittore: durante la sua figa da Roma, trovò accoglienza proprio qui. È per questo che, attraverso questa mostra, la Fondazione vuole rendere omaggio non solo all’arte di Caravaggio, ma anche a Napoli e al legame tra il pittore lombardo e la città partenopea.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 77
La presa di Cristo di Caravaggio.
Beni culturali
QUADARELLA E MINISINI PRINCIPI D’ORO DELLA VASCA
I due romani hanno regalato all’Italia tre medaglie d’or ai Mondiali di Doha, in una rassegna atipica che ha visto gli azzurri concludere al sesto posto nel medagliere
di Antonino Palumbo
78 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Sport
Un Mondiale di nuoto atipico, in pieno inverno, a pochi mesi dal precedente e con diversi protagonisti assenti, per preparare le Olimpiadi di Parigi 2024. Quella disputata a Doha, in Qatar, è stata però, comunque, una rassegna iridata seguita con passione dagli sportivi italiani, ricambiati dagli atleti della Nazionale con successi, podi, emozioni e il sesto posto nel medagliere finale. C’è stata anche qualche delusione e, del resto, la perfezione non esiste. Ma ci sono state anche note liete in prospettiva, per un movimento in buona salute.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 79
© Marco Iacobucci Epp/shutterstock.com Sport
Simona Quadarella.
Bottino gratificante per l’Italia del nuoto in corsia, con tante conferme, qualche novità e pochi musi lunghi. Dodici le medaglie in quest’ambito, malgrado l’assenza del fenomeno Thomas Ceccon, che ha rinunciato al Mondiale sia per recuperare dall’infortunio a un dito, sia per ragioni di preparazione in vista di un’Olimpiade (Parigi, 26 luglio-11 agosto) preceduta a giugno anche dagli Europei.
Assoluta regina azzurra in Qatar è stata Simona Quadarella vincitrice di due medaglie d’oro, nei 1500 e negli 800 stile libero. Storica, in particolare, l’impresa sulla distanza minore, con la nuotatrice romana che ha emulato Novella Calligaris a 51 anni dal successo di Belgrado 1973. Vero, mancava Katie Ledecky, la 26enne pluriolimpionica statunitense, detentrice del record mondiale su entrambe le distanze e atleta più medagliata a livello iridato nella storia del nuoto femminile. Ma questo nulla toglie ai due splendidi successi di Quadarella. La gara dei 1500 metri è stata una cavalcata trionfale, conclusa con un vantaggio di dieci secondi sulla cinese Li Bingjie e poco più sulla tedesca Isabel Marie Gose. La stessa che nella finale mozzafiato degli 800 metri si è dovuta accontentare dell’argento alle spalle di Simona per appena 9 centesimi di secondo.
Niente vittorie, ma conferme e medaglie sono arrivate come d’abitudine da Nicolò Martinenghi, argento sia nei 50m sia nei 100m rana, Alberto Razzetti e Alessandro Miressi, secondi rispettivamente nei 200m farfalla e nei 100m stile libero. Per il “Razzo’” anche un bronzo nei 200m misti. Sempre valide le staffette maschili: argento per la 4x100 stile libero maschile, bronzo per la 4x100 mista.
Fra le “cose belle” del Mondiale di Doha c’è stato il bronzo nei 50 rana della 19enne tarantina Benedetta Pilato, al quarto podio in altrettante rassegne iridate. Piacevole novità ad altissimi livelli è stata invece Sara Franceschi che, malgrado i problemi fisici degli ultimi mesi, è stata premiata a Doha da uno splendido bronzo nei 400m misti.
Nel nuoto in acque libere stavolta l’Italia è rimasta a secco di medaglie d’oro, ma si è regalata comunque un paio di sorrisi da podio. Protagonista sia nella 5km maschile sia nella staffetta 4x1,5 km è stato il lucano
Novella Calligaris.
Assoluta regina azzurra in Qatar è stata Simona Quadarella vincitrice di due medaglie d’oro, nei 1500 e negli 800 stile libero. Storica, in particolare, l’impresa sulla distanza minore, con la nuotatrice romana che ha emulato Novella Calligaris a 51 anni dal successo di Belgrado 1973.
Domenico Acerenza, bronzo nell’individuale e argento con Giulia Gabrielleschi, Arianna Bridi e Gregorio Paltrinieri nella prova di squadra. L’oro è sfumato solo al fotofihish, per 20 centesimi.
Se Quadarella è stata la regina azzurra dei Mondiali del nuoto, il re è indubbiamente Giorgio Minisini, campione nel libero del singolo del nuoto artistico (uno dei 4 ori su 11 specialità vinti da atleti non cinesi) e argento nel tecnico, a 1,1 punti da Yang Shuncheng. Campione d’Europa nel 2022, assente a Fukuoka per un infortunio al ginocchio, Minisini aveva inaugurato il Mondiale di Doha con un quinto posto nel duo misto con Susanna Pedrotti, ‘causato’ anche da un suo blackout a due terzi dell’esibizione. Poi il parziale riscatto d’argento per il 27enne romano, prima dell’oro sulle note di Hallelujah di Andrea Bocelli nel solo tecnico.
Nella valigia dei ricordi belli, l’Italia delle acque porta con sé anche le due medaglie d’argento ottenute nei tuffi sincronizzati dal trampolino 3 metri. Fra gli uomini Lorenzo Marsaglia e Giovanni Tocci sono stati i primi fra gli “umani”, dietro i divini cinesi Wang Zongyuan e Long Daoyi. Nel misto, solo l’Australia ha fatto meglio di Chiara Pellacani e Matteo Santoro.
Dell’Italia è piaciuto anche il cammino del Settebello e del Setterosa, le due nazionali di pallanuoto. Entrambe si sono qualificate alle prossime Olimpiadi. Gli uomini hanno anche sfiorato il successo finale, sfumato solo ai rigori della finale con la Croazia. I balcanici hanno raggiunto l’ultimo pareggio a 5 secondi dalla sirena finale. Spettacolare, in precedeza, la semifinale con la Spagna, vinta per 8-6 dagli azzurri grazie anche alle parate di un gigantesco Marco Del Lungo.
Fra le delusioni di Doha c’è il nono posto di Linda Cerruti e Lucrezia Ruggiero, argento a Fukuoka 2023, nel duo tecnico del nuoto sincronizzato. Le azzurre hanno pagato cara una penalità durante uno degli elementi del programma. Mondiali agrodolci anche per un monumento del nuoto azzurro, Gregorio Paltrinieri: terzo negli 800 stile libero, il capitano è rimasto escluso dalla finale dei 1500, mentre in acque libere si è classificato quinto nella 5 km dopo aver rinunciato a gareggiare nella distanza doppia.
80 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Sport
Quante volte si associa la parola “favola” al mondo dello sport. Forse perché è un terreno in cui, spesso, si realizzano quei sogni cullati da bambino e spesso talmente grandi da apparire molto più grandi delle reali possibilità. L’ultima favola di un tennis italiano diventato sempre più “potenza” a livello mondiale, con l’ascesa di Sinner & Co. e il successo in Coppa Davis, è quella di Luca Nardi, ventenne pesarese, numero 123 del mondo prima del prestigioso torneo di Indian Wells. La sua impresa? Sconfiggere il proprio idolo, Novak Djokovic, cui si è ispirato tanto da avere una sua foto in camera da letto, sin da ragazzino. «Una sensazione incredibile. Non potevo nemmeno immaginare di giocare una partita contro di lui, e ora l’ho anche battuto. È un sogno che si avvera per me» le prime parole di Nardi. L’impresa è datata 11 marzo.
Battuto nelle qualificazioni al terzo set dal belga David Goffin, Nardi era approdato direttamente al secondo turno come lucky loser al posto di Tomás Martín Etcheverry. Lì aveva sconfitto in tre set (6-3, 3-6, 6-3) il cinese Zhang Zhizhen, approdando ai sedicesimi di finale, sul campo 1, proprio contro il numero 1 del mondo. Sin dal primo set, il marchigiano allenato da Giorgo Galimberti ha dato l’impressione di riuscire a rintuzzare gli attacchi del campione serbo, firmando un break al quinto game e chiudendo il primo set sul 6-4. Immediata la reazione di Nole, che ha strappato il servizio a Nardi alla prima occasione, pareggiando i conti sull’1-1. La partita decisiva si è aperta con un altro break di Djokovic, ma il pesarese ha contraccambiato immediatamente e, grazie anche a un’abilità micidiale sulle palle corte e a un parziale di 16 “vincenti” a 2 nel terzo set, ha chiuso 6-3 con il sesto ace della partita. Grazie al prestigioso successo sul numero 1 del mondo, Nardi è salito virtualmente numero 96 del mondo, con la concreta possibilità di entrare
TENNIS, NARDI BATTE IL SUO IDOLO
Il 20enne pesarese ha sconfitto il numero 1 del mondo
Novak Djokovic nel prestigioso torneo di Indian Wells
per la prima volta in Top 100 lunedì alla fine del torneo
Intanto, è diventato il giocatore con la più bassa classifica (n. 123) ad aver mai sconfitto il serbo in un Masters 1000 o in uno Slam, migliorando quanto faatto nel 2008 a Miami da Kevin Anderson, allora numero 122. Luca non se lo sarebbe mai immaginato, dopo aver perso nelle qualificazioni con Goffin. «Era qualcosa come il terzo lucky loser. E non avevo mai battuto un top 50. Ho battuto prima Zhang e ora Djokovic, non so cosa dire al riguardo. Contro Nole è stato pazzesco, è stato un miracolo» ha det-
to dopo lo storico match con Djokovic. E pensare che, prima della partita, il suo principale obiettivo - confidato al tecnico - era evitare un doppio 6-1 per Djokovic. Non essere l’ennesima “vittima” designata del campione, insomma. La sensazione di una prestazione storica lo ha spinto ancora di più. Il tifo del pubblico, anche. Poi l’ultimo game, nel quale ha cercato di metter sempre dentro la prima di servizio. Con successo. «È stato incredibile. Contro Djokovic, il miglior giocatore di sempre. Penso che conserverò questo momento per il resto della mia vita». (A. P.)
