Lib- #03 novembre 2022

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«Sognavo di fare la psichiatra e mi ritrovo prima giudice donna al Tribunale federale»

Sebben che siamo donne – pagg. 10 e 11

«Vi racconto gli Emirati Arabi vissuti in sella ad una bici tra agonismo e piste ciclabili»

Il personaggio – pagg. 14 e 15

Sulle tracce di Rocky Balboa per le vie di Filadelfia, città moderna e tradizionale Giramondo di Alberto Lotti – pagg. 18 e 19

Villiger: «Lo Stato non può fare tutto! Senza responsabilità individuale, anche la capacità di resilienza della Svizzera sarebbe in pericolo»

Un soggetto politico di riferimento

Per l’indimenticabile Raymond Aron, gigante del liberalismo nella Francia conformista del secondo dopo guerra in cui ci voleva fegato per opporsi a Sartre, «le choix en politique n’est pas entre le bien et le mal, mais entre le préférable et le détestable». La sua era l’espressione di un’urgenza. Non tanto quella di bandire l’etica dalla politica, quanto semmai di superare il condizionamento nefasto delle ideologie totalitarie all’origine delle tragedie del ventesimo secolo. E oggi siamo di nuovo lì.

«La Meloni? Leader vera» Verso il nuovo Piano Marshall

Gianfranco Pasquino fa il politologo. Ma nella vita è stato anche a due riprese Senatore della Repubblica italiana. In pochi meglio di lui sanno quindi leggere tra le righe della nuova Italia di Giorgia Meloni, nata dopo le votazioni dello scorso 27 settembre. E mentre la nuova guida dell’Italia inizia a muovere i primi passi anche sullo scacchiere internazionale, Pasquino ne traccia un profilo particolarmente interessante, definendola su queste pagine «una vera leader politica, con ambizione, progettualità e senso del rischio». E anche se Pasquino spiega di avere idee politiche diverse rispetto a Meloni, il suo giudizio è particolarmente intressante se inserito in un contesto europeo in cui il liberalismo fa sempre fatica. L’ospite – pagg. 02 e 03

Pensare, a guerra ancora in corso, alla ricostruzione dell’Ucraina potrebbe sembrare per certi versi paradossale. Anche se, da un lato, rappresenta un gesto di grande umanità di fronte alla distruzione e alla disperazione. Il progetto di ricostruzione dell’Ucraina lanciato di recente guardando al futuro del Paese, ha però un precedente storico a cui sembra ispirarsi: il Piano Marshall statunitense per l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il professore emerito di relazioni internazionali all’Univeristà di Torino, Luigi Bonanate, riflette su questo numero di Lib- su similitudini e differenze tra il Piano Marshall lanciato allora dagli Stati Uniti e quello recentissimo pensato per dare un futuro all’Ucraina. Visti da fuori – pagg. 07

Edizione 03
Mensile del Partito Liberale Radicale Ticinese Anno 31 GAB Camorino Novembre 2022 Giovanni Merlini Già Consigliere nazionale Matilde
Editoriale – pag. 03 Editoriale Editoriale Editoriale Editoriale Editoriale Editoriale Pubblicità

«Meloni?

Non la penso come lei, però... è una vera leader»

L’analisi del politologo (e politico) Gianfranco Pasquino: dal nuovo Governo di destra in Italia, passando per l’evoluzione delle istituzioni europee e per il liberalismo.

È il 27 settembre del 2022 quando a urne chiuse, l’Italia scopre che a succedere a Mario Draghi, per volontà popolare, al Governo ci sarà «Fratelli d’Italia» (affermatosi con il 26,1% dei voti). La sua leader, Giorgia Meloni, come preannunciato da sondaggi e analisti politici di mezzo mondo, potrebbe essere la nuova premier. Un fatto che si avvera il 27 ottobre quando, prima col voto di fiducia alla Camera - il 25 ottobre: con 235 voti a favore, 154 voti contrari e 5 astensioni - e il giorno seguente al Senato - 115 voti favorevoli, 79 contrari e 5 astenuti - Giorgia Meloni e i suoi 24 ministri iniziano a governare l’Italia. Abbiamo evitato, volutamente, la questione «il/la presidente» che sta animando dibattiti e talk show non solo italiani, per cercare di capire, con il prof. Gianfranco Pasquino, politologo, ma anche politico e Senatore della Repubblica dal 1983 al 1992 e dal 1994 al 1996, come leggere questo cambio di scena: non solo in Italia, ma anche e soprattutto nel contesto europeo.

da ai poteri costituiti; la destra è accettazione delle diseguaglianze, la sinistra è politiche egualitarie (talvolta fin troppo). Poi, nelle pratiche concrete possono esserci contraddizioni, ma tutti sanno che le socialdemocrazie sono di sinistra e i partiti nazionalisti/sovranisti sono di destra. I due termini continuano ad essere una utilissima scorciatoia cognitiva per gli elettori e i commentatori politici. Infine, sappiamo che chi dice destra e sinistra per me pari sono oppure non esistono più, è un conservatore anche un po’ qualunquista e populista».

Lei professor Pasquino, nel 2019 affermò in un’intervista (rintracciabile su Youtube) che «se ci fossero delle strutture partitiche che competono davvero, uscirebbero fuori anche dei leader politici veri; forti». Giorgia Meloni è un vera leader politica?

«Non ho, e non ho avuto in questi anni, nessun dubbio: Giorgia Meloni è una vera leader politica. Ha ambizione, progettualità, senso del rischio e, con Weber, vocazione alla politica. Non condivido le sue preferenze e posizioni politiche, ma riconosco le sue capacità. È una donna alfa al confronto della quale Salvini e Berlusconi, ma non solo, hanno dimostrato di essere dei politicanti, uomini beta».

«Il processo democratico vuole nel popolo, e solo nel popolo, la sovranità». A dirlo, nel suo discorso programmatico alla Camera, la premier Meloni. La maggioranza del popolo italiano ha scelto, democraticamente, la destra, ma… a quale popolo si rivolge oggi la sinistra? C’è ancora un popolo di sinistra?

Professore, c’è chi sostiene che papa Francesco sia ormai l’unico - se non addirittura l’ultimo - uomo di sinistra. Il politologo Pasquino come legge questo paradosso? «Trovo, in effetti molto paradossale che ci siano fior fiore di papisti nei ranghi della sinistra, filosofi e economisti in testa. Ho combattuto le mie battaglie «radicali» per divorzio e aborto, la sto combattendo per la libertà di scegliere come e quando morire. Non credo che i medici obiettori di coscienza per l’interruzione della gravidanza siano da lodare. Penso che la contraccezione debba essere consigliata e non contrastata. Penso che tutte queste posizioni, ferocemente osteggiate dalla Chiesa, Papa Francesco in testa, né unico né ultimo uomo di sinistra, al contrario, sostanzialmente su posizioni molto conservatrici, siano patrimonio progressista».

Professore partiamo da una domanda che si pose, già qualche anno fa, Giorgio Gaber: «Cos’è la destra? Cos’è la sinistra?». Cosa sono oggi destra e sinistra e, soprattutto, ha ancora un senso questa contrapposizione?

«Geograficamente, ma non è un particolare marginale, nei rispettivi parlamenti tutte le destre si collocano a destra del Presidente dell’Assemblea e tutte le sinistre a sinistra. Politicamente, più dell’80 per cento gli elettori non soltanto sanno, dappertutto, collocarsi sul continuum destra/sinistra, ma sanno collocare con precisione anche i partiti. Culturalmente, la destra è tradizione, la sinistra è fiducia nel «progresso»; la destra è gerarchia, la sinistra è sfi-

«C’è un popolo di sinistra, sparso, da un lato economicamente soddisfatto, i cosiddetti ceti medi riflessivi, politicamente convinto di saperne di più, nel criticare, non organizzato per l’attivismo politico; dall’altro, ci sono elettori in zone disagiate che le sinistre italiane non riescono a raggiungere e a convincere. Il problema è che affinché gli elettori sparsi diventino «popolo» (di sinistra) è assolutamente indispensabile che ci siano predicatori e organizzatori politici disposti ad un impegno intenso e faticosissimo. A sinistra in Italia mancano da molto tempo. I loro partiti perdono le elezioni, i loro dirigenti vincono i seggi. Dopo qualche limitata e ipocrita autocritica, i dirigenti continuano nella loro politica burocratica».

Torniamo alla democrazia. Non è che si stia facendo un po’ di confusione? Lo chiedo perché, se in senso etimologico, non ci sono dubbi, qualche dubbio sul fatto che una massa di individui votati solo al raggiungimento del proprio personale benessere possa essere definita popolo, me lo conceda, sorge…

«Non capisco quali dubbi sorgano, e in chi. Secondo me attraverso la libera conversazione e il confronto a tutto campo, gli uomini e le donne, giungono a capire quali sono le loro preferenze, a regolarle e a ridefinirle, talvolta decidendo a maggioranza quali debbono prevalere senza impedire a chi non le condivide di continuare a esprimerle. Talvolta possono anche decidere di non decidere. Con la diffusione delle informazioni e delle conoscenze faranno me-

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2AttualitàLib– #03, novembre 2022
«Il liberalismo è molto esigente, ma anche molto attraente»

glio la prossima volta. Nel frattempo, dalle neppure venti democrazie degli anni Quaranta del secolo scorso siamo passati a circa novanta e in Russia e in Cina ci sono migliaia di persone condannate per avere combattuto proprio per ottenere democrazia, quella che hanno visto e sanno che esiste in Occidente e, per esempio, in India, in Giappone, nella Corea del Sud».

C’è spazio per un’idea di Stato liberale o, magari, per un’idea libertaria, nel panorama politico europeo attuale? Come sta il liberalismo in Europa?

«Tutti gli stati-membri dell’Unione europea, con l’eccezione dell’Ungheria e in parte della Polonia, sono liberal-costituzionali. Il liberalismo è molto esigente, ma anche molto attraente. La sua dottrina, non ideologia, protegge e promuove i diritti; dà vita a istituzioni democratiche ben bilanciate. L’Europa è il continente dove il liberal-costituzionalismo ha trovato la maggior diffusione. Altrove, Canada, Australia e Nuova Zelanda vi è stato portato dal pensiero politico e dalle istituzioni anglosassoni».

Lei è stato senatore della Repubblica. Se lo fosse stato in questa legislatura, il 27 ottobre sarebbe intervenuto e in che termini? «Brava Giorgia, lei ha dimostrato che la coerenza e l’impegno possono essere ricompensati dall’elettorato. Usi del potere acquisito per collaborare con gli altri capi di governo europei su tutte le tematiche economiche e sociali importanti. Da sola l’Italia farebbe poca strada. Condividendo la sovranità con paesi, chiedo scusa, con le «patrie» migliori, anche l’Italia diventerà migliore. Con le nostre critiche cercheremo di correggere i suoi errori (lei e i suoi alleati ne fa-

rete molti!). Con le nostre proposte le indicheremo dove, come, quando si può fare di meglio».

Ultima domanda professor Pasquino. Lei oggi come vede l’Europa? Una realtà o, come nell’800, un sogno di cui Carlo Magno fu il precursore? «L’unificazione politica dell’Europa non è affatto un sogno. Come ha dimostrato il grande storico Federico Chabob, Storia dell’idea di Europa, e

come lo ha delineato Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene (1941) è un progetto politico che ha già costruito il più ampio spazio di diritti, di libertà, di prosperità e di pace mai esistito al mondo. Milioni di migranti rendono omaggio a questo progetto e al suo successo. Dovremmo esserne più consapevoli e orgogliosi». ■

* Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Dal 2005 è Socio dell’Accademia dei Lincei. I suoi libri più recenti sono Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021) e Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).

