Beate Weyland
Un corpo da reinventare
Autore Beate Weyland b.weyland@unibz.it Layout e grafica Manuela Dasser dassermanuela@gmail.com 2014 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA via Comelico 3 – 20135 Milano www.guerini.it e-mail: info@guerini.it Prima edizione: maggio 2014
Copertina di Manuela Dasser
Fotografie Beate Weyland Manuela Dasser Printed in Italy ISBN 978-88-8107-367-2 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org.
grazie alle scuole per la disponibilità e l’ospitalità.
a tutti coloro che architettano per l’innovazione della scuola
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Introduzione – La scuola ha un corpo o è un corpo?
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Le coordinate pedagogiche delle scuole del futuro
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Sulle tracce dell’innovazione: pensieri e azioni
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Architetture per l’educazione
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Il bambino al centro
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I paesaggi dell’apprendimento
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La scuola: uno spazio speciale per tutti
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Abitare le intelligenze plurali
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Tutti in classe: densità eccezionale
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Il gusto della scuola
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Insegnamento e apprendimento
Conclusione: innovare lo spazio per una nuova comunità educante
Bibliografia
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In questi anni una serie di fattori stanno dando luogo a una profonda metamorfosi della scuola: le tecnologie da una parte rivoluzionano i processi informativi e conoscitivi, accelerano i meccanismi di recupero ed elaborazione dei dati, trasformano il modo di pensare alle cose; i cambiamenti sociali, culturali e politici, dall’altra, le impongono di fronteggiare le sfide delle pluralità culturali, di rispondere alle sempre maggiori segnalazioni di disturbi specifici dell’apprendimento, in aggiunta ai bisogni educativi speciali; non da ultimo lo star bene a scuola sta diventando un fattore di criticità segnalato non solo dall’utenza, ovvero i bambini e le famiglie, ma anche dagli insegnanti e dai dirigenti scolastici, talvolta frustrati e sovraccarichi di impegni e responsabilità. Per rispondere a queste sfide la scuola si sta avviando verso una ricerca d’identità a cui accompagnare euristiche o piani d’azione efficaci. È sulle tracce delle modalità più adeguate per incontrare e lavorare con la complessità, ovvero con la sostanziale differenza (particolarità, specificità) tra gli individui. Una diversità di tutti tra tutti che richiede metodi e tempi di lavoro differenziati, plurali, innovativi, architetture scolastiche che interpretino ed esprimano una nuova cultura dell’apprendimento, ma soprattutto luoghi del fare scuola che rispondano al sempre più incessante bisogno di tempi lunghi e distesi, di momenti di sosta e ristoro, di momenti di convivialità e di incontro da accompagnare al processo formativo. La scuola è in ricerca per dare forma e sostanza ai principi pedagogici da tutti condivisi e da tempo ormai presenti nella quasi totalità dei Piani dell’Offerta Formativa. Ma sta cercando una pedagogia e una didattica da vedere, da sentire e da toccare concretamente, ovvero anche attraverso gli spazi architettonici, l’allestimento degli ambienti, l’organizzazione dei materiali didattici. In questo senso si può iniziare a ragionare sul concetto di scuola come corpo. Che corpo ha la scuola? Di cosa è fatto? Come parla il corpo della scuola, se con questo intendiamo tutto ciò che accoglie, organizza, struttura, inqua-
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dra e informa l’azione didattica? Il corpo della scuola è fatto di architetture, quindi di muri e di finestre, di aule, androni e corridoi, di ambienti comuni e luoghi per le attività specifiche, spazi interni ed esterni, volumi che si distribuiscono nel contesto urbano. È fatto di materiali e colori, di arredi e suppellettili, di oggetti più o meno didattici. La fisicità della scuola non è un dettaglio, è il corpo che lei indossa. Come scrive Umberto Galimberti (1987) è il corpo che dà abito (luogo) e che è, al tempo stesso abitato. Questo libro mette a tema la metamorfosi della scuola a partire dalla sua dimensione fisica, concreta, corporea. La scuola è un corpo e ha un corpo e oggi è sempre più pronta a voler lavorare sulla sua fisionomia, sul suo portamento, sul suo abbigliamento. Questo lavoro comporta scelte precise, pensieri condivisi e azioni collegiali che ne tratteggino sempre meglio l’identità. I contributi si sostanziano con citazioni di grandi pedagogisti e studiosi che hanno segnato il percorso evolutivo delle scienze dell’educazione in direzione di una nuova cultura degli ambienti scolastici. Si corredano quindi di una serie di immagini di scuole e approcci pedagogico-didattici che possono fungere da esempio per l’innovazione delle istituzioni formative. L’urgenza di mettere a tema la relazione tra spazio e apprendimento nasce dalla richiesta sempre più diffusa di concepire la scuola come il luogo dell’apprendimento e non dell’insegnamento. Il peso diverso che si cerca di dare ai processi di apprendimento incide in modo determinante anche sugli spazi didattici e offre la possibilità di rileggere l’universo scuola in modo decisamente nuovo. Questo lavoro parla a coloro che credono ancora che la scuola possa essere una risorsa per gli individui, un luogo di incontro e di sviluppo, una cellula viva del tessuto sociale e culturale, un’esperienza di vita ricca di sollecitazioni. È un punto di partenza per non discutere più sul perché della scuola, ma sul dove e sul come fare scuola, pensando a un corpo da reinventare. ~ Beate Weyland
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Il bambino è fatto di cento.
cento mondi da scoprire cento mondi da inventare cento mondi da sognare.
Il bambino ha cento lingue (e poi cento cento cento) ma gliene rubano novantanove. Gli dicono: di pensare senza mani di fare senza testa di ascoltare e di non parlare di capire senza allegrie di amare e di stupirsi solo a Pasqua e a Natale.
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Gli dicono: che il gioco e il lavoro la realtà e la fantasia la scienza e l’immaginazione il cielo e la terra la ragione e il sogno sono cose che non stanno insieme. Gli dicono insomma che il cento non c’è. Il bambino dice: invece il cento c’è.
Le grandi riflessioni pedagogiche nate ormai un secolo fa sono oggi più che mai alla base del processo d’innovazione che sta incalzando le scuole. Sono concetti e teorie che appartengono al DNA del linguaggio pedagogico moderno e ormai connaturati al modo di pensare la scuola, anche se non ancora del modo di fare scuola o di essere a scuola. Offrirne una sorta di mappatura sintetica è un modo per fare il punto sugli ingredienti base, a partire dai quali ciascuna scuola può costruire il proprio profilo. Essi si rifanno ai grandi “ideali educativi” della storia del pensiero pedagogico contemporaneo (Scurati, 1991) e ci ricordano come la grande rivoluzione culturale che sta vivendo il lento dinosauro che è la scuola sia saldamente radicata nel contributo di grandi personaggi che hanno contrassegnato il nostro modo di pensare e sentire.
mondo Costruire il Le teorie dell’apprendimento hanno avuto sempre larga influenza sul mondo della formazione. Oggi, in particolare, si fa riferimento al costruttivismo, che in ambito psicopedagogico affonda le sue radici nell’opera di studiosi come Dewey, Vygotsky e Piaget. Il costruttivismo segna il passaggio da un approccio oggettivistico, centrato sul contenuto da apprendere (che esiste ed è dato, al di fuori del soggetto, e va travasato, nel miglior modo possibile, nella mente dello studente), a uno soggettivistico, centrato su chi apprende e sull’idea che la conoscenza non sia un dato separabile dal soggetto, ma che ogni sapere sia un costrutto personale, frutto di ricostruzione e rielaborazione delle informazioni e delle proprie esperienze. Di qui il ruolo del docente come “facilitatore di processo”, l’attenzione all’apprendimento attivo, alla collaborazione, all’apprendimento in contesto (situated learning). La scuola che poggia sulla filosofia dell’apprendimento costruttivista valorizza il soggetto che, mediante la riflessione sulle esperienze, edifica
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la conoscenza del mondo in cui vive. Addirittura, secondo gli autori più radicali, le idee che il soggetto si costruisce non arrivano nemmeno da risorse esterne, si “inventano” più che scoprirle (von Glasersfeld 2001). Anche nel pensiero di Seymour Papert, il fondatore del costruzionismo, le conoscenze “non possono essere trasmesse o convogliate già pronte ad un’altra persona”; ogni soggetto “ricostruisce una versione personale dell’informazione che l’interlocutore cerca di convogliare” (Papert 1994). Egli è quindi convinto che la conoscenza sia tanto più padroneggiata, quanto più alle concettualizzazioni mentali si affianca una parallela costruzione reale, effettiva del proprio modo di ragionare. Fondamentali nell’impostazione costruzionista sono gli artefatti cognitivi, ossia strumenti e dispositivi d’ausilio per operare sulle informazioni, espandendo in tal modo le capacità cognitive. Papert ha posto l’accento sulla necessità che i bambini imparassero a progettare il proprio percorso di apprendimento, a partire dalla discussione, il confronto, la costruzione, lo smontaggio e la ricostruzione delle informazioni in modo originale e creativo, e ha individuato nel computer lo strumento, o artefatto cognitivo, ideale per esaltare la loro creatività. Per lo studioso infatti “l’obiettivo è di insegnare in modo tale da offrire il maggiore apprendimento col minimo di insegnamento [...] e rispecchia un proverbio africano: se un uomo ha fame gli puoi dare un pesce, ma meglio ancora è dargli una lenza e insegnargli a pescare”. (Papert 1994, p.152).
cendo Imparare fa Già agli inizi del ‘900, per rispondere alla passività e al formalismo della scuola tradizionale, nasce un’espressione che non è più stata dimenticata e che percorre ancora oggi nostro il pensiero pedagogico: il concetto di “scuola attiva”, coniato da Pierre Bovet con la fondazione del Bureau international de
l’education nel 1925, diviene l’insegna della scuola moderna. Il movimento dell’attivismo connota tutta la coscienza pedagogica del Novecento e definisce la “scuola nuova” come un laboratorio di pedagogia pratica. In America è presente Dewey, in Germania Kerschensteiner, in Francia Demolins e Decroly, in Russia Makarenko. Ciascuno con le proprie specificità concordano nel definire la scuola attiva come “scuola con la vita e per la vita” non astratta e libresca, ma inserita nel vivo tessuto delle condizioni naturali economiche e sociali di esistenza. È una scuola che pratica i principi dell’attività (motoria, verbale, spirituale, operativa, artistica), dell’interesse, dell’integrazione tra studio e lavoro. L’attivismo si basa sul presupposto psicopedagocico piagetiano, secondo il quale il discente durante l’atto di conoscere deve svolgere un ruolo attivo e deve essere reso consapevole delle motivazioni e delle modalità educative che lo riguardano. Si prende dunque piena consapevolezza del fatto che la motivazione e l’interesse sono il motore dell’apprendimento. Nella scuola attiva si promuovono processi di risoluzione dei problemi attraverso la libera ricerca, comunque guidata da principi e criteri procedurali fondati. L’insegnante, attraverso l’esperienza e la sperimentazione, diventa anch’egli un ricercatore e creatore delle proprie qualità professionali. Nell’ottica deweyana si auspica in particolare una scuola in cui l’interazione tra operatività didattica e ricerca educativa sia continua e diretta (Dewey 1954). A partire da questi noti presupposti teorici sono nate diverse esperienze che hanno fatto scuola nel mondo. Dalla scuola naturale e libera di Summerhill (Neill 1969), alla scuola del fare di Célestin Freinet (19782002), alle case dei bambini di Maria Montessori (1909), per non parlare delle eccellenti esperienze italiane di Rosa Pizzigoni, con la fondazione della Scuola Rinnovata a Milano, delle scuole per l’infanzia delle so-
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relle Agazzi (1922), di Mario Lodi, Bruno Ciari e di Loris Malaguzzi con lo sviluppo del Reggio Approach. “Si impara a fare col fare”, questo è il comune denominatore di pensieri e azioni che hanno fatto scuola e che continuano a farla.
