La laicità e i suoi nuovi nemici
Alessandro Speziali Presidente PLRMentre il ‘900 sta esaurendo la sua spinta, la sensazione è che anche la Svizzera sia ormai invischiata nella guerra tribale partita oltre Atlantico. Lo dimostra il tono di alcune battaglie inclusive, ormai dominate da narrative così roventi da produrre nuove faglie nel panorama sociale. Prendiamo uno dei campioni del nuovo socialismo svizzero: la pasionaria bernese Tamara Funiciello, che dopo la sconfitta sulla riforma dell’AVS dipinge il nostro Paese come un terreno di scontro tra uomini anziani benestanti e giovani donne disoccupate.
«Laura, è morta la Regina...»
Parlo di guerra, ma sogno pace
Laura GiovaraMatilde Casasopra8 settembre 2022, Elisabetta II, icona della nostra storia, muore. Lib- con un reportage esclusivo, vi porta a Londra nei giorni dello choc per la scomparsa della 96enne regina e durante le celebrazioni per il suo funerale. Un giro d’orizzonte tra le emozioni dei britannici (e non solo) accorsi per salutare la loro regina e dirle «Grazie» per il suo servizio.
Sulle strade della capitale del Regno Unito, la lunga coda per rendere omaggio al feretro è popolata da una moltitudine di persone. Di tutte le estrazioni sociali: famiglie, bambini, turisti e soprattutto donne. In paziente attesa per un attimo fuggente di fronte alle spoglie della regina più mediatica della storia. Un’autentica icona popolare. Attualità – pagg. 4 e 5
Laura Silvia Battaglia, è giornalista freelance, direttrice delle testate e coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, contributor del Washington Post, corrispondente di guerra specializzata in aree di crisi e conflitti dal 2007.
Nella seconda puntata della nostra rubrica «Sebben che siamo donne» incontriamo dunque una donna al fronte, nel vero senso del termine, che ha iniziato la sua «battaglia contro le guerre» fin dagli anni della gioventù, combattendo le mafie nella sua natia Sicilia. Oggi si divide tra Yemen. Iraq e Milano, sempre alla ricerca del modo per costruire ponti di pace. La sua storia è una di quelle storie che, nell’attuale contesto, meritano di essere raccontate.
«I ghiacciai stanno fondendo, i mari crescono e le scialuppe...»
Di Matilde Casasopra Foto CdTIl 25 luglio 2022, l’isoterma di zero gradi ha superato quota 5000 metri. In pratica, il ghiaccio si è fuso anche in vetta al Monte Bianco. L’analisi del professor Luca Mercalli: «Tutti si indignano, ma poi ognuno continua con le proprie abitudini».
«Durante l’estate 2022, e più precisamente il 25 luglio, l’altezza dell’isoterma di zero gradi sulla Svizzera ha raggiunto un nuovo primato, pari a 5184 metri. Durante le estati del 2015 e del 2003 la quota più alta raggiunta dall’isoterma di zero gradi non era risultata fra le dieci più elevate mai registrate. Le misure di questa grandezza meteorologica sono effettuate mediante i radiosondaggi e sono cominciate nel 1954». Parola di Meteosvizzera che, in un comunicato e in un post, diffonde questa notizia. La riprende e la diffonde, via social, anche il prof. Luca Mercalli. «Il cielo sopra la Svizzera mai così caldo per la prima volta da oltre 60 anni: zero termico a oltre 5000 metri!» Pochi giorni prima, il 18 luglio, a Berlino, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si era rivolto senza mezzi termini ai ministri dei 40 Paesi riuniti per discutere della crisi climatica: «Abbiamo una scelta.
oltre ad essere un ricercatore, docente, e giornalista, è anche presidente della Società meteorologica italiana e direttore della rivista «Nimbus» (http://www.nimbus.it/nimbus.htm )
Perché ha ripostato la notizia diffusa da Meteosvizzera?
«Perché è una notizia che segna il superamento di una soglia psicologica. Il ghiaccio, dal 25 luglio 2022, fonde anche sopra i 5’000 metri, quindi anche in vetta al Monte Bianco. Ciò significa che, come più volte annunciato (si veda, al proposito, «Il clima che cambia», BUR 2019, n.d.r.), entro il 2100 nelle Alpi - ma anche su altre catene montuose glacializzate presenti sulla Terranon ci saranno più ghiacciai».
Scusi, ma è da un po’ che, per dare un’idea tangibile del cambiamento climatico, si mostrano le immagini dei ghiacciai di vent’anni fa accanto a quelle odierne eppure… non è cambiato nulla.
lando di milioni di persone che migreranno altrove e… quell’altrove siamo anche noi».
Dobbiamo insomma prepararci ad accogliere rifugiati in fuga non dalle guerre, ma dal riscaldamento globale… «… Esattamente. Ammesso, e non concesso, che noi si sia in grado di accoglierli. L’estate che stiamo vivendo dimostra che anche in Europa la situazione si sta deteriorando. Qui da noi, però, finché il problema non ci tocca direttamente quasi non lo vediamo. Prendiamo il caso del fiume Po. Così piccolo, così privo d’acqua nessuno ricorda di averlo mai visto. Ma… il problema, dice la maggioranza della popolazione, è degli agricoltori. Riceveranno i sussidi statali e non risentiranno dei danni della siccità. Il riso che non c’è arriverà nei supermercati da un’altra parte. Stessa cosa per il grano (sebbene la questione ucraina abbia di-
Azione collettiva o suicidio collettivo. Il futuro è nelle nostre mani».
Quale la strada che sceglieremo? Un certo pessimismo suggerisce che l’estate 2022 è lì a dimostrare che abbiamo già deciso, ognuno nel suo piccolo (ne ha parlato anche il glaciologo Giovanni Kappenberger nel numero di settembre di Lib). A poco o a nulla è servito l’invito rivolto a tutti dal prof. Mercalli nel 2010: «Prepariamoci» (ed. Chiarelettere, ndr), un libro aggiornato nel 2013 che contiene una serie di consigli e di azioni concrete in grado di frenare - se non proprio fermare - la folle corsa verso il collasso del pianeta. È così che decidiamo di contattarlo: per chiedergli a che punto siamo; per sapere se c’è ancora una qualche possibilità di salvezza. Lo raggiungiamo il 2 agosto mentre, in treno, dal Piemonte dove vive si sta recando in Trentino. Lì, come accaduto altrove nel corso di tutta l’estate, sono previste diverse sue conferenze. Lui, non dimentichiamolo,
«È vero. Mostriamo le immagini, i media ne parlano (soprattutto d’estate), le persone si indignano, alcune si preoccupano pure, ma… praticamente, ognuno continua a vivere secondo le proprie abitudini. C’è sempre una scusa per rimandare a domani quello che si potrebbe/dovrebbe fare oggi. Il problema è che non abbiamo più molto tempo. Sette anni al massimo. Il termine ultimo per iniziare la discesa delle emissioni è il 2030, per portarle a zero al 2050. L’Unione Europea ha definito tutto ciò nel pacchetto climatico «Fit for 55». Poi ci sarà solo spazio per quel suicidio collettivo al quale faceva riferimento Guterres.
Prof. Mercalli, segnali come quello di cinque anni fa a Bondo, in Val Bregaglia, sono dunque destinati a ripetersi? «Senta, il cedimento strutturale del pizzo Cengalo fa parte di piccoli rischi localizzati. Ne esistono e si manifestano ovunque. È importante però capire che il cambiamento climatico non è un problema unico, ma un insieme di problemi. Il riscaldamento globale è una miccia che mette a rischio l’intera umanità. Pensi ai ghiacci che si fondono. Le acque che generano si riversano negli oceani e nei mari che vedono aumentare il loro livello già oggi di 4 millimetri/anno e sommergono aree antropizzate. Chi abita in quelle zone se ne dovrà andare. Se ne sta andando. Sto par-
mostrato che l’interdipendenza alimentare è ormai data nell’era della globalizzazione). Adesso provi a pensare al mare che entra in casa sua e vedrà che la sequenza ragionativa s’inceppa».
Capisco, però converrà con me che c’è ancora chi nega l’esistenza dei cambiamenti climatici. Basta un improvviso abbassamento delle temperature ed ecco che torna il «Ci sono sempre stati il caldo d’estate e il freddo d’inverno: a volte più caldo, a volte più freddo…».
«Senta, che i negazionisti dei cambiamenti climatici esistano è noto. Ci sono anche i terrapiattisti, ma questo non significa ancora che debbano essere ascoltati e interpellati. Io vorrei tanto che, una volta per tutte, si dicesse che il 99,9 per cento della comunità scientifica mondiale sostiene che l’allarme, per il pianeta terra, è al grado massimo. Solo lo 0,1 per cento della comuni-
«C’è sempre una scusa per rimandare a domani quello che si dovrebbe fare oggi»
«Continuerò a battermi per il pianeta e per dare una vita decente ai miei nipoti»
tà scientifica osteggia questo dato di fatto e allora io mi chiedo perché, a fronte di evidenze scientifiche provate e comprovate, i mezzi di comunicazione sociale si ostinino, forti dell’alibi delle opinioni a confronto, ad invitare bastian contrari prezzolati in cerca di visibilità. E lo dico da giornalista e non da scienziato. Dico che in nome degli indici d’ascolto non si possono - e non si devono - veicolare menzogne perché la terra è davvero in pericolo e i cittadini hanno il diritto di essere informati correttamente per poter adottare le contromisure necessarie. Non possiamo accettare che, come accaduto sul Titanic, anziché pensare alle scialuppe si pensi a far continuare l’esibizione dell’orchestrina».
Prof. Mercalli, lei è uno che alla causa del pianeta sta dedicando la sua vita. Diceva che abbiamo ancora a disposizione 7 anni. Posso chiederle cosa farà lei in questi prossimi sette anni?
«So che siamo alla frutta, ma… ciononostante continuerò a fare quel che ho fatto negli ultimi
30 anni: combattere per il pianeta e soprattutto per una vita decente dei miei nipoti, promuovendo le energie alternative a quelle fossili e stili di vita meno, diciamo così, sfarzosi. Sono convinto non si possa crescere all’infinito in un pianeta finito e quindi penso che recuperare stili di vita più sobri ed efficienti potrebbe essere una parte della soluzione. Poi… se dovessi perdere la battaglia penso che venderò la mia casa Minergie, l’auto elettrica, i pannelli solari e la cisterna dell’acqua piovana per poi raggiungere le Bahamas e fare una gran festa prima della catastrofe… sempre ammesso che, nel 2030, ci siano ancora visto che, già nel 2015, Perry Christie - presidente della Comunità dei Caraibi (CARICOM) - ebbe a dire che «Quando parliamo di cambiamento climatico, stiamo parlando della nostra sopravvivenza». Non so se si sa, ma l’80% del territorio delle Bahamas emerge di un solo metro dal livello del mare».
Buon lavoro professore e chissà che non ci si riveda… alle Bahamas. ■
In una sola estate persi tra i 3 e i 6 metri di spessore a causa di caldo e neve scarsa
La situazione dei ghiacciai sull’arco alpino è ormai da anni da «codice rosso». E il parere degli esperti è sempre più unanime: entro il 2050 nessuna superficie glaciale al di sotto dei 3500 metri di quota potrà continuare ad esistere. E l’estate 2022 appena conclusa ha impresso un’ulteriore accelerazione a questo preoccupante processo. Lo confermano le analisi appena pubblicate dall’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL), dove viene sottolineato come nell’Engadina e nel sud del Canton Vallese, a 3000 metri di quota, negli ultimi mesi è andato perso uno strato di ghiaccio con uno spessore che andava dai 4 ai 6 metri. In alcuni casi questo valore arriva al doppio rispetto al dato più alto mai registrato. Sono state registrate perdite significative anche nelle rilevazioni condotte nei punti più alti (ad es. Jungfraujoch). In media tutte le regioni hanno perso quasi 3 metri di spessore di
ghiaccio, in alcuni casi addirittura 4 metri (ad es. Griesgletscher in Vallese, Ghiacciaio del Basòdino, in Ticino). Dalle osservazioni emerge che le lingue di numerosi ghiacciai si dissolvono e dal sottile strato rimasto emergono isole di roccia. Questi processi rappresentano un ulteriore fattore di accelerazione del decadimento complessivo.
Complice di questa preoccupante evoluzione, anche la meteo, che ha fatto registrare nevicate praticamente assenti nel corso dello scorso inverno. Lo confermano anche i dati del WSL: «l’inverno scorso è stato decisamente poco nevoso, soprattutto nell’Altopiano e nel sud della Svizzera. A Basilea e Lucerna la neve non si è vista del tutto, ed è stata molto scarsa anche sul versante meridionale delle Alpi, soprattuto in Ticino e nella zona del Sempione. Al di sotto dei 1600 m la neve non è praticamente scesa». m.s.