La guerra assurda scatenata in Europa da un regime liberticida che non esita a calpestare i valori dell’Illuminismo, delle democrazie occidentali e del diritto internazionale ci ricorda dove conduce l’esasperazione del nazionalismo. L’unico antidoto efficace è il rilancio del metodo liberale. Serve un approccio che ponga al centro l’unicità e irriducibilità dell’individuo-cittadino. Valorizzandolo e senza subordinarlo a qualsivoglia modello di comunità concepito a tavolino secondo disegni prestabiliti ed eterodiretti. Nel perimetro della legge ognuno è artefice del suo «itinerario verso la felicità» che non può essere prescritta con decreto governativo. La polizza assicurativa per garantire che non vi siano spiacevoli interferenze nella scelta della destinazione del viaggio va però rinnovata regolarmente. Non è data una volta per sempre. Stato di diritto, separazione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali, formazione di alta qualità, solidarietà sociale, amministrazioni funzionanti e non invadenti, fiscalità incentivante, innovazione a favore del clima: fattori che vanno coltivati senza sosta. Vale per tutti, anche per la Svizzera e per il Ticino. Libertà, coesione e giustizia sono la stella polare che dovrà sempre più orientare lo sviluppo del nostro Cantone. Lo dovrà fare a dispetto della frammentazione partitica che non giova alla ricerca di soluzioni concordate. In questa complicata situazione economica e finanziaria prodotta dall’emergenza pandemica, dal conflitto russo-ucraino e dalla crisi energetica, il PLR ha le carte in regola per assumere un ruolo trainante tornando ad essere protagonista. Lasciatosi alle spalle le scorie di sterili divisioni interne, il partito ha avuto il coraggio di rimettersi in discussione e di tornare a calarsi senza remore nella carne viva del territorio, del mondo del lavoro, della scuola, della sanità, del commercio e del turismo, recependone le aspettative. È di nuovo una forza propositiva e riformatrice in molti settori strategici. Ma lo dovrà essere ancora di più nei prossimi anni che saranno cruciali. Solo così potrà accreditarsi come soggetto politico di riferimento nel Cantone. E solo così potrà svolgere un ruolo determinante nell’articolare davvero una nuova edizione di quel patto di Paese che nei primi anni di questo millennio contribuì a far uscire il Cantone dalle secche dell’emergenza finanziaria e sociale. La lista per il Consiglio di Stato è un connubio promettente di esperienza, affidabilità, solide competenze ed entusiasmo. Un buon viatico per le prossime elezioni cantonali. ■

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Lib– #03, novembre 2022 3 Attualità
«L’unificazione Europea non è il sogno di Carlo Magno, ma un progetto politico di libertà»

«Non c’è resilienza se le persone non sono disposte a fare sacrifici»

L’ex Consigliere federale Kaspar Villiger commenta l’evoluzione della Svizzera negli ultimi anni. Tra capacità di reagire alle crisi e necessità di mantenere condizioni quadro attrattive per le imprese. Una fotografia del nostro Paese senza fronzoli e senza sconti per chi ama nascondersi «dietro la maschera del bene comune».

Sarà per i suoi trascorsi da imprenditore e da alto dirigente, ma quando l’ex Consigliere federale Kaspar Villiger prende la parola, è sempre la sua indole profondamente pragmatica ad emergere con forza dirompente, a calamitare l’attenzione di chi lo ascolta. Anche quando, come successo alla recente giornata nazionale del PLR, Villiger tiene il suo auditorio attaccato alla sedia per una mezz’ora buona. Nel suo intervento, il «padre politico» del freno all’indebitamento a livello federale ha infatti parlato di sicurezza attraverso la resilienza, toccando cinque aree importanti proprio per la resilienza stessa: stabilità finanziaria, difesa nazionale, neutralità, gestione delle crisi e condizioni quadro economiche. Partendo dalla legge di Murphy, che si delinea quando tutto ciò che può andare storto, va effettivamente storto. Come nell’attuale situazione globale. «Qualunque cosa accada, anche noi, come piccolo Stato, siamo colpiti da queste tempeste. Per questo motivo ci troviamo di fronte al problema di come noi, come piccola democrazia aperta al mondo e dipendente dalle esportazioni, possiamo resistere a questa tempesta», ha esordito Villiger. Ecco la sua pungente analisi.

Come la quercia e il giunco di La Fontaine

L’ex Consigliere federale lucernese, per chiarire fin da subito la sua visione del concetto di resilienza, ha preso in prestito la favola della quercia e del giunco di La Fontaine, affermando che «Quando scoppia una tempesta, la quercia offre riparo al giunco. Quando la tempesta si trasforma in uragano, la quercia viene sradicata

e muore, ma la canna si raddrizza e si riprende. Una politica di sicurezza intelligente consiste nel combinare saggiamente entrambi i concetti di sopravvivenza, rimanendo fermi e riprendendosi. Il risultato è la resilienza: robustezza più elasticità, resistenza più capacità di rigenerarsi», ha affermato. Questa ricerca di un equilibrio tra flessibilità e resistenza, esercizio

in cui la Svizzera ha dimostrato - ad esempio durante la crisi pandemica - di riuscire piuttosto bene, non deve però diventare l’alibi dietro cui nascondersi in caso di difficoltà. Perché lo Stato c’è, ma lo Stato non può risolvere tutto. Biso-

gna perciò far leva sulla responsabilità individuale dei cittadini. Da qui il chiaro monito di Kaspar Villiger. «La resilienza non è realizzabile senza la responsabilità individuale dei cittadini e dell’economia, ma nemmeno senza la disponibilità delle persone a fare un sacrificio o a rinunciare a qualcosa che hanno - aggiunge -. Alexis de Tocqueville disse che quanto più alti sono gli standard di vita e di giustizia sociale, tanto più le persone sono insoddisfatte del mondo. Anche nel nostro Paese, che è ancora privilegiato sotto tutti i punti di vista, le posizioni delle varie organizzazioni generano molto spesso l’impressione che il nostro Paese sia composto solo da gruppi di vittime piagnucolose, che chiedono a gran voce di essere sostenute, naturalmente nascondendosi dietro la maschera del bene comune. Naturalmente, come abbiamo visto durante la pandemia, in molte crisi è necessario anche l’aiuto dello Stato. Ma non potremo permetterci la cornucopia come annaffiatoio onnicomprensivo».

Di fisco, sicurezza, neutralità e crisi Per inquadrare la situazione della Svizzera

ViaMurate6T+41(0)918255153 CH-6500BellinzonaF+41(0)918258341 www.muttonicostruzioni.ch impresa@muttonicostruzioni.ch Pubblicità «In casi estremi l’aiuto dello Stato è ovviamente utile, ma non deve diventare un alibi» 4AttualitàLib– #03, novembre 2022

I miliardi di surplus fiscale accumulati dal governo tra il 2003 e il 2019.

circa i miliardi «extra» spesi per far fronte alla crisi tra il 2020 e il 2022.

Kaspar Viliger è stato Consigliere federale per 14 anni dal 1989.

nell’attuale, complessa, situazione internazionale, Villiger ha iniziato da uno dei capisaldi della sua azione politica: l’approccio fiscale. «Se la situazione economica dovesse improvvisamente peggiorare, cosa che non si può escludereha detto -, le tasse potrebbero anche crollare più del previsto, come abbiamo dovuto sperimentare negli anni Novanta. La negligenza nella politica fiscale che prevaleva all’epoca è stata in ultima analisi ciò che ci ha costretto a creare il freno all’indebitamento, per così dire, come strumento del popolo per disciplinare il parlamento. Allora come oggi, i rosso-verdi dipinsero sul muro gli scenari più cupi di recessione e impoverimento a causa dei successivi programmi di assistenza. Nulla di tutto ciò si è avverato. Al contrario. La Svizzera ha intrapreso un percorso di successo che non ha eguali a livello internazionale. Soprattutto in tempi di incertezza, è imperativo ricostruire la resilienza attraverso una politica fiscale disciplinata e astenersi dall’abuso sconsiderato dello strumento della spesa straordinaria al minimo vento contrario per minare il freno al debito. L’esempio dei paesi meridionali dell’UE dovrebbe essere un monito per noi. Non hanno usato l’ossigeno a basso tasso di interesse concesso loro dalla BCE per consolidare le loro finanze, ma per aumentare il loro debito. Ora stanno pagando un prezzo elevato per questo, e nemmeno una nuova crisi dell’euro sembra del tutto fuori questione».

Tra sicurezza e neutralità

Nel 2016 Villiger ha ricevuto il premio Friedrich Naumann per la libertà.

Villiger ha poi offerto la propria analisi sulla situazione della nostra politica di sicurezza. Aspetto per cui si è detto piuttosto preoccupato. «L’illusione, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che fosse scoppiata la pace eterna ci ha portato a dare troppa poca importanza al mantenimento della nostra capacità di difesa - ha affer-

mato -. Tutto ciò che è militare è stato sempre più sminuito, soppresso o addirittura ridicolizzato. Un partito di governo, il PS, ha persino inserito nel suo programma l’abolizione dell’esercito con riferimento al sogno diffuso di un sistema di sicurezza collettiva sotto la guida dell’ONU, che attualmente sta crollando. Stiamo sperimentando che non è sufficiente che la democrazia sia

ne in sé, ma uno strumento che un giorno avrebbe potuto diventare obsoleto a seconda delle condizioni della politica di sicurezza - osserva l’ex ministro -. Da un punto di vista costituzionale, l’uso di questo strumento deve essere misurato rispetto agli obiettivi della Costituzione, che includono la promozione di un ordine internazionale pacifico e giusto. L’interpretazione dogmatica e ristretta della neutralità non è storicamente provata, ma di origine recente». Il suo suggerimento, perciò, è legato al concetto di appartenenza ad una comunità di valori. «Sono lieto che il Presidente Cassis abbia spiegato chiaramente ai Paesi stranieri, in diverse occasioni, perché vogliamo rimanere neutrali e perché, tuttavia, ci schieriamo inequivocabilmente dalla parte della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani quando questi vengono attaccati nelle loro fondamenta, come in questo momento. Sono anche dell’idea che il concetto di neutralità cooperativa da lui utilizzato fosse intelligente per risolvere questa presunta contraddizione tra neutralità e sanzione all’estero e per togliere alla neutralità il sapore dell’egoismo».

l’unico sistema che permette alle persone di vivere in modo dignitoso. Deve anche essere in grado di difendersi militarmente», proprio nell’ottica di tutelare la nostra neutralità. Una neutralità attualmente messa a dura prova da interpretazioni più o meno restrittive, che ne mettono secondo Villiger a repentaglio l’efficacia. «È interessante notare che i padri della nostra Costituzione federale non hanno deliberatamente inserito la neutralità tra gli obiettivi dello Stato, perché saggiamente non la consideravano un fi-

Tornando sulla sua esperienza di imprenditore, Villiger ha infine auspicato che la Svizzera torni ad occuparsi maggiormente della propria economia, evitando di mettere sistematicamente il bastone tra le ruote agli imprenditori, come spesso accade. «Se vogliamo garantire la nostra prosperità a lungo termine, è più importante che mai migliorare in modo permanente le condizioni quadro della nostra economia, sia per le piccole che per le grandi imprese, invece di peggiorarle. In caso contrario, l’economia, l’asino della prosperità, potrebbe un giorno impuntarsi, invece di trainare, in un ambiente sempre più ostile. Jean-Pascal Delamuraz diceva: «Les Suisses se lèvent tôt et se réveillent tard». Spero comunque che non sia troppo tardi. Il prezzo sarebbe alto!», ha concluso. ■

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politica fiscale disciplinata è quanto mai necessaria in caso di crisi»
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Kaspar Villiger Già Consigliere federale

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Guerra per la libertà o battaglia tra priorità individuali e collettive?

L’attuale situazione tra Ucraina e Russia ripropone il tema antichissimo dello scontro tra popolazioni con identità distinte. Tra chi guarda a quanto successo nell’ex Jugoslavia e chi tira in ballo argomenti da «guerra fredda», l’interpretazione si differenzia.

1956

La repressione in Ungheria apre l’era della cortina di ferro tra Europa e URSS

1963

La crisi dei missili di Cuba è il culmine di un periodo ad altisisma tensione nucleare.