ura
Creare cult
Sulla scia degli studi di Vygotskij e soprattutto di Piaget va sicuramente ricordata l’opera dello psicologo statunitense Jerome Bruner (1967), il quale, partendo dalle teorie dei due studiosi, sviluppa un pensiero in cui la cultura gioca un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’individuo (non per niente la sua teoria viene definita culturalismo). Per Bruner qualsiasi atto di conoscenza nasce dalla mente che crea la cultura. Allo stesso tempo la cultura, in cui sono espresse le conoscenze stesse, crea a sua volta la mente. La scuola è il luogo privilegiato per l’acquisizione degli elementi costitutivi e dinamici fondamentali delle discipline culturali, o strutture. Ogni scienza come settore culturale, infatti, possiede una struttura intima e profonda, una legge e un principio di organizzazione secondo i quali si organizzano tutti i contenuti che vi rientrano. Di qui la proposta bruneriana di una didattica epistemocentrica, ovvero basata sulle discipline per le quali si offre all’alunno una chiara organizzazione di concetti, principi e informazioni, intendendola come “un modo di leggere la realtà, di interpretarla e di sentirla”. L’apprendimento è pensato in termini di attività-riscoperta-esplorazione, guidato da un insegnante che permette all’alunno di ritrovare le grandi leggi e i grandi principi dell’accumulazione culturale umana. La scuola diventa laboratorio di ricerca permanente in cui la cultura è un’interpretazione condivisa e collettiva della realtà. Il concetto di scuola-laboratorio di cultura è da ascrivere a Loris Malaguzzi, che insiste sull’importanza di dare forma e visibilità alle
idee e alle teorie che i bambini possiedono e che costruiscono confrontandosi con i compagni e con gli adulti. La scuola è un luogo dove si conosce attraverso i cento modi o i cento linguaggi di tutti e di ciascuno. È una scuola della creatività e dell’espressività, che dialoga con e sulla cultura e che produce cultura. Infatti: “... i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività ed il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare” (Malaguzzi 1995). Questi pensieri offrono oggi alle scuole i suggerimenti che giustificano la creazione degli spazi tematici all’interno degli edifici. Sono inoltre giá in corso diverse esperienze di scuole in cui le aule da luoghi di identitá del gruppo classe diventano laboratori disciplinari (italiano, geografia, storial, arte…) in cui si raccolgono i più diversi materiali per sollecitare la creazione di cultura. In questo testo un esempio è offerto dalla scuola primaria di Goldrein, mentre in contesto italiano sta riscuotendo interesse l’esperienza dell’Istituto Fermi di Mantova.
Pensare al
plurale
La scuola italiana negli ultimi anni è impegnata a promuovere una cultura dell’inclusione, finalizzata alla piena realizzazione del diritto all’istruzione e al successo formativo per tutti. L’Unione europea ha riconosciuto al sistema d’istruzione italiano “di essere un luogo di conoscenze, sviluppo e socializzazione per tutti” (Direttiva ministeriale 27.12.2012), dove sono accolte culture diverse (alunni non cittadini italiani) e attenta alle esigenze degli alunni diversamente abili, dei bambini con disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento (DSA) e con bisogni educativi speciali (BES). La scuola che accoglie a pieno diritto le diversità, la scuola delle pluralità culturali e dei cento linguaggi ha come punti di riferimento fondamentali la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner (1987), ossia la pluralità di facoltà intellettive e la
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riforma del pensiero di Edgar Morin (2000). Per il primo l’individuo ha una serie di abilità, o intelligenze che spaziano tra quella linguistica e musicale, logico-matematica, spaziale e corporeo-cinestetica, personale e interpersonale. Ciascuna con le proprie componenti e i suoi aspetti neurologici e interculturali. Il contributo di Morin consiste in una riflessione acuta e profonda sulla complessità e sulla necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di educare gli educatori al pensiero plurale, complesso, variegato, fatto di differenze. Secondo il filosofo: “La caratteristica propria di ciò che è umano è l’Unitas Multiplex: è l’unità genetica, cerebrale, intellettuale, affettiva della nostra specie, che esprime le proprie innumerevoli virtualità attraverso l’eterogeneità delle culture. L’eterogeneità umana è il tesoro dell’unità umana, che è il tesoro dell’eterogeneità umana” (1995). Come sostenuto da diversi autori, tra cui anche il già citato Loris Malaguzzi, la scuola plurale riconosce le diverse intelligenze e i diversi linguaggi dei bambini e li supporta, concordando sull’idea che “…o noi possiamo trattare tutti come se fossero uguali, il che semplicemente indirizza un tipo di intelligenza, o possiamo cercare di capire le intelligenze dei bambini e personalizzare, individualizzare l’educazione il più possibile” (Gardner 1997). Questa ridefinizione delle qualità diverse di tutti e di ciascuno conduce a una generale revisione delle didattiche scolastiche: stessi contenuti, diverse metodologie e diversi materiali, oltre che diverse misure per valutare per tutti. L’individualizzazione dell’apprendimento, diventa un diritto per ciascuno, sostenuto anche dagli studi di David Kolb sui differenti stili di apprendimento individuali (1984). Tenendo presente che il processo conoscitivo è riconducibile a quattro momenti fondamentali (incontrare, osservare, pensa-
re, provare) Kolb definisce le caratteristiche del cosiddetto circolo dell’apprendimento che si fonda sull’esperienza concreta, l’osservazione riflessiva, la formazione di concetti astratti, la sperimentazione attiva. L’apprendimento può iniziare da uno qualsiasi dei quattro punti e dovrebbe essere interpretato come una spirale, in un processo ricorsivo. Ciascuno conosce il mondo con il proprio stile di apprendimento e può farlo iniziando con l’osservare fatti ed eventi, piuttosto che con il fare, o c’è chi preferisce partire con la teoria piuttosto che con la sperimentazione. Una scuola plurale, dunque, rispetta l’accesso diverso di ciascuno al sapere e vuole essere il luogo che per eccellenza “prende dentro” tutti offrendo a ciascuno la possibilità di esercitare la propria speciale diversità.
nità Fare comu Il termine comunità in rapporto all’educazione oltre a indicare un luogo geograficamente identificabile e un contesto culturale specifico, si riferisce a un gruppo di persone che condividono un sistema di valori. “Le comunità sono aggregazioni di individui legati tra loro da volontà naturale e vincolati insieme da un complesso di idee e di ideali condivisi. Il legame e il vincolo sono tanto forti da trasformare gli individui da un insieme di ‘Io’ in un ‘Noi’ collettivo. In quanto ‘Noi’, i membri sono parte di una stretta rete di rapporti significativi. Questo ‘Noi’ generalmente condivide un luogo comune e, nel tempo, giunge a condividere sentimenti e tradizioni comuni che sono di sostegno” (Sergiovanni 2002, p.89). Vi è la tendenza oggi a pensare alla scuola come comunità, ossia come istituzione che si sta avviando verso un lento processo di apertura (mentale e insieme spaziale) al territorio, alla società, alla cittadinanza. Tra i valori a cui si fa spesso riferimento per descrivere la scuola comunità troviamo la partecipazione, la democrazia e la convivialità. A questo proposito risulta interessante re-
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cuperare il contributo controverso di Ivan Illich (1974), noto per la sua proposta di descolarizzare la società a vantaggio di una convivialità culturale diffusa. Illich critica la scuola per la tendenza a monopolizzare il processo di formazione e ad assumere immancabilmente un carattere autoritario, burocratico, passivizzante. Una scuola che privilegia la ricezione sull’iniziativa e l’obbedienza sulla cooperazione, oltretutto, non promuove l’eguaglianza sociale, cosi come si propone, ma incrementa semplicemente la diseguaglianza, perché le spese per estenderla indefinitamente rappresentano un peso economico a lungo andare insostenibile e iniquamente distribuito. La proposta di Illich è quella di considerare la scuola come una tra le tante agenzie nel campo dell’istruzione e della formazione, quindi di “despecializzare” il servizio educativo e istruttivo a vantaggio della sua diffusione come attività del corpo sociale per una “educazione di tutti da parte di tutti” aumentando le qualità didattiche di tutte le istituzioni (Illich 1972, p. 52). Pensare alla scuola comunità significa quindi estenderne il raggio d’azione alla cittadinanza e scioglierne lentamente i confini istituzionali. Significa ricondurre il problema educativo al problema delle scelte culturali, ovvero alla capacità di orientarsi tra i diversi sistemi globali di costruzione dell’idea dell’uomo e del suo vivere. Ciò che oggi è più che mai attuale della proposta di Illich è l’idea di concepire la scuola come “istituzione conviviale” intesa come “rete per facilitare una comunicazione o una cooperazione nata dall’iniziativa dei singoli”. La convivialità si esprime nella libertà di accesso alle cose e agli strumenti, libertà di trasmettere capacità, liberazione delle potenzialità critiche e creative delle persone, liberazione degli individui dall’obbligo di uniformarsi alle indicazioni delle professioni precostituite. Dalla scuola alla “società educante”, dunque, ovvero a un sistema di convivenza che sia nativamente e vitalmen-
te volto all’attuazione di interventi di educazione-istruzione tra le istituzioni. Una tesi audace quella di Illch: sostituire “agli imbuti dell’istruzione scolastica obbligatoria ‘trame’ o ‘reti’ di opportunità e di rapporti, liberamente utilizzabili e gestibili sulla base dei bisogni personali”. Le sue riflessioni, tuttavia, sono oggi di grande attualità, soprattutto se si pensa come le tecnologie e Internet stanno rivoluzionano i processi informativi e conoscitivi. Queste accelerano i meccanismi di recupero ed elaborazione dei dati, trasformano il modo di conoscere, assegnano alla scuola un ruolo nuovo, da luogo di accesso al sapere, a centro di elaborazione delle conoscenze e catalizzatore di incroci culturali formali e informali. Si sta configurando quindi una scuola che diventa il luogo per fare comunità intorno al sapere. Risorsa formativa per tutti i cittadini del quartiere o del paese, un luogo aperto dove gli scambi tra i vari soggetti sono auspicati e valorizzati. E come ci raccontano le esperienze emiliane delle scuole d’Italia più innovative al mondo, la qualità consiste nel cercare sempre di più un dialogo e una collaborazione con gli altri enti sul territorio, per trovare anche altrove gli strumenti e i contesti per un apprendimento significativo.