Ogni disputa diventa così l’occasione per prendere la pala e scavare una nuova trincea. E non solo. L’indignazione come nuovo abito per il dibattito pubblico, lo stiamo scoprendo, ama imbracciare l’arma della scomunica. Un esempio calzante è l’adesione alle nuove regole linguistiche che si stanno facendo spazio («buongiornoatutt*!»), bizzarria dopo bizzarria («carƏ ragazzƏ»), trasformandosi in codice per dividere gli «illuminati» dai passatisti. Una lotta tutt’altro che innocua, perché la lingua è il set di parametri con il quale definiamo il nostro mondo - e quello degli altri.
Siccome non esiste nuova legge senza sanzione, l’esito naturale di queste dinamiche è il dilagare della «cancel culture»: stabilita la lingua del futuro si disinfetta il presente invocando il boicottaggio - anche violento - di personaggi, simboli, capitoli del passato che nel bene o nel male hanno arredato il mondo che abitiamo. Un approccio nefasto che ci espropria della possibilità di capire davveroil senso della Storia. Chi osa opporsi, però, rischia un destino spiacevole: quello del negazionista o reazionario - sospettato delle intramontabili simpatie fasciste.
A costo di ripetermi, non mancherò di richiamare anche la moralizzazione degli stili di vita. Dieta carnivora, passione per i motori, fuochi d’artificio o vacanze in aereo low cost cominciano a essere tabu. Dietro foglie di fico come la sacrosanta sfida per il clima - che confermiamo in queste pagine di prendere con la massima serietà - si nasconde la battaglia per definire nuovi modelli di vita che, come la famigerata «decrescita», non hanno nulla di scientifico.
La sfida, per chi crede nella libertà, consiste nell’unire i puntini e riconoscere la matrice comune: rivoluzionare il nostro stile di vita. Le minoranze agguerrite possono magari farci sorridere con le loro fissazioni, ma l’insistenza permette loro di imporsi, come a Berna quando un gruppo reggae di uomini bianchi con i rasta capelli e look giamaicano ha dovuto interrompere il concerto, accusato di «appropriazione culturale».
Uno dei nostri compiti è perciò di non smettere mai di interrogare il liberalismo su questi temi, un esercizio permanente del nostro spirito critico, per smascherare le nuove religioni che stanno cercando di approfittare del tramonto delle Chiese tradizionali. Perché la laicità è un argine invalicabile che vale per i predicatori di ogni specie, la maggior parte dei quali oggi non indossano più un abito talare.
«Laura, è morta la Regina Elisabetta», una vera icona popolare
Di Laura Giovara Foto di Mark De JongReportage da Londra nei giorni del lutto per la scomparsa della 96enne sovrana e durante le celebrazioni per il suo funerale. Un giro d’orizzonte tra le emozioni dei britannici (e non solo) accorsi per salutare la loro regina e dirle «Grazie» per il suo servizio.
Per certi versi non mi sono ancora ripresa dal messaggio inviato da una collega. È giovedì 8 settembre, sono le prime ore del pomeriggio. L’annuncio ufficiale arriverà alle 19.30 ma quel comunicato insolitamente allarmante diramato dopo pranzo diceva già tutto. «I medici di Sua Maestà sono seriamente preoccupati». E quando mai era successo in 96 anni di vita? La Regina ha sempre goduto di ottima salute, incidenti ne ha avuti ma tutti di poco conto e sulle sue condizioni Buckingham Palace era solito osservare la massima discrezione.
Quando lo scorso maggio Elisabetta II non aveva partecipato alla cerimonia di apertura del Parlamento - fatto più unico che raro - da Palazzo, sui motivi dell’assenza, era arrivato solo un la-
conico comunicato. Leggere, adesso, che la famiglia era in viaggio verso il castello di Balmoral, vedere nel corso del pomeriggio i giornalisti della BBC indossare abiti scuri, erano tutti segnali chiarissimi e preoccupanti. Ma come può un’icona morire? I simboli non sono eterni?
Di fronte alla notizia della morte è emersa la complessità della figura di Elisabetta II. Da un lato emblema immortale, dall’altro donna destinata - anche lei - a tornare alla cenere. A 96 anni c’era poco da stupirsi della notizia della sua morte eppure ha fatto effetto. A me come a milioni di persone. Perché 9 persone su 10 sono nate che lei era già Regina, perché Elisabetta II era la figura pubblica più famosa del pianeta. Lei c’è sempre stata e il mondo, all’improvviso, si è scoperto impreparato ad una vita senza lei.
Non invece Buckingham Palace. Quanto meno per quanto riguarda l’organizzazione dell’ultimo addio si è dimostrato anzi preparatissimo. Il lutto nazionale, il lying-in-state, l’esibizione del feretro al Parlamento britannico, i funerali nell’abbazia di Westminster hanno rivelato la meticolosa preparazione definita e provata per anni. È stata la stessa Elisabetta II a dare personalmente diverse indicazioni.
Un addio epocale, fatto di gesti perfetti, di cerimoniali talmente solenni da sembrare di trovarsi in un episodio della serie televisiva «The Crown» anziché nella realtà.
Sono atterrata a Londra giovedì 15 settembre.
Il feretro era stato da poco portato a Westminster Hall, la stanza più antica del Palazzo di Westminster in cui per 4 giorni, sotto gli occhi di militari e membri della famiglia reale sull’attenti, la gente avrebbe potuto renderle l’ultimo omaggio. Ed è stato subito tutto chiaro. L’affetto della
gente verso la sovrana si è rivelato subito travolgente, a testimoniarlo la coda per visitare il feretro che nei giorni è diventata chilometrica. Per aiutarmi a comprendere questo momento storico ho chiesto una mano a chi la storia la insegna. John Dickie è docente alla UCL, University College London, è anche giornalista televisivo e saggista.
Assieme abbiamo fatto un esperimento. Ci siamo messi in coda assieme alla gente. «Come ci si
È stata la sovrana più mediatica della storia con una veglia record su YouTube
comporta davanti al feretro di una regina?» Si chiede John. «In effetti nessuno lo sa. Vediamo chi si inchina, chi abbozza un segno della croce, chi tiene le mani congiunte. A prevalere sono però i momenti di imbarazzo. Di chi dopo una lunghissima ed estenuante fila si trova impreparato nell’attimo clou, davanti al feretro, un passaggio che dura solo pochi istanti. Nessuno sa cosa fare - spiega John Dickie - perché ben pochi si ricordano il precedente lying-in-state. L’ultimo risale al 1952, in occasione della morte del padre della sovrana, re Giorgio VI, e non esistono testimonianze video. Questa è la prima volta nella storia che l’addio ad un sovrano britannico viene filmato».
Un ultimo record registrato post mortem da Elisabetta II, la regina più mediatica della storia, la cui incoronazione, il 2 giugno 1953, è stata la prima ad essere trasmessa in diretta mondiale. È incredibile come la famiglia reale britannica riesca a conciliare Medioevo e modernità, un connubio decisamente insolito. Una delle monarchie più antiche al mondo celebra un rito immutato che risale al 1600 e lo trasmette in diretta su YouTube 24 su 24 ore con un numero di visualizzazioni record. L’interesse verso la Regina non è solo virtuale, è, innanzitutto, reale. Per dare l’ultimo saluto alla salma della sovrana esposta in una sala risalente a 900 anni fa si sono messe in coda 250.000 persone.
E non parliamo di monarchici di ferro, di veterani di guerra, di persone che hanno lavorato per istituzioni legate ai Windsor o alla Chiesa Anglicana di cui la regina era a capo. Parliamo di famiglie, di giovani, di donne. Di tantissime donne. Molte lo hanno fatto per le madri che non ci sono più e che le hanno cresciute trasmettendo l’affetto per Elisabetta. C’è chi ha portato con sé un ricordo tangibile. «Indosso la collana di perle di mia mamma. Era nata un mese dopo la regina» mi ha raccontato una signora. Testimonianze che fanno capire come per molti britannici Elisabetta II entri in qualche modo nell’album di famiglia di ognuno.
Era la regina, certo, quella che incarnava la Corona, che rappresentava il Regno Unito, ma esisteva da così tanto tempo che è invecchiata sotto gli occhi della nazione diventando anche un po’ la mamma, la zia, la nonna e l’amica di tutti. «Ha scelto il momento migliore per andarsene» risponde John Dickie con quel proverbiale humor britannico alla domanda se Elisabetta II fosse mancata nel
momento peggiore per il Regno Unito, con l’inflazione alle stelle, i problemi legati alla Brexit e una nuova premier, Liz Truss, nominata dalla regina appena 2 giorni prima di morire. «Elisabetta - prosegue John Dickie- non è mai stata così amata. Negli ultimi tempi, da quando ha perso il marito, il principe Filippo - la sua roccia, come lei lo definiva - la regina ha mostrato per la prima volta la sua fragilità ed era amatissima, la gente la adorava».
A testimoniarlo la coda che sabato, due giorni prima del funerale, iniziava in un angolo remoto di Londra, nel parco di Southwark, a 7 chilometri di distanza dal Parlamento britannico. Qui ho incontrato persone arrivate appositamen-
Sulle strade, in coda per rendere omaggio al feretro famiglie, giovani e donne
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te dal Canada, atterrate appena poche ore prima di mettersi in fila, chi dal Kenya perché, come mi hanno spiegato delle emozionatissime signore «è in Kenya che Elisabetta da principessa era diventata regina», la mattina del 6 febbraio 1952 quando il padre morì. È un’altalena di emozioni, l’affetto della gente tangibile e tutti consapevoli di un fatto. Non ci sarà mai più nessuna come lei. «Elisabetta era molto speciale e ha regnato molto bene» mi dice Elizabeth, 6 anni, che incontro lunedì nel quartiere di Kensington mentre nell’abbazia di Westminster sono in corso i funerali. Elizabeth è venuta con i suoi genitori per dare l’ultimo saluto alla sovrana. Con lei un altro milione e mezzo di persone presenti a Londra e 4 miliardi davanti agli schermi.
Sudditi di Elisabetta II non per cittadinanza bensì per riconoscenza nei confronti di una donna di cui hanno ammirato lo straordinario esempio di vita spesa al servizio del proprio paese. Elisabetta II si è trovata ad essere regina. E lo ha fatto. Bene, male, criticata, amata, per niente immune da scandali. Senza mai tirarsi indietro. Ha preso un impegno e lo ho portato avanti. Fino a 96 anni. Chapeau. ■
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Il modello svizzero di federalismo come soluzione per il conflitto Russia-Ucraina
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Di Luigi Bonanate Foto di Elena Mozhvilo… e se il modello svizzero di federalismo andasse bene anche per l’Ucraina, la Crimea, il Donbass, e per le varie oblast (equivalenti, all’incirca alle regioni italiane)?
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Tutti sappiamo quanto grave sia ormai la crisi, che si è poco a poco trasformata in una guerra vera e propria, tra Ucraina e Federazione russa. Sul campo, le sorti del conflitto sono state sorprendenti - dapprima una facile invasione russa, poi il formarsi di una solida difesa ucraina, e infine il rovesciamento prodotto dalla controffensiva ucraina, che ha iniziato una riconquista territoriale a quanto pare di grande sostanza. Siamo, insomma, tutti abbastanza ben informati sulla vicenda, e lo saremo di più se sfuggiremo alla quantità di chiacchiere e di vere e proprie fake news che ogni giorno tendono ad accrescere il nostro comune tasso di ansia e il desiderio di fuggire da tutto ciò.
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E invece no, e addirittura più d’uno - a ciò anche spinto dalle dichiarazioni di Putin - si aspetta il passaggio a una guerra nucleare, tattica e limitata dapprima, ma poi anche strategica se l’Occidente deciderà che la Russia abbia passato il limite… Si pensava che, una volta entrati in campo gli Occidentali, Putin avrebbe fatto marcia indietro e lui ha fatto l’esatto contrario comportandosi da (quasi) perfetto giocatore di poker. La capacità di compiere tale disperata mossa sembrava nelle mani dei primi, e invece l’ha utilizzata il secondo. Mossa azzardatissima - se si vuole - ma potentissima, perché giocata in una situazione di incertezza totale.