Giornale dei Biologi | Mar 2024 81
Sport
si.robi
Luca Nardi.
QUANT’È BELLA LA GIOVANE ITALIA
DELL’ATLETICA LEGGERA
Ai Mondiali indoor di Glasgow, gli azzurri hanno eguagliato il record di medaglie, sono entrati in 11 finali e ottenuto il miglior piazzamento di squadra di sempre
Dosso, Fabbri, Furlani, Simonelli. Sono i nuovi cognomi dell’atletica azzurra, i volti felici di quattro ragazzi saliti sul podio ai Mondiali indoor di Glasgow, in un’edizione senza “ori” ma con numeri storici per la nazionale italiana. Per la prima volta, infatti, gli azzurri hanno concluso al terzo posto in classifica a punti, salendo a 50 come mai accaduto prima, oltre a eguagliare il record di medaglie.
A inaugurare il medagliere italiano è stato Leonardo Fabbri, bronzo nel peso con la misura di 21,96 metri, alle spalle dello statunitense primatista mondiale Ryan Crouser (22,77) e del neozelandese Tom Walsh (22,07). Già argento iridato all’aperto a Budapest la scorsa stagione, Fabbri è cresciuto in una famiglia di sportivi e dal 2017 gareggia per l’Aeronautica Militare. In nazionale dall’anno successivo, ha vinto il primo titolo italiano nel 2019 a Bressanone. Nel marzo 2020 ha stabilito il record nazionale indoor in 21,59, togliendolo dopo 33 anni ad Alessandro Andrei. A febbraio l’ha ulteriormente ritoccato arrivando a 22,37.
Oro sfiorato, ma soprattutto meraviglioso argento è quello di Mattia Furlani, 19 anni, nel salto in lungo. Il campione europeo under 20 (Gerusalemme 2023) ha eguagliato la misura di 8,22 metri ottenuta dal fuoriclasse greco Miltiadis Tentoglou, che l’ha preceduto solo per il secondo miglior risultato: 8,19 l’altro, 8,10 l’azzurro. Mattia è figlio d’arte: il padre Marcello è stato altista da 2,27 metri, la madre Khaty Seck
velocista. Lo scorso ottobre è stato nominato atleta europeo emergente dell’anno dall’European Athletic Association, mentre a febbraio è volato a 8,34 metri, battendo il record del mondo Under 20 indoor.
Prima volta di un ostacolista italiano sul podio italiano indoor: a vincere l’argento in Scozia è stato Lorenzo Simonelli, 21 anni, romano, padre antropologo e ricercatore italiano, mamma tanzaniana. Migliorando per la quarta volta quest’anno il proprio primato italiano (7”43), è stato preceduto solo dal recordman mondiale Grant Holloway, ma ha battuto il francese Just Kwaou-Mathey. E’ un 2024 da sogno per il portacolori dell’Esercito, già argento europeo U23 e vincitore dei Campionati del Mediterraneo di categoria.
Splendido il bronzo di Zaynab Dosso nei 60 metri in 7”05, stesso crono della semifinale con cui è diventata la prima italiana di sempre in una finale mondiale. Allenata come Simonelli dal coach Giorgio Frinolli e autrice di una magnifica stagione in crescendo, la sprinter emiliana è stata preceduta solo da Julien Alfred (Saint Lucia, 6.98) e dalla polacca Ewa Swoboda (7.00). Ivoriana di nascita, primatista nazionale dei 60 metri piani e dei 100 metri piani, è anche bronzo europeo in carica con la 4x100 azzurra.
I podi azzurri a Glasgow sono stati quattro, ma altri ne abbiamo sfiorati. A partire da quelli negli 800 metri uomini con Catalin Tecuceanu, nel peso maschile con Zane Weir e nel
82 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Sport
pentathlon femminile con Sveva Gerevini. A completare il novero di finalisti e piazzamenti di prestigio il quinto posto di Emmanuel Ihemeje nel triplo, il settimo di Pietro Arese nei 3000m e di Larissa Iapichino nel lungo (a 9 cm dal bronzo), e l’ottavo di Chituru Ali nei 60m maschili.
Se nel medagliere vinto dagli Stati Uniti (6 ori, 9 argenti, 5 bronzi) l’Italia ha concluso “soltanto” sedicesima, è la classifica a punti dei Mondiali indoor di Glasgow a raccontare più fedelmente la profondità e il rendimento complessivo della squadra. Nelle tre giornate dell’evento scozzese, l’Italia ha totalizzato 50 punti concludendo al terzo posto: mai successo nelle diciotto edizioni precedenti dei Campionati mondiali al coperto, cui si aggiunge l’edizione sperimentale del 1985 con il format dei Giochi mondiali indoor. Come riportato dai canali ufficiali della Fidal, in quella pionieristica occasione l’Italia era aveva stabilito il proprio record con 46 punti, mentre quattro anni più tardi era risalita a 39. E gli azzurri a Glasgow hanno “rischiato” addirittura di arrivare secondi: dietro gli Stati Uniti dominatori con 195
van Leeuwen
punti, si è infatti appollaiata la Gran Bretagna, seconda con 51 grazie alla gara conclusiva dei 1500 metri femminili. Anche il piazzamento è il migliore della storia dei Mondiali indoor, per l’Italia, al massimo quarta nel 1989 a Budapest. In un’eccellente prestazione di squadra, il Team Italy ha collezionato la cifra-record di 11 finalisti ed eguagliato il primato storico di medaglie, stabilito nel 1985 e nel 1991.
Il direttore tecnico della nazionale italiana di atletica, Antonio La Torre, ha parlato di un messaggio «dirompente» che parte da questa Nazionale e che non riguarda soltanto l’atletica. «Questi giovani sanno di poter cambiare le cose attraverso il loro talento. Cos’è cambiato? Adesso le lacrime sono di rabbia per un oro mancato, semmai. Non per cercare scuse».
Una nazionale straordinariamente compatta, giovane, vincente, per dirla con Stefano Mei, presidente della Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera. «Qualcosa è cambiato nella testa, anche i più giovani ne stanno prendendo coscienza. Credo che adesso l’atletica sia il traino dello sport italiano, come impatto mediatico e di risultati». (A. P.)
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© Raffaele Conti 88/shutterstock.com
Leonardo Fabbri.
Oro sfiorato, ma soprattutto meraviglioso argento è quello di Mattia Furlani, 19 anni, nel salto in lungo. Mattia Furlani. Erik
CLERICUS ARRETIUM
LA SQUADRA DEI PARROCI
Capitanata dal vescovo di Arezzo, il team parteciperà a incontri di calcio a 5: il debutto il 12 aprile
Sulla maglia numero 1 c’è scritto Vescovo. Ma è solo un omaggio, perché monsignor Andrea Migliavacca è solo il capitano spirituale della squadra. Eppure, il prossimo 12 aprile, il vescovo di Arezzo potrebbe scendere in campo nel debutto ufficiale della Clericus Arretium, la rappresentativa di calcio a 5 formata interamente da parroci della sua diocesi. Un’iniziativa originale, almeno per l’italiano, che è stata promossa dal Centro sportivo italiano territoriale, in collaborazione con la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. «Un bel progetto
accolto dalla Diocesi, che ha dato il suo patrocinio - le parole del vescovo aretino, che ha ringraziato il Csiperché mette in luce e da l’occasione di scoprire lo sport come realtà educativa. Diventa un’opportunità per veicolare anche la proposta di una educazione con orizzonte cristiano. L’altro obiettivo importante è ritrovare gli oratori: lo sport fa parte delle attività che possono vivere le nostre realtà».
La rosa iniziale della Clericus Aretium conta su una decina di giocatori, tra parroci e religiosi, selezionati da Don Andrzej Zalewski, rettore del
seminario di Arezzo e talent scout d’occasione. «Ho un passato da sportivo – ha raccontato al vernissage del team - e sono molto contento di essere stato coinvolto in questo progetto. Lo sport insegna tanto, come per esempio il rispetto degli avversari e una condivisione della squadra. Sto cercando i sacerdoti e religiosi che possano giocare, attualmente sono una decina quelli che hanno dato il loro ok». Fra gli altri nomi, quelli di don Salvatore Scardicchio, fra Marco Cherubino e don Lessly.
Il nome dell’allenatore è più noto: si tratta di Mario Palazzi, per tanti anni vice di Serse Cosmi, passato dagli staff di Arezzo, Perugia, Genoa e Udinese. Ma non solo. Nel suo recente passato c’è un’esperienza particolarmente affine al nuovo incarico: «Il mio sarà un compito tecnico, un ruolo già avuto con l’oratorio di Staggiano, quando siamo diventati campioni d’Italia nel 2019 e 2023».