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Andare olt
La scuola di oggi e di domani supera i concetti legati alle scuole di metodo, in un certo senso dogmatiche. Non solo il modello della scuola pubblica, ma anche le scuole note e conosciute come quelle montessoriane, steineriane, orientate al Jenaplan, freinetiane ecc.. Ciascuna di esse segue pedissequamente il pensiero del proprio pedagogista di riferimento, sviluppando da una parte un’eccellenza, attraverso l’approfondimento puntuale dei riferimenti teorici e il tentativo di interpretarne e aggiornarne il metodo. Dall’altra però stanno nascendo diversi altri modelli di scuola in Europa e oltre oceano
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che interfacciano i diversi metodi in modo plurale, aperto, dinamico e comunitario. Sono le scuole salotto, scuole del benessere e naturali, le scuole associative, interattive, scuole situazionali, circostanziali, interstiziali, e scuole nel bosco, per citarne solo alcune (Hille, 2011). Tutte scuole che definiscono un preciso profilo pedagogico. Il dialogo attivo con i grandi della “Reformpädagogik” (Eichelberger, Laner 2007) è fondamentale, ma il grande lavoro oggi consiste nel formulare nuove concezioni della scuola del presente. Secondo l’auspicio di Morin, è necessario pensare alla formazione dell’ “identità terrestre”, capace di radicarsi profondamente nella propria specifica cultura ma anche di allargare la “comprensione” e la “partecipazione” fino ad abbracciare l’umanità intera. “La missione dell’insegnamento – scrive infatti Morin - è di trasmettere non del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere e pensare in modo aperto e libero” (Morin 2000, p. 3). In quest’ottica la scuola è chiamata a fare sintesi dei grandi guardagni pedagogici e delle buone esperienze concrete per costruire
Reggio Children e i 100 linguaggi per esprimersi Nelle scuole che nascono dalla pedagogia di Loris Malguzzi l’atelier è il luogo in cui si concentrano, o dai quali dipartono, le esperienze legate all’arte e all’impiego dei più diversi materiali per dare voce ai cosiddetti “cento linguaggi dei bambini”. Qui i materiali di uso comune e di riciclo vengono trasfigurati e utilizzati per lo sviluppo della creatività. È proprio attraverso l’esplorazione dei materiali grezzi che si coglie l’importanza della pluralità dei linguaggi e che si sviluppa l’attenzione alle dimensioni anche sensoriali dell’esperienza umana. La cultura dell’atelier, infatti, nasce per raccogliere l’argomentazione, la bellezza, le idee, i pensieri dei bambini. È in sintonia con la proposta di sostare sui quesiti con diversi linguaggi, rispettando le diverse modalità di apprendere. Sostiene un approccio interdisciplinare vicino al naturale modo di conoscere dell’essere umano e dell’individuo.
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Per l’esplorazione e l’espressione vengono messi a disposizione vari materiali: - materiale di progettazione: - materiale di scarto, plastica, stoffe - materiali naturali: legno - materiali filtranti: vetro, plexiglas, specchi - strumenti ottici - materiali per il lavoro - possibilità di uso del computer, telecamere, macchine fotografiche, webcam, ecc. La scuola del Reggio Approach è un luogo dedicato, dove si dà valore e significato alla cultura prodotta dai bambini e si assume la responsabilità continua di creare le condizioni per rendere concreti e visibili i processi conoscitivi dei bambini. Essi cercano di teorizzare sulla conoscenza e il sapere, cercano strutture per comprendere il mondo e la scuola diventa il luogo che accoglie i modi di dare senso all’universo dell’infanzia.
La scuola primaria di Goldrain La scuola primaria di primo grado di Goldrain è uno tra i tanti interessanti esempi di scuole pubbliche in Alto Adige che si orientano alla didattica attiva, ispirandosi ai grandi pedagogisti del movimento della Reformpädagogik in area di lingua tedesca e dell’attivismo pedagogico in area italo-anglofona (www.blikk. it/angebote/reformpaedagogik). La scuola non ha più le classi, ovvero le tradizionali aule
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sono diventate atelier tematici ( per l’intelligenza logico-matematica, per quella linguistica, per quella naturalistico-scientifica ecc.). I bambini, ordinati in pluriclassi si trovano al mattino in una di queste aule per il momento del saluto e degli scambi plenari, per poi disperdersi nei diversi atelier. La scuola segue in particolare il metodo pedagogico della cooperazione educativa di Celestin Freinet.
Il metodo della “pedagogia popolare”, elaborato da Celestin Freinet (1896-1966) viene anche chiamata scuola attiva. Nella scuola vengono introdotti elementi di uso quotidiano, come l’apprendere ad andare in bici. Le correzioni diventano attività di supporto tra alunni e docenti, il punto sul quale questo metodo si sofferma in modo particolare è la cooperazione. La cooperazione viene vista come strumento educativo e proposto mediante l’elaborazione dei giornali scolastici, l’organizzazione dei consigli di classe e lavorando assieme negli atelier. Freinet cerca di
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dare dignità al “prodotto culturale autonomo” sviluppato oggi con le moderne tecnologie, la stampa tipografica o il computer. I bambini lavorano nella classe e negli atelier, lavorano in modo parallelo e autonomo seguendo un piano settimanale. Parlando di atelier prendiamo in considerazione l’atelier all’aperto, atelier legno, metallo, ceramica, tessuto, ecc. .Le classi sono di età mista e la scelta dell’attività è libera e viene di regola fatta insieme. L’apprendimento ha luogo mediante l’attività (leggere, scrivere, contare, cercare, costruire) e la scoperta.
“Se ascolto dimentico se vedo ricordo se faccio capisco.� Antico proverbio cinese
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Se parliamo di scuole del futuro e ne descriviamo le coordinate, non possiamo che esprimere la necessità di un processo di cambiamento. Innovazione: questa è la parola d’ordine che mette oggi sull’attenti il mondo della formazione in senso ampio. Non si tratta solo di auspicare un rinnovamento delle pratiche pedagogico-didattiche, ma di pensare anche a processi di ammodernamento, riconfigurazione, riforma, nuova definizione degli ambienti destinati alla formazione. Ma analizziamo con più attenzione il concetto di innovazione e cerchiamo di rintracciarne gli elementi caratterizzanti per pensare davvero a una scuola nuova, tutta da reinventare. L’innovazione si trova quando è in atto un processo di cambiamento migliorativo. Questo cambiamento, come già evidenziato da Cesare Scurati (1997, pp.70-74), può essere strutturale, riflessivo-esperienziale, umanistico-antropologico.
ne L’innovazio strutturale L’innovazione strutturale pensa alla scuola come sistema e come organizzazione e individua i riferimenti teorici che giustificano una strategia di trasformazione di questo sistema organizzativo. Ha un intento dichiarativo, ovvero descrive chiaramente le coordinate entro le quali si muove il cambiamento, e si avvale di un apparato istituzionale per mettere a punto le sue strategie. In questi ultimi anni si possono rintracciare interessanti segnali di innovazione in questo senso:
L’agenda digitale dell’Unione europea sostiene l’innovazione indicando, tra i diversi aspetti, l’importanza di modelli didattici che privilegino un approccio attivo, collaborativo e personalizzato; l’apertura dello spazio aula ad ambienti di apprendimento virtuale e sistemi di gestione dei contenuti
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online; la valorizzazione della produzione autonoma di contenuti e la realizzazione di spazi informali dell’apprendimento.
La politica scolastica italiana segue da tempo un’innovazione della didattica sostenuta dalle nuove tecnologie puntando dapprima sull’acquisto della strumentazione e sull’alfabetizzazione tecnologicoinformatica e quindi sulla creazione delle cosiddette classi 2.0 (con l’obiettivo di arrivare alla diffusione delle scuole 2.0), che sviluppano progetti didattici e organizzativi orientati a un nuovo modo di fare scuola (Rivoltella 2013).
In questi ultimi anni, inoltre, il MIUR ha sviluppato anche un’attenzione
particolare ai contesti dell’apprendimento e alle tematiche legate al dialogo tra spazio e apprendimento. Con il progetto “abitare la scuola” l’Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE) ha recensito diverse scuole con approcci innovativi e ambienti che rispecchiano maggiormente la relazione tra spazio e apprendimento e sta promuovendo importanti iniziative sul tema, tra cui le recenti Linee guida per l’edilizia scolastica in cui si legge chiaramente come all’infrastruttura tecnologica sia da affiancare necessariamente un software didattico d’eccellenza, centrato sul dialogo culturale, sull’apprendimento diffuso, sulla ricerca e la laboratorialità.
Nel Marzo 2014 il Governo Renzi esprime la volontà di destinare investimenti e liberare fondi per l’edilizia scolastica. Si parla di 5000 Cantieri per la scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito una unità di missione per mappare le risorse e per offrire modelli di progettazione che interpretino le Linee guida per l’architettura scolastica 2013.
Come già anticipato, si stratta di ipotesi strategiche, di cornici di riferimento e di strumenti di azione. Questa tipologia di innovazione dimostra chiaramente la volontà politica di registrare un processo di cambiamento in atto e di volersene assumere la responsabilità.