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A questo punto dobbiamo chiederci come altrimenti la situazione potrà evolvere, escludendo (ragionevolmente) la vittoria schiacciante di una delle due parti. Partiamo dalla autocoscienza della maggioranza dei due Stati in guerra che dimostra che quasi più nessuno è del tutto sicuro di chi sia russo e chi ucraino; le famiglie bi-nazionali sono moltissime. Allora, invece di spararsi addosso gli uni gli altri, alcuni passaggi di «sminamento» sarebbero possibili. Il primo è rappresentato dalla «neutralizzazione» della regione che l’ONU avrebbe potuto proporre intervenendo con lo schieramento immediato dei Caschi blu; si sarebbe allora potuto attivare un meccanismo progressivo, la dichiarazione cioè che - pur riconoscendo la difficoltà della risoluzione pacifica - consentisse di «rallentare» l’andamento delle operazioni belliche. La soluzione finale potrebbe allora essere vista in un regime di sospensione delle ostilità a favore di un nuovo (in realtà ormai antico - gli svizzeri lo sanno bene) artificio, il federalismo, che sostituisce alle armi il dialogo e la discussione: non perché si sia diventati tutti improvvisamente buoni, ma perché diventando parte di una stessa entità territoriale (e in gran parte già essendolo di fatto) lo spirito di conquista e di sfruttamento reciproco scomparirebbe. Sono quelli che prima si combattevano che poi si sono federati…
Ma allora come la mettiamo con le «mezze ali» nel calcio?
Alla ricerca del genere neutro
Di Pippo Russo Foto di Alessandro CrinariLa femminilizzazione (spesso forzata) del linguaggio sportivo nel corso delle competizioni delle donne spesso sfocia in un eccesso di zelo che va oltre il politicamente corretto. Lo si è potuto notare ai recenti Europei di calcio femminile (o Europei femminili di calcio?).
Ma allora come la mettiamo con ali e mezze ali? Travolti dall’ansia di femminilizzare il linguaggio calcistico non scorgiamo qualche interrogativo che magari ci aiuterebbe a uscire dall’impasse. La scorsa edizione degli Europei di calcio femminile - o Europei femminili di calcio? Altra bella domanda - ci ha lasciato in eredità un frastornamento del parlare che è eccesso di zelo più che di politicamente corretto. E finisce per ingessarci tutte e tutti. Maschi e femmine di qualsiasi orientamento sessuale o identità di genere. Perché la portiera, la terzina, la mediana e altri ruoli del gioco di squa-
dra declinati al femminile hanno fatto irruzione nel linguaggio della narrazione calcistica con modalità abbondante e anche parecchio stucchevole. E non vorremmo vedere arrivare il giorno cui si dovesse parlare della centravanta, rischio che per il momento pare scongiurato poiché nel tecnocratico linguaggio del calcio odierno si preferisce parlare di «punta». Altro termine femminile, al pari di ala e mezzala, ma cionondimeno associato per decenni a maschi che giocano a calcio e senza deminutio alcuna per il loro senso di virilità.
E chiediamo scusa se introduciamo il tema con un tono ironico e a rischio di sembrare canzonatorio, ciò che davvero non è nelle nostre intenzioni. Ma il fatto è che davvero questa frenesia di femminilizzare i nomi dei ruoli in campo ci pare sfuggita di mano. Tanto più che, appunto, di ruoli si parla. Che in termini sociologici vanno intesi come «repertori di comportamenti attesi» e dunque meriterebbero di essere declinati in modalità linguisticamente neutra. Che poi finiscano per «o», o per «a», o per «e» non stanno a indicare una collocazione lungo la linea divisoria per sesso biologico.
Del resto, lo volete davvero l’esempio che ci tira fuori dal vicolo cieco in cui stiamo rischiando di chiuderci a doppia mandata? Eccolo qui: la parola «atleta». Termina per «a» e però nel linguaggio corrente viene comunemente percepito quasi esclusivamente al maschile. Eppure ce lo segnalano anche i nostri programmi di videoscrittura che il termine è declinabile sia al maschile che al femminile. Posto accanto all’articolo indeterminativo «un», può andare sia con l’apostrofo che senza. E dunque, come la mettiamo?
Il genere neutro
La mettiamo che dovremmo cercare il genere neutro. Una formula che mai come in questa occasione mostra la saggezza intima delle parole, e la loro capacità di farsi beffe delle psicopatologie linguistiche quotidiane che decidiamo di infliggerci per motivi ignoti. Lo sport è uno degli ultimi campi dell’agire umano e sociale in cui vige una rigida separazione fra maschile e femminile. E ciò avviene sia perché in molte discipline il divario di prestazione fra uomini e donne è ancora rilevante tanto da rendere iniquo il confronto diretto, sia perché anche laddove questo scarto va a assottigliarsi persiste una sorta di tabù della non promiscuità. Veder gareggiare insieme uomini e donne, magari in discipline che prevedono il contatto fisico, è ancora qualcosa di non ammissibile per il senso comune.
Si auspica di vedere arrivare il giorno in cui ci si potrà mettere tutto ciò alle spalle, sia il divario della prestazione che il pregiudizio di non mescolabilità fra uomini e donne. Ma a questo proposito un buon passo in avanti potrebbe essere compiuto adottando una diversa chiave di lettura. Che è quella del genere linguisticamente neutro, insito nel termine atleta ma ancor più adatto per essere declinato al plurale. E quanto davvero sarebbe opportuno parlare «degli atleta», come fosse un plurale neutro alla latina, anziché continuare a dividere fra atleti e atlete. Sarebbe la soluzione che ci fa uscire dall’impasse. Cavandoci una volta per tutte dall’impaccio di dire «la terzina» o «l’arbitra». I ruoli in campo sono asessuati e non è certo la vocale finale a stabilire se essi debbano essere intesi al maschile o al femminile.
La «cancel culture»
è un inno all’ignoranza come quando si bruciavano i libri
Di Renato Martinoni Foto di Dimytri Y.La voglia di cancellare le vergogne del passato mettendole sulla gogna o ignorandole sta diventando una vera «incultura». Ma non è mostrando i muscoli, eliminando o inventando la giustizia sui social che si impara. Lo si può fare soltanto riflettendo.
«cancel culture», cioè di una «cultura» (dovremmo però darle il nome più giusto: «incultura», anche se a volte essa è mossa da un sentimento di giustizia o da voglia di riparazione) che si propone di cancellare le vergogne del passato, mettendole sulla gogna, o per bene che vada ignorandole, e di boicottare le sue ramificazioni nel presente: vedi la storia dei «moretti». Non lo si fa con i falò dei roghi, ma con il martello, distruggendo monumenti, e comunque con la violenza, togliendo dalle biblioteche libri letti da intere generazioni. E solo perché fra le righe corrono parole (come «negro») che all’improvviso sono dei tabu.
È giusto confrontarsi con la storia, e con i suoi mali, proprio per imparare a non ripeterli. Anche se è tutta una grande illusione. Dicevano i razionalisti del Settecento: «La società è una confederazione di individui che solo l’interesse tiene uniti». L’egoismo fa parte dell’uomo ed è inutile illudersi che non sia così. Ognuno dunque commette la sua bella parte di errori. Poi succede che qualcuno, magari un mascalzone travestito da galantuomo, diventi un eroe (ma quanto si perdona a certi politici di oggi che, ostentando una croce di legno sul collo, ne fanno peggio di Bertoldo?) Cancellare i simboli però è sbagliato. Non perché le malefatte debbano essere dimenticate, o nascoste. Al contrario. Ma per capirli davvero i fatti vanno «storicizzati»: cioè devono essere messi dentro il loro contesto storico. Non certo per rimuoverli, ma per conoscere il perché di certe cose. Fatto questo occorre passare alla riflessione. Certo, Hitler è stato un criminale della peggiore risma (anche se in molti lo hanno seguito). Per questo, magari nel nome del politicamente corretto, si deve proibire di leggere il «Mein Kampf»? E perché mai?
Come reagiremmo se da qualche parte, nel mondo, ci si mettesse a bruciare i libri? Ripeteremmo un’altra volta quello che ha detto uno scrittore, ebreo e tedesco, un paio di secoli fa: «Dove si bruciano i libri, prima o poi si bruceranno gli uomini». Proibire alle persone di esprimere le loro idee, imporre ai cittadini di una nazione di pensarla come impongono i tiranni che la governano, è un atto di violenza contro l’umanità, i diritti dell’uomo, la pluralità del pensiero. Togliamoci dalla testa l’illusione di essere davvero padroni di noi stessi. Resta però che nelle democrazie liberali i libri circolano più o meno liberamente. Ognuno può leggerli, confrontandosi con le idee di altri, e ha la facoltà di consentire oppure di dissentire.
Se non si bruciano i libri, e questo ci consola, nel vecchio mondo occidentale si sta affacciando però con forza, nel terzo millennio, una moda non meno peggiore: quella della
Buttare a terra con il trax la statua di un tale che tre secoli fa ha approfittato dello schiavismo per arricchirsi o per fare carriera non risolve granché. Soprattutto se, intanto, non si rifiuta lo schiavismo, anche nelle sue forme più sottili e perverse. Non ci sono più gli afroamericani che raccolgono il cotone. I loro pronipoti intanto raccolgono i pomodori in Calabria, in condizioni non troppo migliori. Ci sono i bambini che lavorano nelle miniere, in Sudamerica, e bambine che cuciono i jeans, in Oriente. Poi magari li indossa qualcuno fra quelli che vanno a protestare sotto i monumenti degli sfruttatori, chiedendo che vengano abbattuti. Non è usando il martello, che si risolvono i problemi. È facendo funzionare una testa nemica delle censure. Non si dirà che questo sarà sufficiente per evitare di ripetere gli errori del passato. Ma è riflettendo che si impara. Non mostrando i muscoli. Non cancellando. Non inventando la giustizia sui social dove, in un mondo oramai privo di filtri, tutti possono dire tutto di tutto. Il che di per sé è democratico ma non evita l’autopromozione a giudici anche degli ignoranti. Il fenomeno non è certo nuovo. Un tempo si esauriva nelle baruffe da osteria. Oggi è globalizzato e a volte non consente dissensi. Proprio come nei paesi in cui si bruciano i libri.
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Una politica ambientale polivalente necessita investimenti e la Svizzera può diventare leader
Di Gerardo Rigozzi Foto di Chiara ZocchettiLa crescita economica è il solo terreno favorevole all’innovazione tecnologica e la ricchezza può favorire gli investimenti necessari anche nell’ambito della protezione dell’ambiente. L’eccellenza elvetica in ricerca e innovazione può essere decisiva.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera è in aumento e le emissioni di gas serra continuano a crescere a livello mondiale. Il CO2 è tra i principali responsabili dell’effetto serra: insieme ad altri gas, impedisce alla Terra di disperdere il proprio calore accumulato dai raggi solari e rimane nell’atmosfera per migliaia di anni. Senza un intervento drastico per ridurre le emissioni di CO2, gli scienziati asseriscono che nel 2100 la temperatura media del pianeta aumenterà di quattro gradi, quando sappiamo che ne bastano solo tre per provocare conseguenze importanti. Le energie rinnovabili, unitamente all’idrogeno, potranno contribuire, ma solo in parte, alla risoluzione del problema. Ecco perché il problema energetico e quello ambientale vanno di pari passo. In particolare
occorre implementare tutte le strategie a nostra disposizione per attaccare il problema su più fronti contemporaneamente: dal teleriscaldamento (combinabile con il nucleare), all’efficienza energetica soprattutto nell’edilizia, all’incremento del trasporto pubblico, alla sostituzione del trasporto su gomma col trasporto su rotaia, all’utilizzo di energie rinnovabili a dipendenza delle condizioni geografiche, alla disponibilità di sistemi di accumulo (i combustibili alternativi quali l’idrogeno) e alla riduzione degli sprechi in ambito alimentare, ma non solo.
Nel confronto europeo, la Svizzera è uno dei paesi virtuosi nella politica ambientale: negli ultimi vent’anni ha ridotto le emissioni pro capite del 25%, con un tasso di 4,6 tonnellate. In linea di massima essa è leader nell’ambito del riciclaggio, in particolare per quanto riguarda il vetro, l’alluminio, il PET e la carta.
Il nostro Paese, dopo gli incidenti di Chernobyl e dopo Fukushima, ha abbandonato l’opzione del nucleare anche sull’onda delle emozioni. Ma se si spegnessero le centrali nucleari entro il 2035, come prevede la strategia SE2050, ci sarebbe un ammanco del 25% del fabbisogno energetico. Inoltre nel settore dei trasporti, dove vengono tuttora consumati quasi esclusivamente combustibili fossili come benzina, gasolio e cherosene, è richiesto un fabbisogno energetico di quasi il 38%. Pur investendo massicciamente in 13 anni nell’eolico, nel gas (che pure inquina), nel solare e nel fotovoltaico (con il problema dell’immagazzinamento-batterie non risolto), è estremamente difficile che si possa arrivare a colmare il vuoto energetico lasciato dall’abbandono del nucleare. Bisognerà importare molta energia dall’estero, anche prodotta dal nucleare.