1968

La repressione in Cecolsovacchia allarga l’impero comunista

1989

La caduta del muro di Berlino segna la fine di un’epoca ad alta tensione

1992

La guerra nell’ex Jugoslavia torna a far tremare l’Europa dopo molti anni

Cosa non è ancora stato scritto sulla guerra in Ucraina? Approfondiamo un attimo le ragioni di come può essere diversa la nostra percezione. Le generazioni più recenti, pur attente alle vicende storiche, la possono vedere come una guerra civile tra popolazioni che convivevano nell’Unione Sovietica e che, dopo la sua frantumazione, hanno conosciuto una continuità di oligarchia e corruzione, con il nazionalismo che si è infiltrato nel vuoto lasciato dagli ideali squalificati del socialismo. Come è accaduto tra Serbi e Croati, e nono solo, dopo la frantumazione della Jugoslavia socialista. Ci sarebbe molta ironia da fare, se non fosse tragedia, sul social-comunismo propagandato per tutto il secolo passato come veicolo per educare gli esseri umani alla convivenza tra i popoli e alla pace. Questa visione delle cose induce a non parteggiare, ma solo a simpatizzare per le popolazioni colpite dalla ferocia della guerra, o costrette a combatterla, impotenti di fronte allo strumento nazionalista usato da classi o bande in lotta per il dominio. Induce a ritenere che la fine delle ostilità debba prevalere come scopo, rispetto alla de-

finizione di confini e al destino d’attribuzione territoriale per milioni di abitanti.

Generazioni da guerra fredda Le generazioni invece che hanno vissuto la guerra fredda sono indotte a denunciare la continuità dell’imperialismo illiberale, sovietico prima e

russo poi, manifestatosi con l’imposizione di regimi comunisti vassalli nell’Europa dell’Est dopo il ’45, con la repressione in Ungheria nel ’56 e in Cecoslovacchia nel ’68. La cortina di ferro tracciava il confine tra libertà e repressione. An-

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6AttualitàLib– #03, novembre 2022
La nostra percezione della realtà è divisa anche di fronte alle più immani tragedie

che chi tra noi coltivava ideali socialisti faticava a giustificare regimi che sparavano alle frontiere sui loro cittadini in fuga. Spostatosi ad Est con la caduta dell’Unione Sovietica, il confine tra libertà e dispotismo ci appare quello dove si sta combattendo ora. Questa visione è diffusa nelle popolazioni che - dai Paesi baltici alla Bulgaria - quell’imperialismo l’hanno subìto. La giustificazione russa dell’allargamento della NATO ad Est è già un inganno di parole: sono stati quei paesi ad invocare l’ombrello nucleare dell’Ovest per dissuadere il prevedibile revanscismo russo. Con ragione, come si vede. Abilmente il governo ucraino fa leva su questa visione per chiederci aiuto, e tanto meglio se il fallimento del disegno imperialista farà crollare il regime in Russia, come fu per la Germania del Reich.

Due visioni a confronto

Quale delle due visioni si rivelerà più vicina alla realtà, lo sapremo solo in futuro. Guardando all’Ungheria e un poco anche alla Polonia non siamo più così certi che alla liberazione dal giogo sovietico e all’entrata nell’UE consegua una definitiva e matura democrazia liberale. Alla radice del dilemma sta l’impossibilità di assicurare che una lotta per la libertà si traduca in effettivo rispetto delle libertà in caso di successo. Proprio perché il termine libertà ha una pluralità di significati. Può significare libertà da una dominazione percepita come straniera, o da forme di oppressione magari ispirate a modelli esogeni, ma messe in atto da attori locali. E diver-

se sono le priorità che gli individui possono avere quanto alla libertà che più li interessa: per taluni quella di scegliersi il governo e le leggi, per altri di esprimersi e muoversi liberamente, per altri di poter intraprendere e avere successo, per tanti anche soltanto di poter consumare, disporre di corrente elettrica e riscaldamento sicuri.

Dilemmi sulla libertà

Da tanto tempo non eravamo più confrontati con dilemmi tanto radicali riguardanti la libertà. La pandemia ha posto il tema delle limitazioni per salvaguardare la salute altrui, e abbiamo imparato che ben più dei pro e contro di principio contano le opinioni su cosa sia accertabile e comunicabile quanto a rischi, misure e i loro effetti. La guerra ci ripresenta il tema antichissi-

Il Piano Marshall per ricostruire l’Ucraina del futuro mira al modello statunitense, ma...

mo dello scontro tra popolazioni con identità distinte, in nome della libertà ciascuna dall’altra, e della percezione nostra. E stiamo imparando quanto le priorità individuali e collettive nostre possono essere diverse. ■

Tra le sue tante conseguenze - la crisi energetica, del grano, idrica, sanitaria e purtroppo anche umanitaria - la guerra di Ucraina ne avrà avuta una, che potremmo collocare nella cartella della politica, che riguarda un colossale paradosso: un insieme di Stati non-belligeranti ha già incominciato a pensare alla ricostruzione del dopo guerra-in Ucraina. Nobile e giusta idea, di fronte alle spaventose immagini di massacri e distruzioni cui noi, lontani dal conflitto, quotidianamente assistiamo.

Era già successo, in particolare una volta, che uno Stato indicesse un grandioso programma di ricostruzione e rinascita per alleati che avevano patito distruzioni immense: si trattò degli Stati Uniti che con il Piano Marshall diedero una straordinaria spinta alla rinascita europea, offrendo ai paesi che avevano combattuto la seconda guerra mondiale di entrare nell’European Recovery Plan, inizialmente offerto a tutta Europa (Unione Sovietica compresa, che lo rifiutò), distribuendo all’incirca 20 miliardi di $ (di allora!) tra il 1947 e il 1951, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Un gesto di straordinaria importanza per l’Europa (occidentale): ma dettato dalla generosità o da un abile progetto di dominazione economica sui paesi alleati? Un dibattito si sta svolgendo, in effetti, intorno al progetto di ricostruzione dell’Ucraina: l’Unione Europea ne ha discusso già in due Conferenze internazionali, la prima a Lugano nel luglio scorso e la seconda il mese passato a Berlino.

Nonostante il lodevolissimo slancio solidale dell’Unione Europea e dei suoi amici più stretti, come la Svizzera che, con l’attuale Presidente Cassis, ha aderito all’iniziativa e ha promesso un contributo (non c’è bisogno di commentarla, tanto l’idea è in sé apprezzabile), non si può non considerarne alcune difficoltà. In primo luogo, l’UE non è in guerra ma neutrale, e ha fornito all’Ucraina aiuti e armi ma senza senza combattere. È vero che tale tipo di aiuti sarebbe benvenuto quale che fosse la mano che lo porge. Ma dal punto di vista europeo siamo sicuri di saper distinguere in un gesto così nobile la differenza tra «donatori» e «investitori»? E poi, posto che l’esito del conflitto fossecome l’iniziativa UE immagina - favorevole all’Ucraina, come chiudere gli occhi di fronte a quelle che sarebbero verosimilmente le sofferenze del popolo russo? Più che spender soldi, non sarebbe meglio lavorare a un grande movimento rivolto alla pacificazione di tutta quell’area euro-orientale che ha già denunciato diversi sintomi di instabilità?

La cifra preventivata dalla conferenza per l’Ucraina si aggira sui 23 miliardi di €; quella che era stata investita nel Piano Marshall era una ventina di miliardi di $. Un grande dubbio incombe: l’economia mondiale saprà gestire una così grande cifra con un successo come quello del Piano Marshall… L’Ucraina potrà diventare tutta un cantiere?

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Lib– #03, novembre 2022 7 Attualità
Le priorità degli individui quando si parla di libertà possono essere molto diverse
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«Responsabilità individuale e pianificazinone ospedaliera per arginare i costi della salute»

Puntuale come ormai da anni, è arrivata la stangata d’autunno delle Casse Malati. È venuto il momento di cercare soluzioni concrete, evitando l’inutile «caccia al colpevole». Lib- ne ha parlato con Céline Antonini, responsabile della comunicazione di curafutura.

Ormai da anni, a fine estate, attendiamo con ansia e timore la comunicazione dei premi di cassa malati per l’anno successivo. Quest’anno è arrivata un’altra batosta per il nostro portafogli. Tante domande sorgono spontanee dopo questo ennesimo rincaro, che molti vivono come un’ingiustizia. Abbiamo posto queste domande a Céline Antonini, responsabile della comunicazione per la Svizzera italiana di curafutura - associazione svizzera degli assicuratori-malattia.

Antonini spiega che, nonostante da gran parte della popolazione le casse malati siano percepite come principale causa dell’aumento dei premi dell’assicurazione malattia, la situazione non è esattamente quella che viene presentata. Infatti, «gli assicuratori-malattia comunicano ai propri

assicurati gli aumenti dei premi ed è per questo motivo che spesso viene loro imputata la colpa degli aumenti. Ma gli assicuratori attuano semplicemente quanto previsto dalla legge: fissano dei premi che coprono i costi dei propri assicurati a livello cantonale. Se i premi aumentano è solo perché i costi sono aumentati». Quindi la causa degli aumenti non può essere attribuita solo agli assicuratori, anche perché come spiega Antonini, quasi la totalità dei premi (95%) serve a finanziare le prestazioni sanitarie, mentre il restante 5% serve a coprire i costi amministrativi, che tra l’altro risultano essere molto più bassi rispetto ad altre assicurazioni, come la SUVA.

Ma passiamo al nostro Cantone, che ha subito l’aumento maggiore dei premi di tutta la Svizzera. Cos’ha di diverso il Ticino rispetto agli altri? È davvero tutto corretto? Antonini risponde in modo chiaro «il Parlamento federale, quando ha

creato la Legge federale sull’assicurazione malattie (LAMal) ha deciso che i premi sarebbero stati definiti su base cantonale. I premi devono dunque coprire i costi cantonali e seguono un’evoluzione diversa da un cantone all’altro. Il fatto che in Ticino sia previsto un aumento così importante per il 2023 è legato al fatto che è stato il Cantone con l’aumento dei costi più forte nel 2021 (+8,4% su base annua) e che i primi dati sui costi nel 2022 confermavano la tendenza ad un forte aumento». Il Canton Ticino è uno dei Cantoni in Svizzera con i costi per assicurato più alti (dopo Ginevra e Basilea Città), costi da ricollegare in parte all’evoluzione demografica, ma anche ad altri fattori, come l’alta densità di fornitori di prestazioni la tendenza a ricorrere più frequentemente alle prestazioni mediche, tendenza che si osserva più marcata nei cantoni latini - precisa Antonini.

Di fronte a questa situazione quali potrebbero essere le soluzioni? Una nuova pianifiazione ospedaliera cantonale potrebbe essere una soluzione per abbassare i costi della salute? Secondo Antonini la pianificazione ospedaliera è uno degli strumenti principali di cui dispongono i cantoni per ridurre i costi e migliorare la qualità delle cure. «Si è osservato in molti cantoni che, se affrontata in modo pragmatico e in un’ottica sovraregionale, la pianificazione può avere un impatto molto positivo. Rinunciare ad avere ospedali ovunque e concentrare determinate prestazioni non è solo positivo per i costi ma anche per la qualità delle cure».

È necessario comunque chiarire che - nel sistema sanitario oltre alle casse malati e al settore ospedaliero - ci sono anche i pazienti, che hanno una responsabilità nell’aumento dei costi della salute. Antonini conferma che ognuno di noi può contribuire a frenare l’aumento dei costi. «Il fatto di scegliere un modello assicurativo basato su un sistema di «gate-keeping», come quello del medico di famiglia o una rete sanitaria HMO, permet-

te di disporre di una migliore coordinazione delle proprie cure mediche, ciò che aumenta la qualità delle stesse, evita la sovramedicalizzazione e ha un impatto positivo sui costi. Ognuno di noi può poi cercare di richiedere farmaci generici e biosimilari quando si reca in farmacia, riducendo così la spesa sanitaria per i farmaci, categoria che si trova oramai ai primi posti delle voci di spesa per l’assicurazione di base». Inoltre, «da quest’anno i fornitori di prestazioni sono obbligati a trasmettere le fatture ai pazienti. È importante verificare sempre le fatture e segnalare eventuali errori»conclude. ■

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«Gli assicuratori malattia comuinicano i premi, ma è la legge che fissa le regole»
Lib– #03, novembre 2022 9 Attualità
«Il giusto modello assicurativo migliora la qualità delle cure e ha impatto positivo sui costi»

«Da piccola volevo diventare

psichiatra, ma adesso mi ritrovo giudice del Tribunale federale...»