ne L’innovazio le sperienzia riflessivo-e L’innovazione riflessivo-esperienziale considera il cambiamento da apportare nella scuola come un evento socio-culturale, configurandosi come un’esperienza di uomini, più che di apparati organizzativi e strutture istituzionali. Applicata al mondo della scuola trova riscontro agli inizi del Novecento nei pensieri di formidabili pedagogisti come John Dewey, in ambito anglofono, Georg Kerschensteiner in ambito germanofono, Edmond Demolins e Ovide Decroly in Francia, le sorelle Agazzi e Maria Montessori in Italia. Dopo la Prima guerra mondiale si aggiungono anche studiosi come Roger Cousinet (che puntano su istanze di socializzazione) e Celestine Freinet (che si concentrano sulle tematiche della cooperazione). Ha trovato la sua realizzazione esperienziale in straordinarie scuole, tra cui Summerhill di Alexander Neill, che si fondava sul raggiungimento fondamentale della felicità del bambino, la scuola di Barbiana di Don Milani, che intendeva offrire accesso alla cultura a tutti per amore della comune dignità umana, la scuola comune di Makarenko, che si basava sui principi dell’autogoverno e dell’autodisciplina per creare una struttura totalizzante unitaria e organica, per indicarne solo alcune. Tra queste esperienze, diverse hanno trovato la loro specifica metodologia e la loro giustificazione teorica, riuscendo a diventare vere e proprie scuole di metodo, pensiamo alle note case dei bambini di Maria Montessori, alle scuole Waldorf di Rudolf Steiner, alle scuole e nidi di infanzia che si ispirano al pensiero di Loris Malaguzzi a Reggio Emilia, o alle esperienze meno
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note come la Rinnovata Pizzigoni a Milano, che punta molto sul coinvolgimento dei genitori nel sostenere, organizzare, condividere il fatto educativo e formativo. Come noto, le scuole innovative si connotano per le seguenti caratteristiche: si orientano al fare, più che al sapere, sono aperte all’esperienza diretta e concreta del reale, promuovono l’apprendimento attivo, il lavoro libero (freie Arbeit) o per stazioni, sostengono la definizione condivisa tra alunni e insegnanti dei piani di lavoro settimanali, mensili, annuali, puntando su una generale stima e fiducia nelle capacità del bambino; alternano la lezione a piccolo gruppo a momenti plenari, attivano il lavoro per progetti, dispongono di un ambiente didattico attrezzato con materiali grezzi e strutturati, pensano a una pagella senza voti e accettano anche una organizzazione senza classe specifica e basata sul principio delle pluriclassi. Tutto il processo di rinnovamento riguardante gli approcci e i modelli didattico-pedagogici del Novecento si rifà al concetto di “scuola attiva”, messo a fuoco da Bovet con la fondazione del Bureau International de l’Education nel 1925 e divenuto poi l’insegna della scuola moderna. Essa nasce come reazione alla scuola tradizionale, concepita come passiva, formalistica, incapace di adeguarsi alle esigenze degli alunni. Di contro si impegna a mettere il soggetto che apprende al centro del processo didattico-educativo stimolando l’alunno a crescere e maturarsi attraverso attività concrete. In particolare intende costruire un patto di responsabilità tra insegnanti e allievi per garantire spazi di autonomia e di ricerca autentica nei processi conoscitivi (Scurati 1996). La scuola rielabora tuttora attivamente i principi di questi grandi pedagogisti e si orienta a uno stile didattico fondato sulla responsabilità e sul rispetto, concepisce l’apprendimento come un’attività di espansione individuale e di rilevanza per i processi di socializzazione e quindi organizza-
ta per coppie, gruppi di apprendimento, in pluriclassi, classi eterogenee, dove si valorizza la libertà di movimento e di parola, si sostiene sempre di più la didattica per progetti e il cooperative learning. L’innovazione riflessivo esperienziale è in continua espansione. La didattica scolastica si orienta sempre di più a uno stile fondato sulla responsabilità e sul rispetto, concepisce l’apprendimento come un’attività di espansione individuale e di rilevanza per i processi di socializzazione e quindi organizzata per coppie, gruppi di apprendimento, in pluriclassi, classi eterogenee, dove si valorizza la libertà di movimento e di parola, si sostengono le attività per progetti e il cooperative learning. L’esperienza consolidata di Reggio Emilia sul rapporto spazi, ambienti e relazioni (Ceppi, Zini 1998), la diffusione delle scuole come comunità di vita secondo il Piano Jena nei contesti di lingua tedesca, che promuovono una didattica fondata sulla progettazione autonoma e partecipata dei percorsi di studio e approfondimento, il riconoscimento pubblico e la diffusione nazionale e internazionale delle scuole a orientamento montessoriano e steineriano, sono chiari esempi di questo processo che innova il modo di fare scuola in Italia e anche all’estero.
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L’innovazio umanistica
L’innovazione umanistica considera il cambiamento come un fatto complessivamente umano, promosso dall’uomo per l’uomo in un clima di relazione e di reciprocità, in cui gioca un ruolo fondamentale la costruzione, l’elaborazione e la verifica condivisa dei significati del mondo e delle esperienze umane. Applicata alla scuola ne ridefinisce completamente la fisionomia e la mission. Essa diventa il luogo dell’umanizzazione, un ambiente umano dove recarsi con piacere, uno
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spazio in cui la relazione asimmetrica definisce le coordinate dell’apprendimento autentico e vissuto. È qui che al concetto di umanizzazione della scuola si lega il tema dell’innovazione degli ambienti di apprendimento. Questa è l’occasione per considerare una volta l’umanitá della persona in termini nuovi, non solo mentali e spirituali, ma anche profondamente fisici e concreti. La scuola ha una sua materialità, una sua fisicità che si riflette negli spazi scolastici, negli arredi, negli oggetti che la popolano. Essi possono promuovere l’educazione oppure sostenere la “normalizzazione” degli allievi; essi possono lasciare spazio al corpo e riconoscere la vita di relazione (Drago 2002) oppure stagliarsi nei rigidi schemi classe/corridoio, del tutto impersonali che conosciamo tutti. Il grande pedagogista statunitense John Dewey ha descritto con efficacia come l’arredo scolastico e il modo di organizzare lo spazio nell’aula siano strettamente legati all’idea di scuola. “Anni addietro io giravo per i negozi di suppellettili scolastiche in città in cerca di banchi e seggiole che fossero più adatti da tutti i punti di vista – artistico, igienico ed educativo – ai bisogni dei fanciulli. Incontrammo molte difficoltà a trovare ciò di cui avevamo bisogno, sino a che un negoziante più intelligente degli altri uscì in questa osservazione: “temo che non troviate quel che desiderate. Desiderate qualcosa con cui i ragazzi possano lavorare; questi sono fatti tutti per ascoltare”. Avete in queste parole la storia dell’educazione tradizionale. Come il biologo con un osso o due può ricostruire l’intero animale, così noi, se rievochiamo dinanzi alla nostra mente un’aula scolastica ordinaria, con le sue file di banchi disposti in ordine geometrico, addossati l’uno all’altro in modo da lasciare il minore spazio possibile al movimento degli alunni, banchi quasi
tutti delle medesime dimensioni con il poco spazio che basta a contenere i libri, matite e carta, con l’aggiunta di un tavolo, di qualche seggiola e le pareti nude o adornate col minor numero possibile di quadri murali, possiamo ricostruire l’unica attività educativa che sia possibile svolgere in siffatto spazio. Tutto è fatto “per ascoltare”, - poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente”. (Dewey 1967, p.21-22) L’aula così da prigione dell’insegnamento diventa un punto di riferimento per l’apprendimento autentico del gruppo di riferimento, ma anche il punto di partenza per l’esplorazione e l’appropriazione del grande paesaggio della conoscenza che diventa la scuola tutta. I corridoi si animano con le loro librerie e con scaffali a vista contengono i più diversi materiali didattici, oltre che i manufatti dei bambini e tanti altri oggetti. I grandi androni deserti tra le aule diventano il cuore della scuola e si vivificano con le piante, i grandi tavoli per gli incontri più o meno informali, i divani dove sostare. Nascono dal nulla molto probabili angoli di lavoro che invitano a momenti di approfondimento, le aree lettura diventano anche i luoghi per la sosta e il riposo, le zone per il dialogo e la collaborazione (Hille 2011). L’innovazione umanistica nella scuola conduce a prendere davvero in considerazione un concetto forse inconsueto: la scuola salotto, in contesto germanofono la cosiddetta “Schulwohnstube” (immaginata da Peter Petersen nel famoso Piano Iena), un luogo di soggiorno accogliente e caldo che risponde ai criteri dell’estetica, dell’ordine, dell’intimità e della protezione finalizzati alla conquista dell’appartenenza, della fiducia e dell’interesse per la conoscenza, tutti elementi che ancora una volta si rifanno ai noti bisogni fondamentali della persona umana descritti da Abraham Maslow (2010).
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Umanizzare, la scuola e per questo innovarla, cambiarla, significa tuttavia non solo studiare l’ambiente scolastico per consentire il movimento e l’azione, la ricerca e la scoperta, la creatività e l’invenzione. È necessario anche e soprattutto un patto di responsabilità per abitare gli ambienti in modo più umano. Fidarsi gli uni degli altri, quindi costruire patti di fiducia basati sulla reciproca responsabilità (tra adulto e bambino), sull’autodisciplina, sulla solidarietà, significa quindi informare lo spazio di un modus facendi tutto pedagogico, orientato a un sistema di valori condiviso e proiettato verso il cambiamento migliorativo di tutti i soggetti della comunità scolastica. Come scriveva Abraham Maslow, il bisogno più evoluto dell’uomo è l’autorealizzazione, ovvero trovare la più matura manifestazione di sé. La scuola può diventare il luogo in cui si attivano i processi per arrivarci, ma è necessaria una vera e propria rivoluzione copernicana. I progetti di stretto dialogo tra pedagogia e architettura (Attia-Weyland 2013; Ceppi, Zini 1998; Montag Stiftung 2010; Lippman 2011 per citarne solo alcuni) offrono interessanti riflessioni a favore di un nuovo modo di concepire la scuola. Una scuola, dunque, che diventi architettura per l’apprendimento, infrastruttura della conoscenza. Un luogo che sia fatto per la comunicazione e il collegamento, per favorire la partecipazione e la condivisione di principi e valori, i veri pilastri del fare comunità. Le aule scolastiche si aprono, i grandi muri divisori vengono rimossi per ripensare lo spazio in sistemi più piccoli, autonomi e intercomunicanti, come angoli di lettura e lavoro, si trovano le nicchie per disporre materiali didattici, di cartoleria e gli amati libri alla portata e a disposizione di tutti. Le salette per le attività di gruppo si interfacciano con spazi più ampi per i momenti di incontro plenario e per le feste comunitarie o le presentazioni
dei progetti. Non hanno più senso le aule di sostegno, ogni spazio riservato è un luogo speciale e di sostegno per tutti. Ciascuno con i propri bisogni, ciascuno con le proprie differenze e specialità. Così anche la biblioteca, come luogo dedicato del libro, non trova più la sua giustificazione. I media, che vanno dal libro alla radio, al computer, sono distribuiti tra gli ambienti e danno forma e sostanza al paesaggio dell’apprendimento diventando la concreta traccia di un laboratorio e salotto culturale. L’aula tecnologica, o il laboratorio di informatica, sparisce perché la tecnologia è diffusa, normalizzata, invisibile, sia pur presente. Si vivificano invece i laboratori del fare e dell’arte, come i luoghi in cui la scuola si sperimenta, produce, inventa. Nasce l’atelier del gusto, che più che una mensa, accoglie la pancia della scuola educando ai sapori e all’eleganza nello stare a tavola con gusto. La scuola del futuro nasce da una sintesi tra i tre fondamentali elementi dell’innovazione sopraelencati: sono necessarie buone esperienze di fare scuola; queste per consolidarsi devono darsi una struttura, trovare il supporto politico e socio-culturale; gli interventi strutturali devono essere interpretati ed adattati alla realtà delle cose e quindi umanizzati. È, infatti, importante saper trasformare l’entusiasmo dell’esperienza di cambiamento, in organizzazione critica e sistematica dei traguardi e delle scoperte, tenendo sempre fermo un orientamento assiologico ai valori, a beneficio dell’uomo umano (Scurati 2008).