In occasione della presentazione ufficiale dell’iniziativa, sono stati anche svelati i colori della divisa ufficiale. La prima maglia è di colore bianco, ha il logo della diocesi sulla sinistra, al centro quello della Clericus Arretium e sulla destra il marchio del Csi. Sullo sfondo le immagini stilizzate della città di Arezzo. Sfondo nero con maniche gialle, invece, per la seconda maglia.
Come spiegato dal presidente del Csi di Arezzo, Lorenzo Bernardini, durante i match della Clericus Aretium verrà riproposto il cartellino blu «molto in tendenza a livello internazionale perché potrebbe essere adottato dal mondo calcistico. Il Csi – ha ricordato Bernardini – lo utilizza ormai da molti anni, e la sua funzione sarà legata all’espulsione a tempo di un giocatore». A lungo termine, l’obiettivo è quello di creare una polisportiva che consenta di far giocare la rappresentativa in diverse discipline. Divinamente o meno, non avrà importanza. (A. P.)
84 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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TROPPA DOLCEZZA PER IL MONDO DOPO
LA SCOPERTA DELLO ZUCCHERO
Una storia fatta di individui che, ad esempio, in Europa occidentale consumano circa 40 chilogrammi di zucchero all’anno. Un numero enorme foriero però di cattive notizie
di Anna Lavinia
Ulbe Bosma
“Il mondo dello zucchero”
Einaudi, 2024 - 34,00 euro
Quando nel V secolo gli abitanti della provincia persiana del Khuzestan scoprirono lo zucchero cristallizzando il succo di canna con l’aggiunta di calce, mai avrebbero immaginato che quello avrebbe causato una crisi sanitaria mondiale, la distruzione dell’ambiente e sempre più evidenti diseguaglianze sociali.
Analizzare i motivi per cui le cose dolci hanno rovinato la nostra salute ed il pianeta è il proposito dello scrittore e studioso olandese che analizza la vita dello zucchero.
In duemila anni una piccola molecola composta da glucosio e fruttosio ha sconvolto violentemente la storia dell’umanità.
Una storia fatta di individui che, ad esempio, in Europa occidentale consumano circa 40 chilogrammi di zucchero all’anno. Un numero enorme foriero però di cattive notizie. Infatti, uno studio del 2023 pubblicato sul British Medical Journal e condotto da un gruppo di ricercatori cinesi e statunitensi ha accusato lo zucchero di essere associato a ben 45 malattie. Non solo l’obesità, già denunciata straordinariamente nel 1845 in un’indagine medica, ma
anche tumori, patologie cardiovascolari, neuropsichiatriche ed asma.
E pensare che durante uno dei conflitti mondiali, lo zucchero era quel prezioso e insostituibile ingrediente aggiunto alle razioni dei soldati per fornire loro energia. L’idea del potere benefico dello zucchero è sempre stata alla base di tutta l’alimentazione americana, tanto che Will Keith Kellogg, l’inventore dei celebri cereali nonché noto salutista, perse la sua credibilità pur di aggiungerlo alla produzione industriale dei suoi fiocchi di mais. Questi erano stati da lui ideati proprio per una ragione contraria: cercare di distogliere dalle pessime abitudini alimentari i pazienti di un clinica puritana americana che frequentava.
La dolce molecola del saccarosio ha sempre avuta una grande relazione con le religioni che vietano l’alcol. Parlando di musulmani e mormoni, l’autore del saggio afferma: «probabilmente non è una coincidenza che lo zucchero sia consumato con generosità tra i seguaci di tali religioni». Da secoli, lo zucchero è parte integrante della tradizione, della cultura culinaria e soprattutto della convivialità. I prodotti che lo contengono
86 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Libri
sono economici, facilmente conservabili e ovviamente appaganti per grandi e piccini.
Una grande e condivisa manovra di marketing (forse la più grande della storia industriale) lo ha elevato a “capobanda“ della cosiddetta American way of life. Perfino i cartoni animati in televisione incitavano i bambini a consumare caramelle e dolciumi. Non c’è bisogno di citare il nome della bevanda zuccherata più iconica al mondo diventata il prodotto di sette secoli di capitalismo globale, per conoscere la sua forte influenza. Ciononostante l’industria saccarifera sembra essere completamente indifferente alle conseguenze sanitarie e sociali delle proprie attività. Se da una parte sono evidenti gli avidi interessi degli industriali, dall’altra ci sono le enormi sofferenze subite da masse di schiavi e operai nelle coltivazioni e nelle fabbriche di tutto il mondo.
Pochi conoscono davvero il lato oscuro dello zucchero e la sua storia turbolenta. Ma d’ora in poi, ogni qual volta gusteremo una semplice e deliziosa caramella, saremo un po’ più consapevoli che stiamo mangiando uno dei nodi più complessi della nostra epoca.
Simona Lo Iacono “Virdimura”
GUANDA, 2024 - 16,90 euro
Virdimura è la prima donna, nella Sicilia del ‘300, ad avere la licenza a «praticare l’arte della medicina». Illuminata, unica e non curante di chi la addita come strega. La compassione è la sua forza in una Catania flagellata da peste e carestia. Siciliana come la sua autrice che la riporta in auge con la sua penna metà scrittrice, metà magistrato. (A. L.)
Karsten Dusse
“Inspira, espira, uccidi”
GIUNTI, 2023 – 13,00 euro
E se la mindfulness servisse ad uccidere? È quello che fa l’avvocato Bjorn, protagonista di questo dissacrante thriller che applica alla lettera i principi della tecnica meditativa per liberarsi da chi gli crea problemi. Un’intricata guida alla consapevolezza ed un avvincente poliziesco si fondono nel primo romanzo dello scrittore. (A. L.)
Jeroen Brouwers
“Il cliente Busken”
IPERBOREA, 2024 – 18,00 euro
«Capisco tutto, forte e chiaro, ma per fortuna soffro di demenza». A parlare è un cliente di Villa Madeleine, la casa di cura dove resta “intrappolato” dopo una diagnosi di demenza. Una pungente denuncia contro la brutalità della vecchiaia e l’ageismo, quella tipica discriminazione che subisce chi, a causa dell’età, ha un decadimento fisico e mentale. (A. L.)
Giornale dei Biologi | Mar 2024 87 Libri
CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI
UNIVERSITÀ DI CATANZARO
“MAGNA GRÆCIA”
Scadenza, 7 aprile 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E3 - Biochimica clinica e biologia molecolare clinica. Gazzetta Ufficiale n. 20 del 08-03-2024.
AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI BOLOGNA
Scadenza, 11 aprile 2024
Concorso pubblico congiunto, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, a tempo indeterminato, di cui un posto per l’Azienda USL di Bologna e un posto per l’IRCCS Azienda ospedaliero-universitaria di Bologna Policlinico di Sant’Orsola. Gazzetta Ufficiale n.21 del 12-03-2024.
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
“ALMA MATER STUDIORUM”
Scadenza, 12 aprile 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track della durata di settantadue mesi e pieno, settore concorsuale 05/D1 - Fisiologia, per il Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale n. 22 del 15-03-2024.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI NANOSCIENZE PISA
Scadenza, 2 aprile 2024
Presso l’Istituto di Nanoscienze del Cnr di Pisa è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Senior per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area
Scientifica “Fisica” da svolgersi presso la Sede di Pisa dell’Istituto NANO del CNR nell’ambito del Progetto di ricerca PNRR “One Health Basic andTranslational Research Actions addressing Unmet Needs on Emerging Infectious Diseases (INFACT)” Spoke 5 – Missione 4 “Istruzione e Ricerca” – Componente 2 “dalla Ricerca all’Impresa” – Investimento 1.3 “Creazione di Partenariati Estesi alle Università, ai Centri di Ricerca, alle Aziende per il finanziamento di progetti di Ricerca di Base” – finanziato dall’Unione europea – Next Generation EU - PE00000007 - CUP: B53C20040570005 per la seguente tematica: “Valutazione dell’efficacia antibatterica di nanoparticelle fotosensibilizzanti e nanosistemi innovativi contro le infezioni resistenti agli antibiotici”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI PERUGIA
Scadenza, 8 aprile 2024
Presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Cnr di Perugia è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 (uno) Assegno di ricerca “Professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze BioAgroalimentari” da svolgersi nell’ambito del progetto di ricerca PRIN PNRR 2022 dal titolo UNENPA “Unravelling genetic mechanisms controlling unbalanced endosperm formation in the agamic complex Paspalum simplex”- cod. P2022KFJB5 –CUP B53D23032160001, per la seguente tematica: “Transcrittomica comparativa tra fiori appena fecondati e validazione fun-
zionale di geni candidati per il controllo dello sviluppo di endospermi sbilanciato in Paspalum simplex”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO PER LA BIOECONOMIA (IBE) DI FIRENZE
Scadenza, 8 aprile 2024
Presso l’Istituto per la BioEconomia (IBE) del Cnr di Firenze è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti le Aree Strategiche “Biologia, Biotecnologie e Biorisorse” e “Agricoltura, Ambiente e Foreste” da svolgersi nell’ambito del programma di ricerca 2022372A7R_LS9_PRIN2022BIOCIVITE - CUP B53D23017070006 per la seguente tematica: “Monitoraggio degli effetti del biochar sul suolo e sulla pianta”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI PADOVA
Scadenza, 15 aprile 2024
Presso l’Istituto di Neuroscienze del Cnr di Padova è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno di Tipologia “Post dottorale” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Medicina e Biologia” da svolgersi , nell’ambito del programma di ricerca PRIN 20229RSCR5 per la seguente tematica: “Role of astrocytes Ca2+ signalling for hippocampal spatial memory in a mouse model of Alzheimer’s Disease”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.