La politica svizzera oscilla fra posizioni che vorrebbero introdurre maggiori divieti e tasse eco-
logiche, e posizioni che mirano all’introduzione di incentivi fiscali nella ristrutturazione degli immobili, a condizioni quadro ottimali per i progetti geotermici, alla riduzione della burocrazia nel settore delle energie rinnovabili e alla liberalizzazione del mercato dell’elettricità.
Purtroppo la questione del riscaldamento globale viene spesso posta in termini ideologici e catastrofici: da alcuni viene negata in toto, da altri viene trattata come un’apocalisse imminente e inevitabile; e da altri ancora viene sminuita come un qualcosa di semplice da risolvere: «basta abolire il capitalismo e installare energia rinnovabile».
Al Forum di Davos del 2019, la sedicenne Greta Thunberg predicò quanto segue: «Non voglio che abbiate speranza, voglio che proviate panico»; e la deputata newyorkese democratica Alexandria Ocasio-Cortez ammonì i presenti che siamo a un passo «dall’estinzione della specie umana». Affermazioni, queste, di sapore messianico e prive di valenza scientifica. Nessun liberale potrebbe accettare simili proclami, in quanto il liberalismo da sempre pone fiducia nel progresso delle scienze e della ragione, come recita il Manifesto liberale di Andorra del 2017: «Come movimento globale, il liberalismo crede fortemente nella ragione umana come fondamento del progresso verso quel mondo migliore».
La crescita economica è il solo terreno favorevole all’innovazione tecnologica e la ricchezza può favorire gli investimenti necessari anche nella protezione dell’ambiente. La Svizzera può recitare un ruolo di primissimo piano nel settore delle tecnologie ambientali, perché ha i mezzi e gli istituti scientifici di grande prestigio, a condizione però che non lesini i fondi per la ricerca e che non si lasci irretire dalle tendenze catastrofiste, massimaliste e pregiudiziali verso l’atomo, ormai in voga nel mare magnum del «politically correct». ■
Emanuele Colombo
«La riserva idroelettrica servirà per venti giorni»
Lo sguardo degli svizzeri di fronte alla crisi energetica internazionale si è spesso rivolto, negli ultimi mesi, verso le dighe, i bacini d’accumulazione. E anche il Consiglio federale è intervenuto per assicurarsi che, in vista dell’inverno, i bacini fossero pieni, pronti ad essere sfruttati in caso di bisogno. Ma cosa sta dietro a questa decisione? Quali conseguenze avrà e quali benefici potrà generare? Lo abbiamo chiesto a Emanuele Colombo, Senior Strategic Advisor di Swissgrid, società proprietaria e gestore della rete di trasmissione di energia elettrica in Svizzera.
Emanuele Colombo. Che ruolo avranno le riserve idroelettriche nei prossimi mesi? E che differenza c’è fra riserva idroelettrica e riserva strategica?
«Il Consiglio federale ha previsto la costituzione di due riserve: una idroelettrica e una strategica. La prima è una sorta di assicurazione e consiste nel mantenimento di riserve di acqua nei bacini, in modo da poter produrre l’energia per le attività essenziali svizzere per una ventina di giorni alla fine dell’inverno. Si tratta quindi di ritardare l’utilizzo di una parte del contenuto dei bacini ad accumulo per turbinarla ulteriormente. La riserva strategica invece costituisce della potenza di produzione supplementare «fuori mercato» da utilizzarsi in casi eccezionali di penuria. Per l’inverno 2022-2023 la riserva strategica potrebbe essere costituita tra l’altro dalle otto turbine mobili a gas, olio e idrogeno che sono state recentemente acquistate dalla Svizzera. A Swissgrid verrà assegnato un nuovo compito, quello di Supplier of Reserve. Questo nuovo ruolo non è attualmente previsto dal mandato legale. Siamo però pronti ad assumerci questa responsabilità e ci prepariamo per farlo in condizione operative ottimali».
Basteranno per evitare i temuti blackout?
«Le riserve idroelettrica e strategica sono delle assicurazioni contro il rischio di penuria di energia (e di potenza) per la sicurezza di approvvigionamento in elettricità del Paese. La penuria di energia non deve confondersi con blackout. Sono due cose sostanzialmente diverse. Il blackout si genera quando una catena di circostanze sfortunate porta a una grave interruzione, a seguito della quale la fornitura viene interrotta. In caso di blackout, di solito l’alimentazione può essere ripristinata a breve termine. La causa possono essere eventi naturali o il collasso di un elemento. In caso di penuria di energia, invece, l’elettricità non è sufficiente a coprire l’intera domanda.
maggiori capacità di pompaggio-turbinaggio potrebbe servire?
«Swissgrid è neutrale in fatto di tipologia di energia: la scelta del mix energetico del paese appartiene alla sfera politica e ad altri attori del sistema elettrico e si farà in modo coerente con la Strategia Energetica 2050. Per quanto ci concerne, è nostra responsabilità garantire una rete di trasmissione sicura, stabile ed efficiente, in modo che gli attori del mercato elettrico possano scambiare energia in condizione ottimale».
Come sono i rapporti con i Paesi confinanti, ci verrà messa a disposizione energia in caso di penuria?
La causa di una carenza di elettricità è quindi uno squilibrio tra l’offerta e la domanda di elettricità per un periodo di tempo più lungo. In questo caso, la fornitura illimitata e ininterrotta di energia elettrica dalle reti elettriche svizzere non è più garantita per gran parte dei consumatori finali».
In che direzione bisognerebbe muoversi per sfruttare ancor meglio la risorsa idroelettrica? Potenziare le centrali verso
«La rete europea è fortemente interconnessa, la Svizzera è collegata ai Paesi limitrofi con 41 linee. Questi collegamenti permettono di importare energia nei momenti di bisogno, dando così una maggiore sicurezza di approvvigionamento. Non siamo un’isola energetica e per superare le sfide dell’approvvigionamento elettrico bisogna trovare soluzioni condivise fra tutti gli attori. L’autarchia energetica è un’illusione. Non avendo un accordo sull’energia elettrica con l’UE, per la Svizzera le cose potrebbero complicarsi dal 2027 a causa della regola 70%-30%. I Paesi dell’UE dovranno mettere a disposizione almeno il 70% della capacità di rete per gli scambi di energia tra di loro. Di conseguenza per noi questo potrebbe volere dire maggiori problemi di importazione, specie nei mesi invernali, oltre che maggiori difficoltà nella gestione dei flussi indotti non pianificati. La Svizzera è esclusa dai meccanismi di mercato europei e a causa di questa esclusione sarà sempre più difficile anticipare i flussi di elettricità che attraverseranno la rete svizzera legati agli scambi commerciali di energia tra paesi dell’UE».
«Le riserve idroelettriche sono pensate per darci venti giorni di elettricità»
Contro il «caro cassa malati»
più concorrenza e digitalizzazione
Il Consigliere nazionale PLR Philippe Nantermod spiega le misure chieste dal partito per arginare i costi dell’assicurazione malattia.
Introdurre misure concrete per arginare l’esplosione dei costi delle casse malati. Più facile a dirsi, che a farsi. Basta dare un’occhiata agli aumenti dei premi di recente annunciati per il 2023. Soluzioni per mettere un freno a questa tendenza, però, ce ne sono. E sono applicabili sia a livello nazionale, sia a livello can-
correnza, controllo dei costi e della qualità e digitalizzazione.
Deduzioni fiscali per i figli a carico in Ticino: una proposta in linea con le misure federali
tonale, dove il PLR è capofila di una proposta interpartitica affinché le famiglie possano dedurre fiscalmente i premi pagati per i figli a carico, come già succede in diversi altri Cantoni svizzeri. Una proposta che si intreccia con quanto sta avvenendo a livello federale con il progetto di revisione dell’imposta federale diretta, dove - non a caso - il PLR ha presentato una serie di richieste per frenare i costi il più rapidamente possibile. Lib- ne ha parlato con il Consigliere nazionale vallesano e vicepresidente del partito, Philippe Nantermod, che con il suo collega zurighese Andri Silberschmidt ha elaborato le rivendicazioni, basate su con-
«I costi della salute aumentano a causa del volume e del prezzo delle prestazioni fornitespiega Nantermod -. Rafforzando la concorrenza, possiamo agire su uno dei parametri: il prezzo. Sappiamo bene che i prezzi in ambito sanitario sono sproporzionati in Svizzera rispetto a quanto succede nel resto d’Europa. Pensiamo ad esempio al prezzo dei medicamenti, delle apparecchiature, delle analisi in laboratorio o degli interventi. Siamo un’isola dai prezzi elevati, insomma». In estrema sintesi, per invertire la tendenza al rialzo «esplosivo» dei costi della salute si tratta in primo luogo di stabilire una vera concorrenza tra i fornitori di cure, basata sulla qualità della prestazione, sui suoi costi e sui suoi reali benefici. Inoltre, si vuole introdurre un finanziamento unitario delle prestazioni nel settore ambulatoriale e stazionario e digitalizzare davvero il settore delle cure per sfruttare in modo rapido i dati disponibili (eliminando, ad esempio, i doppioni), semplificare i compiti amministrativi e favorire il confronto tra i fornitori di cure. «Già dieci anni fa abbiamo vissuto una situazione del tutto simile introducendo le importazioni parallele e il principio «cassis de Dijon» nella lotta contro il caro-prezzi - aggiunge Nantermod -. Abbiamo riscontrato un discreto successo in quel caso. Perciò oggi vogliamo applicare le stesse ricette anche al settore sanitario».
Razionalizzare, ma non razionare. Anche questo concetto appare in modo chiaro dalle linee guida del PLR. Perché la qualità della sanità svizzera va preservata, riservando però maggiore attenzione al controllo dei costi. «Verificare costantemente l’adeguatezza delle prestazioni, la loro efficacia e la loro economicità significa prendersi cura della qualità stessa delle cure prestate - osserva Nantermod -.
Ci sono diversi strumenti per applicare questo controllo e verificare se le prestazioni sono fornite in modo qualitativo, il che ha evidentemente delle conseguenze dirette - positive o negative - sulla salute del paziente. Con queste nostre proposte, vogliamo batterci contro la sovra medicalizzazione, contro le prestazioni ridondanti o inutili e contro le terapie inefficaci».
In queste settimane di grandi discussioni in seguito al nuovo e massiccio aumento dei premi, a tornare di prepotenza nel dibattito pubblico è stato anche il tema della cassa malati unica. Una soluzione che, però, non convince Nantermod: «La cassa malati unica non fornisce risposte decisive alla problematica
L’ipotesi di una cassa malati unica si scontra con evidenti limiti di efficienza ed efficacia
dei costi - conferma -. Porterebbe dei vantaggi a livello di centralizzazione, ma finirebbe col soffrire di questa stessa centralizzazione. Avrebbe poi quale conseguenza anche di bloccare l’innovazione in materia di prodotti assicurativi. Attualmente, infatti, uno dei soli metodi a disposizione dei cittadini per abbassare i premi è quello di scegliere modelli assicurativi alternativi. Tutte possibilità che andrebbero a scomparire in caso di introduzione di una cassa malati unica». Insomma, più limiti che benefici a livello di efficienza ed efficacia, due fattori essenziali quando si parla di costi della salute. ■
Ufficioemagazzino
Privacy e voglia di postare
Viaggio in un calderone riempito di insidie, dati e piattaforme
Di Nicola Camponovo Foto di Chiara ZocchettiViviamo quotidianamente a strettissimo contatto con una marea di dati, che possono generare pericoli. A livello nazionale e internazionale a proteggerci c’è la legge. Rimane soltanto da chiedersi se le norme oggi in vigore ci proteggono anche da noi stessi...
Pubblicare, commentare, lasciare un like o mandare un messaggio vocale. Gesti divenuti automatismi quotidiani, quasi come lavarsi i denti. Istinti naturali dell’essere umano moderno. C’è chi lo fa per guadagnare qualche franco, chi per mantenere amicizie e chi spinto dalla volontà di sentirsi parte di una comunità. È pertanto facile ed irresistibile lasciare una traccia online. Tanto che ogni minuto si condividono migliaia e migliaia di stories su Instagram, quasi due milioni di swipe su Tinder e decine di milioni di messaggi via Whatsapp e Facebook Messenger. E per saperne di più ci basta fare una breve «googelata». Non dobbiamo sentirci troppo soli, la nostra ricerca su Google sarà solo una delle circa 6 milioni effettuate ogni sessanta secondi sul motore di ricerca. Aggiungiamo a tutte queste informazioni, anche quelle finanziarie, tecniche e gestionali presenti online ed otteniamo un mare di dati. Anzi un oceano; che Forbes stima raggiungere la bellezza di 44 zettabytes, ov-
Ogni giorno in rete si riversa un oceano di informazioni digitali:
zettabytes
vero un numero che se scritto per esteso è lungo quanto questa frase. In questo calderone di dati e piattaforme, le insidie sono molte. C’è da chiedersi chi o cosa ci possa proteggere.