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La piazza della scuola Montessori a Bolzano (IC Europa 2, via Parma) L’istituto comprensivo Europa 2 di lingua italiana a Bolzano, ha assegnato a un ciclo di classi dalla prima alla quinta uno specifico spazio per sperimentare una didattica basata sul metodo Montessori. Gli insegnanti svolgono le attività insieme ai bambini a partire dal materiale montessoriano, pur aggiornandone alcuni aspetti e introducendo nuovi oggetti e approcci. Le cinque classi si ordinano intorno a uno spazio centrale condiviso. Luogo dove i bambini hanno accesso al vario materiale didattico, diventando una piazza d’incontro e lavoro. Oltre al tipico materiale montessoriano, le maestre assieme ai bambini elaborano di continuo nuovi ele-
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menti. Enciclopedie geografiche, mini teatri in cui gli attori diventano le parti delle frasi (la parola, l’articolo), cartelloni e oggetti che stimolano l’attività e l’esplorazione. In questo spazio condiviso i bambini delle diverse classi spesso si affiancano e si mescolano, interagiscono e si aiutano. Si sperimenta il cooperative learning e i bambini strutturano le attività “libere” su calendari di lavoro settimanali, mensili, semestrali. L’ambiente è molto aperto e libero e i bambini lavorano spesso in gruppi. Sono da notare i diversi lavori manuali realizzati dai bambini in seguito alla spiegazione di alcune tematiche di storia o geografia, come ad es. le piramidi.
Montessori di Bressanone La scuola primaria di primo grado in lingua tedesca di Bressanone è pubblica e sposa l’aderenza al metodo con le richieste ministeriali della scuola statale ad arte. Ciò che qualifica questa scuola è la grande attenzione che viene data allo spazio dell’aula, un ambiente ampio, composto generalmente da due vani (una doppia classe) con una parete mobile tra loro. In questo spazio ciascuna classe ha il proprio materiale di lavoro, oltre che una serie di scaffalature per raccogliere i quaderni e i materiali dei bambini. Il materiale di questa scuola è disposto in modo ben visibile e ordinato. Le varie categorie - matematica, geometria, lessico, storia - sono divise in modo chiaro e definito. Anche i bambini sono responsabili del materiale didattico; mettere a posto, control-
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lare che non manchino delle parti è compito loro. Ricordiamo infatti che per Maria Montessori l’ordine non è un valore estrinseco da trasmettere, bensì una profonda caratteristica del bambino, parte del suo carattere, elemento fondamentale di quello che lei chiamava il “processo di normalizzazione”, secondo il quale è normale che il bambino sia ordinato, è un suo bisogno specifico. Il tappeto delimita lo spazio dove lavora un bambino o un gruppo di bambini. È un’area dove concentrarsi, un’isola per l’apprendimento. Circoscrivere a questo luogo delimitato l’impiego di un determinato materiale offre all’allievo anche la possibilità di interrompere il processo di apprendimento, di contrassegnarla col proprio nome e di riprendere secondo ritmi e tempi flessibili.
La scuola Montessori.Coop a Bolzano La scuola elementare montessoriana al Colle di Bolzano è privata, per questo interpreta il metodo in maniera a volte molto diversa da come avviene nella scuola pubblica. Questa scuola è più una casa, dove i bambini si muovono in modo flessibile e dinamico su tre piani e nel giardino esterno. I bambini hanno piena libertà di scelta sull’attività che desiderano
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svolgere. Si può quindi dire che ogni angolo dell’edificio è un ambiente di apprendimento. Ogni spazio può essere scoperto: così un bambino vede la macchina da cucire e vuole imparare a usarla; oppure la palestra con una piccola parete di arrampicata diventa luogo di sfogo fisico ma anche apprendimento, e i ganci, infatti, rappresentano dei numeri.
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allievo
obiettivi
insegnante
mediazione delle conoscenze contenuti didattici
motivazione
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Siamo oggi nelle condizioni di dire che il concetto di edilizia scolastica sia ormai superato. Con questo termine si afferisce a una lettura pressoché tecnico-funzionale dell’edificio che accoglie la scuola. L’evoluzione del pensiero culturale intorno ai luoghi dell’istruzione e della formazione, con interessanti apporti internazionali da parte di figure di spicco non solo nel campo pedagogico ma anche in quello architettonico, ci permette oggi di introdurre e diffondere il concetto di architetture per l’educazione e l’apprendimento.
Pioniere dell’architettura per l’apprendimento è certamente l’architetto olandese Herman Hertzberger che ha realizzato edifici esemplari attuando modelli di learning landscapes globali, vivibili e permeati dalle nuove istanze pedagogiche e didattiche. Mettendo a fuoco lo scardinamento del paradigma della scuola basato su una rigida relazione istruttiva tra docente, alunno e sapere, Hertzberger (2008) ha delineato un processo che può condurre un edificio scolastico a diventare una vera e propria architettura per l’apprendimento (successive stages of development):
In una prima fase basterebbe articolare la classica distribuzione degli spazi aula-corridoio, realizzando fuori dalla classe nicchie, sporgenze, spazi di supporto da destinare alle attività informali e di gruppo.
La fase successiva necessita di un’analisi e interpretazione più puntuale degli spazi intermedi, tradizionalmente di passaggio (the threshold) al fine di collegarli meglio agli ambienti di lavoro (l’aula, il laboratorio), offrendo maggiori spazi per le attività e più trasparenza tra i gruppi.
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In un terzo momento la classe, come luogo privilegiato dell’istruzione, diventa home base, ovvero luogo di riferimento per l’identità di gruppo degli allievi e punto di partenza per aprirsi agli spazi plurimi dell’apprendimento, dislocati in tutto l’edificio scolastico.
Questo processo conduce infine alla nascita di un vero e proprio paesaggio di apprendimento diffuso, il famoso learning landscape, dove il rapporto aula-corridoio e androni si inverte, l’aula diventa lo spazio per le attività raccolte, tematiche, a gruppo, mentre i grandi ambienti di mezzo si organizzano per rispondere a due polarità importanti: la necessità di concentrarsi e lavorare da soli o in piccolo gruppo; il bisogno di appartenere ad una grande entità, ad un sistema aperto che stimoli curiosità e appartenenza e socializzazione.
In termini concreti i luoghi per l’apprendimento hanno bisogno di articolare e integrare gli elementi architettonici per creare nicchie, rialzi graduati, sedute, piani di lavoro, angoli di osservazione e di incontro. Ad esempio lo spazio generalmente scomodo del sottoscala, grazie all’abbassamento del pavimento, può prendere vita e generare angoli intimi e ospitali, dove leggere o stare soli. Altrove, il pavimento può essere rialzato dando forma a scalinate più o meno ampie, che diventano piani di lavoro rivestiti in legno per lavorare anche a terra, giocare, svolgere attività di coppia o fare incontri per gruppi più grandi. I muri - pensati in modo tridimensionale - diventano una continua occasione per inserire armadiature, contenitori, per avere piani che inseriti a una certa altezza diventano superfici da attrezzare per lavorare anche in piedi. Nelle partiture verticali possono aprirsi angoli guardaroba,
vetrine mostra, scaffali allargati sopra le cornici di porte e finestre, nicchie di studio, piani di lavoro alle finestre, angoli cucina, sedute. La trasformazione degli edifici scolastici in architetture per l’educazione è oggetto di diversi studi e ricerche internazionali (Hille 2011, Lippman 2010, Woolner 2011, Sprecher&Mathieu 2010, Egger&Hempel, 2013, Rittelmayer 2014). Tra i ventotto pattern che dovrebbero guidare la progettazione della scuola del 21° secolo, Nair, Praksah e Lackney (2009), noti in contesto americano, descrivono un nuovo modo di organizzare gli spazi. Si prevede la necessità di progettare spazi e contenitori individuali (Home Base and Individual Storage), per sostenere il bisogno di appartenenza, studiare angoli per mangiare in relax in modo informale (Casual Eating Areas) e si immaginano luoghi morbidi e accoglienti (Furniture: Soft Seating) per sostare in modo piacevole. La scuola viene quindi progettata come un luogo piacevole e caldo, che, pur conservando la sua missione formale, si tramuta il luogo comunitario, ambiente sociale, in cui la conoscenza e la ricerca sono di casa. Questo significa ad esempio considerare come in realità l’apprendimento e una certa varietà di movimento e di posture (al tavolo, seduti in terra, in piedi, ecc..) siano in stretta relazione e si sostengano reciprocamente, costruendo virtuosi connubi tra i momenti del vivere, del lavoro e della concentrazione e dove il corpo ha necessità specifica di essere utilizzato in modo diverso, a seconda che si debba leggere o scrivere, disegnare o fare lavori tecnici, discutere o ricercare. In questo senso risultano davvero interessanti l’approccio pedagogico e la definizione totalmente diversa degli spazi che sono alla base della progettazione della scuola privata di primo e di secondo grado Haus des Lernen di Romanshorn in Svizzera (http:// www.sbw.edu/). I cicli scolastici, anticipati
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di un anno rispetto alle scuole statali e con chiari riferimenti al pensiero di Lawrence D. Steinberg (1993), vengono denominati in maniera del tutto inusuale: con primaria si definisce il ciclo dai 3 ai 6 anni; con secondaria ci si riferisce al ciclo dai 6 ai 9 anni; futura è il periodo dai 9 ai 10 anni, la scuola dell’incubazione e delle grandi scelte, in cui i bambini hanno una scuola pensata apposta per sostenerli nell’orientarsi verso il ginnasio o alla scuola professionale; in ultimo vi è porta, il ciclo scolastico dai 10 ai 14 anni, la scuola che apre al futuro professionale o di studio accademico, in cui si può scegliere di frequentare il ginnasio, fino alla maturità, oppure la scuola professionale nel campo dei media e delle tecnologie. Alla particolare denominazione di questi cicli scolastici si accompagna una altrettanto affascinante nomenclatura e relativa organizzazione degli spazi entro i quali si suddividono le attività. Nel ciclo futura, per esempio, gli ambienti di lavoro sono 3: laguna, ovvero l’atelier disegno-grafica-creatività; horizont, aula per le lezioni con un enorme tavolo a forma di grande barca, che può accogliere fino a venticinque persone; l’atelier dell’apprendimento, in cui si trovano libri, computer, tavoli per lavorare da soli e in gruppo, oltre che divanetti per intrattenersi e leggere. Le lezioni frontali si alternano dunque a diversi momenti di apprendimento non formale e di attività nell’atelier laguna. Si apprende seduti e in piedi, insolitamente i computer sono collocati in una zona di passaggio (tipo stretto corridoio) in mezzo alla grande sala dell’apprendimento, dove si lavora in piedi, quindi per un tempo contenuto. Nel ginnasio vi è un ambiente che si chiama Entstehung (la generazione) con un tavolo alto e lungo, senza sedie, con una lavagna disegnata a muro, destinato a far nascere nuovi progetti, nuove idee, per discutere argomenti o introdurre temi particolari. Le
classi del ginnasio si chiamano ambienti input e dispongono di piccoli tavoli colorati che i ragazzi organizzano nell’ambiente a seconda delle necessità. In tutta la scuola si trovano oggetti non convenzionali rivisitati ed utilizzati per scopi diversi come cyclette, il tavolo da architetto, la cabina telefonica. Ciascun alunno o studente ha a disposizione, per i suoi oggetti personali, i libri e i quaderni e per il proprio guardaroba un carrellino della Swiss Air (ex porta vivande). Ciascuno posiziona questo carrellino a seconda delle necessità nei luoghi che gli sono più prossimi e comodi. Questa soluzione risolve le problematiche del guardaroba e degli spazi da destinare agli oggetti personali e di studio, allo stesso tempo rispetta le necessità di appartenenza e personalizzazione degli alunni e lo fa utilizzando un sistema ecologico (sono carrellini usati e recuperati), esteticamente non disturbante, uniforme, poco ingombrante e assolutamente mobile e versatile. Questo esempio ci mostra che per trasformare una scuola nell’infrastruttura della conoscenza ma ancora di più, in un’architettura per l’educazione e per l’apprendimento, è necessario avere una chiara idea di scuola e della pedagogia che in essa si dispiega. È a partire da questo punto di riferimento chiave della progettazione che gli ambienti scolastici possono essere ripensati e reinventati. Al software pedagogico della scuola si accompagna poi il fascino dell’hardware che lo informa, e in questo senso concordiamo con Lucien Kroll, affermato architetto belga, che “…dare una personalità ai luoghi educativi non vuol dire solamente renderli funzionali, vuol dire poetizzare gli spazi, le immagini, i rapporti” (1999, p. 58). La visione di Kroll, poetica e libertaria, ripensa gli ambienti dell’educazione chiedendo loro di saper comunicare con le persone. L’architettura scolastica, infatti, è un testo anch’essa, è qualcosa che consente di apprendere la realtà perché lascia sul territorio dei segni che durano nel tempo e da
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cui i giovani apprendono anche in maniera indiretta. Impone una ricerca di stile e di soluzioni architettoniche che siano al tempo stesso un dialogo con le forme del passato e una proposta per le sfide del futuro.