88 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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IL MICROBIAL TERROIR DEL VINO E LA SUA IMPORTANZA NELLA PRODUZIONE VITIVINICOLA
I microrganismi associati alla vite vengono trasferiti nel mosto, dove rilasciano una notevole quantità di metaboliti in grado di modificare l’ambiente chimico e i processi fermentativi
di Miriana Paolieri *
Dalla vigna alla cantina, la produzione di vino è un processo complesso composto da più fasi e che vede il coinvolgimento di varie figure professionali. In questo procedimento, i microrganismi giocano un ruolo fondamentale nel conferimento di proprietà qualitative e organolettiche al prodotto finale.
Negli ultimi anni, la metagenomica e le tecnologie di sequenziamento di nuova generazione (NGS) hanno rivoluzionato il settore della produzione vitivinicola, fornendo un importante contributo circa la conoscenza della diversità microbica del vigneto e su come questa, unitamente a fattori di origine ambientale e antropica, contribuisca alla definizione delle caratteristiche regionali del vino, ossia il suo terroir
La regionalità può essere infatti ascritta alla composizione chimica e alle proprietà sensoriali del vino stesso, entrambi condizionati da numerosi parametri ambientali che determinano la crescita e lo svi-luppo della vite (Vitis vinifera L.). Tra questi parametri vi sono ad esempio la tipologia di suolo, le caratteristiche topografiche del vigneto, il clima e la gestione da parte dell’uomo [1].
Per quanto concerne la produzione di vino, è noto oramai da tempo che lieviti fermentativi associati al mosto, in primis Saccharomyces cerevisiae e alcuni batteri lattici, tra i quali Oenococcus oeni, giocano un ruolo fondamentale nel processo di vinificazione. Essi influenzano infatti la composizione, il sapore e l’aroma del prodotto finale.
Aldilà di queste specie, nel corso del processo produttivo, molti altri microrganismi associati alla vite vengono trasferiti nel mosto, dove rilasciano una notevole quantità di metaboliti in grado di modificare l’ambiente chimico e i processi fermentativi [1].
Principali fattori influenzanti l’espressione del microbial terroir Numerose evidenze sperimentali sottolineano come la struttura e i pattern di distribuzione della componente microbiologica del vigneto siano fortemente influenzati da numerosi parametri ambientali. In tal senso, lo studio della biogeografia microbica, ossia della distribuzione della biodiversità microbica nel tempo e nello spazio, si è rivelato estremamente utile per comprendere la natura dei le-gami che intercorrono tra condizioni ambientali, comunità microbica ed espressione del terroir di un vino [1].
I pattern biogeografici delle comunità microbiche associate alla vite sono generalmente rappresentati su scala regionale, la cui definizione può variare a seconda dei casi di studio. Con il termine “regione”, infatti, è possibile indicare un’associazione di vigneti che ricopre un’area di centinaia, se non addirittura di migliaia di chilometri quadrati. Viceversa, vi sono studi nei quali la regionalità è defi-nita da un’area geografica molto più piccola.
Queste considerazioni sono molto importanti, poiché quando si comparano le comunità microbiche su scale geografiche più piccole (ad esempio di un singolo vigneto), i pattern geografici tra le popolazioni microbiche possono essere più evidenti per alcuni organismi microbici, come ad esempio i funghi, piuttosto che per i batteri. Non solo, quando l’area di studio è molto piccola, è possibile che più
90 Giornale dei Biologi | Mar 2024 * Biotecnologa, collaboratrice di BioPills. Scienze
Scienze
fattori siano coinvolti contemporaneamente nella definizione della unicità del sito [1].
In ogni caso, tra i parametri maggiormente influenzanti la biogeografia dei microrganismi nel vigneto vi sono sicuramente il clima, le caratteristiche del suolo e le pratiche di gestione da parte dell’uomo.
Il fattore clima
Il clima è uno dei fattori determinanti lo stile e le caratteristiche regionali di un vino. Tale fattore ha impatto sulla viticultura e sulla qualità del prodotto finale attraverso la temperatura, le precipitazioni e la radiazione solare. In particolare, nella viticultura l’influenza climatica è definita su tre scale geo-spaziali diverse: a livello macroclimatico, mesoclimatico e microclimatico.
Con il termine macroclima si fa riferimento a una specifica regione climatica le cui peculiarità sono in gran parte moderate dalla latitudine e dall’altitudine alle quali si trova il vigneto. A questa scala, i fattori che principalmente modellano i pattern biogeografici dei microrganismi sono alcune forze fisiche, come l’aria e il vento [1].
L’incorporazione all’interno delle nuvole e le precipitazioni negli ecosistemi vicini aumentano la di-spersione a lungo raggio dei microrganismi. Jara e collaboratori (2016) [2] hanno evidenziato come pioggia e umidità siano correlati positivamente ad alcuni generi di lievito, come Hanseniaspora e Metschnikowia, e negativamente a generi come Torulaspora e Saccharomyces.
Se si riduce la scala di riferimento a livello locale e si considera il singolo vigneto ecco invece che si parla di mesoclima. Il fattore determinante è in questo caso la topografia del vigneto, aspetto che include la sua altitudine, la pendenza e l’orientamento dei filari.
Quest’ultima componente, ad esempio, può influenzare sia l’umidità, sia l’intercettazione della radiazione solare da parte delle foglie. Non solo, le caratteristiche topografiche del vigneto possono avere un effetto molto importante an-
che sul microbiota della vite [1]. Portillo et al. (2016) [3] hanno identificato i taxa Oxalobacteriaceae, Pseudomonas e Sphingomonas come tipici dei vigneti esposti a est, mentre Streptococcus e Staphylococcus predominavano nei vigneti pianeggianti.
Infine, è possibile ridurre la scala di riferimento a un livello ancora più piccolo e considerare le variazioni di temperatura, umidità e incidenza solare che interessano una singola pianta (microclima). Modificare il microclima della copertura vegetazionale attraverso attività di potatura, defoliazione o trattamento con agrofarmaci, può avere un effetto molto importante sulla crescita e l’attività dei microrganismi [1].
Tuttavia, sono necessari ancora ulteriori studi per chiarire in che modo e in qual misura il microclima influenzi il
Giornale dei Biologi | Mar 2024 91
Figura 1. La biogeografia microbica del vigneto su differenti scale geo-spaziali [1] (licenza CC BY 4.0)
microbiota della vite e, quindi, la qualità finale del vino.
Il suolo
Il suolo è il substrato principale per la crescita e il supporto della pianta, in quanto la rifornisce dell’acqua e dei nutrienti necessari. La struttura e la composizione del suolo hanno un enorme impatto sulla composizione e sulle proprietà organolettiche del vino.
Il sistema suolo risulta infatti essere la principale riserva di microrganismi per la colonizzazione dei tessuti interni della pianta. Tali microrganismi sono in grado di condizionare non solo la resa della pianta, ma anche la sintesi di alcuni metaboliti secondari determinanti il colore, l’aroma e la qualità finale del vino [1].
Uno studio condotto in vigneto ha suggerito che le radici di vite possono assorbire dal suolo lieviti di S. cerevisiae, i quali in seguito raggiungerebbero la superficie dei grappoli per entrare infine nel mosto di fermentazione [4]. Questo processo di traslocazione, fino a oggi in parte sconosciuto, sug-gerisce che anche altri microrganismi associati alla vite possano sopravvivere fino ai processi di fer-mentazione. Non è escluso che essi, interagendo con altri lieviti fermentativi nel mosto, possano an-che rilasciare dei metaboliti secondari importanti per la definizione delle caratteristiche sensoriali del vino [4].
Infine, Zarraonaindia et al. (2015) [5] hanno eviden-
Gli interventi gestionali dell’uomo
ziato come, rispetto alle comunità batteriche en-dofitiche ed epifitiche analizzate simultaneamente tramite analisi di short-amplicon sequencing e di shotgun metagenomics sequencing, il suolo sia risultato essere il compartimento che ospita la diversità batterica più ampia e con un numero maggiore di Unità Tassonomiche Operative (Operational Taxonomic Units, OTUs).
La maggior parte di queste OTUs è stata ritrovata in proporzioni differenti anche nelle varie parti aeree della pianta, dando conferma del ruolo chiave svolto dal suolo come fonte principale di microrganismi associati alla vite [5].
Nel corso del tempo i produttori di vino hanno selezionato le cultivar di vite che meglio si adattava-no alle condizioni ambientali di produzione, così come sono stati scelti i luoghi con le caratteristiche più favorevoli, in termini di clima e di suolo, all’impianto del vigneto.
La gestione umana del vigneto prevede infatti interventi specifici nel corso dell’anno. Alcuni di questi interventi, come le potature e le applicazioni di fertilizzanti, possono alterare anche in maniera significativa la diversità e le funzioni della comunità microbica [1].
Similmente, anche le pratiche di gestione agronomica influenzano la presenza e le dinamiche della comunità microbica del vigneto, fornendo così un importante contributo alla definizione del terroir. L’utilizzo delle colture di copertura, o cover crops, è una di queste. Si tratta di colture intercalari realizzate allo scopo di evitare che il terreno agricolo rimanga nudo per un periodo prolungato di tempo, in special modo durante la stagione piovosa. Nel vigneto le cover crops vengono solitamente collocate nello spazio interfilare, dove risultano molto utili al contrasto dell’erosione e della degra-dazione del suolo [6].