A livello europeo
In Europa gli utenti sono tutelati dal GDPR (General Data Protection Regulation) entrato in vigore nel 2018. Punto cardine della normativa è l’utente, che deve essere informato, in maniera proattiva e chiara, su come i suoi dati personali stanno per essere utilizzati. Fermo restando che gli internauti leggano termini e condizioni, il consenso va esplicitato. Inoltre, oltre a questi (ed altri) rafforzamenti dei diritti degli utenti, vi sono grandi obblighi per le società. In breve, esse devono predisporre un sistema che limiti le violazioni, salvaguardi la riservatezza nonché l’integrità delle informazioni e che garantisca il trattamento solo di dati strettamente necessari. Penitenza per chi sgarra: ingenti pene pecuniarie.
A livello svizzero
Anche la Svizzera si sta muovendo in questa direzione. Per garantire una migliore protezione vi sarà la revisione totale della legge sulla protezione dei dati (nLPD) e delle relative ordinanze. Riforma già approvata, entrerà in vigore esattamente fra un anno, dando così il tempo al mondo dell’economia di adattarsi. Tra le altre cose, vi è però una sottile, quanto importante, differenza rispetto al GDPR: al posto di pesanti sanzioni amministrative a carico delle società, il diritto svizzero ha optato per la responsabilizzazione dei dirigenti. Essi, in quanto detentori del potere decisionale dell’azienda, saranno diret-
tamente chiamati in causa in caso di misfatto.
Senza soffermarci sui dettagli legali, vi sarà anche alle nostre latitudini una maggiore regolamentazione per far sì che le informazioni possano essere utilizzate in maniera corretta. Un cambiamento a favore di una società digitale sicura e rispettosa o, più romanticamente, che tuteli la dignità e la libertà dei singoli.
Potere agli utenti I dati personali sono dunque pane quotidiano per individui e aziende. Definiti come il petrolio del ventunesimo secolo, hanno un valore monetario e al contempo anche uno ideale. Non è possibile avere uno Stato democratico e di diritto dove le persone non possano decidere liberamente se rendere accessibili a terzi i propri dati personali. È dunque buono e giusto che ogni persona debba essere in grado di definire da sé quando, dove e a chi i dati vengono trasmessi. I nostri amici giuristi si riferiscono a questo concetto, con tono pomposo, come «diritto di autodeterminazione in materia d’informazione» o, per chi ha studiato «in dentro» «Recht auf informa-
tionelle Selbstbestimmung».
Ora, la domanda che sorge spontanea è: abbiamo trovato la soluzione a tutti i mali? Di certo questo sviluppo legislativo va nella giusta direzione e sprona ad una maggiore sensibilizzazione ma non abnega la smania di dati. Vi è così un fondamentale trilemma: il bisogno di pri-
Siamo di fronte ad un trilemma tra protezione, fagocitazione e condivisione dei dati
vacy, la necessità delle nostre economie di fagocitare dati e la volontà delle persone di condividere. Un impulso irrefrenabile al pari di un patto faustiano con il mondo digitale. È così inimmaginabile delegare ad una nuova regolamentazione le responsabilità individuali: nel mondo reale come nel mondo digitale. ■
Raphaël Brunschwig
Uno sguardo sulla cultura, sui ticinesi, su Netflix, sul futuro del cinema e sul respiro internazionale del Locarno Film Festival in un’intervista a 360 gradi con il Managing Director della kermesse cinematografica locarnese.
Lei è ormai da molti anni che lavora per Locarno Film Festival, con diversi ruoli e facendo anche gavetta. Cosa l’ha fatta arrivare al ruolo di direttore operativo.
«Probabilmente l’ambizione dell’autodidatta. Alle persone con un profilo come il mio è richiesto un impegno supplementare, rispetto a chi segue percorsi più lineari - spesso siamo noi stessi i primi a pretenderlo! Impegno e passione sono essenziali per tentare di migliorarsi, ogni giorno, per capire chi si è e quale sia il proprio stile manageriale. Poi, ovviamente, conta la fortuna di essere al posto giusto con le persone giuste: nel mio caso il Presidente Marco Solari e il mio predecessore Mario Timbal. Entrambi hanno creduto in me, anche quando non era scontato farlo».
Ogni anno, durante il festival, ci sono tanti giovani da tutto il Ticino che lavorano per voi: come mai questa scelta molto «local»?
«È una scelta di responsabilità sociale, che non va data per scontata: altri festival, anche più grandi di Locarno, reclutano collaboratori volontari da ogni parte del mondo. I numerosi giovani invece che lavorano con noi, e per questo vengono retribuiti, nella maggior parte dei casi sono al primo impiego: molti studiano ancora o hanno appena terminato il loro percorso scolastico. È un grande vivaio - a pieno regime siamo circa in 900! - che permette di creare legami emotivi con il Festival, che durano indipendentemente dai percorsi personali. In più, è uno strumento che spesso ci consente di intercettare talenti sui quali costruire il futuro. La nostra organizzazione, nonostante la crescente complessità, in molti suoi settori si basa ancora su carriere che partono dal basso».
Il Ticino dal Dopoguerra ha vissuto una grande trasformazione passando da civiltà rurale ad un assetto più urbano, che spesso mette in contrapposizione tradizione e progresso. In un certo senso si vuole andare avanti, ma si rimane ancorati alla tradizione. Come vive lei questa situazione di compromesso a livello culturale?
«La premessa è corretta, e credo esprima una domanda cruciale per il nostro tempo: qual è il rapporto tra innovazione e salvaguardia della tradizione? Considerando la tensione che oggi si concentra proprio su interrogativi di questo tipo, personalmente credo occorra impegnarci per ritrovare equilibrio. Credo che la prospettiva giusta consista nel cercare di fare convivere queste dimensioni, senza che una prevarichi l’altra, perché sono intrinsecamente legate. In altre parole: una società evolve nella misura in cui riesce an-
che a tenere in considerazione le sue radici - e questo lo vediamo chiaramente nel nostro lavoro. Il Locarno Film Festival esiste perché è a Locarno, perché è figlio del suo territorio, perché ha 75 anni di storia. Come per tutti i grandi eventi, questo patrimonio porta con sé anche una serie di limiti, che occorre superare introducendo concetti e strumenti nuovi - per dare vita a un ecosistema in costante evoluzione. Dilemmi come questi sono parte del fascino del mio lavoro, e credo che la volontà di affrontarli rappresenti uno dei nostri punti di forza».
Come vede il rapporto fra la cultura, il cinema, e il ticinese «medio»?
«L’idea stessa di «ticinese medio» è un problema, secondo me: è un concetto che fa male alla nostra mentalità, perché tarpa le ali a molte ambizioni. A mio avviso il «ticinese medio» non esiste, nella realtà: è una figura simbolica, che incarna il complesso di inferiorità che il Ticino ha nei confronti di realtà più grandi - e il timore di non riuscire a reggere la competizione. Questo atteggiamento ci penalizza e rallenta, fino al paradosso di autoescluderci da certi ambienti. Non credo che a Zurigo o a Milano, realtà di gran lunga più grandi del Ticino, ci sia per forza un pubblico mediamente più colto o preparato. Realtà come il Festival, il LAC e l’USI dimostrano che siamo in grado di superare questi nostri vecchi complessi».
Spesso si dice che il Festival è pensato troppo per i turisti internazionali e c’è poca scelta «adatta» agli indigeni, cosa ne pensa di questa affermazione?
«Qui torniamo al complesso del «ticinese medio», all’autolesionismo provinciale. L’idea che una proposta di alto livello non sia adatta perché troppo «culturale», come se ci fosse impossibile accedervi, secondo me è del tutto superata. L’unica possibile giustificazione che potrei ammettere è linguistica: tuttavia, i sottotitoli in tedesco, inglese o francese - e l’offerta di film in italianorendono ampiamente fruibile a tutti gran parte della ricca offerta del Festival. A fare la differenza, come per ogni cosa, è la curiosità dello spettatore, sulla quale calibriamo i nostri programmi. Il lavoro del Direttore artistico Giona Nazzaro, con i film che proponiamo, vuole dare al pubblico la possibilità di scoprire sensibilità e realtà diverse, di avvicinarci a ciò che non conosciamo, talvolta sfidando i nostri limiti. Non è un caso che cerchiamo di creare un rapporto speciale con i giovani, che vivono un’età nella quale la curiosità è molto pronunciata e quindi possono trarre il massimo beneficio dall’esplorazione delle nostre proposte. Va poi aggiunto che il Festival di Locarno, soprattutto per i ticinesi, è pur sempre un evento che va ben oltre ciò che accade nelle sale e in Piazza - perché mette in moto una serie d’incontri e di scambi di idee durante eventi, serate, feste e molte altre espressioni di vitalità».
Il futuro del cinema è minacciato dalle piattaforme o può trarne vantaggio?
«A essere minacciato, al massimo, è il futuro del cinema in sala. Seguiamo con attenzione gli sviluppi dell’industria, agitata dalla fortissima contrapposizione tra il vecchio - la sala - e il nuovo, ovvero lo streaming. Anche noi stiamo imparando a convivere con questa nuova realtà e a capire come fare coesistere questi due modi di vivere il cinema. Il punto di partenza è che nessuno può negare la crescente centralità della fruizione online. Questo ha ovviamente ripercussioni sul Festival, a più livelli. Per affrontare questa inevitabile transizione, abbiamo perciò deciso di puntare sui giovani, ascoltando le loro richieste e cercando di raccogliere conoscenze su ciò che ci serve per proiettarci nel futuro - energizzati in questo anche dalla cattedra sul futuro del cinema, creata con l’Università della Svizzera italiana. Inoltre, voglio sottolineare che Giona Nazzaro è stato da subito molto attento a questa evoluzione, come dimostrano le collaborazioni con Netflix e con Blue di Swisscom, che hanno arricchito le ultime due edizioni del Festival. Il messaggio è che consideriamo le piattaforme streaming come opportunità e non come minacce, perché possono dare una visibilità maggiore al Festival, anche in termini di reputazione. Un solo esempio: il Pardo d’Oro del 2021 è stato distribuito su Netflix, ottenendo una visibilità internazionale impensabile fino a pochi anni fa, quando molti dei «nostri» film al massimo potevano essere visionati in altri Festival o in qualche cineclub per appassionati. Sappiamo però che l’affluenza nelle sale è minacciata, e che siamo consapevoli dei rischi che ciò comporta: questo prezioso circuito, in cui l’esperienza del cinema trova ancora il suo apice, deve assolutamente essere preservato. Probabilmente saranno proprio i festival cinematografici l’ultimo baluardo nella difesa di questa esperienza».
Un festival attuale, non chiuso nella nostalgia. Qual’è il suo rapporto con lo scorrere del tempo?
Biografia
Raphaël Brunschwig è responsabile della gestione operativa e finanziaria del Festival. Brunschwig (classe 1984) arriva al Locarno Film Festival nel 2013 in qualità di coordinatore delle partnership e nel 2014 diventa responsabile dello sponsoring. Nel 2016 assume la vicedirezione operativa e nel 2017 viene nominato direttore operativo. In rappresentanza del Locarno Film Festival, Raphaël Brunschwig è membro di diversi comitati, come ad esempio del Consiglio direttivo degli Swiss Top Events, associazione che riunisce gli 8 più importanti eventi nazionali, promuovendo l’eccellenza di queste manifestazioni all’estero. Nella foto Brunschwig (a destra), con il presidente Solari, al centro e il direttore artistico Giona Nazzaro.
Sfida dei propri limiti, curiosità, scoperta. Ecco, che occasione di crescita intima può rappresentare un film per ognuno di noi? «Da un film, come minimo, bisognerebbe aspettarsi che ci cambi la vita! Citazioni a parte, è una domanda complicata, che apre ragionamenti a più livelli. Una risposta forse un po’ severa sottolinea la differenza tra intrattenimento e cultura: nel primo caso lo sforzo richiesto è minimo e lo scopo è di accontentarci, dandoci qualcosa che più o meno conosciamo già. Nel secondo, veniamo messi davanti a un oggetto che ci destabilizza, ci sorprende e costringe a fare un passo in più talvolta illuminandoci, talvolta lasciandoci al buio e obbligati a completare il ragionamento con qualcosa di nostro. È una fatica, certo, ma in fin dei conti è così che si sviluppa il gusto per la bellezza, tema sul quale non è possibile fare discorsi troppo accomodanti. Come ogni forma di apprendimento, anche il linguaggio estetico richiede impegno: serve la voglia di imparare, e di capire che proprio nello sforzo troviamo le migliori occasioni di crescita. Non è forse questo lo scopo profondo di un Festival e dell’arte cinematografica?»