Haus des Lernen SBW Romanshorn- Svizzera La scuola privata Haus des Lernen di Romanshorn accoglie i bambini dall’infanzia sino al ginnasio e descrive sia i cicli che gli ambenti scolastici in modo del tutto inusuale ed affascinante. Nel ciclo futura, una scuola pensata apposta per orientare verso il ginnasio o alla scuola professionale, gli ambienti di lavoro sono 3: laguna, ovvero l’atelier disegno-grafica- creatività; horizont, aula per le lezioni con un enorme tavolo a forma di grande barca, che può accogliere fino a 25 persone; l’atelier dell’apprendimento, in cui si trovano libri, computer, tavoli per lavorare da soli e in gruppo, oltre che divanetti per intrattenersi e leggere. Le lezioni frontali si alternano dunque a diversi momenti di apprendimento non formale e di
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attività nell’atelier laguna. Si apprende seduti e in piedi, insolitamente i computer sono collocati in una zona di passaggio (tipo stretto corridoio) in mezzo alla grande sala dell’apprendimento, dove si lavora in piedi, quindi per un tempo contenuto. Le classi del ginnasio si chiamano ambienti input e dispongono di piccoli tavoli colorati che i ragazzi organizzano nell’ambiente a seconda delle necessità. Ciascun alunno o studente ha a disposizione, per i suoi oggetti personali, i libri e i quaderni e per il proprio guardaroba un carrellino della Swiss Air (ex porta vivande). Avere una chiara idea di scuola e della pedagogia che in essa si dispiega diventa la chiave di volta per ripensare spazi e ambienti.
Freie Waldorfschule Brixen e l’uso dell’arredo in modo libero La scuola steineriana di Bressanone è parificata, si allinea dunque ai programmi ministeriali. Accoglie il ciclo che va dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola media. Attualmente è ospitata presso un edificio che come iniziale destinazione d’uso era un ufficio. Nell’area riservata alle classi prima e seconda non ci sono sedie e tavoli, l’oggetto d’arredo più importante è la panca. All’inizio viene usata per stimolare i diversi esercizi fisici. Come ostacolo, come oggetto dove camminarci sopra ed esercitare l’equilibrio. Grazie alla
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loro maneggevolezza le panche possono agilmente essere spostate per usufruire di tutto lo spazio e continuare gli esercizi. L’ambiente si allarga e si definisce in base ai bisogni e non è più vincolato dall’arredo. Alla fine degli esercizi i bambini riportano le panche al centro, formano un cerchio e le panche diventano delle sedute. Iniziano poi le lezioni, dove i bambini hanno bisogno di un tavolo per scrivere, posizionano le panche in modo adeguato, si siedono su dei cuscinetti e le panche diventano il loro tavolo di lavoro.
Le scuole innovative hanno come comun denominatore il proposito di mettere il bambino al centro dei processi di insegnamentoapprendimento. Un bambino inteso come un concentrato di potenzialità espressive, cognitive e sociali, su cui si ripongono le aspettative, gli sforzi e le speranze dell’adulto per garantirne lo sviluppo e l’espressione. Il termine specifico di bambino “potenziale” nasce dal pensiero di Loris Malaguzzi e dalle varie rielaborazioni dei diversi collaboratori che hanno contribuito alla nascita delle scuole che operano secondo il Reggio Approach (Quinto Borghi 2003). In realtà si tratta di un concetto a cui aderiscono le più grandi figure educative del contesto italiano come le Sorelle Agazzi, Maria Montessori, Giuseppina Pizzigoni, don Lorenzo Milani, Mario Lodi, per indicarne solo alcuni in contesto italiano, e che corrobora le teorie degli studiosi più noti in campo pedagogico come Dewey, Piaget, Bruner, Olson, Gardner e Vygotskij. Se prendiamo come punti di riferimento i modelli di scuola più noti al mondo come la casa dei bambini di Maria Montessori, le scuole e i nidi d’infanzia di Reggio Emilia di Loris Malaguzzi, le scuole Waldorf di Rudolf Steiner, le scuole cooperative di Cèlestin Freinet, le scuole orientate al metodo Jenaplan di Peter Petersen, per citarne solo alcune, tutte convergono nel ritenere che il bambino ha dentro di sé un potenziale e una ricchezza che, nella situazione giusta, può manifestarsi e dimostrare competenze inaspettate. Addirittura per Maria Montessori mettere il bambino in condizione di esprimere e sperimentare le proprie forze costruttive corrisponde a un processo di “normalizzazione”, secondo il quale corrisponde alla normalità biopsichica dell’individuo e del bambino avere interessi, desiderio di lavorare e soddisfazione nelle attività prescelte. La libera scelta e il lavoro appropriato normalizzano il bambino e lo conducono a una sorta di
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“guarigione” intesa come autoeducazione che guida al naturale desiderio di esplorare, fare, conoscere (Montessori 1970). Il compito degli educatori è dunque proprio questo: fare in modo che possano emergere tutte le potenzialità interiori del discente, che attendono di essere sollecitate per “prendere parola”. Il riferimento a Vygotskji (2009) e all’area di sviluppo prossimale è evidente: essa è infatti definita come la distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale, che può essere raggiunto con l’aiuto di altre persone, che siano adulti o i pari con un livello di competenza maggiore, o che accada attraverso la predisposizione di materiali e/o situazioni atte a innescare un processo di crescita. Il bambino è dotato di ampie capacità creative che possono emergere qualora gli adulti organizzino situazioni di attenzione partecipata. È importante proporre attività che sostengano la dimensione espressiva, come la pittura, l’espressione grafica, la drammatizzazione, i travestimenti, le storie, perché con la fantasia il bambino mette a fuoco le idee, se le rigira nella mente, le elabora e le riformula, estendendo la propria sensibilità culturale nei confronti delle diverse dimensioni del sapere. La potenzialità espressiva del fanciullo si sostanzia con lo sviluppo della sua dimensione cognitiva, quindi con la capacità di raccogliere informazioni e di assemblarle in forme alternative e originali, con la curiosità e la propensione all’esplorazione. Questo avviene soprattutto quando il bambino può essere protagonista, interlocutore attivo, soggetto competente. Generalmente si riconosce alla dimensione cognitiva un ruolo astratto, legato allo sviluppo della mente. In realtà la pedagogia moderna poggia sull’assunto che le potenzialità cognitive del bambino si consolidano con l’esperienza pratica e manipolatoria, indispensabile per la soluzione dei problemi di ogni giorno, ma anche utile per
confermare le idee, per provare, scegliere, trovare altre soluzioni. Come già indicato agli inizi dell’800 da Johan Heinrich Pestalozzi, dalla mente non si può disgiungere il cuore e la mano, il che sta a indicare che il processo formativo consiste nel progressivo passaggio da un pensiero a un concetto, nell’orientamento di senso (anche morale) che questo processo di astrazione può avere, e nella prova concreta della sua necessità e/o validità. La mano guida la mente e nello stesso tempo è da essa guidata, muove il pensiero e si muove nella direzione indicata dal pensiero. Un altro aspetto fondamentale riguarda la dimensione sociale del bambino, per cui si valorizzano le naturali qualità di un soggetto concreto, legato al quotidiano e ai vissuti personali, inserito nel proprio territorio di vita, pronto ad avvicinarsi agli altri, a socializzare, a essere cooperativo. Le scuole montessoriane, steineriane, del Reggio Approach (tra le più note in campo internazionale) hanno sempre colto l’importanza delle esperienze finalizzate a recuperare le tracce della vita sociale, come ad esempio i mestieri dei genitori, le scadenze dell’anno e dell’ambiente rurale (per esempio la vendemmia e la produzione del vino, la raccolta delle castagne e la preparazione del castagnaccio, la visita al caseificio e la produzione del formaggio, la visita agli animali della fattoria e così via). L’ambiente viene qui visto come luogo di lavoro, come ambito di occupazione e impegno, come contesto di vita comunitario. Il bambino al centro! È questo il programma per la scuola del futuro che vede nel fanciullo un forte potenziale da sostenere nel suo inscindibile sviluppo espressivo, cognitivo e sociale, che insieme conducono all’uomo umano.
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metodo tradizionale
metodo Montessori
L’insegnamento parte dalla teoria astratta senza confronto diretto con la realtà.
L’attore è il bambino che viene posto al centro, lui sceglie e scopre.
L’attore principale è il docente. Lui prende le decisioni e valuta i risultati.
Mediante gli strumenti, materiale didattico, i bambini hanno la possibilità di avere risposte concrete. Il materiale concede la pratica in tutte le materie e offre la possibilità dell’autocorrezione. Gli strumenti sono degli stimoli per la curiosità e l’autoesplorazione.
Gli strumenti usati durante la lezione si basano sulla lettura e scrittura. Libri, lavagne e alcuni oggetti singoli (es. geometria, pallottoliere).
I bambini non si confrontano tra di loro ma con il docente e i risultati. Durante la lezione il docente spiega mentre i bambini ascoltano. Regole e disciplina sono importanti e lasciano poco spazio all’azione.