In generale, l’aumento di input di carbonio nel terreno associato all’utilizzo di specie non leguminose di cover crops, come ad esempio le graminacee, altera la struttura della co-
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© FranciscoMarques/shutterstock.com
munità microbica aumentandone la biomassa e modificandone la composizione in specie. Inoltre, l’uptake di azoto dal suolo da parte della vite durante il suo periodo di crescita sarà in questo caso sensibilmente ridotto. Tale status nutrizionale causa uno spostamento nel metabolismo della pianta a favore della produzione di composti come polifenoli e antocianine, entrambi noti per conferire al mosto importanti proprietà qualitative [6].
Per quanto concerne l’ambiente cantina, negli ultimi decenni l’industria vitivinicola si è concentrata soprattutto sullo sviluppo di nuove metodologie atte a migliorare i processi di fermentazione, riducendo al tempo stesso i rischi di contaminazione da parte di organismi indesiderati. Tra queste, l’inoculo di ceppi selezionati di S. cerevisiae e l’insufflazione di diossido di zolfo (SO2) si sono rivelate le più efficaci [1].
Tuttavia, l’utilizzo di inoculi di fermentazione con ceppi di lievito e di batteri selezionati ha progressivamente ridotto il potenziale contributo alla fermentazione da parte degli altri microrganismi associati alla vite. Le fermentazioni spontanee, comprendenti anche lieviti non Saccharomyces e specie batteriche originarie della vigna, svolgono infatti un ruolo fondamentale nell’esaltazione delle proprietà sensoriali del vino attraverso la produzione e il rilascio nel mosto di enzimi quali esterasi, β-glucosidasi e proteasi [1].
Sfatando il mito di una scarsa tolleranza all’etanolo, è stato possibile osservare come anche la struttura e le dinamiche della popolazione dei lieviti cambino nel corso del processo fermentativo. In particolare, lo studio della fermentazione spontanea condotta su grappoli di uve Grenache ha evidenzia-to Hanseniaspora e Candida come i due generi dominanti fino alla prima metà del processo, mentre le fasi finali sono dominate da varie specie di Saccharomyces, [7].
Tuttavia, lo scopo principale dell’oramai consolidato procedimento di insufflazione con
SO2 è quello di favorire la presenza delle popolazioni di S. cerevisiae durante le prime fasi del processo fermentativo, causando una progressiva e profonda alterazione della diversità microbica del vino in maniera dose-dipendente [1]. Studi recenti hanno infatti evidenziato come una concentrazione di 25 mg/L di SO2 sia ideale per promuovere la diversità batterica e fungina del vino, stabilizzando la sua comunità microbica e inibendo la crescita di microrganismi indesiderati come Gluconobacter e batteri acido lattici (LAB; es. Lactobacillus, Oenococcus e Pediococcus) [8, 9].
NGS e microbial terroir: lo studio delle “firme molecolari” del vino
Lo studio dei microrganismi associati alla produzione di vino direttamente nell’ambiente cantina presenta non poche difficoltà. L’addizione di SO2 e l’alta concentrazione di etanolo durante la fermentazione rappresentano fattori di stress per i microrganismi, a tal punto che una grande frazione di batteri e di lieviti entra in uno stato definito di “vitalità ma non coltivabilità” (viable but not cultivable). In questo stadio le cellule non sono in grado di crescere sul mezzo di coltura, ma rimangono comunque in uno stadio di vitalità e con un’attività metabolica ancora identificabile [10, 11].
I metodi di analisi microbiologica più tradizionali, ossia quelli cultura-dipendenti, si sono rivelati in realtà molto utili
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Giornale dei Biologi | Mar 2024 93
per l’identificazione dei principali gruppi microbici associati alla vite e per lo studio in vitro delle loro proprietà metaboliche. Tuttavia, essi possono offrire una descrizione molto limitata della comunità microbica presente in vigneto, dal momento che la frazione coltivabile dei microrganismi si aggira intorno all’1-5% [11, 12].
Con l’avvento della metagenomica e delle NGS, abbiamo assistito a una rivoluzione nello studio della microbiologia enologica, contribuendo a definire ed esaltare il ruolo chiave della comunità microbica durante tutto il processo di produzione del vino. Le tecniche di NGS hanno infatti dimostra-to di saper rilevare un numero molto maggiore di specie microbiche sia in campioni d’uva che durante le fermentazioni, offrendo anche una stima quantitativa circa l’abbondanza dei differenti generi microbici presenti nel mosto [13].
Bokulich et al. (2012) [14] sono stati i primi ad appli-
care le NGS allo studio della microbiologia enologica associata alle fermentazioni. Tramite il sequenziamento del gene batterico codificante per l’rRNA 16S, gli autori hanno dimostrato che durante la fermentazione di vino botritizzato erano presenti una grande varietà di taxa batterici non tradizionalmente associati al vino, così come comu-nità di LAB atipiche. Applicando il medesimo approccio, gli autori sono poi riusciti a far luce sulle interconnessioni che uniscono tra loro clima, regione di crescita e cultivar, e come questi parametri ambientali influenzino i pattern di distribuzione biogeografica dei microrganismi [14].
In particolare, 273 mosti di uva appartenenti alle varietà Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Zinfandel sono stati raccolti lungo tutta la regione della California nel corso di due annate separate. I risultati ottenuti hanno evidenziato una distribuzione regionale non casuale del microbiota, tale che è stato possibile distinguere le regioni di crescita sulla base dell’abbondanza relativa di determinati taxa batterici e fungini. Dal momento in cui alcuni di
94 Giornale dei Biologi | Mar 2024
Scienze
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questi taxa specifici delle regioni di crescita e delle varietà di uva hanno un’influenza riconosciuta sulla composizione e sulla qualità finale del vino, è stato possibile ipotizzare che tali differenze riescano a spiegare i distinti pattern regionali nell’espressione delle proprietà chemiosensoriali del vino stesso [15]. Si aprirebbero quindi scenari importanti circa la possibilità di costruire strategie per implementare la qualità e la produzione delle singole cultivar, nonché per la costruzione di modelli predittivi di risposta della comunità microbica al variare delle condizioni ambientali.
Tuttavia, tali tecniche di amplicon sequencing non sono esenti da insidie. L’estrazione iniziale di DNA microbico da campioni ambientali, ad esempio, è uno step che limita la successiva analisi me-tagenomica tramite NGS. I campioni di suolo, grappoli e vino presentano infatti una struttura fisicochimica complessa, con numerosi agenti che possono interferire con i successivi passaggi di analisi molecolare (come fenoli, acidi umici, acidi fulvici e ioni metallici) [13]. In generale, per poter valutare correttamente la comunità microbica di un ecosistema vitivinicolo, è necessario trovare un equilibrio tra l’amplificazione di tutti i membri di ogni taxon (copertura elevata) e la risoluzione tassonomica più alta, ossia la possibilità di discriminare tra specie affini.
Infine, una delle più grandi limitazioni delle tecnologie di amplicon sequencing è l’incapacità di assegnare una caratterizzazione funzionale della comunità microbica. In altre parole, non è possibile ottenere alcuna informazione circa le sue attitudini enologiche, in quanto i caratteri fondamentali per la vinificazione e di interesse per la produzione agricola sono associati a geni non oggetto di indagine da parte di queste tecniche [13].
Negli ultimi anni la metatrascrittomica sta emergendo come una tecnologia promettente per la carat-terizzazione funzionale della comunità microbica nel panorama della produzione vitivinicola. Tale approccio si promette di rivelare, unitamente alla composizione tassonomica, anche le funzionalità biochimiche attive degli organismi identificati. Tuttavia, l’elevata copertura di sequenziamento e gli alti costi richiesti rappresentano ancora oggi limitazioni molto importanti all’applicazione di questa tecnica anche nel settore della viticoltura [13]. Una delle sfide più importanti dei prossimi anni, infatti, sarà quella di associare i dati della comunità microbica ottenuti tramite analisi bioinformatiche alle proprietà del terroir per ciascun vino.
Conclusioni
Negli ultimi anni il concetto di terroir si è evoluto incorporando il ruolo chiave dei microrganismi al conferimento di importanti caratteristiche sensoriali e organolettiche al vino. Nonostante i meccanismi molecolari alla base di ciò rimangano ancora in parte da chiarire, con l’avvento della metagenomica e delle tecnologie di sequenziamento di nuo-
va generazione (NGS) sono stati fatti grandi passi in avanti nello studio dell’ecologia microbiologica associata alla produzione del vino.
Bibliografia
1. Liu D, Zhang P, Chen D, and Howell K. 2019. From the Vineyard to the Winery: How Micro-bial Ecology Drives Regional Distinctiveness of Wine. Front Microbiol. 10:2679.
2. Jara C, Laurie, VF, Mas A & Romero J (2016). Microbial terroir in chilean valleys: diversity of non-conventional yeast. Front Microbiol. 7:663.
3. Portillo MDC, Franquès J, Araque I, Reguant C, and Bordons A. 2016. Bacterial diversity of grenache and carignan grape surface from different vineyards at Priorat wine region (Catalonia, Spain). Int J Food Microbiol. 219, 56–63.