«Il Festival è costretto a muoversi su due fronti apparentemente contradditori: da una parte, dobbiamo alimentare il mito di una manifestazione storica, conosciuta a livello mondiale. In parallelo, bisogna tenere alta la consapevolezza che, limitandoci a celebrare il passato, non costruiremo un futuro desiderabile. Questo significa porsi domande precise: se non avessimo 75 anni e cominciassimo oggi, cosa sceglieremmo di fare? Per trovare una risposta siamo costretti a mettere in tensione la nostra identità, a tramutarla in una forza che non è statica ma che cresce con il tempo, e anziché essere un freno che ci irrigidisce è un motore sempre più potente. Ragionando in questo modo sono sicuro che riusciremo a restare una piattaforma sempre orientata in avanti, non solo per quanto riguarda il cinema che mostriamo. Il punto è rendere il Festival sempre più un’istituzione culturale - e non più un evento di 11 giorni! - capace di ispirare nuovi immaginari e coinvolgere nuove fasce di pubblico, dalla giovane cinefilia ai talenti creativi in erba».
Che Ticino sogna fra 15 anni?
«Sogno un Ticino che abbandoni una volta per sempre l’autoreferenzialità e che sia in grado di costruire, consapevole del fatto che questo lo si possa fare solo mettendosi in relazione con il resto della Svizzera e del mondo, e che solo così si possa andare al di là di quello che potremmo fare con le nostre sole forze. Per fare un esempio vicino alla mia realtà: il mio sogno è che le grandi forze attorno a noi (Città di Locarno, il Locarnese, Cantone, PalaCinema, Università, SUPSI, CISA, RSI e Ticino Film Commission) si uniscano per posizionare questa regione, a partire dalla notorietà creata del Festival, in una dimensione nazionale e internazionale e, quindi, le permettano di dialogare con altri poli di eccellenza in quest’ambito, portando loro del valore». ■
Laura Silvia Battaglia Una reporter di guerra che costruisce la pace
Di Matilde CasasopraNon ha ancora 50 anni, ma ha già vissuto mille vite e tante guerre tra Italia, Iraq e Yemen. Iniziando dalla lotta alle mafie a Catania per arrivare ad affrontare gli eventi che hanno cambiato il mondo.
Fine Ottocento. La seconda rivoluzione industriale è partita da poco (1870), ma il lavoro di semina e raccolto nei campi è quello di sempre e, soprattutto nelle risaie, sono le donne ad essere impiegate da mattino a sera per pochi spiccioli. Sono proprio le donne a dare il «la» ad una rivoluzione che unirà lavoratrici e lavoratori in una lega che condivide aspettative e rivendica giustizia. «Sebben che siamo donne» diventa una canzone che si trasforma in inno. «Sebben che siamo donne» è il titolo di questa rubrica che, mese dopo mese, vuol farvi conoscere donne speciali. La prima, a settembre, è stata Carla Del Ponte, oggi è… Laura Silvia Battaglia: «Reporter di guerra che costruisce la pace».
Non ha ancora 50 anni, ma ha già vissuto mille vite. L’ultima, quella che la vede sposa, da 9 anni, di Taha al-Jalal, si svolge tra Italia e Yemen. Lei, Laura Silvia Battaglia, è giornalista freelance, direttrice delle testate e coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, contributor del Washington Post, corrispondente di guerra specializzata in aree di crisi e conflitti dal 2007. Ha scelto di lavorare soprattutto su Yemen e Iraq e con il suo ultimo lavoro - «Yemen, despite the war», andato in onda su Rai3, ZDF e Al Jazeera Arabic - ha vinto il premio miglior documentario all’European Film Festival Uk 2021.
Oltre alle lingue «solite» Laura Silvia parla l’arabo che ha imparato a Sana’a. «Come giornalista freelance mi sono detta che non potevo raccontare le guerre che da anni dilaniano molti Paesi del Medio Oriente e le storie delle persone che con le guerre sono costrette a convivere senza parlare la loro lingua. Così mi sono iscritta allo YCMES - Yemen College of Middle Eastern Studies (che ora, a causa della guerra, è stato trasferito in Germania) nella capitale yemenita».
Una scelta che è stata chiave di volta nella sua vita. Ne vogliamo parlare?
«È una scelta nata da un impasse, da un contratto a tempo determinato non rinnovato. Ho seguito la saggezza della mia nonna siciliana - il proverbio «impedimentu juvamentu» - per fermarmi e ascoltare la mia intima natura che è quella del battitore libero, dell’esploratore e non del soldato. È così che ho deciso di prendermi un anno sabbatico per andare nel luogo che sognavo, avendo amato molto alcuni film di Pasolini e desiderando una immersione totale in un luogo dove l’arabo classico si studia, ma si parla anche per strada, con uomini e donne di tutte le età. Appena ho messo piede in Yemen, ho capito che era il luogo del mio destino. E ci sono rimasta».
Laura Silvia, però, non ha iniziato con le guerre, diciamo così, lontane. Nata e cresciuta in Sicilia, le prime con le quali è stata confrontata sono state le guerre che si combattevano per le strade della sua città. Guerre di mafia che, negli anni Ottanta e Novanta, nella sola Catania hanno fatto una ventina di morti. Morti ammazzati.
Perché a queste guerre ha scelto di sostituire le altre?...
«Perché il mondo è grande e perché merita di essere esplorato. Perché l’isola mi stava stretta. Perché l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 ha cambiato il mondo e la vita di tutti. Ed ho capito che era su quello che bisognava comprendere, lavorare, investigare».
I racconti di guerra di Laura Silvia non sono mai banali. I filtri sono gli occhi e le vite delle persone che incontra: il bambino che vende miswâk (bastoncini di salvadora persica a metà tra lo stuzzicadenti e lo spazzolino da denti); il maestro Adel Abdul Khalil Alshraihi che sfida la guerra con una scuola che ha aperto a bimbi e bimbe di Tai’zz nella sua casa; la figlia della povertà, Aisha, partita dalla Somalia in guerra, sopravvissuta in mare ed ora profuga in uno Yemen in guerra.
Yemen e Iraq, due Paesi lontani dalla vecchia Europa. Perché parlarne?
«Perché ogni essere umano ha una storia e una voce e il nostro compito è amplificarla per restituire a quel vissuto esistenza e dignità. Non credo al concetto «di dare voce a chi non ce l’ha». Ogni essere umano ha una voce degna di essere ascoltata. Noi non salviamo nessuno: semplicemente permettiamo che più persone si mettano in ascolto di quella voce. Decolonizzare il nostro pensiero e il sistema dei media è un’operazione necessaria, che deve partire da qui».
Chi la conosce personalmente sa che Laura Silvia è una che non teme la fatica. Sorride.
«Sa che quando ho seguito un corso militare per essere in grado di fronteggiare con cognizione
di causa le difficoltà nelle quali puoi incappare, anche se sei solo un giornalista, il comandante mi diceva che ero un lama?».
Un lama?!?
«Sì, proprio un lama perché portavo sulle spalle pesi di ogni tipo. Ho imparato a farlo senza risentirne fisicamente e, soprattutto, rendendomi conto che per raccontare le guerre devi sopportare il peso dell’assenza di pace che, per coloro che come me la cercano, è un vero tour de force».
S’inseriscono in questa ricerca di pace anche i suoi libri - «La sposa yemenita» e il più recente «Lettere da Guantanamo» -? «Come giornalista che opera in aree di conflitto ho una spinta antropologica verso la guerra. Ma non sono mai stata interessata all’adrenalina, alla sfida alla morte o, peggio, al nutrire me o la mia ambizione pascendomi del dolore altrui. Mi interessa come gli esseri umani reagiscono di fronte a eventi eccezionali. Infatti non mi piace definirmi «giornalista di guerra», a meno che non si aggiunga «che costruisce la pace». I due libri rispondono a due obiettivi simili e diversi: il primo a rendere nota la realtà dello Yemen prima della guerra, fuori dagli stereotipi del terrorismo e delle spose bambine, affrontandoli e contestualizzandoli in modo appropriato. Il secondo ad investigare su tutte le incongruenze successive all’11 settembre, per gettare luce su una storia sconvolgente il cui epilogo è ancora irrisolto e mette in dubbio ogni proclama occidentale sul rispetto dei diritti umani. In entrambi i casi tutto questo è avvenuto partendo da storie e persone reali, andando dal particolare all’universale».
Non le è mai capitato d’essere colta da un senso d’impotenza?
«O sì che mi è capitato! Il momento peggiore è stato nell’aprile 2017 quando sono andata alle Nazioni Unite, a New York, per una audizione sulla guerra in Yemen e sulle responsabilità delle parti in guerra per la morte dei bambini Yemeniti. Avevo centinaia di prove documentali, compresa la morte di un bambino malnutrito filmata da me, con enorme senso di colpa, in diretta, un documento che non ho, ovviamente, mai venduto ad alcun media per rispetto della dignità di quella creatura. Quella audizione venne ascoltata, ma nulla cambiò e nulla è cambiato fino adesso. Lo ammetto, mi sono depressa. Ho anche pensato di entrare nel mondo umanitario.
Come giornalista non posso non pensare alla possibilità di poter contribuire a cambiare il mondo. Non è infantile. Non è utopistico. È, semplicemente, doverosamente necessario. Quando ho deciso di raccontare non solo le vittime delle guerre, ma anche la società civile che resiste, ho capito che questa era la chiave, anche solo per cambiare una goccia nel mare. E ne ho avuto la prova».
Lei adesso è la coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano. Il giornalismo può essere insegnato?
«Certo. Le tecniche del giornalismo possono essere insegnate, così come la comprensione degli aspetti etici e deontologici. Quello che, dopo 18 anni di insegnamento, ho imparato dai miei allievi è che l’unica cosa che non si può insegnare è il senso della notizia. Su questo si gioca la carriera e il futuro di ogni aspirante giornalista. Non c’è storia: o ce l’hai o non ce l’hai. Come l’orecchio assoluto in musica».
A proposito di musica… Il pianoforte lo suona ancora?
«Purtroppo no. Non più. Ogni volta che torno davanti al mio pianoforte a coda, a casa di mia madre, mi prende un senso di impotenza per quello che è stato, per quei suoni che pensavo nella mia mente e sapevo riprodurre e ora non riesco più, con delle mani non più allenate. E, questa, è una Battaglia che, al momento, ho perso». ■
Essere liberali non è un reato
Di Siegfried Lohengrin Foto Ise LibrarySe un liberale vuole davvero essere proiettato nel futuro deve avere piena coscienza di sé, una coscienza che passa dall’orgoglio e dalla storia della propria tradizione. E anche dall’eredità dei padri e dei pensatori che hanno sempre reso ricca la contemporaneità del pensiero liberale.
Un rito di passaggio è però fondamentale: il rifuggire, ancor di più in questa epoca, la colpa latente del non essere di sinistra che buona parte della società benpensante affibbia a chi non pende da quella parte. Essere di destra, essere liberali non è un reato. Questo è un assunto imprescindibile nell’affrontare la politica, la quotidianità, le conversazioni, i confronti anche su temi che il progresso e la società impongono. Diffidare del ‘wokismo’, leggere autori o filosofi di destra, affermare con coscienza che la libertà senza responsabilità e regole non è libertà ma la soglia dell’anarchia, chiedersi seriamente che piega si stia prendendo il mondo non rende le persone di serie B o più fragili davanti a quello che molte anime belle vorrebbero fosse l’uniformità di pensiero e azione.
Solo da una presa di coscienza sincera e appassionata di ciò che si è, di ciò che muove una persona, è possibile avere un confronto franco e sereno, un’apertura a 360 gradi verso l’altro da sé, verso chi ha un’opinione differente.
Solo così possono emergere meglio quali siano le visioni del mondo e della società che il pensiero liberale, anche nel 2022, ha e vuole portare avanti. Un sentimento che dà forma e orgoglio a ciò che si rappresenta, è anche quello che può permettere di credere fermamente nel progresso, ma comprendendo anche che il progresso senza una tradizione e uno spirito del tempo ad accompagnarlo è un’auto impazzita sulla strada, che corre veloce finché la strada è dritta ma che alla prima semi curva prima sbanda e poi si accartoccia su se stessa.
Molta cultura degli anni ’60 e ’70 ha mostrato come se non si è di sinistra si può avere a stento diritto di parola, e questa parola non è neanche tanto ascoltata. I tempi sono cambiati, ma questa cosa si riflette ancora oggi, volta più volta meno, nel dibattito. Cioè che su certi argomenti o si fa parte di un determinato mondo o si è messi in un angolo, a sfogarsi come viene fatto con i bambini durante i capricci. Con un paternalismo scomodo e arrogante. Un liberale oggi che si parli di politica, cultura e società in tutte le sue declinazioni non deve vergognarsi di essere quello che è. Rivendicando il proprio pensiero alternativo a certe visioni sarà più arricchente un confronto che non deve essere da inferiore a superiore come qualcuno vorrebbe, ma tra pari. Senza avere alcun timore reverenziale.
Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli Spilli SpilliA spasso per Nara, la capitale «splendente» del Giappone che fu
Di Alberto LottiFondata nel 708 dopo Cristo per decisione dell’imperatrice
Gemmei, la città era destinata a diventare il simbolo del nascente potere imperiale. Oggi è un fiorire di templi buddisti, dimora di cervi sacri avvolti da una natura scandita dal canto delle cicale.
Il Giappone si è ritagliato uno spazio non trascurabile nel cuore dei ticinesi. Lo testimoniano le mostre che con regolarità si susseguono al Musec di Lugano, il festival «Japan Matsuri» di Bellinzona, i giardini della Casa da Tè al Monte Verità. Mentre i bambini del Museo in erba «cavalcano» la grande onda di Hokusai, maestro della serigrafia del periodo Edo, i più grandi leggono Banana Yoshimoto e Haruki Murakami e le generazioni intermedie si dilettano di anime e di manga.
Nessuna sorpresa, dunque, se siamo in molti a coltivare un sogno nel cassetto: scoprire il Giappone, quello vero, lontano, misterioso. Ma quali itinerari privilegiare quando giunge l’opportunità di realizzare questo sogno? Per i più avventurosi, il Giappone non è una visita guidata, ma «una via da percorrere», ci suggerisce «Autostop con Buddha» di Will Ferguson.
Una via che ci potrà portare a scoprire i tesori nascosti di Nara.
Nara, «corolla in fiore» nella poesia del Giappone classico «Come splendente corolla in fiore/splendente fiorisce Nara/la capitale»
Si legge nel «Man’yōshū», la più antica raccolta di poesie e poemi in giapponese classico, composti fra il 600 e il 759 d.C.
La città è una «corolla in fiore» che si muove tra simboli tradizionali e mondanità
In quanto prima vera capitale politica del Giappone, Nara è un luogo caro alla storia. Nell’anno 708 dopo Cristo, fu l’imperatrice Gemmei a ordinare l’edificazione della città. Nara era destinata a divenire il simbolo del nascente potere imperiale giapponese: non erano trascorsi neppure cinquant’anni da quando il capo di un influente clan si era proclamato imperatore, e la sua origine divina era stata riconosciuta. Nei decenni seguenti, l’impero si sarebbe strutturato sul modello organizzativo al
tempo prevalente, quello cinese: di qui lo schema architettonico della città, a pianta quadrata, modellato su Chang’an - la città della pace eterna - terminale della via della seta, al tempo capitale della dinastia Tang. Dalle missioni nella «terra di mezzo», finalizzate a studiarne gli schemi culturali e istituzionali, derivò una veloce diffusione del buddismo, delle sue scuole e dei suoi templi, alla cui collocazione nel perimetro della nuova città fu dedicata particolare attenzione. Ma come garantire la convivenza con le religioni autoctone? Nell’anno 752, prima di intraprendere i lavori di costruzione del maestoso Todai-Ji, l’imperatore Shomu decise di affidare al monaco buddista Gyogi il compito di cercare una risposta nel tempio scintoista della città. Qui, gli fu rivelato che il «kami», lo spirito guardiano, locale non era altro che una manifestazione del Buddha: ottenuto il placet divino, i luoghi di culto buddisti e scintoisti potevano convivere nella nuova capitale, dando vita a quell’ elegante connubio architettonico e spirituale che ancora oggi ci abbaglia.
Il grande tempio visto con gli occhi dei bambini
Nara è piena di bellezza. Una bellezza millenaria, discreta, che giunge a noi per il mezzo delle miriadi di templi, monasteri, opere d’arte, palazzi imperiali che ancor oggi ospita. Difficile scegliere quali menzionare in queste pagine: mi lascerò guidare dalle sensazioni provate percorrendo i singoli siti più che dalla loro
gerarchia architettonica.
È andata così: a partire dalla stazione e dalla zona parcheggi, ci si addentra in un vasto parco che porta verso il maestoso complesso del Todai-Ji. Ecco comparire una moltitudine di cervi, tanto più piccoli di quelli europei che in molti li scambiano per daini, capaci di trasmettere una serenità quasi palpabile. La tradizione narra che una potente divinità shintoista arrivò a Nara a cavallo di una cerva bianca: quale messaggero divino, questo animale è simbolo della città ed anche testimone delle sue radici religiose.
È in compagnia dei cervi che si giunge al complesso del Todai-Ji, «grande tempio orientale», cui si accede da una porta ciclopica sorvegliata da due spaventosi guardiani Nyō. Le smorfie delle loro bocche rappresentano la vocalizzazione della prima e dell’ultima lettera
dell’alfabeto sanscrito, insomma le nostre alfa e omega. La contrazione delle due lettere dà origine al suono OM, parola evocativa che indica l’assoluto. Lo avreste mai detto? Passate le forche caudine dei guardiani, si procede verso un padiglione dalle dimensioni imponenti. Nonostante che incendi e ricostruzioni ne abbiano ridotto la volumetria nel tempo, si tratta della più estesa struttura in legno al mondo. Al suo interno è presente una delle statue di Buddha più grandi del Giappone, costruita in bronzo, alta
15 metri e pesante 500 tonnellate: una visione impressionante nella semi oscurità della sala. La mano destra alzata in segno di incoraggiamento ci rassicura, ci induce ad una visita serena. Una delle colonne portanti presenta un foro alla base, si narra che sia della stessa grandezza delle narici del Buddha. Chi riuscirà ad attraversare il foro, dice la leggenda, si avvicinerà all’illuminazione, alla consapevolezza. In molti ci provano, di norma solo i bambini ci riescono, colmando il tempio di gioia e curiosità. Li incontriamo per la prima volta all’esterno del padiglione. Tutti, senza eccezioni, indossano un berretto giallo, sorridenti siedono ordinati sul selciato, formando quadrati perfetti quanto la pianta della città. Salutano, cordiali, in un inglese approssimativo, consapevoli che imparare a presentare il Giappone come una terra accogliente fa parte del loro processo di crescita. In un sistema scolastico che si posiziona fra i migliori al mondo, l’educazione della gioventù passa anche dalla visita alle culle della nazione, dall’esposizione alla convivenza fra le due religioni principali del paese. Osservando la fotografia, i nostri amici insegnanti noteranno la presenza di un solo monitore ogni circa cento bambini, cosa da noi improponibile. Cosa dire? L’autodisciplina è una dimostrazione di consapevolezza o un segno di costrizione? Questo è uno dei grandi interrogativi del Giappone moderno! Quando vedo questi bambini sgusciare agilmente dal foro della colonna, mi piace pensare che la prima ipotesi sia quella veritiera.
Dopo i templi buddisti, ecco un’immersione in quel sentirsi parte della natura che è così caratteristico dello scintoismo: l’ascesa al santuario Kasuga Taisha. Di colore vividamente rosso, è stato istituito contemporaneamente alla capitale ed è dedicato alla divinità protettrice della città. È famoso per i suoi boschi e per le migliaia di lanterne di bronzo, donate dai fedeli, che si trovano appese agli edifici, come per
quelle di pietra allineate nei suoi viali e nei sentieri circostanti, via per la quale si accede al santuario attraversando una serie di Torii, le porte tradizionali che simboleggiano la transizione dal mondano al sacro.
Il tempio di Enshō -ji ha fatto da modello a Yukio Mishima per il monastero Gesshū
Il canto delle cicale
tra templi squisiti
Non possiamo lasciare Nara che dopo aver colto un suo ultimo fiore nascosto, situato nelle vicinanze della città. Visitabile solo in occasioni particolari, è sede di una rinomata scuola di ikebana. Si tratta del complesso di Enshō-ji, del 1656, uno dei tre templi imperiali appartenenti alla scuola zen Myōshin. Di fattezze squisite, si distingue per l’elegante giardino a secco che ne precede l’entrata. Il grande scrittore Yukio Mishima se ne servì da modello per descrivere il monastero Gesshū. Qui, a conclusione della tetralogia del «Mare della fertilità», l’abbadessa Satoko indicherà all’amico Honda, ormai vecchio e vicino alla morte, come trovare la pace interiore. Nella scena finale, Mishima intravede in questo luogo il ritratto buddista del paradiso: un giardino in cui il solo canto delle cicale risuona.
Cervi sacri, bambini cortesi e canto delle cicale: questi i ricordi, unici di Nara, che un visitatore attento porterà sempre con sé. ■
La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto sanscrito danno origine al suono «OM»
A tavola imbrandita
Uno, due tre... stelle!
E chi si ferma è fuori
Di Pietro Filippini Foto di Fiorenzo MaffiLe guide gastronomiche sono amiche e nemiche dei ristoranti. «Le usi e ti usano», per dirla con chef Carlo Cracco. Perché in cucina, l’immobilismo è fatale. Così va il mondo dell’alta gastronomia. Ma la caccia alle stelle può anche logorare. Lorenzo Albrici spiega il perché.
tura nelle dinamiche delle guide specializzate. L’anonimato degli ispettori è diventato quasi una favoletta romantica e le guide affidano agli chef un ruolo promozionale che stride con la vocazione del critico. «È un gioco pericoloso, perché non è normale che una guida collabori con gli chef che recensisce. Dovessero, un giorno, mangiare male nei loro ristoranti, le guide ne scriverebbero in tono minore deprezzando l’immagine del testimonial che porta loro «like» e indotto? È un business paradossale».
Fossero gli squid games, quelli dell’omonima serie tv coreana, a bloccarsi senza fiatare, si salverebbe la pellaccia da una sorte atroce. In cucina, invece, l’immobilismo è fatale. Che siano cuochi a una, due o tre stelle, chi si ferma è fuori. Così va il mondo dell’alta gastronomia: ammaliante e rigoroso, prodigo e spietato, complicato. Un mondo legato a doppio filo alle guide di settore, che «usi e ti usano», chef Carlo Cracco dixit. Ed è vero, perché essere citati sulle bibbie dei gourmand porta lustro, visibilità, clienti e può aprire a nuove opportunità di lavoro. Allo stesso tempo, tuttavia, la caccia alle stelle può logorare. Chef sull’orlo di una crisi di nervi, datori di lavoro impazziti, famiglie rovinate, addirittura vite spezzate. Di tutti i colori. Come nei piatti: variopinti, scenografici, abbelliti da foglioline qua e là. E pensare che «un tempo con le pinzette si facevano solo gli orologi», ha constatato perplesso Frédy Girardet, un monumento della cucina. È l’adorazione della spettacolarità che pone un’asticella altissima dove talvolta si perde di vista la sostanza, schiavi (con la sindrome di Stoccolma) delle guide, ambite e brandite. Cuochi al servizio del proprio ego in primis, poi del cliente, «sempre più critico ed esigente», ci spiega Lorenzo Albrici, chef e patron della Locanda Orico, che ci accompagna in questa degustazione agrodolce fra le portate dell’ansia da stelle.
Che poi mica tutti si mettono ai fornelli con il tarlo delle guide. Albrici, nel 1998, dopo una lunga esperienza in prestigiosi ristoranti, apre nella sua Bellinzona. Il cielo nel mirino? No, memore delle follie conosciute nelle cucine pluristellate. Poi però dopo pochi mesi finisce sulla Gault & Millau, due anni più tardi ha già appun-
tato sulla giacca il «macaron» della Michelin. Et voilà, il gotha della critica gastronomica in Svizzera gli punta i fari e lo porta in alto. «Non volevo - ci spiega - perché provoca maggiore stress, ma l’ho accettato». E di buon grado, perché i riconoscimenti attirano i clienti: dagli avventori locali (oltre il 90% all’Orico) a chi mangia solo negli stellati, fino a chi, viaggiando, sbircia le insegne sul tragitto del navigatore. È un onere e un onore, che tutto sommato pone in una posizione di favore. Che può anche non durare. «Il declassamento fa parte del gioco. Certo, perdere una stella è uno smacco, fa rumore, oserei dire anche più di quanto non ne faccia un premio. Rimango comunque perplesso quando vedo colleghi che dopo aver giovato per anni dei punteggi delle guide, se «retrocessi» iniziano a dirne peste e corna», sottolinea lo chef bellinzonese, che non si nasconde: «Prima o poi, mi aspetto di perdere la stella». Ma non per un «downgrade» della qualità al servizio o in cucina, bensì perché i parametri delle guide sono cambiati. «Oggi c’è una tendenza ai «fuochi d’artificio», alla lavorazione estrema del prodotto, che apprezzo poco, a una perfezione sotto tutti i punti di vista che è difficilmente sostenibile economicamente e dal punto di vista pratico. E presto o tardi non faremo più parte di questo tipo di ristorazione. C’è chi ha detto che «bisogna fare centomila piatti per ricevere una stella, ma ne basta uno per perderla». E forse è vero: è sufficiente che un piatto resti in cucina tre secondi in più, che vada lungo un poco di cottura, che bruci qualcosina, che si metta un pizzico di sale di troppo… D’altra parte, non siamo dei robot».