Quattro chiacchiere con Federica De Rossa, prima donna italofona a ricoprire il ruolo di giudice nella massima istituzione giuridica svizzera: «Penso al diritto come matematica delle scienze umane».

Fine Ottocento. La seconda rivoluzione industriale è partita da poco (1870), ma il lavoro di semina e raccolto nei campi è quello di sempre e, soprattutto nelle risaie, sono le donne ad essere impiegate da mattino a sera per pochi spiccioli. Sono proprio le donne a dare il «la» ad una rivoluzione che unirà lavoratrici e lavoratori in una lega che condivide aspettative e rivendica giustizia. «Sebben che siamo donne» diventa una canzone che si trasforma in inno. «Sebben che siamo donne» è il titolo di questa rubrica che, mese dopo mese, vuol farvi conoscere donne speciali. La prima, a settembre, è stata Carla Del Ponte; a ottobre è stata la volta di Laura Silvia Battaglia. Oggi c’è Federica De Rossa: «Penso al diritto come matematica delle scienze umane»

Mensa dell’Università della Svizzera italiana. Autunno inoltrato. La luce entra dalla grande vetrata che dà su via Madonnetta. Sono le 8.30. La prof. Federica De Rossa, lei che da gennaio sarà la prima donna italofona a ricoprire il ruolo di giudice ordinaria del Tribunale federale, entra e sembra una delle studentesse che punteggiano la sala. Ha occhi limpidi e sorriso travolgente. Due figli - di 12 e 14 anni - e lei, che di anni sembra averne una ventina, ne ha 48. Il suo percorso professionale è fatto di impegno, lavoro e ricerca delle migliori soluzioni per una vita degna in questa nostra società complessa.

Senta, ma è vero che fin dal liceo, lei sognava di diventare giudice?

«Sì, è vero. Mi ha sempre affascinato la possibilità di studiare un problema giuridico per individuare una giusta soluzione per ogni caso concreto, per la vita di una persona, e sarà proprio quello che farò in futuro. Ne sono felice, ma anche consapevole dell’impegno che quest’incarico

comporta». Sorride. Così arriva la seconda domanda «leggera».

Voleva fare la giudice anche negli anni precedenti il liceo?

«No, no. Da piccola volevo fare la psichiatra». C’è una bella differenza, mi vien da dire… «No. In fondo tutte e due le discipline concorrono a stabilire un ordine e sono molto vicine all’essere umano. Mi piace immaginare il diritto come la matematica delle scienze umane: un insieme di regole logiche, di equazioni che vanno risolte inserendo al posto delle incognite, delle “x”, la moltitudine complessa dei fatti reali della vita delle persone, facendo attenzione all’effettività dei loro diritti».

La prof. De Rossa è una di quelle persone che quando parla di ciò che le sta a cuore glielo si legge in faccia. Sì, certo, il suo professore di riferimento - il prof. Marco Borghi - le ha insegnato la regola secondo cui ogni presa di posizione andrebbe fatta decantare almeno 24 ore prima di essere inviata, ma… quando si parla, si discute, le 24 ore non ci sono quasi mai. E allora passiamo subito all’attacco.

Non le spiace un po’ lasciare l’USI e i suoi studenti? Qui lei è professoressa straordinaria di Diritto dell’economia della Facoltà di scienze economiche nonché, dal 2018, direttrice dell’Istituto di Diritto.

«Ogni scelta comporta una rinuncia e lasciare l’attività accademica è stata una scelta difficile, dolorosa. La settimana scorsa, entrando in aula dai miei studenti di Bachelor, ho realizzato che quello sarebbe stato il mio ultimo corso con loro e quando l’ho detto loro mi sono davve-

ro emozionata. Ho anche sentito la loro empatia, che non dimenticherò mai. Questi 25 anni di vita accademica sono stati molto intensi e non sempre facili. A volte questo sistema di forte concorrenza e di costante valutazione tra pari crea un ambiente difficile e - bisogna dirlo - mette a dura prova l’autostima. Ricordo però che durante il periodo del confinamento del covid ho dovuto preparare il mio dossier per la promozione a professoressa straordinaria e, isolata dal mondo esterno, ho potuto ricostruire ogni mattoncino della mia vita professionale e dirmi a più riprese «ah però, tu guarda: hai fatto anche questo, Fede!». È stato un momento quasi «catartico», che mi ha regalato una grande consapevolezza ed un maggiore equilibrio, forse proprio quello che poi mi ha spinto a sentirmi pronta per presentare la mia candidatura a giudice federale».

Doloroso anche lasciare l’università? Poi proprio adesso che avrà una rettrice? «La nuova rettrice ha un curriculum eccellente e sembra una persona risoluta e, nel contempo, aperta. Credo (e spero!) che la scelta di questa figura dia un segnale forte per il raggiungimento di un migliore equilibrio di genere nel mondo accademico. Quindi sì, mi spiace partire prima dell’inizio del suo mandato e non avere l’occasione di conoscerla meglio, ma il mio auspicio è che lei possa portare in Università un nuovo modello di leadership autorevole ed empatica, una guida che rafforzi la democrazia universitaria attraverso una cultura del dialogo ed una valorizzazione della diversità e delle competenze di ciascun componente della comunità accademica. Spero poi che la sua profonda conoscenza della

Pubblicità 10Sebben che siamo donneLib– #03, novembre 2022

realtà e della cultura svizzere, unita alla sua origine italiana, contribuiscano a valorizzare maggiormente il ruolo che l’USI deve avere anche nella promozione del plurilinguismo svizzero, che oggi è messo sotto scacco dall’inglese».

Equilibrio di genere. Prof. De Rossa, qualcosa mi dice che lei è favorevole alle quote rosa.

«Ebbene sì, sono favorevole alle quote rosa come strumento transitorio in grado di rompere schemi purtroppo ancora ben presenti nella nostra società. Questo non le sembrerà strano se pensa che, secondo un recente rapporto di Equileap, la Svizzera è tra i tre Stati in cui le barriere sociali, culturali e psicologiche che impediscono alle donne di accedere a posizioni dirigenziali sono ancora molto elevate. Insomma, le donne preparate e competenti non mancano, ma non riescono a raggiungere posizioni di responsabilità a causa di tutta una serie di ostacoli. Le quote rosa diventano così uno strumento irrinunciabile per realizzare un’esigenza costituzionale: la nostra Costituzione, infatti, incarica il legislatore di adottare misure atte ad assicurare l’uguaglianza di diritto e di fatto in tutti gli ambiti della società (ad es. famiglia, istruzione e lavoro). D’altro lato, la Svizzera ha ratificato da anni la Convenzione dell’ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, che chiede agli Stati di adottare ogni tipo di misura temporanea o definitiva necessaria per abolire le discriminazioni esistenti e per abbattere gli stereotipi ancora radicati nella società. Essa stabilisce espressamente che queste misure positive non possono essere considerate discriminatorie, fintantoché i privilegi di cui hanno goduto fino ad ora gli uomini non saranno aboliti e le donne non beneficeranno di medesime condizioni di partenza».

Sta di fatto che lei, donna, da gennaio sarà una delle 16 donne giudice che fanno parte del Tribunale federale (che di giudici ne ha 38). A cosa si riferisce quando parla di ostacoli?

«Per me sono ostacoli tutti gli automatismi che legano un determinato ruolo sociale (ad esempio la cura dei figli) ad un genere preciso e che ingabbiano così non solo le donne, ma anche gli uomini in un determinato schema. Questi sono presenti in tutte le pieghe della quotidianità e vanno palesati con pazienza per essere abbattuti. Le farò un piccolo esempio, solo apparentemente insignificante. Un giorno, in un gremio, mi accorsi che stavamo pianificando un ritiro strategico proprio per il primo giorno di scuola. Intervenni chiedendo di spostarlo perché mi sarebbe piaciuto accompagnare i miei figli (uno dei due iniziava la scuola media), per rendermi conto che in realtà avevo fatto un favore non solo alle (poche) madri, ma soprattutto a diversi padri, felici di essere presenti in un’occasione così importante per i loro figli, ma che non avrebbero mai fatto notare la sovrapposizione».

Ma lei come ha conciliato il fatto di essere mamma e donna in carriera?

«La conciliabilità è una delle sfide più grandi che soprattutto le donne devono affrontare. È un lavoro nel lavoro. Io mi sono costruita una serie di aiuti e sono stata fortunata perché ho accanto a me delle persone preziose, ma impiego molte energie per organizzare tutte le tessere di un mosaico che deve combaciare alla perfezione ogni giorno (e che ogni tanto esplode!). Ho anche sempre coinvolto i miei figli in quello che faccio (sono venuti alle mie lezioni, ed anche a Berna per la mia elezione) perché credo che sentire la mia passione e convinzione li abbia aiutati a capire che è bello avere una mamma realizzata e felice e ad accettare meglio certe mie scelte. La pandemia, poi, ci ha svelato il mondo dell’home working e, diciamocelo, non tutto il male vien per nuocere. Le pare?». Sì, mi pare, prof. Federica De Rossa. Buon lavoro signora giudice federale! ■

Non tutti i fanatici religiosi hanno la barba lunga

Non tutti i clown hanno il naso rosso, come dice una famosa didascalia per meme, e non tutti i fanatici religiosi hanno la barba lunga, vivono in Afghanistan e aspirano a fare saltare in aria le statue del Buddha.

Le mode culturali cambiano, e i nuovi fondamentalisti in cerca di visibilità possono scegliere, per esempio, di gettare una pentola di puré di patate contro un dipinto, per poi incollare una mano alla parete e strillare le loro verità di fede. L’unico tratto comune fra queste diverse specie di talebani è la fastidiosa abitudine di prendere di mira l’arte, come strumento per segnalare l’adesione ai dogmi della propria fede.

La prima considerazione, di fronte ai penosi rituali di cui siamo stati spettatori nelle ultime settimane, è che i social media sono davvero una straordinaria macchina per «dare voce a ogni idiota», come spiega il filosofo italiano più importante del secolo XXI. Nell’epoca precedente, il ritorno sull’investimento necessario per mettere in piedi un simile atto di vandalismo - in termini di preparazione, spesa, prevedibile detenzione - sarebbe stato sproporzionatamente basso. Oggi, invece, due stronzi con una latta di salsa di pomodoro possono ottenere visibilità globale all’istante; e questo senza nemmeno prendersi il disturbo di imparare a pilotare un aereo, come occorreva fare nel 2001.

La seconda considerazione riguarda l’esigenza di dare finalmente alle cose il nome che si meritano. Quello che abbiamo davanti non è «attivismo», ma estremismo - che, come ogni estremismo, dapprima sacrifica gli oggetti ma a un certo punto si rende conto che, magari, sacrificando le persone è più facile ottenere visibilità. Non sono «compagni che sbagliano» e non sa-

ranno mai un interlocutore che merita dignità politica: sono una minaccia per la salute della democrazia, e come tale vanno trattati.

Siamo di fronte al braccio armato di un movimento religioso che cerca di imporci, con le buone o con le cattive, una dottrina fondamentalista nella quale non esiste il concetto di laicità dello Stato. La religione dei nuovi puritani, «wokisti» o comunque vogliate chiamarli, è un sistema totalitario che vuole invadere ogni settore della nostra vita, dalle parole che usiamo a come ci spostiamo, dal modo di educare i nostri figli a quello che mettiamo nel piatto. I suoi precetti, trave-

stiti da verità scientifiche, sono una versione 2.0 dei deliri che le sette millenariste più becere diffondono da decenni sulle TV private statunitensi: il mondo sta finendo a causa dei nostri peccati, solo con la purezza potremo salvarci, una profetessa vergine ci ha indicato la via, chi non accetta il nostro messaggio è un nemico miscredente («negazionista»), eccetera eccetera.