4. Mandl K, Schieck J, Silhavy-Richter K, Alexander P, Schneider V, and Schmidt H.-P. 2015. Vines take up yeasts from soil and transport them through the vine to the stem and skins of grapes. Ithaka J. 349–355
5. Zarraonaindia I, Owens SM, Weisenhorn P, West K, Hampton-Marcell J, Lax S, et al. 2015. The soil microbiome influences grapevine-associated microbiota. mBio. 6:e02527-14.
6. Lazcano C, Decock C and Wilson SG. 2020. Defining and Managing for Healthy Vineyard Soils, Intersections With the Concept of Terroir. Front Environ Sci. 8:68.
7. Portillo MDC, and Mas A. 2016. Analysis of microbial diversity and dynamics during wine fermentation of Grenache grape variety by high-throughput barcoding sequencing. Food Sci Technol. LEB 72, 317–321.
8. Bokulich NA, Swadener M, Sakamoto K, Mills DA, and Bisson LF. 2015. Sulfur dioxide treatment alters wine microbial diversity and fermentation progression in a dose-dependent fashion. Am J Enol Vitic. 66, 73–79.
9. Grangeteau C, Roullier-Gall C, Rousseaux S, Gougeon RD, Schmitt-Kopplin P, Alexandre H, et al. 2017. Wine microbiology is driven by vineyard and winery anthropogenic factors. Microb Biotechnol. 10, 354–370.
10. Divol B, and Lonvaud-Funel A. 2005. Evidence for viable but non culturable yeasts in botrytis affected wine. J Appl Microbiol. 99, 85–93.
11. Amann RI, Ludwig W, and Schleifer KH. 1995. Phylogenetic identification and in situ detec-tion of individual microbial cells without cultivation. Microbiol Rev. 59, 143–169.
12. Curtis TP. 2002. Estimating prokaryotic diversity and its limits. Proc Natl Acad Sci. U.S.A. 99, 10494–10499.
13. Belda I, Zarraonaindia I, Perisin M, Palacios A, and Acedo A. 2017. From Vineyard Soil to Wine Fermentation: Microbiome Approximations to Explain the “terroir” Concept. Front Microbiol. 8:821.
14. Bokulich NA, Joseph CML, Allen GR, Benson A, and Mills DA. 2012. Next-generation se-quencing reveals significant bacterial diversity of botrytized wine. PLoS ONE 7(5): e36357.
15. Bokulich NA, Thorngate JH, Richardson PM, and Mills DA. 2013. Microbial biogeography of wine grapes is conditioned by cultivar, vintage, and climate. Proc Natl Acad Sci USA. 111(1):E139-48.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 95
Scienze
PANGENOMA UMANO: NUOVE FRONTIERE PER LA GENETICA E LA RICERCA CLINICA
Ampliare le nostre conoscenze sulla diversità umana è un grosso passo in avanti per la scienza e la salute
di Daniela Bencardino *
Il pangenoma è l’insieme delle informazioni genomiche di una specie. Questo concetto, inizialmente diffuso nel contesto dei genomi batterici, è stato adattato all’uomo dove ci si aspetta che l’intera variazione genomica sia molto più ampia di quanto finora rivelato. In altre parole, il pangenoma rappresenta un’immagine più completa e dettagliata del nostro patrimonio genetico rispetto a quella fornita finora dalla sequenza di riferimento del genoma umano [1]. Per comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto la comunità scientifica a investire ulteriori risorse nel sequenziamento del pangenoma è necessario ripercorrere le tappe principali della mappatura del genoma umano.
Il Progetto Genoma Umano (Human Genome Project; HGP) è una delle più straordinarie imprese scientifiche intraprese nell’ambito della ricerca. Il progetto è stato condotto da un gruppo internazionale di ricercatori rappresentando un vero e proprio viaggio di scoperta biologica per arrivare alla conoscenza completa dell’intero DNA umano. I lavori iniziarono nell’ottobre del 1990 presso i National Institutes of Health degli Stati Uniti sotto la direzione scientifica del premio Nobel James Watson e videro la collaborazione di gruppi di ricercatori statunitensi, inglesi, cinesi giapponesi, francesi e tedeschi [2]. Nel 2001, l’International Human Genome Sequencing Consortium rilasciò la prima bozza della sequenza poi completata nell’aprile del 2003, dopo ben 13 anni dall’inizio dei lavori. Si trattava
di una sequenza parziale ma era il miglior risultato che si potesse ottenere con le tecniche di sequenziamento disponibili in quegli anni, e nonostante fosse incompleta copriva oltre il 90% del genoma umano [3].
Questo importante risultato è una risorsa liberamente accessibile da tutti (annotata in banca dati con il codice di accesso GRCh38) e su di essa poggiano le nostre conoscenze della genetica e della genomica umana. Conoscenze che hanno permesso, negli ultimi vent’anni, di spingere l’acceleratore sullo studio della biologia umana contribuendo ai progressi della medicina, della fisiologia e della biologia evoluzionistica.
Tuttavia, la sequenza del genoma umano oggi disponibile è un complesso mosaico di dati genomici ottenuti dai 20 volontari che donarono il loro sangue al progetto di ricerca. Solo il 70% di questa sequenza è riconducibile a un singolo individuo, quindi non rappresenta fedelmente il genoma di una singola persona. Questa mancanza di rappresentatività compromette il ruolo del genoma umano come sequenza di riferimento per ulteriori studi di ricerca, ad esempio quelli relativi alla scoperta di varianti, all’associazione gene-malattia e all’accuratezza delle analisi genetiche.
Inoltre, nonostante siano trascorsi più di venti anni dalla pubblicazione delle prime sequenze di riferimento e il Consorzio abbia continuato ad aggiornarle, il genoma attuale contiene ancora errori e dati mancanti che corrispondono a regioni troppo corte da sequenziare oppure difficili da assemblare a causa della loro natura ripetitiva e altamente polimorfica. Tutte queste limitazioni tecniche e l’incertezza di non poter utilizzare la sequenza come riferimento hanno spinto i ricercatori verso nuovi approcci
96 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Scienze
* Comunicatrice scientifica e Medical writer
per ottenere una visione più completa e accurata del nostro patrimonio genetico. Infatti, nessun singolo genoma completo potrà mai rappresentare la diversità genetica della nostra specie e sulla base di questa certezza è nato il Progetto Pangenoma Umano [1].
Questo Progetto, quindi, si pone l’obiettivo di considerare la diversità genetica di una vasta gamma di persone. Negli ultimi anni, le tecniche pangenomiche hanno fatto progressi notevoli e oggi è possibile utilizzare un pangenoma nelle analisi genetiche di routine. Nello studio pubblicato a maggio 2023 sono stati sequenziati e assemblati diversi genomi individuali per creare una prima versione del pangenoma umano. Questi genomi rappresentano solo una piccola parte del Progetto che il Consorzio sta cercando di realizzare includendo dati genetici provenienti da più persone per meglio rappresentare la diversità genetica umana [4].
Il Progetto Pangenoma
Umano
2. devono essere prelevate da partecipanti per i quali sono disponibili i dati di sequenziamento del genoma di entrambi i genitori.
A maggio del 2023, l’Human Pangenome Reference Consortium (HPRC) ha reso nota la prima raccolta di sequenze di alta qualità di genomi umani che riguardano diverse popolazioni ampliando così la gamma di informazioni riguardanti la biodiversità umana precedentemente disponibile. Gli autori dello studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, riportano l’analisi dei genomi di 47 persone provenienti da Africa, Asia, Americhe ed Europa con l’obiettivo di arrivare a 350 persone per un totale di 700 aplotipi entro la prima metà del 2024. Il lavoro di sequenziamento eseguito direttamente dal Consorzio riguarda 29 campioni mentre i rimanenti 18 sono stati sequenziati dagli altri gruppi di ricerca che partecipano al Progetto. L’intero lavoro ha un costo stimato di circa 40 milioni di dollari e include il lavoro necessario per: creare il pangenoma umano, ottimizzare il sequenziamento del DNA, coordinare i vari gruppi di ricerca e promuovere le campagne di informazione. Questo offre una panoramica più completa dell’impegno necessario per arrivare a costruire il pangenoma umano di riferimento.
Per l’analisi sono stati considerati campioni di linee cellulari linfoblastoidi che rispondono a due requisiti:
1. devono essere classificate come “normali” dal punto di vista cromosomico e con un basso numero di passaggi di crescita e replicazione per evitare artefatti derivanti dalla coltura cellulare;
L’assemblaggio delle varie sequenze ottenute è la fase più cruciale e rispetto al passato, il lavoro fatto sul pangenoma ha fatto registrare numeri decisamente migliori [3]. Infatti, l’accuratezza media dei singoli nucleotidi è quasi un ordine di grandezza superiore, quella strutturale è maggiore e l’N50, (l’indice di qualità dell’assemblaggio in base ai segmenti di DNA che si sovrappongono per formare una regione consenso di DNA) è raddoppiato [3,5]. Questi progressi derivano soprattutto dall’ottimizzazione dell’assemblaggio guidato da un’innovativa tecnologia di sequenziamento e da sofisticati algoritmi. Infine, per convalidare l’accuratezza strutturale dell’assemblaggio, è stata sviluppata una nuova procedura che mappa letture lunghe con una bassa percentuale di errore.