L’azione dell’apprendimento è spesso passiva, i bambini non hanno occasione di confrontarsi anche in modo manuale, limitandosi a scrittura e lettura.
Spiegazioni, domande e risposte. Il dialogo è importante anche se è il docente a gestire il dialogo e non il bambino.
Agire, manipolare, sostituire, l’esperienza favorisce la memoria e la percezione delle cose. L’esperienza è importante.
Le classi sono di età mista, il confronto e l’aiuto tra gli alunni è favorito. Mentre l’insegnate è un osservatore e il suo intervento un aiuto. I bambini si confrontano nelle scoperte, sia che nelle loro situazioni sociali.
Usare i sensi per impregnare l’apprendimento. Ogni senso deve essere sviluppato, ogni bambino ha dei sensi sviluppati in modo diverso.
La pratica porta alla teoria. La lezione è basata sul senso della vista e dell’udito. Il tatto, e altri sensi vengono trascurati.
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metodo Waldorf
La teoria assieme alla pratica conducono all’apprendimento. L’apprendimento avviene mediante il movimento e l’uso del corpo intero. L’azione unisce corpo e mente. Il lavoro manuale aiuta la concentrazione, l’apprendimento in modo attivo e la percezione dell’io.
Il bambino, la sua personalità e le sue esigenze vengono posti al centro.
Il disegno e il lavoro manuale hanno una grande importanza come i materiali naturali e la loro lavorazione: lana, legno, creta. Viene instaurato un rapporto con la natura e il mondo reale.
Lavori di gruppo, teatri, recite, canti sollecitano una collaborazione di gruppo.
I dodici sensi di Rudolf Steiner: senso del benessere, vita, parola, pensiero, dell’io, ecc., vengono impiegati per impregnare l’apprendimento e sopratutto per la coscienza dell’anima.
La maestra spiega e affronta la lezione anche oralmente, iniziando con delle spiegazioni più ampie, tra i bambini di età diverse nascono dei confronti nelle esercitazioni.
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Reggio Children
Al primo posto viene il modo di esprimersi dei singoli bambini. Seguendo un determinato tema, i bambini fanno delle ricerche, usano computer, webcam, materiali di progettazione e mediante le loro idee e percezioni esprimono ciò che imparano. Stanno attenti al materiale e a come usarlo. Il fare diventa molto importante, mediante gli atelier i bambini producono, elaborano, pianificano dei progetti. I materiali sono semplicemente dei supporti per l’esprimersi. Questa scuola è un luogo di scambio, esprimendosi vengono messe a confronto teorie che vengono discusse con i bambini e le maestre. La teoria la troviamo all’inizio nelle spiegazioni delle maestre e alla fine nelle spiegazioni delle teorie fatte dai bambini stessi.
metodo Freinet
Il bambino è al centro, assieme al docente viene decisa l’organizzazione della giornata. La cooperazione è lo strumento più importante. Si utilizzano elementi che si riferiscono alla quotidianità (bici, stampa). Spesso sono i bambini a creare gli strumenti, i processi di produzione incidono sulla percezione. Le diverse officine permettono il lavoro con degli strumenti che aiutano la creazione di nuovi oggetti fatti dai bambini stessi. I bambini imparano dall’esperienza. I bambini collaborano, scambiano idee e opinioni, (giornali, libri, consigli di classe, ecc.) Il confronto orale ha luogo tra gli alunni di età diverse, con il docente e anche i genitori hanno un ruolo importante. L’apprendimento cerca la partecipazione dei sensi, il lavoro manuale, la responsabilità dei bambini sviluppa l’osservazione più concentrata. Ogni bambino sceglie il modo per esprimersi, scrivendo o manualmente. Mediante la sperimentazione si arriva alla teoria.
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L’elaborazione culturale del passaggio dal paradigma dell’insegnamento a quello dell’apprendimento, ovvero da una attenzione preponderante su cosa insegnare piuttosto che sui processi e i metodi che supportano gli allievi nella costruzione dei loro saperi, sta comportando una nuova attenzione agli spazi del fare scuola e a questa si accompagna sempre maggiore diffusione dell’espressione “ambienti di apprendimento”. Essa sta a indicare, in un’accezione molto ampia, un luogo fisico o virtuale, ma anche uno spazio mentale e culturale, organizzativo ed emotivo/affettivo insieme. Secondo Gianni Marconato il concetto di “ambiente di apprendimento” nasce nell’ambito del costruttivismo e ne rappresenta la traduzione operativa ossia il suo sviluppo didattico. La metafora dell’ “ambiente d’apprendimento” indica un sistema dinamico, aperto, forse anche caotico, in cui le persone che apprendono hanno la possibilità di vivere una vera e propria “esperienza di apprendimento”. (…)Un ambiente di apprendimento, quindi, è ricco e ridondante di risorse in modo da poter essere funzionale alle differenti situazioni reali in cui si svilupperà il processo formativo. Gli “obiettivi di apprendimento” rappresentano più la direzione del percorso che la meta da raggiungere, mentre i “contenuti” sono pre-strutturati e sono presentati da una pluralità di prospettive; non tutti devono essere appresi, ma rappresentano una “banca dati” da cui attingere al bisogno (Marconato 2012, p.283). In un’ottica costruttivista, e più precisamente costruttivista socioculturale dunque, è la risultante dell’integrazione, in un sistema organico e coerente, di una molteplicità di elementi implicati nel processo di apprendimento. Nell’ambiente di apprendimento l’allievo è coinvolto attivamente nella costruzione della conoscenza, partendo dall’individuazione di situazioni di problem solving concrete e autentiche, capaci di stimolare la partecipazione operativa ed emotiva, di su-
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scitare interesse e curiosità, di valorizzare tutti i talenti e le intelligenze multiple. Come già accennato in Media e spazi della scuola (Weyland 2013) insieme allo sviluppo tecnologico è nato un nuovo modo di pensare, quindi anche di insegnare ed apprendere. Di qui il passo per comprendere come le tecnologie incidano sull’organizzazione concreta degli spazi scolastici è breve. Si fanno strada nuovi modelli di scuola, dove le attrezzature (anche tecnologiche) sono disposte in modi diversi a seconda delle esigenze e dell’approccio considerato e nella quale si ripensa tutto l’ambiente fisico in direzione di un variegato “paesaggio di apprendimento” (Kühebacher, Watschinger 2007). Per garantire un apprendimento efficace, l’ambiente deve consentire la crescita olistica dell’individuo (Kumpulanien, Krokfors 2010, p. 17) e offrire occasioni per una comprensione quanto più possibile dinamica e complessa dei fenomeni. La comprensione include la conoscenza, le competenze, le attitudini e i valori tra cui nello specifico: lo sviluppo di competenze riflessive e di problem solving la capacità di porre domande e di comprendere le informazioni l’attitudine a ricercare, elaborare e valutare le informazioni e l’abilità di creare le informazioni e di comunicare con significati e linguaggi plurimi. Riconoscere l’alunno come “l’esploratore della conoscenza” significa entrare nella logica di una cultura dell’apprendimento che è anche cultura dell’unione, e non della separazione e la parcellizzazione (delle esperienze, delle conoscenze, delle attività, ecc.). La scuola che accoglie le differenze come opportunità, e che cerca di trovare nessi e relazioni
tra le diverse parti, offre occasioni motivanti per lo sviluppo e l’esercizio delle diverse intelligenze (Gardner 2002) e coglie a pieno le potenzialità delle tecnologie nel variegato e dinamico contesto dell’apprendimento. Le qualità degli ambienti di apprendimento sono diverse: uno spazio può risultare stimolante, un altro può invitare al raccoglimento, un altro ancora può sostenere l’elaborazione costruttiva degli stimoli. Peter Lippman (2010) offre interessanti riflessioni sul rapporto spazio e apprendimento cercando di definire alcune qualità specifiche che potrebbero avere alcuni ambienti
ce
nt spa Engageme
uno spazio stimolante per impegnarsi e lavorare insieme sui materiali didattici e su contenuti culturali, per svolgere approfondimenti e discussioni, aperture a nuove strade e diversi modi di conoscere ed elaborare il materiale, che non sono possibili con l’approccio tradizionale al sapere in classe.
pace: Reflective s è un luogo di raccoglimento, per lavorare con se stessi e su se stessi nell’elaborazione del materiale conoscitivo. Sono importanti ambienti in cui la dimensione personale, individuale, offre sia al docente che allo studente la possibilità di adeguare il processo conoscitivo al proprio ritmo, al proprio stile e secondo la modalità che gli è più congeniale per concentrarsi. Questa flessibilità ha il vantaggio di sostenere un legame sempre più forte tra il soggetto e il materiale di apprendimento.
ace:
Proximal sp
nello svolgimento delle attività di apprendimento ciascuno deve avere la possibilità di individuare il posto fisico dove si trova più a proprio agio e che rispecchia bisogni altri che sono inclusi anch’essi nel processo di ap-
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prendimento. Nella psicologia dello sviluppo, lo spazio prossimale è quello in cui vengono compresi gli spazi visivi e afferrabili dell’individuo. Lo spazio prossimale, quindi rappresenta quelle situazioni, o luoghi, che sono in prossimità sia delle zone stimolo, laboratoriali sia delle zone di raccoglimento. Luoghi dove lavorare da soli, ma comunque in contatto con gli altri, oppure in gruppo. Zone di attività preferite nella quale il soggetto riesce ad associare l’apprendimento al suo personalissimo mondo percettivo, emotivo e situazionale.
ment
ch Place atta
Un altro aspetto intimamente legato alle qualità degli spazi per apprendere è quello che Lippman definisce Place attachment. Gli individui percepiscono se stessi e raccontano le proprie esperienze in termini di appartenenza a uno specifico luogo. Questa intima relazione con il luogo è una “sub-struttura” dell’identità dell’individuo (Proshansky, Fabian, Kaminoff, 1983). È importante quindi offrire spazi scolastici che non siano troppo anonimi, ma che consentano di sviluppare il naturale attaccamento a un ambiente specifico. Questa è infatti la condizione che definisce un setting di apprendimento corrispondente ai bisogni di soddisfazione, senso di sicurezza e serenità. Consente di vivere l’apprendimento in una dimensione più personale, dove la creatività trova quindi più posto per esprimersi. Considerare questi aspetti contribuisce in maniera determinante alla nuova configurazione del corpo della scuola: fatto di spazi stimolanti, per il raccoglimento riflessivo, prossimali ovvero dove lavorare tra se e gli altri, identitari, quindi luoghi con cui identificarsi e dove ritrovarsi. Spazi “complessi, reticolari, sistemici” dove “quello che il sapere perde in organicità, potrà essere ripagato in termini di profondità, intensità, creatività e di educazione all’autonomia del giudizio, all’interpretazione critica, alla partecipazione attiva” (Corazza 2008 p. 65).