In attesa delle prossime sceneggiate, la lezione da tenere a mente è questa: se temete che un esibizionista religioso si incolli al nero nastro di asfalto futurista che vi porta da casa al lavoro, tenetevi in macchina una bottiglia di olio di girasole. È un rimedio portentoso, a quanto pare.

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Lib– #03, novembre 2022 11 Sebben che siamo donne
I nuovi fondamentalisti in cerca di visibilità possono scegliere anche di colpire le opere d’arte
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Jean-Jacques Aeschlimann

«Mi sento la tessera di un puzzle che diventerà coeso e vincente»

Lib- inizia un viaggio alla scoperta dei candidati PLR al Consiglio di Stato. Prima tappa, Lugano, dove incontriamo «JJ» l’ex nazionale di hockey e attuale dirigente sportivo che si lancia nell’arena politica con spirito competitivo parlando di giovani, salute ed economia.

venta il secondo, a dipendenza degli impegni, del livello e degli stimoli). La politica deve quindi considerare lo sport allo stesso livello rispetto ad altri elementi importanti come cultura e educazione. Io inizierei da questo».

Anche perché per i giovani è fondamentale l’aggregazione come veicolo di formazione e integrazione, giusto?

«Esatto. Lo stesso studio di cui parlavo prima evidenzia che l’impatto negativo della pandemia sull’attività sportiva è secondo solo all’impatto negativo sulla vita sociale. Oltre alla politica chiamata ad aiutare con degli incentivi le società sportive (e non solo mettere il bastone tra le ruote) sono chiamate a fare maggiori sforzi di reclutamento anche le società sportive dove i giovani possono aggregarsi in un’attività che ricordiamolo è il terzo grado di educazione dopo la famiglia e la scuola».

E la formazione? Dove migliorare?

«Prendiamo l’esempio dei livelli alle scuole medie. Per il figlio quattordicenne di mia moglie, la scorsa estate è stata di estrema pressione a causa di questa scelta. Non mi pare ideale dover pren-

«Interpreto il concetto di squadra come un puzzle, composto di tessere diverse una dall’altra nella loro forma, ma complementari nell’obiettivo di costruire insieme un’immagine unita e forte. Ovviamente i singoli elementi mantengono sfumature diverse, ma insieme sono vincenti».

Lei è anche un dirigente prestato alla politica. Quanto la sua professione può essere utile?

«Nei miei 15 anni di carriera post-agonistica, ho rivestito diversi ruoli e mi sono occupato di molte cose. Spesso anche di aspetti, per così dire, «politici». Dalla gestione delle risorse umane al team building, dalla formazione alla contabilità, passando per questioni legali, di marketing e comunicazione, di sicurezza, ultimamente anche di gestione del settore «food and beverage» e della responsabilità sociale delle imprese. Tutte esperienze che ho messo nel mio zainetto e che metto volentieri a disposizione della politica. Come quando ero giocatore, mi piace avere una visione globale, senza per questo essere un tuttologo».

Insiste spesso anche sul concetto di sport come veicolo per la promozione della salute. Ma sembra che la pandemia abbia la-

sciato strascichi in questo ambito, specie sui giovani.

«Un recente studio ha evidenziato che la pandemia ha allontanato i giovani dallo sport. E questo in particolare in Romandia e in Ticino. Perchè?

Da noi, ad esempio, le chiusure sono state più lunghe che altrove. E questo è certamente un aspetto preoccupante, perché il ruolo dell’attività sportiva per il benessere fisico e mentale è provato scientificamente».

Come invertire la tendenza?

«Lo sport è il terzo più importante veicolo di educazione dopo la scuola e la famiglia (e spesso di-

dere una decisione così importante per il proprio futuro a 14 anni. Credo che la direzione giusta da prendere sia quella di puntare su un ampliamento dell’offerta per intercettare maggiormente gli interessi formativi del singolo».

Parliamo un po’ di economia. Lo sport è sempre più un’industria importante. E con esso lo sono le infrastrutture sportive. Come legge questo ruolo dello sport come motore economico?

«Parto da una cifra. Nel 2017 (sarebbe ora di aggiornare il dato), lo sport in Svizzera ha generato 22,2 miliardi di franchi di cifra d’affari. Il 23% di questa cifra, è legato all’utilizzo delle infrastrutture. I legami con l’economia sono evidenti. Quando è stato fermato il campionato di hockey per la pandemia, a rimetterci non sono state solo le società sportive (poi aiutate a sopravvivere dalla Confederazione). Anzi. I fornitori di servizi hanno sofferto altrettanto. Da chi porta le bevande, a chi si occupa di sicurezza. Ecco, questo è solo un esempio. Le infrastrutture sono poi fondamentali, perchè generano posti di lavoro nel contesto sportivo e tra gli artigiani, ma vanno fatte vivere con eventi di portata regionale, nazionale e internazionale. Che sono legati a doppio filo al turismo, per gli eventi, ma non solo. Come giustamente chiesto dal collega di lista Andrea Rigamonti: perché non candidare Lugano ed Ambrì per un mondiale di hockey? Non è vietato sognare. Se non è economia questa...» ■

Jean-Jacques Aeschlimann. Nell’annunciare la sua candidatura, si è definito «uomo squadra». Come intende declinare questo concetto in politica?
Lib– #03, novembre 2022 13 Il personaggio
«Lo sport è il terzo veicolo di educazione per importanza. Non va sottovalutato»

Mauro Gianetti

Dal Ticino agli Emirati Arabi come ambasciatore della «petite reine». Ritratto di un dirigente sportivo fuori dagli schemi che si occupa di salute pubblica e di sviluppo urbano a misura di bicicletta. E nel frattempo vince due Tour de France.

Foto UAE Team Emirates 14Il personaggioLib– #03, novembre 2022
Di Massimo Schira

Mauro Gianetti, partiamo da lontano. Lei lavora ormai da diversi anni a stretto contatto con gli Emirati Arabi. Come descriverebbe questa esperienza e quali sono le principali differenze con i suoi anni di lavoro precedenti quale manager sportivo?

«Innanzitutto devo dire che sto vivendo un’esperienza bellissima, iniziata ormai nel 2014, quando sono stato chiamato dagli Emirati Arabi per lanciare una visione per promuovere l’uso della bicicletta tra la popolazione. Quindi non tanto per questioni legate al ciclismo agonistico. Dietro la richiesta c’erano soprattutto i problemi di obesità e diabete di una popolazione piuttosto sedentaria. Da qui è nata la visione di un concetto legato alla bicicletta quale veicolo di benessere, salute, alimentazione equilibrata. Nella mia testa si trattava di una visione a medio-lungo termine, ma poi tutto è partito in maniera molto celere e, voltandomi indietro, direi che siamo molto più avanti del previsto. Negli Emirati le possibilità e la voglia di agire sono incredibili».

Può farci qualche esempio?

«Otto anni fa nelle città non c’erano quasi neanche i marciapiedi, oggi abbiamo sviluppato 1200 km di piste ciclabili. Siamo partiti da percorsi chiusi per favorire l’uso della bicicletta e oggi abbiamo centri sportivi con innumerevoli discipline, che permettono di fare sport con tranquillità e sicurezza. Oggi ogni nuova strada costruita, prevede una pista ciclabile, ogni nuovo quartiere è a misura di bicicletta. Abu Dhabi è appena stata nominata Bike City Friendly e presto sarà collegata con Dubai attraverso 120 chilometri di piste ciclabili perfettamente equipaggiate. Guardiamo anche oltre, ad un velodromo coperto per il 2024, alla Mountain Bike, alla BMX e a tutte le forme di ciclismo».

Cambiamo per un attimo sport. Siamo al calcio d’inizio dei Mondiali di calcio in Qatar, che sono stati preceduti anche da molte polemiche. Come leggere la situazione?

«Si tratta alla base di condizioni di partenza molto diverse. Per comprendere quel che sta succedendo, va detto che il Qatar ha puntato sui Mondiali di calcio per mostrare la propria potenza economica. Negli Emirati si è invece scommesso sul ciclismo prima di tutto per promuovere la qualità di vita e per il bene della popolazione. E solo in seguito si è arrivati alla «vetrina» della competizione a livello mondiale».

Quanto è rimasto del Mauro ciclista nel Mauro manager?

«In fin dei conti direi che il ciclista e il manager hanno in comune la necessità di mettere dedizione, amore e passione in quello che fanno. Il ciclista si deve allenare in tutte le condizioni, anche quando magari è stanco, è spesso lontano da casa. Da manager è un po’ la stessa cosa. Da un lato gestisco una squadra di ciclisti eccezionale, che rappresenta un Paese ed è stata in grado di vincere due Tour de France. Ma che richiede anche tanta passione e tanto impegno. Dall’al-

tro, il progetto globale di promozione del ciclismo e dello sport negli Emirati richiede tanta dedizione. E anche passione. Come era per il Mauro ciclista».

Uno dei vari progetti di sviluppo nel suo lavoro degli ultimi anni è legato al ciclismo femminile. È un esperimento di facciata o c’è davvero l’obiettivo di rendere il ciclismo femminile molto più popolare, professionale e agonisticamente importante?

«A livello generale, penso che il ciclismo sia proprio uno sport che si adatta perfettamente alle donne. Del resto lo si vede anche sulle nostre strade che sempre più donne scelgono la bicicletta come disciplina sportiva. E non necessariamente a livello agonistico. È che, oltre ad essere uno sport bellissimo, il ciclismo è indipendente, flessibile. Ognuno lo fa all’ora che vuole, da solo o con altri, poco conta. Non serve prenotare, organizzare, pianificare. Si salta in sella e via».

E a livello agonistico?

«La risposta è ancora più semplice, perché è la realtà dei fatti che dimostra il potenziale del ciclismo femminile. Il Tour de France femminile ha avuto un seguito mediatico strepitoso, con milioni di spettatori davanti alla tv e tantissimi anche sulle strade. L’interesse è reale. E anche la «bike industry» spinge molto affinché si vada in questa direzione. Io stesso mi sono confrontato con aziende che facevano a gara per essere lo sponsor principale della nostra formazione femminile. Il motivo è semplice, il potenziale dell’investimento in termini di visibilità ora è molto elevato a fronte di costi ancora abbordabili».

Le donne cicliste sono quindi già dei «modelli» anche negli Emirati?

«Si, gli Emirati sono molto emancipati come società. È una realtà che guarda e vive quello che succede attorno e quindi anche le pari opportunità sono un tema sentito. Molte donne ormai vanno in bicicletta e se ripenso al 2014 dove il ciclismo era praticamente sconosciuto, posso dire di essere orgoglioso di quanto realizzato. Vedere ragazze e ragazzi in bicicletta è una grandissima soddisfazione. Le squadre professionistiche rientrano in questo concetto di promozione della bicicletta e hanno certamente contribuito ad accelerare il processo».

La sua squadra maschile ha il privilegio di poter schierare uno dei migliori ciclisti in assoluto di questi anni, Tadej Pogacar. Come si gestisce un «personaggio» in questi anni in cui l’immagine dell’atleta conta spesso (non sempre, in questo caso) più del risultato sportivo in sé?

«In realtà è abbastanza semplice, perché parliamo di un campione a 360 gradi, che ha qualità fisiche incredibili, ma anche un’attitudine mentale e caratteriale unica. Sa quello che vuole, è molto serio, professionale, dedicato. Ma senza mai perdere la testa. Mai arrogante, sempre at-

tento ad ascoltare consigli, uomo squadra. È unico nel suo genere. In 40 anni di carriera nel ciclismo non ho mai incontrato un personaggio così forte, aperto e capace di non perdere mai il controllo di sé stesso. E le complicazioni attorno ad un atleta del genere non mancano, ve lo assicuro. Ma in tutto questo lui è rimasto semplice. È un campione di rara bellezza, forse il ciclista più forte in assoluto degli ultimi 30/40 anni. E non se la tira!»