La correttezza di questi assemblaggi è stata confermata utilizzando altri 94 insiemi di annotazioni geniche disponibili su Ensembl, la banca dati bioinformatica che raccoglie informazioni aggiornate sui principali genomi eucariotici. Queste annotazioni hanno consentito di analizzare le variazioni del numero di copie risolte in sequenza. Nel dettaglio, è stato possibile identificare variazioni del numero di copie per 1.115 geni codificanti per proteine confermando quelle predette da precedenti analisi. Questo ha contribuito alla copertura di regioni che con il Progetto Genoma Umano erano rimaste “scoperte” e includevano geni noti per essere associati a condizioni patologiche.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 97
Scienze
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Queste premesse sono importanti ma gli stessi autori dello studio sottolineano l’importanza di disporre dei risultati derivanti dal sequenziamento di un numero più elevato di campioni e da linee cellulari diverse. Ampliare l’analisi consente di massimizzare la diversità dei campioni migliorando così la rappresentanza della diversità genetica umana. Infatti, ottenere una mappa di riferimento umana più ricca e completa garantirà che le future applicazioni della ricerca genomica e della medicina di precisione siano efficaci per tutte le popolazioni. I metodi e le tecnologie che si stanno mettendo a punto potranno rivelarsi preziosi anche per altre specie [5].
Implicazioni per la salute
Analizzare il pangenoma umano significa rendere possibile la scoperta di varianti assenti in un singolo genoma di riferimento e collegarle a specifici tratti o malattie. Un esempio lampante di questa sfida è rappresentato dalle sequenze più lunghe di alcune centinaia di nucleotidi che sono assenti nel genoma umano di riferimento (GRCh38). Queste sequenze sono completamente invisibili per la maggior parte degli strumenti di analisi e indipendentemente dal numero di individui analizzati perché le letture contenenti tali sequenze non si allineano. E se proprio in una di queste sequenze mancanti si nascondesse la chiave per comprendere una malattia o per sviluppare una terapia salvavita? Sarebbe come cercare un ago in un pagliaio senza sapere quale parte del pagliaio esaminare.
Questo aspetto è stato al centro del progetto di sequenziamento umano in Islanda dove lo studio condotto su 15.219 individui ha portato alla luce un’inserzione di 766 nucleotidi con un’alta frequenza allelica (65%) significativamente correlata a un ridotto rischio di infarto miocardico. Includere queste sequenze mancanti è fondamentale perché significa disporre finalmente di pezzi cruciali del
puzzle genetico che possono svelare segreti preziosi sulla nostra salute.
Un altro studio recente ha scoperto una ripetizione di nucleotidi che causa la malattia da inclusioni intranucleari neuronali, una malattia neurodegenerativa fatale con sintomi che vanno dal danneggiamento delle funzioni motorie alla demenza. Ciò che rende questa scoperta ancora più significativa è l’utilizzo di letture lunghe che ha permesso di individuare questa espansione ripetuta. Sorprendentemente, il metodo ha dimostrato di essere altamente efficace anche nell’analisi di altri individui utilizzando esclusivamente letture corte. Anche se l’analisi dei genomi umani è ancora in fase di sviluppo, questi progressi indicano la possibilità di rintracciare nuove e cruciali varianti genetiche man mano che la tecnica sui pangenomi umani venga perfezionata. Si aprono così prospettive straordinarie nella scoperta di nuove terapie e nella comprensione delle malattie neurodegenerative [6].
Trascorreranno molti anni prima che la ricerca clinica adotti appieno queste innovazioni, ma esistono tre notevoli vantaggi nel passare a un riferimento pangenomico:
1. avere un riferimento più completo che tenga conto della diversità genetica umana significa ottenere risultati più precisi e meno ambigui quando si sequenzia e analizza il materiale genetico dei pazienti. Questo migliorerà notevolmente la diagnosi genetica e aiuterà a capire meglio il significato delle varianti genetiche;
2. consentirà la scoperta di nuovi alleli responsabili per quelle malattie e varianti rare che non sono state osservate prima, specialmente in regioni del genoma che le tecnologie di sequenziamento tradizionali non riescono a esplorare completamente. Questo è particolarmente importante per le malattie genetiche che finora sono rimaste irrisolte;
3. la ricerca sul pangenoma sta rivelando informazioni preziose su importanti loci di rischio genetico, come quelli legati all’atrofia muscolare spinale (gene SMN1/2) e alle malattie coronariche (LPA; lipoproteina A). Questo offre una panoramica più chiara delle variazioni genetiche aprendo la strada a nuove scoperte e terapie personalizzate per i pazienti.
In sostanza, il lavoro di ricerca sul pangenoma umano rivoluzionerà l’approccio alle malattie genetiche e aiuterà a comprendere la diversità genetica umana portando a una medicina di precisione e adatta alle esigenze individuali [7].
98 Giornale dei Biologi | Mar 2024
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Scienze
Sfide tecniche ed etica
Questo ambizioso progetto presenta delle importanti sfide tecniche riguardanti, per esempio, l’enorme quantità di dati necessari per mappare la diversità umana. Gestire e archiviare questi dati con le attuali tecnologie potrebbe rivelarsi complicato. Raccogliere informazioni da così tante persone presenta anche problemi etici, poiché coinvolge informazioni altamente personali e sensibili, come la sequenza genetica completa di un individuo. Le preoccupazioni riguardo alla privacy e alla protezione dei dati sono riconducibili a questioni importanti che non devono essere ignorate come l’uso improprio delle informazioni che porterebbe all’identificazione individuale e alla discriminazione. A partire da quest’ultimo aspetto si sollevano ulteriori questioni etiche. Chi ha il diritto di decidere come dovrebbero essere utilizzati i dati? Come saranno utilizzati e come saranno protetti dall’abuso? Quali normative possono essere messe in atto per assicurare che i dati siano utilizzati in modo responsabile?
Tutti interrogativi che acquistano particolare importanza soprattutto nell’applicazione dei dati pangenomici in ambito medico e legale. Infatti, il profilo genetico di una persona potrebbe essere usato per determinare se ha una predisposizione verso determinate malattie o condizioni negando diritti e opportunità. Nello scenario della giustizia, la possibilità di brevettare specifici geni responsabili di certe caratteristiche umane aprirebbe la porta a dispute sull’identificazione di sospettati suscitando dibattiti sulla precisione delle prove presentate in tribunale. Questo solleva anche questioni etiche, poiché potremmo chiederci se sia giusto e moralmente accettabile utilizzare queste informazioni genetiche in ambito legale [8].
Con l’espansione del numero di individui da coinvolgere nel Progetto, una delle sfide principali sarebbe garantire l’inclusività. Le barriere linguistiche, l’analfabetismo, le differenze socioeconomiche e il senso di diffidenza sono tutti fattori che limitano la partecipazione a progetti di questo tipo. I partecipanti, inoltre, dovrebbero essere adeguatamente formati e informati sul progetto e sulle sue implicazioni per ottenere il loro consenso e questa è una sfida non da poco. Infatti, chi partecipa deve avere piena consapevolezza della condivisione dei propri dati e dei rischi legati alla gestione delle cartelle cliniche elettroniche che può rappresentare un rischio per la loro privacy. Un ultimo aspetto etico riguarda quante e quali informazioni dovrebbero essere divulgate ai partecipanti dopo l’analisi dei dati genomici. Dal punto di vista legale, i partecipanti hanno il diritto di venire a conoscenza di tutto, ma non va sottovalutato l’impatto che queste informazioni potrebbero avere sulla loro salute mentale, sulla sua famiglia e anche sull’atteggiamento della società nei suoi confronti. Questo solleva la questione di stabilire limiti etici ragionevoli, in
modo da proteggere il benessere psicologico e sociale delle persone coinvolte [9].
Conclusioni
Grazie a investimenti mirati sia nel settore pubblico che privato, oggi abbiamo a disposizione tecnologie all’avanguardia e approcci innovativi che consentono di creare riferimenti genomici più accurati a livello mondiale. Il Progetto Genoma Umano ha consentito progressi importanti nella medicina e nella comprensione della salute umana, ma è giunto il momento di creare una risorsa ancora più inclusiva. Questa è una sfida che si pone proprio l’obiettivo di costruire un modello che rifletta appieno la diversità umana basandosi su sequenze genomiche accurate, stratificate per aplotipo e realizzate attraverso algoritmi innovativi che si prevede saranno ampiamente adottati dalla comunità scientifica. Questa raccolta di genomi individuali diventerà una risorsa fondamentale che fornirà una rappresentazione molto più precisa della diversità genetica umana offrendo nuove soluzioni nel campo della medicina personalizzata.
Bibliografia
1. Wang T, Antonacci-Fulton L, Howe K, Lawson HA, Lucas JK, Phillippy AM, et al. The Human Pangenome Project: a global resource to map genomic diversity. Nature. 2022;604:437–46.
2. National Human Genome Research Institute. The Human Genome Project. Disponibile online: https://www.genome.gov/human-genome-project
3. Lander ES, Linton LM, Birren B, Nusbaum C, Zody MC, Baldwin J, et al. Erratum: Initial sequencing and analysis of the human genome: International Human Genome Sequencing Consortium (Nature (2001) 409 (860-921)). Nature. 2001;412:565–6.
4. Liao WW, Asri M, Ebler J, Doerr D, Haukness M, Hickey G, et al. A draft human pangenome reference. Nature. 2023;617:312–24.
5. Ebert P, Audano PA, Zhu Q, Rodriguez-Martin B, Porubsky D, Bonder MJ, et al. Haplotype-resolved diverse human genomes and integrated analysis of structural variation. Science (80- ). 2021;372.