Il diritto all’errore, che fa emergere una stor-
E allora il rischio di venir bocciati dalle guide aumenta, perché al di là della bravura del cuoco fra le pentole, l’alta ristorazione, oggigiorno, richiede grossi investimenti. Non a caso, sempre più spesso i ristoranti premiati dalle guide sono all’interno di hotel di lusso o godono del sostegno di fondazioni o grosse aziende alle spalle. Fino a qualche anno fa i grandi alberghi mandavano i clienti nei ristoranti gourmet, ora li hanno al loro interno. E anche se vanno in perdita, rientrano nel bilancio (economico e di prestigio) dell’offerta. Vuoi una, due o tre stelle? Bene, allora dalle posate agli arredi, dalla cantina dei vini al servizio, tutto dev’essere impeccabile. Maniacale. E anche in cucina, ça va sans dire. «C’è chi ha 20-25 cuochi per una quarantina di coperti, allora ci si può permettere di curare ogni minimo dettaglio, anche le famigerate foglioline. E i costi, nonché i prezzi, vanno alle stelle», puntualizza Albrici, senza voler demonizzare questa realtà. «Chi ha la possibilità di farlo, rimane nel giro, ma ci sono diversi esempi di grandi chef che hanno fatto un passo indietro, cambiando tipo di offerta. Noi non possiamo permetterci certi investimenti, siamo una sorta di mosca bianca. Abbiamo aumentato i prezzi solo del 2025% in oltre vent’anni, ma non lo faremo ulteriormente, nonostante le attuali difficoltà nel far quadrare i conti. Abbiamo gli stessi prodotti di qualità dei migliori ristoranti a livello internazionale, ma non dobbiamo dimenticarci in quale contesto operiamo».
Contesto geografico, economico e sociale. Il contesto attuale, in evoluzione. O involuzione. Tanti giovani vogliono diventare chef stellati prima ancora di essere cuochi. «Mi dà un po’ fastidio - ammette il patron della Locanda Orico - perché tutto è orientato al riconoscimento, il che produce piatti a misura di guida, estremizzati. Ci sono giovani cuochi che non hanno più le basi della cucina, ma sono abilissimi con le nuove tecnologie e a giocare con l’estetica. Conta più come anziché cosa c’è nel piatto. Piace alla gente? Forse sì, ma non sono così convinto». Perché anche il cliente è cambiato. «Prima chi entrava in un ristorante gourmet apprezzava tutto di più. Il «giorno x» di una cena o un pranzo stellato si fantasticava sul menu, i piatti, l’atmosfera. Oggi si trova già tutto su web e social media. E il cliente è molto più critico e meno rispettoso. E spesso, quando ci si confronta, si sentono cose che non stanno né in cielo, né in terra. Ma non sempre è così. E, in fondo, lavoriamo per loro, per la loro soddisfazione. E l’agitazione sta soprattutto lì: non è l’ansia da stelle, ma l’ansia da clientela». Che move il sole e l’altre stelle. E chi si ferma è fuori. ■
Reportage, romanzi, saggi...
Ma per scegliere un buon libro ci si può anche affidare all’olfatto
Cosa vi spinge a scegliere un libro piuttosto che un altro? Alcuni ammettono il potere del marketing, dando «la colpa» alla copertina particolarmente accattivante. Altri, soprattutto i lettori seriali, si basano sulla conoscenza degli autori, sulle uscite segnalate dalle librerie e fagocitano tutto quanto c’è a disposizione. C’è però anche chi si affida ad altri sensi, forse meno legati al concetto di lettura: il tatto e l’olfatto. Tra chi frequenta assiduamente gli scaffali delle librerie, infatti, non è raro imbattersi in lettori attratti dal profumo di un libro o dalla sua consistenza. Poco male, l’importante è leggere!
Laura Silvia Battaglia Giornalista di guerra
Il reportage più bello, complesso, completo e ampio su un paese chiave per la comprensione dell’Africa subsahariana e del colonialismo europeo.
Ricerca documentale magistrale, scrittura ricca di centinaia di interviste sul campo. Questo è il compendio del lavoro di reporting di una vita e, per me, un modello assoluto e irraggiungibile. Prendetevi tempo e stomaco per leggerlo. Non ve ne pentirete.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di figure di riferimento per affrontare un futuro problematico. Una di queste, poco nota ma di elevatissimo valore scientifico e morale è Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma nel 1968 e ispiratore del rapporto «I limiti alla crescita» del 1972. Nato a Torino nel 1908 Peccei fu economista anticonvenzionale, antifascista, e tra i primi a domandarsi se consumi, crescita demografica e inquinamento avrebbero potuto mantenersi all’infinito o si sarebbero scontrati con la finitezza del mondo. Colto, poliglotta, cosmopolita, generoso, lungimirante, onesto: sono le virtù che emergono dalla sua autobiografia «La qualità umana» uscita nel 1976 e ripubblicata da Castelvecchi Editore. Peccei morì nel 1984 ma il suo lucido pensiero è ciò di cui avrebbe bisogno la nostra politica per trovare una guida.
Raphaël Brunschwig
Si tratta di un’analisi junghiana de «Il fondo del sacco» di Plinio Martini. Un libro a mio avviso importante perché a partire da fatti storici permette di cogliere significati altrimenti invisibili della nostra realtà - e ci permette di prendere davvero coscienza del senso della storia del nostro Cantone. Un libro che, per dirla con le parole di chi ne ha scritto l’introduzione, fa emergere una domanda molto attuale e provocatoria: è la realtà sociale che crea la psiche, o è la psiche a creare la realta sociale?
Pippo Russo
Sociologo dello sport e scrittore
Massini inventa le vite di undici donne fenomenali, ognuna con la sua idiosincrasia, il suo sogno, la sua paura. Alternando leggerezza, ironia e commozione, travolge il lettore nella dirompente epopea di un gruppo di pioniere che osa sfidare gli uomini sul terreno maschile per eccellenza: il campo da calcio.
Questo è un libricino che si legge facilmente in una domenica pomeriggio; non di ultima uscita ma dal taglio accattivante. Una lettura che aiuta ad aprire gli occhi su innovazione e capitalismo in modo semplice ed efficace. Sfogliando le sue pagine impariamo a porci le domande per trovare valore in luoghi inaspettati. Un libro di economia che non si limita ai soli aspiranti imprenditori, ma adatto a chiunque voglia costruire il futuro e cerchi una lettura energizzante. Per costruire il futuro occorre un cambiamento...bisogna andare da 0 a 1.
Emanuele Colombo
Dall’Italia un immenso black out coinvolge a macchia d’olio l’Europa occidentale. Sperando di poter scongiurare questa eventualità il prossimo inverno.
Renato Martinoni
Professore emerito di letteratura italiana
Romanzo del Nobel per la letteratura, tradotto da Eugenio Montale, narra la storia di un colono che dal Midwest si trasferisce in California, in una terra fertile e vergine, fra sogni delusi e una religione malata.
«La qualità umana» di Aurelio Peccei Luca Mercalli Meteorologo, climatologo e divulgatore «Congo» di David van De ReybroukAgente zero zero Svizzera, sessant’anni all’ombra delle Alpi
Mamma vodese, studi (forse) a Ginevra, molti nemici «bernesi». Alla spia più famosa del mondo piace davvero molto casa nostra.
Monique Delacroix. Il nome vi suggerisce qualcosa? Probabilmente no. A meno che non siate anche voi «Al servizio segreto di Sua Maestà». Sì, perché Monique Delacroix altri non è se non la mamma dell’agente segreto più famoso in assoluto, quel James Bond tornato a rimbalzare agli onori della cronaca - soprattutto online - nei giorni della scomparsa della Regina Elisabetta II, grazie all’ormai famosissimo video girato in occasione delle Olimpiadi di Londra del 2012. Quello in cui Bond, interpretato nell’occasione da Daniel Craig, «preleva» la sovrana da Buckingham Palace per paracadutarsi con lei sulla cerimonia d’apertura dei Giochi. Per gli appassionati del genere, come chi scrive, un autentico capolavoro. Tornando a Monique Delacroix, a suo marito Andrew Bond e a loro figlio James - che in questi giorni ha compiuto 60 anni (piuttosto ben portati) - quello che ancora in meno sanno è che il personaggio di «mamma Bond» pensato da Ian Fleming era vodese (franco-vodese, per la precisione). In pratica, il legame che diventerà storico tra James Bond e la Svizzera, Ticino per una volta compreso, ha origine ancor prima della nascita di 007 come personaggio letterario dalla penna di Ian Fleming.
Anche perché le cronache mondane degli anni Trenta narrano di un giovane Fleming particolarmente presente nel gossip rosa all’Università di Ginevra, dove studia per un breve periodo e da dove parte spesso per uscite sugli sci, una sua grande passione che troverà ampio sbocco nei romanzi e nei film di 007. Non è quindi un caso se, come conferma anche il saggista «bondiano» britannico John George Pearson, tutti gli indizi letterari portano a pensare che anche James Bond - in uno dei molti nessi autobiografici con il suo creatore - abbia studiato a Ginevra. Il legame con il nostro paese andrà rinsaldandosi negli anni, con le Alpi a fare spesso da panorama - anche se sovente geograficamente fuori contesto - a scene entrate nella storia del cinema, come gli inseguimenti sulla neve di «La spia che mi amava» (1977), oltre a quelle precedenti di «Dalla Russia con amore» (1963) e successive di «Bersaglio mobile» (1985).
Questo fil rouge Svizzera-007 è del resto facilmente individuabile seguendo tutta la filmografia legata all’agente segreto. Qualche esempio? Fin dai suoi esordi, al polso di Bond c’è spesso (non sempre) un orologio svizzero. Dal Rolex Submariner delle origini all’attuale Omega Seamaster, per non citare che i più noti (ci sono in realtà anche Breitling e Tag Heuer). La prima «Bond girl» della storia è la bernese Ursula Andress, che interpreta la commerciante di conchiglie Honey Ryder in «Licenza di uccidere» , proprio il film d’esordio della saga, nel 1962 con Sean Connery. Due anni dopo, è il 1964, il legame con
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la Svizzera si rinsalda ulteriormente, quando Bond sfreccia sulla leggendaria Aston Martin DB5 sulle strade vallesane e del passo della Furka, diretto verso gli stabilimenti della Auric Enterprises AG a Stans, dove indagherà su uno dei suoi nemici più emblematici di sempre: Goldfinger. Le tracce più tangibili del passaggio di Bond
sul film, diventata vero e proprio luogo di pellegrinaggio per gli appassionati del genere.
I luoghi simbolo della saga di James Bond sono attrazioni internazionali. Anche in Ticino
dalla Svizzera sono però visibili, ancora oggi, nel Canton Berna, dove sono state girate molte scene della pellicola «Al servizio segreto di Sua Maestà», uscita nel 1969. Oltre a Berna e Mürren, infatti, lo spettacolare edificio sulla vetta dello Schilthorn-Piz Gloria, a quasi 3000 metri di quota, ospita un’interessante mostra permanente
«Last, but not least», per dirla all’inglese, troviamo la diga della Verzasca (per l’occasione «spostata» in Unione Sovietica), protagonista delle scene iniziali di «Goldeneye», pellicola del 1995, con un tuffo nel vuoto diventato famoso in tutto il mondo (eseguito per la prima volta dallo stuntman britannico Wayne Michaels) e poi riprodotto da decine di temerari del Bungee Jumping. Nelle ultime pellicole della saga, Bond ha invece un po’ snobbato le Alpi svizzere. Per il suo atteso ritorno sulla neve in «Spectre» (2015), infatti, la scelta è caduta - sponsoring oblige - su Sölden, in Austria, dove è stata girata un’impressionante sequenza di inseguimento. E in futuro? Difficile intuire le intenzioni dell’industria cinematografica. È probabile, vista la forte componente tradizionale della saga, che le «location» svizzere torneranno a fare da sfondo ai film di 007. Marketing, ovviamente, permettendo. Quel che è certo è che, dopo la scomparsa di Elisabetta II anche la spia più famosa del mondo sarà chiamata in qualche modo a reinventarsi. Ma sempre al servizio segreto di Sua Maestà. Anche sessant’anni dopo. ■