Torniamo un po’ a casa nostra… In Ticino si torna regolarmente a parlare della possibilità di organizzare nuovi grandi eventi legati al ciclismo. Si parla di Mondiali o, appunto, Tour de France. Siamo terra di ciclismo, ma meno terra per ciclisti?

«Beh, in Ticino sono stati organizzati 4 Mondiali di ciclismo su strada, uno di Mountain Bike, innumerevoli arrivi di tappa del Tour de Suisse, del Tour de Romandie e del Giro d’Italia. È quindi evidente che c’è consapevolezza del potenziale di visibilità attorno al ciclismo. Dall’altra parte, però, ci si scontra con difficoltà enormi nello sviluppo di una rete ciclabile che renda sicuri gli spostamenti per chi pedala. Basta chiedere conferma a Rocco Cattaneo, da anni al fronte insieme a Provelo su questo tema. Dobbiamo davvero dotarci di spazi per muoverci in bici, soprattutto dopo l’avvento della bici elettrica, perché muoversi nel traffico è diventato troppo rischioso».

Vedere la bici non come passatempo, ma come vero mezzo di trasporto? È questo il cambiamento da fare?

«Guardiamo ad esempio a Belgio o Danimarca, che non hanno certo la fortuna di avere il clima del Ticino. La bicicletta è diventata «il» mezzo per andare al lavoro. Sulle brevi distanze ha tantissimi vantaggi: fa risparmiare tempo, fa bene e fa risparmiare anche soldi, pensiamo solo ai costi dei parcheggi nei centri urbani. Ma va capito che la bici è un mezzo per andare al lavoro e non possiamo pensare di avere solo percorsi sterrati. Mi sarei aspettato più decisione nel muoversi in questa direzione, vista la passione per la bicicletta nel cantone».

E il turismo?

«Altro capitolo interessante, considerando anche il cambiamento climatico. Pensate che in Trentino e nelle Dolomiti, il turismo estivo legato al ciclismo ha ormai superato quello invernale. Con il nostro clima favorevole, il nostro territorio e le ottime infrastrutture ricettive avremmo un atout fenomenale da giocare».

Chiudiamo con una nota personale. Da ex professionista, Mauro Gianetti è ancora spesso in sella. È solo benessere fisico o anche psicologico?

«Cerco di pedalare appena posso. Ne percepisco il bisogno a tutti i livelli. Non faccio più lunghe uscite come prima, ma le faccio regolarmente. Se no poi Rocco Cattaneo mi stacca… e non va bene!» ■

Biografia

Classe 1964, Mauro Gianetti dal 2017 riveste il ruolo di Team Principal e CEO della squadra ciclsistica professionista UAE Team Emirates. Dal 1986 è stato ciclista professionista e i suoi successi più prestigiosi risalgono alla stagione 1995, quando ha conquistato due classiche di livello mondiale come la Liegi-Bastogne-Liegi e l’Amstel Gold Race. Nel 1996 ai Mondiali di Lugano ha conquistato la medaglia d’argento. Nella foto, Gianetti con il Presidente della Confederazione Ignazio Cassis nel corso di una recente visita negli Emirati Arabi; a destra, l’Ambasciatore Massimo Baggio.
Lib– #03, novembre 2022 15 Il personaggio
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La politica è un’arte... ma spesso viene praticata con eccessiva superficialità

Non di rado chi fa politica si ritrova a navigare in un oceano di chiacchiere, senza avere gli strumenti culturali per trovare l’orientamento. Finendo con l’autocompiacersi invece di preferire il silenzio per una riflessione ponderata. L’analisi dello scrittore locarnese.

L’esperto d’arte Brnard Berenson, nella prima metà del secolo scorso, riferendosi al suo lavoro, scrisse sulle difficoltà d’orientarsi nel «mare di chiacchiere» della critica. Anche la politica è un’arte e la si pratica spesso, richiamando lo spirito e i principi democratici, con approssimazione e superficialità. Se tutti non possono o non vogliono essere artisti, i contributi corretti per una valutazione dell’esperienza politica contemporanea rivelano la formazione inadeguata e insufficiente tanto di molti professionisti e soprattutto dei dilettanti della politica che si trovano ad un tratto immersi a navigare, senza l’aiuto di uno strumento d’orientamento culturale, nella storia

e nella tradizione dell’arte del governo. Lo stupore d’essersi trasferiti da un mare a un oceano di chiacchiere, in generale prolisse e retoriche, promuove la tentazione del politico d’ascoltarsi e di autocompiacersi su quanto esprime, invece di limitarsi alla disciplina dell’ascolto e del silenzio, necessari per una riflessione seria e ponderata.

L’assoluto e il dubbio

Il discorso dialettico e concettuale più attuale è caratterizzato dalla ripetizione ossessiva della locuzione di «assoluto» e dalla conclusione idiomatica di «assolutamente». La filosofia greca, nella sua svalutazione del divenire come segno

provvedere ai bisogni del collettivo che non possono essere soddisfatti con l’iniziativa dei singoli. È sempre più evidente che dall’opinabile, tradendo i principi illuministici che hanno marcato la nostra costituzione del 1848, si passa al dogma. L’esitazione a affermare o negare, nel corso della riflessione che, in radicale opposizione al dogmatismo, conduce poi, mediante il riconoscimento dell’«indifferenza» delle opposte ragioni, alla sospensione del giudizio.

Il potere e la fantasia

e manifestazione d’imperfezione, tendeva a concepire l’assoluto come ciò che è sottratto alle vicende del mutamento, come realtà compiuta nella sua perfezione. Il dubbio trova invece la sua più ampia applicazione presso gli scettici che lo intendono come la testimonianza della contrapposizione del liberalismo radicale a un generico liberismo d’origine statunitense. È un movimento inteso come un sistema imperniato sulla libertà del mercato in cui lo Stato si limita a garantire, con norme giuridiche, la libertà economica e a

Non senza provare uno scomodo fastidio abbiamo recentemente assistito, nella nostra TV pubblica in cui è generalmente assente una critica e presente una collocazione fuori tempo e fuori luogo del servizio pubblico nel rapporto con la storia dell’illuminismo, ai funerali di una regina. Una monarca aggrappata con le unghie al suo illusorio potere al punto di escludere nella successione, rispettando i tempi naturali imposti dall’età e dalla maturità, il figlio. Anche prescindendo dall’ostilità per la monarchia che dovrebbe connaturare uno stato democratico e liberale, le immagini sullo schermo sono scivolate nel fantasmagorico e nel grottesco. Così come nello stravagante e nel bizzarro sono state le lacrime di un giocatore di tennis, miliardario, che per incassare l’ultimo bonus va a farsi sconfiggere, insieme a un suo compagno, da due atleti degli Stati Uniti, probabilmente ai fini di una propaganda che conferma invincibile, anche nello sport, una potenza coloniale d’oltre oceano. Sembra d’essere tornati ai gloriosi tempi della regista Leni Riefensthal e del suo «Trionfo della volontà» purificato, come i tempi impongono, dalle scorie naziste.

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Per le vie di «Philly» fra tradizione e modernità alla ricerca di Rocky

Filadelfia è una delle città più dinamiche di tutti gli Stati Uniti. Patria della Costituzione americana, ha saputo reinventarsi e puntare dritta al futuro. Anche se le contraddizioni permangono. Come testimonia spesso anche l’industria cinematografica.

Città moderna e innovativa, Filadelfia è un polo di interesse culturale capace in particolare di attrarre il visitatore interessato alla nascita delle nazioni, all’emergere dei diritti individuali e delle sovranità popolari. La città preserva le architetture settecentesche, le università libere e, nelle campagne, quello spirito mistico che ispirò i coloni in fuga dall’ Europa dei conflitti di religione, e che oggi ancora anima i loro discendenti. Una visita a Filadelfia non si ferma comunque qui, la città non è un museo all’aria aperta. È una metropoli pulsante, non priva di contraddizioni: a sacche di disagio e di degrado riesce a contrapporre cultura, opportunità, dinamiche sociali positive. Del fascino che ne deriva si è ben accorta l’industria del cinema, che qui ha voluto ambientare produzioni entrate nella cultura popolare: da «Philadelphia» a «Una Poltrona per due», da «Witness» a «Rocky». Ne consegue che i quartieri della città sono scolpiti nella nostra memoria visiva, quelli della storia come quelli del degrado. Di entrambi scriveremo nei paragrafi a seguire.

Gli albori di una metropoli

Filadelfia nasce nel 1682 come progetto di un sognatore: William Penn, quacchero, creditore di re Carlo II Stuart in virtù dei servizi resi alla corona dal padre, un potente ammiraglio abi-

le nel servire ora Cromwell, ora la monarchia. Fondando la città, Penn si proponeva di dimostrare che gli ideali di libertà e tolleranza religiosa, propri della sua comunità, potevano prevalere sulla lotta fra anglicani, cattolici e calvi-

nisti che tormentava l’Inghilterra del XVII secolo. L’intera città fu pensata su questo presupposto: il nome (città dell’amore fraterno), la conformazione, la stessa denominazione delle strade, ispirata non a eroi, ma a piante e fiori.

La città della Costituzione Pur mutando nel tempo, il progetto di Penn avrà successo: all’immigrazione contadina proveniente da Scozia, Irlanda, Paesi Bassi e Germania, farà seguito la rapida crescita della città quale por-

to e cantiere navale, quale centro commerciale e finanziario. Nei decenni a seguire, Filadelfia risulterà capace di attrarre ingegno e talento: non a caso è qui che saranno stilate sia la Dichiarazione di indipendenza che la Costituzione degli Stati Uniti, oltre che il «Bill of Rigths», che enuncia i diritti fondamentali del cittadino. Gli edifici in cui fu fondata la nazione e vennero codificati i suoi statuti conservano sale e arredi originari e costituiscono una visita obbligata. Un percorso strutturato, in parte all’aria aperta, in parte museale, consente di visionare il testo originale della Costituzione e la campana, notoriamente fessurata, che il 4 luglio del 1776 radunò i cittadini di Filadelfia per la lettura pubblica della Dichiarazione d'indipendenza. Il percorso si estende alla città coloniale, si snoda per strade conservate così come erano ai tempi della rivoluzione, trasmettendone le atmosfere. Un progetto di grande interesse, che ha valso a Filadelfia la condizione di World Heritage Site dell’Unesco, caso poco comune fra le città americane, che così spesso la propria storia non hanno voluto preservare.

Col passare dei chilometri (a piedi)... Numerose sono le posizioni dalle quali il visitatore può scorgere la figura di William Penn, rivolgendo lo sguardo verso l’alto, in direzione del-

Progetto del «sognatore» William Penn, la città nasce quale ideale di libertà 18GiramondoLib– #03, novembre 2022

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I milioni di abitanti di Filadelfia, la sesta città piu grande degli Stati Uniti.

la statua che ne ricorda l’eredità morale. Posata sulla torre del municipio, rivolta verso la natìa Londra, è stata a lungo il punto più elevato della città, in segno di rispetto. Oggi non lo è più, sorpassata dai sempre più numerosi grattacieli, che ormai definiscono una skyline degna di Shanghai. Resta ben visibile dai quartieri centrali, monito degli insegnamenti del passato. Chi avesse mai visto una puntata di «Cold Case», ricorderà bene la statua, a lungo inquadrata nella sigla iniziale.

Il bello di Filadelfia è che il turista munito di gamba buona che e non teme l’accumularsi dei chilometri, ne potrà visitare a piedi ampie zone, cogliendone i dettagli più nascosti. Proseguendo da Independence Hall verso sud, si entra in Society Hill, uno dei più antichi quartieri residenziali della città. La zona prende il nome da una corporazione (society) di commercianti, cui lo stesso Penn affidò lo sviluppo originario della città, basato su cinque piazze, a forma quadrata, che ancor oggi esistono e contengono piccoli parchi ad uso dei cittadini. Sulle vie che le collegano, si affacciano file di costruzioni storiche, prevalentemente a quattro piani, edificate in mattoni rossi a partire da fine settecento e per tutto il XIX secolo. Fanno qui bella mostra i più fini esempi di architettura in stile federale e georgiano, intermezzati da edifici pubblici eretti in quell’impeto neogreco che tanto successo ebbe, nell’ottocento, in Europa del nord e negli Stati Uniti.