6. Sherman RM, Salzberg SL. Pan-genomics in the human genome era. Nat Rev Genet. 2020;21:243–54.
7. Wang T, Antonacci-Fulton L, Howe K, Lawson HA, Lucas JK, Phillippy AM, et al. The Human Pangenome Project: a global resource to map genomic diversity. Nature. 2022;604:437–46.
8. Abondio P, Cilli E, Luiselli D. Human Pangenomics: Promises and Challenges of a Distributed Genomic Reference. Life. 2023;13.
9. Singh V, Pandey S, Bhardwaj A. From the reference human genome to human pangenome: Premise, promise and challenge. Front Genet. 2022;13:1–12.
Giornale dei Biologi | Mar 2024 99
I PROBLEMI DEMOGRAFICI DEL MONDO UMANO, ANIMALE E VEGETALE
Fino al 1965 su un arco di 366 anni si sono estinte 162 specie di uccelli e quasi sempre a causa dell’uomo, soprattutto per i cambiamenti portati da lui all’ambiente
di Giuliano Russini
Duemila anni fa la terra era popolata da circa 250 milioni di abitanti, mille anni fa da circa 350 milioni, nell’anno 1900 da 650 milioni, nel 1975 da circa 4 miliardi; nel 2024 da circa 8 miliardi di persone.
Ogni mese ci sono sei milioni di individui in più. La Terra ha sempre avuto e avrà sempre le stesse dimensioni tutto ciò sta inevitabilmente portando a problemi e collassi alimentari, idrici, a problemi di Igiene e Profilassi Planetari ed energetici. Per gli animali la situazione è diversa.
Regresso demografico degli animali
I mammiferi rari minacciati di estinzione sono ben 355 specie (fra cui l’elefante indiano che per la IUCN è ritenuto ENin pericolo, il rinoceronte Indiano che per la IUCN è ritenuto VU-vulnerabile, il leone africano che per la IUCN è ritenuto VU-vulnerabile e la tigre del bengala che per la IUCN è ritenuta EN-in pericolo, tanto per fare alcuni esempi noti ai più).
Fino al 1965 su un arco di 366 anni si sono estinte 162 specie di uccelli e quasi sempre a causa dell’uomo, soprattutto per i cambiamenti portati da lui all’ambiente. Così la cicogna che un tempo si nutriva di rane, per la loro scomparsa in seguito a bonifiche effettuate, deve accontentarsi di topi. La pavoncella non trovando più terreni umidi adatti per deporre le uova è costretta ad adattarsi al suolo asciutto, con una forte riduzione del suo tasso prolifico. L’uso indiscriminato di insetticidi contribuisce a far
scomparire farfalle, api, coleotteri, ortotteri e moltissimi altri piccoli insetti. Un aumento di popolazione animale per contro lo si può riscontrare se il cibo a loro disposizione è abbondante.
L’aumento e la diminuzione di esemplari di ogni specie sono influenzati però anche da cause naturali. Infatti, la lotta per il cibo e quella contro i nemici provoca una severa selezione nel mondo animale. Un esempio viene offerto nel caso degli afidi o gorgoglioni (vedi Figura-1), detti comunemente pidocchi delle piante. Essi si nutrono di linfa che succhiano con la proboscide.
È un interessante esempio delle interazioni esercitate tra animale e vegetale, rispettivamente tra animale e animale. I pidocchi delle piante si moltiplicano velocemente, ma per gli attacchi di molti nemici naturali (ad esempio le coccinelle) il loro numero resta contenuto entro certi limiti. Qualora per combatterli si ricorresse all’uso di insetticidi in quantità eccessiva si rischierebbe di uccidere anche i loro nemici naturali.
La sovrappopolazione di certe specie animali può essere pericolosa non solo per la agricoltura, ma anche per l’uomo. È il caso del gabbiano in forte aumento nel nord della Germania, ad esempio, come sulle nostre coste, perché trova facile nutrimento nei mucchi di rifiuti domestici; favorisce così la diffusione di agenti patogeni in alcuni casi di natura zoonotica che interessano l’essere umano; importante il ruolo del biologo nella Igiene e Profilassi animali.
La caccia irresponsabile mette in serio pericolo l’equilibrio biologico delle foreste; cervi, caprioli, cinghiali
100 Giornale dei Biologi | Mar 2024 Scienze
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trovano pertanto un habitat adatto nelle riserve di caccia qualora siano presenti, o grazie all’inurbamento che ne ruba gli spazi vitali, penetrano negli agglomerati urbani, assurgendo il ruolo di specie sinantropiche.
In taluni casi la sovrappopolazione è regolata da meccanismi ormonali. Lo si è costatato presso i topi allevati in cattività, dove l’aumento della popolazione in uno spazio ristretto altera il comportamento ormonale in modo determinante. Studi sono stati effettuati in laboratorio su un animale molto sensibile, la tupaia dell’Asia sudorientale (ordine Scandentia), dall’aspetto simile allo scoiattolo. Sottoposti a eccitazione per molto tempo, sia i maschi sia le femmine non sono più in grado di riprodursi.
Studiando il comportamento degli animali si può costatare che la loro espansione è regolata secondo leggi naturali e che raramente raggiungono la sovrappopolazione se non disturbati da fattori Antropici.
L’immigrazione nel Regno vegetale
Patate, cetrioli, mais giungono a noi da paesi ben lontani: dall’ America del sud, dall’India, dall’America centrale. Cereali, legumi, alberi da frutta crescono nel nostro paese, ma un giorno furono importati. Dalla scoperta dell’America in poi furono introdotte in Europa centodieci piante nuove. Alcune si propagarono vertiginosamente, come la Robinia pseudoacacia.
Essa, proveniente dalla regione dei Monti Appalachi del versante Atlantico dell’America del nord, forma addirittura boschi. E tutto ciò in soli quattro secoli. Se da un lato la robinia presenta aspetti positivi in quanto pianta robusta e resistente alla polvere, al fumo, ai gas di scarico (perciò venne introdotta nelle zone urbane) e in quanto provvista di radici fitte (rizoma strisciante) usata anche per consolidare terrapieni (a tale scopo la si è piantata lungo le ferrovie) ha anche degli aspetti profondamente negativi. Infatti, si espande facilmente per disseminazione invadendo aree destinate sia alla coltivazione della vigna sia alle piantagioni di quercia e di altre piante lente nella crescita rispetto alla robinia stessa; data la biocinetica elevata con cui si espande, gli inglesi per comparazione la chiamano Black Locust, poiché come il famigerato ortottero devastatore di piantagioni di grano e grano turco, si replica fulmineamente.
Tra le piante esotiche giunte di recente in Europa vi è l’lmpatiens glandulifera (vedi Foto-2). Immigrata nel secolo scorso dalle cime occidentali della catena dell’Himalaia, la si trova soprattutto vicino alla foce dei fiumi. Nella regione del Reno superiore e dei suoi affluenti è diffusissima e può raggiungere i due metri di altezza. Sul Piano di Magadino, lungo i canali, prospera in abbondanza altrettanto in Nord Italia; è bella
da vedere sia come singolo fiore sia per la macchia di colore rosa creata dall’insieme delle infiorescenze di una moltitudine di piante.
L’enotera, originaria dell’America settentrionale, dai fiori gialli che si schiudono per una sola notte ma in continuità su di un’infiorescenza copiosa di boccioli, la si trova anche da noi in terreni poveri di sostanze nutritizie, sassosi, aridi, dove a malapena crescono altri vegetali. Fiorisce da giugno a settembre ed è infestante.
Piante provenienti da paesi esotici, possono ancora oggi giungere sotto forma di semi con i trasporti. Non è raro trovarne nei pressi di porti di mare e di stazioni ferroviarie.
Anche la Galinsoga parviflora Cav., 1795, delle montagne del Perù, si è propagata ovunque dal XIX secolo in poi diventando infestante. Le piante non proprie di un dato paesaggio, che vi si naturalizzano, si acclimatano e diventano subspontanee, possono addirittura cambiargli fisionomia per cui dove saranno utili se ne incoraggerà la diffusione, dove risulteranno nocive bisognerà controllarle e gestirle se possibile, altrimenti si combattono per eliminarle.
Questo fa capire ad esempio, che nelle dogane aeroportuali e portuali, sarebbe auspicabile una presenza maggiore di biologi siano essi botanici-fitopatologi, zoologi, esperti di Igiene e Profilassi, perché si possano fare controlli maggiori su piante, animali in arrivo ma anche sui campioni e derrate vegetali provenienti da paesi esotici quali semi, bulbi, rizomi, cortecce, gomme vegetali, essiccati vegetali, o animali quali pellicce, pelli, uova, parti del corpo come corna, artigli quindi controlli anche merceologici biologici, poiché potrebbero essere vettori di parassiti esotici che entrano, come accaduto, sul nostro territorio.
Bibliografia
- IL CORRIERE UNESCO, maggio 1974: Quanti saremo domani. Ed. Giunti-Bemporad-Marzocco, Firenze.
- IL CORRIERE UNESCO, luglio-agosto 1974: Ogni mese 6000000 di individui in più. Ed. Giunti-Bemporad-Marzocco, Firenze.
- PAVAN, M., 1967: L’uomo nell’equilibrio della natura. Ed. Ministero dell’agricoltura e delle foreste, Roma.
- POLUNIN, O., 1971: PfJanzen Europa. BlV., - Miinchen SCHROETER, C., 1980: Flora dell’lnsubria ossia del Ticino e del Grigioni meridionali e dei laghi dell’Alta Italia. Istituto editoriale ticinese, Bellinzona. ©
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