Rocky

Per 10 anni dal 1790 fu capitale provvisoria degli Stati Uniti d’America.

1786

L’anno in cui vennero gettate le basi per la Costituzione americana.

e una città dinamica

Sempre a piedi e senza cambiare mai direzione, si attraversa South Street, la zona «funky» della città, culla del piatto locale, la «Philadelphia cheesesteak», come pure dei ristoranti etnici e dei locali notturni. Un’area vivace e divertente, ed anche relativamente sicura, da frequentare senza timore nonostante un’atmosfera volutamente decadente.

I premi Oscar vinti da Rocky nel 1977, tra i quali quelli per miglior film e miglior regia.

Continuando per la decima strada, si giunge a Christian Street, centro del mercato italiano e del simpatico quartiere ad esso contiguo, in cui vivono decine di migliaia di italo americani. A Manhattan, il mercato storico della frutta e verdura è scomparso, assieme all’intera «Little Italy». A Filadelfia, il mercato è rimasto vivo come ad inizio novecento. Eroe locale è, ovviamente, Rocky Balboa, la cui casa e la cui palestra sono peraltro localizzate non qui, ma nell’area nord della città, altro centro di immigrazione, nei quartieri degradati cantati da Bruce Springsteen in «Streets of Philadelphia», di cui si sconsiglia la visita. È opportuno spiegare i motivi per i quali Rocky, la cui statua è ancor oggi visibile a lato del Museo di arte moderna, è divenuto simbolo della città. Non lo è in quanto italiano né in quanto pugile, ma perché rappresenta la resurrezione di chi è caduto, dello «underdog» che si sa rialzare, combattere e vincere contro ogni pronostico. Rocky è la metafora di Filadelfia: in forte declino fino agli anni settanta, ha successivamente svoltato pagina per diventare una delle città più dinamiche degli States.

Franklin e gli Amish Visitata la zona sud, si raccomanda al lettore di impiegare la giornata successiva dirigendosi, sempre a piedi, a ovest. Attraversati i ponti sullo Schuylkill (il «fiume nascosto», in dialetto olandese), il vasto campus della University of Pennsylvania ci offre l’opportunità di sostare vicino alla statua del suo fondatore, Beniamino Franklin. La visita al campus, alle sue facoltà e alle molte sculture esposte sarà divertente e interessante. In questa sede, preferiamo riflettere sulla figura di Franklin come educatore prima ancora che come padre della Patria. Nativo di Boston, Franklin ne rifuggì il rigore puritano, poco in linea con la sua indole innovativa e rivoluzionaria. Giunto a Filadelfia, praticò la professione di tipografo, un trampolino verso il giornalismo, l’editoria e, più in generale, la cultura. Successivamente, nel 1740, Franklin riunì i maggiorenti della città allo scopo di fondare una «charitable school», destinata a divenire l’attuale università. Un progetto innovativo nei contenuti: la visione educativa di Franklin consisteva nello sviluppo nei giovani di quelle doti di leadership nel servizio pubblico, nella politica, negli affari che sono funzionali alla vita non di una colonia, ma di una nazione. Una tesi in chiaro contrasto con la regola delle università del tempo, volte a educare i giovani al ministero ecclesiastico.

Uscendo dall’area universitaria, si consiglia di percorrere il quartiere di case in mattoni e legno che si estende verso ovest, per poi noleggiare un’automobile e visitare la vicina Dutch (o Deitsch) Country, immergendosi nello stile di vita degli Amish e dei Mennoniti, popolazioni pacifiche e religiose, di dialetto tedesco, che ancor oggi rifuggono la tecnologia, coltivano i campi, viaggiano su piccole carrozze nere trainate da cavalli. Una gita da non mancare!

La lezione di Filadelfia

Quale la lezione di Filadelfia? Per rispondere a questa domanda, è necessario rientrare nel nucleo storico, fermarsi in raccoglimento in una delle cinque piazze originarie, oggi ribattezzata Washington Square. Durante l’occupazione di Philadelphia da parte degli inglesi (1777-1778), il terreno servì da cimitero per le centinaia di patrioti che morivano nelle prigioni nemiche, sovente di malattia. Alla loro memoria venne successivamente eretto un monumento, su cui sono scolpite le parole pronunciate da Giorgio Washington nel 1796, quando, al momento di ritirarsi, volle lasciare un monito alla giovane nazione. «Freedom is a light for which many men have died in darkness». Una luce non scontata, che ancora ad oltre due secoli di distanza ci troviamo a difendere. ■

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«Nella mia cucina cerco l’equilibrio con maniacale ripetizione»

Una chiacchierata intima con Simone Bianchi, cuoco e uomo. Dagli studi di psicologia alla scoperta della passione per la cucina. L’arte capace di soddisfare la sua impazienza, la sua voglia di tutto subito. Un ritratto tra alti e bassi, tra cibo, passione e ristorazione.

Più che un’intervista è una chiacchierata intima con Simone Bianchi, il suo essere cuoco e uomo. Parlare di gastronomia è un modo per dialogare con gli altri e sé stessi, scavando in una delle passioni più belle: la cucina.

Simone chi eri prima di diventare cuoco?

«Sono nato e cresciuto a Milano e poi me ne sono andato a Padova a studiare psicologia: alle Superiori mi piaceva e mia mamma è psicoterapeuta».

Promosso per il rotto della cuffia? «A dire il vero, con il massimo dei voti».

Poi, però, la prima rottura nella tua traiettoria di vita.

«Il lavoro dello psicologo, sempre a stretto contatto con i pazienti, mi stufava. Tutto troppo mentale, che non ammetteva cali di tensione».

E quindi?

«Feci uno stage in cucina a Bagno di Romagna, nel famoso ristorante Paolo Teverini. Mi divertivo fino alle ore piccole e nonostante ciò riuscivo a cucinare bene. Senza fare danni agli altri. E mi sono detto: perché non dovrei divertirmi di notte per essere lucido di giorno?»

C’è qualcosa d’altro?

«La cucina è soddisfazione immediata, che in piscologia non c’è. O arriva dopo mesi, se non anni. La gratificazione per un piatto, invece, è una questione di minuti. Qui emerge il mio lato impaziente, del tutto e subito».

Che scuole di cucina hai frequentato?

«Nessuna vera scuola di cucina classica. Ho scelto il percorso dell’autodidatta, facendo diversi stages nei ristoranti stellati. Ho tenuto fede al motto di uno dei miei cuochi e maestri di riferimento, Davide Oldani: ‘se impari a cucinare negli stellati, domani puoi andare a fare la pizza. Ma se impari a cucinare in una pizzeria, non potrai mai andare in uno stellato».

Eccolo il tocco snob del milanese!

«Sarà, ma è così. La cucina è studio, impegno, tentativi, prove e riprove. Devi saperti muovere dagli antipasti freddi, alla carne, ai dessert».

Torniamo a te. I genitori che miccia sono stata?

«Mio padre mi disse che potevo pensarci prima a diventare cuoco, così da risparmiare la retta universitaria. Bisogna anche dire che ai tempi il cuoco non aveva una gran nomea, era come dire «papà, vado a fare il muratore».

Com’era il papà in cucina?

«Era lui che aveva il talento e la passione. Si dedicava a poche cose e semplici, ma ne estrapolava il vero sapore. I finocchi stufati al burro, piselli freschi con salvia e zucchero, il risotto dalla tripla mantecatura o l’arrosto «morto», cotto nell’umidità della cipolla».

Poi sei arrivato in Ticino.

«Nel ‘98 al Monte Verità, per il progetto di Leemann. L’avventura si concluse perché il Ticino non era ancora pronto alla proposta vegetaria-

telle e le carote e piselli congelati? La cucina moderna faticava, ma la novelle cuisine era alle porte».

E tu cosa hai portato?

«A 35 anni sentivo il bisogno di un locale mio. Avevo viaggiato molto, assaggiando centinaia di piatti. Mi incuriosiva la fusione delle cucine, le interazioni tra tradizioni, sperimentazioni e influssi esterni. Ecco perché a Locarno ho aperto il ‘ Bistrot Latino’, introducendo il piatto quadro, con un menu completo scomposto in 5 assaggi».

Lo diciamo che poi c’è stato un periodo di smarrimento?

na e sono tornato a Milano. Poi, dal 2000, mentre nasceva mia figlia, mi sono definitivamente stabilito in Ticino».

Che Ticino era?

«Culinariamente fermo, prevenuto verso le novità. Hai in mente il classico pesce persico al burro e mandorle, il coniglio al forno con taglia-

«Ho vissuto un periodo di crisi personale. Per fortuna mi sono rimesso in carreggiata, anche grazie ai km macinati lungo il Cammino di Santiago di Compostela. Ero partito senza un soldo, ma li guadagnavo cucinando per gli altri, lungo… la retta via».

Perché proprio quel viaggio?

«Perché ti impegna fisicamente, dai 30 ai 40 km al giorno. In quella dimensione di sforzo fisico c’era lo spazio per il momento riflessivo. Attivo e contemplativo. Riflettevo su me stesso, in un mantra tra passi e pensieri».

20A tavola imbranditaLib– #03, novembre 2022
«La cucina è studio, impegno, tentativi, prove e riprove. Dall’antipasto al dessert».

Una camminata riabilitativa, in tutti i sensi.

«Sì, dopo quell’esperienza sono arrivato in TV, per il programma ‘I cucinatori’».

Come mai proprio tu?

«Il produttore del programma cercava storie personali, cuochi con un vissuto. Si vede che da mezzo psicologo, giramondo e cuoco, gli piacevo. E a me piaceva rendere semplice passaggi complessi, e raccontarli a voce».

Com’è cucinare in TV?

«Il problema della TV è semplice: l’estetica è sufficiente. Ma da casa cosa ne sanno se il piatto è anche buono? Mi mancava il giudizio del palato e soprattutto l’adrenalina del servizio al ristorante».

Veniamo alla dimensione del cibo, che non è solo alimentarsi.

«Il cibo passa per il primo organo del piacere, come nei bambini, e concerne il gusto. È il piacere ancestrale. Poi sì, c’è la necessità di sopravvivere. Ma c’è chi vuole solo appagarsi, non sopravviere. E tu sei uno di quelli».

Esatto. E molta politica ruota attorno alla tavola.

«Dove c’è appagamento sensoriale c’è anche più facilità a prendere decisioni. Sei più soddisfatto e quindi libero di pensare. Si passa dai piaceri primordiali per arrivare alla dimensione più riflessiva. Che sia il cibo, il vino, il sesso».

Andiamo oltre la retorica, i clienti hanno sempre ragione?

«Prima di tutto, vale il principio ‘se io pago, io esigo’. Oggi i clienti sono diversi rispetto al passato. C’è maggior espressione del giudizio, tut-

ti hanno più esperienza e si sentono nella misura di potersi esprimere. O sentenziare. C’è stata un’accelerazione dell’acculturarsi, o meglio, dello pseudoacculturarsi. Tanti pensano di sapere, ma c’è un accesso alle informazioni che rimane superficiale. Tutti sanno qualcosa di tutto, ma non si conosce nulla a fondo».

Mi pare tu sia diventato più sofferente rispetto agli inizi.

«Sì. Intollerante. Anche per via delle interminabili richieste e varianti delle richieste. Ai tem-

E la stellina Michelin sul grembiule l’hai mai sognata?

«Sì, ho provato. Anzi, ero nominato dalla guida e si vociferava che potessi essere in lista per ottenerla. Dopodiché è successo qualcosa per cui sono uscito dai loro radar. Forse pago la mia incostanza, gli alti e i bassi di ciascuno di noi».

Che Simone Bianchi ci sarà dopo il grembiule? Esisterà mai?

«Ogni 10 anni mi reinvento, cerco nuovi stimoli, magari ancora nella ristorazione. Altrimenti mi spengo, e quando mi stufo non c’è ritorno».

Critichi aspramente la superficialità, nei tuoi passatempi sei maniacale. Poi hai bisogno di reinventarti, di fare e disfare. Qual è il tuo concetto di equilibrio?

«Io sono in equilibrio nella ripetizione: è rassicurante, toglie l’ansia, ti permette di sapere cosa succederà dopo».

pi non c’era bisogno di proporre varianti per vegani, per vegetariani, per le mille intolleranze. Sono convinto che oggi la maggioranza non abbia davvero questi disturbi, è una sorta di status. O la struttura umana è cambiata parecchio in pochi anni o la gente coltiva il bisogno dell’intolleranza».

Però ti adegui a tutti? «Certo. È inevitabile».

Già che ci siamo: attorno al tema della carne per esempio, lo vedi anche tu uno strisciante modello moralistico?

«Sì, assolutamente. Il trend attuale, ai tempi, era minoritario e controcorrente. Oggi è una tendenza di massa. Ma d’altronde siamo una specie che si muove sempre tra gli eccessi».

E cosa fragilizza l’equilibrio?

«Il piacere immediato, portato all’eccesso».

Perché? Ti libera qualche volontà recondita?

«Bravo. Probabilmente si».

Ed è meglio lasciarle lì?

«Sì. Ho imparato che bisogna sapersi porre dei limiti, invalicabili».

E si torna sempre all’equilibrio.

Dopodichéirrompenelladiscussioneunamico, chereplicaaSimone«Poiperòtirompilepalle. Tutti i miei ricordi più belli risalgono a quando nellamiavitahoesagerato».

Calma, sarà per la prossima intervista. Ora è tempo di un Vermut. ■

Lib– #03, novembre 2022 21 A tavola imbrandita
«Oggi i clienti sono diversi rispetto al passato. Tanti pensano di sapere, ma poi...»

Una biblioteca «glocal» capace di stimolare la curiosità anche del lettore più scafato

Mainstream internazionale o editoria locale? Temi legati a doppio filo con il nostro territorio, o scritti ad ampio respiro di autori prestigiosi ? Bella domanda. E, come spesso accade quando si parla di libri, è il gusto personale a farla da padrone. Tolte infatti le opere «fondamentali» utili per farsi un’idea del panorama letterario (classico e moderno), è giusto che la lettura sia prima di ogni altra cosa un divertimento. Un buon modo per entrare in un’altra dimensione. Lo testimonia anche questa puntata dei «consigli d’autore» di Lib-, con i nostri ospiti a dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, la vastità dell’offerta letteraria e dei gusti del singolo lettore.

Mauro Dell’Ambrogio

Céline Antonini

Responsabile comunicazione di curafutura

Una storia del perché le civiltà hanno raggiunto livelli di sviluppo diversi e del come l’ambiente naturale le ha condizionate. Una sintesi di conoscenze oggi necessarie per una buona cultura generale. Una scoperta di come l’accostamento di diverse metodologie scientifiche può spiegare tante cose. Ai liceali raccomando l’originale, per abituarsi al linguaggio della scienza, che è oggi l’inglese.

Federica De Rossa

Il libro interseca, ed alla fine congiunge abilmente, le storie di tre Anne che vivono in epoche e in luoghi diversi. Tre spiriti liberi che, ciascuna a proprio modo, seguono percorsi esistenziali fuori dagli schemi, in una costante ricerca di se stesse. In questi avvincenti intrecci pieni di sorprese, mi sono rispecchiata in ogni Anna e ritrovata nella loro profonda introspezione che alla fine ci porta a riconoscere la nostra autenticità, indipendentemente dal tempo e dallo spazio.

A volte sulle bancarelle o nelle scatole dei libri invenduti, fuori dalle librerie, si trovano interessanti sorprese. Recentemente ho trovato un volume pubblicato nel 1992 dall’editore Armando Dadò di Locarno (ISBN:88-85115-462). L’autore è Sergio Jacomella, già direttore dal 1945 al 1960 del Penitenziario Cantonale di Lugano e dal 1957 al 1959 membro del Comitato centrale dell’Associazione svizzera per le riforme carcerarie e quella degli esperti per la revisione del Codice penale. Ho letto il libro con grande partecipazione, sopratutto emotiva, con il pensiero sempre rivolto al recente progetto cantonale d’edificazione di un carcere minorile a Castione. Probabilmente pochi, forse nessuno dei membri del Gran Consiglio, prima di votare il credito per l’edificazione della struttura, ha letto quest’opera che descrive la fatica e le difficoltà immense d’allontanarsi da pene che invece d’essere rieducative sono semplicement il risultato di un desiderio popolare di vendetta verso lo sfortunato trasgressore di norme e di codici che il pregiudicato probabilmente ignorava. Quando si arriva ad usare il carcere e la pena per una «rieducazione» spesso, anche per i giovani è già troppo tardi. Il vissuto e i deficit d’educazione vi hanno messo in loro un’impronta irreversibile. Allora nel periodo della detenzione al condannato gli faccciamo subire per la seconda volta ciò che ha dovuto sopportare nel passato: la mancanza d’amore, l’isolamento e la solitudine.

Mauro Gianetti

«Berta Isla» di Javier Marìas

Un’appassionante romanzo che si svolge tra la Spagna e l’Inghilterra e ripercorre la vita di una coppia - Berta Isla e suo marito Tomàs Nevison - alle prese con un destino complicato, legato ai misteri della vita parallela di un uomo che lavora per i servizi segreti e alla doppia identità che deve sviluppare attraverso gli anni. Una narrazione di una grande battaglia condotta per resistere malgrado tutto comme coppia, nelle circostanze più difficili.

Gianfranco Pasquino

Politologo, ex Senatore della Repubblica italiana

Questo libro mi è piaciuto particolarmente, perché parla di un’ingiustizia. Per carattere sono piuttosto pacato, ma se c’è qualcosa che mi fa saltare sulla sedia, questa è proprio l’ingiustizia.

È un libro che in parte si collega con il mio lavoro, è una fonte d’ispirazione per quello che faccio. Parla della visione straordinaria di una monarchia a beneficio di tutti i cittadini e che non pensa solo al sovrano. Si parla di ricchezza, certo, ma a beneficio di tutti. Una visione sviluppata negli ultimi 51 anni di storia degli Emirati Arabi.

«La fiesta del chivo» di Mario Vargas Llosa

Dal dramma personale di una giovane donna nel regime dittatoriale di Rafael Trujillo nella Repubblica domenicana, il grande scrittore Premio Nobel costruisce una storia che è quasi un thriller. I vizi del carrierismo e del servilismo stanno a fondamento del governo personalistico sottilmente repressivo e oppressivo che inquina persino i rapporti familiari. Vargas Llosa offre una splendida analisi di quanta corruzione non solo politica, ma anche morale producono i regimi autoritari.

«Armi, acciaio e malattie, breve storia degli ultimi tredicimila anni» di Jared Diamond Ex Segretario di Stato per la formazione «La donna allo specchio» di Eric-Emmanuel Schmitt Giudice del Tribunale federale «Carceri, carcerieri e carcerati» di Sergio Jacomella Arnaldo Alberti Scrittore «Hurricane. Il miracoloso viaggio di Rubin Carter» di James S. Hirsch Jean-J. Aeschlimann Dirigente sportivo e candidato PLR al CdS «An eternal legacy» di Sheikh Zayed General Manager di UAE Team Emirates
22Consigli d'autoreLib– #03, novembre 2022

I ricordi su un pezzo di carta testimoni di una vita dedicata all’impegno per tutta la comunità

Gli appunti sparsi di Flavio Riva diventano un libro che ripercorre oltre mezzo secolo di vita ticinese e in particolare della Collina d’Oro. Un condensato di riflessioni tra pianifcazione del territorio, famiglia e nascita del Teatro popolare della Svizzera italiana.

Dici Collina d’Oro e subito ti viene in mente Hermann Hesse: il museo (nella frazione di Montagnola, dove lo scrittore morì nel 1962), la tomba (nel cimitero di Gentilino) e il sentiero («Sulle orme di Hermann Hesse»). Poi, proprio attraverso il sentiero, scopri che la Collina d’Oro, prima del 2004 quando i tre Comuni storiciAgra, Gentilino e Montagnola - si aggregarono, aveva già delle frazioni - quali Certenago e Poporino - che ne marcarono caratteristiche e storia. A raccontarci tutto ciò il prof. Ottavio Lurati («Riflessioni sulla fusione delle Comunità di Gentilino, Montagnola e Agra», 9 marzo 2001), «professore emerito dell’Università di Basilea che durante le conversazioni sulla nostra Collina d’Oro ed il Cantone Ticino, sempre suggerisce di segnare i ricordi su un pezzo di carta».

Segnare i ricordi su un pezzo di carta. Flavio Riva, sindaco di Montagnola dal 1964 al 1988 ci pensa su. È la primavera del 2018 e si dice che… sì, è tempo di raccogliere le carte sparse e piene di ricordi che costituiscono un pezzo della storia della Collina d’Oro. Si mette all’opera. Lavoro non facile visti i suoi anni d’attività sia a livello comunale, sia a livello cantonale e politico. Un lavoro che adesso è giunto in porto ed è raccolto in un libro edito da Salvioni. Ti-

tolo: «Un impegno per la comunità». La mole di quest’impegno è condensata in 223 pagine dove, accanto alla pianificazione territoriale e all’istituzione del Consorzio scolastico, si trovano storie quasi dimenticate. Lo sapevate, ad esempio, che il TEPSI (acronimo di Teatro popolare della Svizzera italiana), nato su iniziativa di Yor Milano, ha avuto in Flavio Riva un importante e indefesso sostenitore? E sapevate

Mensile del Partito Liberale Radicale Ticinese Abbonamento 100 franchi

Responsabile politico Alessandro Speziali

Direttore editoriale Ivan Braia

che fu proprio Flavio Riva, nel giugno del 1972, a rivolgersi all’allora Dipartimento delle opere sociali (DOS) per avviare un primo esame della disponibilità dei Comuni di Agra, Gentilino e Montagnola per la creazione di una struttura per l’assistenza agli anziani, quella casa «Al Pagnolo» che fu poi inaugurata il 10 luglio 1987? Senza contare che, il 19 aprile 1982, Flavio Riva viene eletto presidente del Gran Consiglio e

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Responsabile redazione Massimo Schira

In redazione Matilde Casasopra Alberto Lotti

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qui, da uomo libero e liberale, porta la sua idea di Stato laico fondato sul confronto di idee e progetti, nell’interesse del cittadino e della comunità. Anni importanti quegli anni Ottanta che la ricca documentazione fotografica contenuta nel libro di Riva, permettono di ripercorrere attraverso i volti di molte persone che ormai, come direbbe Edgard Lee Masters, «dormono sulla Collina». Tra loro anche il volto di Tiziano - il Tüz - figlio di Flavio, amico indimenticabile e indimenticato che la morte si portò via nell’estate del 1979 sull’isola della Maddalena dov’era in vacanza con gli amici. Flavio Riva, anche in quel frangente, si è rivelato una persona speciale sapendo trasformare un grande dolore in un’empatia vera e profonda con la sua comunità, quella stessa per la quale si è impegnato. Come lui stesso scrive in conclusione, parlando dei cambiamenti intervenuti in Collina: «(…) si potrà parlare di cementificazione. È facile criticare gli insediamenti, comunque avvenuti in base alle leggi dello Stato, che hanno posto anche limiti restrittivi (…)». Quel che è certo è che Collina d’Oro, grazie anche a Spartaco Arigoni, Nardo Adamini e Flavio Riva è, e resta, un Comune vivo e pronto a recepire i mutamenti della società pur senza rinunciare alla sua identità.

Stampa Centro Stampa Ticino SA, Muzzano

Progetto Grafico Luciano Marx

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Lib– #03, novembre 2022 23 Cultura
Nel 1982 l’elezione di Riva a presidente del Gran Consiglio quale uomo libero e liberale.
Approfondimenti, opinionieidee. Perlalibertà. Pertutti. MensiledelPartitoLiberale RadicaleTicinese libmag@plrt.ch www.libmag.ch

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