Anche Marleen Noack (1996) , in accordo sulla considerazione dello spazio scolastico come un variegato paesaggio di apprendimento, analizza come gli individui colgono le qualità degli spazi in cui conducono tanto tempo a studiare. Nei suoi studi analizza gli elementi nella scuola che, oltre alla funzione didattica, tengono in considerazione anche altri bisogni, giocando sulle categorie “soft”, e “hard” dei paesaggi di apprendimento. Individua in particolare ambienti accoglienti,
protettivi e rilassanti, di contro a luoghi in cui gli elementi forti sono la chiarezza, l’ordine, la funzionalità e la concentrazione. Si riporta qui di seguito uno schema delle categorie soft e hard individuate da Noack (1996, p.176). È importante segnalare che questi sono due poli estremi all’interno dei quali giocare per evitare sia la riproduzione di un ambiente troppo familiare e sia la situazione di un luogo asettico e impersonale in cui l’individuo non viene rappresentato.
Reggio children e l’uso della tecnologia Le scuole che seguono l’approccio di Reggio Children si intendono come luoghi di apprendimento e non di insegnamento. I bambini lavorano in un ambiente democratico con gli adulti, un laboratorio permanente dove i processi di ricerca tra allievi e insegnanti s’intrecciano, evolvendosi ogni giorno. Mediante i loro linguaggi i bambini si espri-
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mono ed esplorano il mondo. Escono dagli atelier con domande, con curiosità e con il desiderio di mettere in parola e in atto quello che stanno elaborando. L’uso del computer, delle telecamere, delle macchine fotografiche, della webcam, è naturalizzato e diventa un modo per esprimersi, per fare ricerca, per esplorare il mondo e poi per raccontare.
Aule e ambienti piccoli, con angoli e nicchie Materiali morbidi come tappeti e stoffe, cuscini, mobili imbottiti, legno, sughero, lana cotta Tende, tende a sacchetto, teli, corde Forme arrotondate o irregolari Superfici strutturate e gentili al tatto
Colori pastello, toni sul giallo, rosso, marrone, colori complementari Elementi decorativi piccoli, es. fiori Illuminazione a giorno morbida e contrastata, candele Superfici per affiggere piĂš piccole, intermittenti
Piante
Arredo mobile
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Aule ampie e alte, con corridoi luoghi e larghi Materiali duri come il sasso, il metallo, il vetro, il marmo, il cemento armato, le piastrelle Tapparelle, tende rigide, oscuranti a listella Linee diritte e angoli retti, spigolosi Superfici lisce e riflettenti Bianco, nero, grigio, colori di materiali grezzi, colori non armonizzati e stridenti tra loro Elementi geometrici con colori contrastanti Illuminazione a giorno diretta, luci al neon Superfici per appendere, grandi e uniformi
Assenza di piante
Arredo fisso
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Ciascuno ha diritto di essere riconosciuto come “speciale”, diverso dall’altro, con specifici bisogni e quindi avente diritto di tempi, di materiali di lavoro e anche di spazi ad hoc per il suo personale piano di sviluppo. Questo è un assunto sul quale forse tutti possono trovarsi d’accordo. Ma è possibile pensare a soluzioni di edilizia scolastica che sostengano l’inclusione per tutti? E cosa implicano? Interfacciando le Indicazioni per il Curricolo nazionali del 2012, con le nuove Linee guida per l’Architettura scolastica emesse dal MIUR nell’Aprile 2013, si possono svolgere alcune riflessioni sui principi che informano le architetture scolastiche inclusive. Le immagini che corredano il capitolo si riferiscono alla scuola primaria di lingua tedesca di Monguelfo in Alta Val Pusteria, una scuola modello per l’Alto Adige, che è stata realizzata con le indicazioni pedagogiche del dirigente scolastico Josef Watschinger, esperto da molti anni sul tema della relazione tra spazio e apprendimento e promotore di diverse iniziative sul territorio altoatesino nel campo dell’architettura scolastica.
Inclusione
per tutti
Le tracce della diversità a tutti i livelli nella scuola sono già presenti nella legge 59/97, negli articoli 1 e 2 su “Natura e scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento.” Con il concetto di libertà di insegnamento si garantisce l’esistenza di
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insegnanti diversi; con il concetto di pluralismo culturale è riconosciuta l’importanza di dare voce a culture diverse; si esplicita chiaramente la necessità di considerare contesti diversi, famiglie diverse e soggetti diversi. Anche nelle Indicazioni per il Curricolo del 2012 troviamo traccia del fatto che siamo tutti differenti: “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende con l’originalità del suo percorso individuale e le aperture offerte dalla rete di relazioni che la legano alle famiglie e ai contesti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.”(Indicazioni Nazionali per il Curricolo maggio 2012, Centralità della persona, p. 4) Si sottolinea dunque la singolarità di bambini e bambini e degli adolescenti, l’importanza di sostenere tutti i soggetti in via di sviluppo, cercando le metodologie e le didattiche più adeguate, quindi anche le più diversificate. “ Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato”. (Indicazioni Nazionali per il Curricolo maggio 2012, Centralità della persona, p. 4) Le Linee guida del MIUR per l’Edilizia scolastica dell’aprile 2013 offrono straordinarie prospettive di innovazione alla scuola: non menzionano in nessuna parte del documento la necessità di aule speciali, o per il sostegno. L’inclusione per tutti si realizza nel non
fare più differenze o nell’accoglierle tutte. La scuola si concepisce come: “…, uno spazio unico integrato in cui i microambienti finalizzati ad attività diversificate hanno la stessa dignità e presentano caratteri di abitabilità e flessibilità in grado di accogliere in ogni momento persone e attività della scuola offrendo caratteristiche di funzionalità, confort e benessere”. (I.1 Gli spazi di apprendimento)
un Separazione vs
ione: apertura
Il primo principio astratto, ma che riguarda una precisa modalità di progettare e costruire scuole è quello di separazione. Non si tratta solo di una separazione tra culture, tra momenti didattici, tra bambini con competenze e abilità diverse, bambini con bisogni speciali e non; di fatto diventa una separazione di ambienti e di locali. Ciascuno nella propria aula, ciascuno al proprio posto: alle discipline le loro aule, ai libri la loro biblioteca, ai computer il loro laboratorio, alle specialità i loro spazi; tutti separati, tutti isolati tra loro. Per parlare di scuola come comunità, il primo aspetto sul quale riflettere è questo. Come rendere tangibile il principio comunitario della condivisione, della democrazia, della cooperazione per il bene di tutti? Non sembra semplice, ma lo è molto più di quanto non sembri. Alla parola separazione corrisponde in opposizione il principio di apertura, o meglio di unione. Si provi a pensare a unire, includere, tra loro gli spazi proprio utilizzando il concetto di apertura e il gioco è fatto. Nella Premessa delle Linee guida 2013 l’orientamento verso l’apertura “…, diventa il risultato del sovrapporsi di diversi tessuti ambientali: quello delle informazioni, delle relazioni, degli spazi e dei componenti architettonici, dei materiali, che a volte interagiscono generando stati emergenti significativi”. La scuola acquisisce una struttura spaziale con ambienti variegati
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dove “… la sequenzialità di momenti didattici diversi che richiedono setting e configurazioni diverse, alunni-docente o alunnialunni, sta alla base di una diversa idea di edificio scolastico, che deve essere in grado di garantire l’integrazione, la complementarietà e l’interoperabilità dei suoi spazi. ” (I.1 Gli spazi di apprendimento)
o
ent Una comunità in apprendim
Tra le caratteristiche della scuola inclusiva prevale in secondo luogo il carattere comunitario. Ciò significa che la scuola si percepisce come un tutto, in cui ciascuno è parte importante e imprescindibile, riconosciuto nella sua specificità, e in cui cvi sono principi e responsabilità condivise. Nella scuola comunità questo riconoscimento reciproco si concretizza nella democrazia di sguardi, ovvero nella possibilità di incontri e collegamenti visivi tra i diversi soggetti nei diversi luoghi in cui sono impegnati a lavorare e in cui, citando le Linee guida ”..., si pratica una didattica coinvolgente che non ha paura di ‘pareti trasparenti’ che consentono la condivisione ‘oltre l’aula’. “(I.1 Gli spazi di apprendimento) Una comunità in apprendimento garantisce punti di vista diversi sulle cose e insieme sui luoghi da abitare. Non solo gli oggetti conoscitivi possono essere studiati sotto angolature diverse, con occhiali diversi, come ci ha insegnato dapprima il cognitivismo e quindi in modo compiuto il costruttivismo. Anche i luoghi in cui si compiono i processi conoscitivi possono essere visti e abitati da angolature diverse, secondo prospettive e scelte posizionali diverse. Ciascuno può abitare in luoghi diversi della comunità-scuola, può scegliere gli angoli più appropriati per svolgere le attività, può mettersi in dialogo con lo spazio che lo accoglie e trovare la nicchia preferita, che più gli si confà. Ciò gli offre modo di identificarsi, proprio attraverso il prendere posto nello spazio.
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Questi indicatori di democrazia e di rispetto della diversità vengono valorizzati dalle Linee guida: ”Queste necessità hanno alla base un principio di autonomia di movimento per lo studente che solo uno spazio flessibile e polifunzionale può consentire. Dunque lo spazio in cui l’insegnante avvia le attività o fornisce indicazioni agli alunni diventerà, nel segmento successivo dell’attività didattica, uno spazio organizzato per attività collaborative tra gli studenti in cui ciascuno può avere un compito individuale che però ha un senso anche all’interno di un gruppo. Un modo di lavorare in cui le peculiarità e le diverse competenze di ciascuno sono valorizzate e ricomprese in vista di un risultato comune.” (I.1 Gli spazi di apprendimento) Nella comunità in apprendimento la scuola diventa un luogo nomade, non è più suddivisa in ambienti fissi, le classi, ma vive lo spazio tutto come quello di una grande casa, la casa della comunità che apprende. L’ibridazione degli spazi consente le più diverse mescolanze, per cui, a titolo d’esempio, la biblioteca non ha più ragione di essere in uno spazio circoscritto ma può disperdersi nel paesaggio molteplice dell’apprendimento, l’aula computer non esiste più, perché le tecnologie si ritrovano in angoli e nicchie, in classe e fuori. I corridoi si animano e danno forma al cosiddetto: “connettivo” diventando i luoghi delle connessioni, cognitive, sociali, culturali. “La matrice della scuola è pensata in modo da lasciare sempre una possibilità di variazione dello spazio a seconda della attività desiderata, così da trasformare la gestione dell’ambiente nella gestione della profondità di campo, del livello di trasparenza, visibilità o partizione, in un tessuto continuo fatto di piazze, sezioni, angoli di lavoro, piazze, giardini e porticati… l’eliminazione degli spazi di mero passaggio in favore di spazi sempre abitabili dalla comunità scolastica per lo svolgimento di attività didattiche,
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ma anche per la fruizione di servizi o per usi di tipo informale, permette di aumentare la vivibilità della scuola.” (I.1 Gli spazi di apprendimento)
zzazione Individuali Il terzo elemento che connota la scuola inclusiva è la garanzia di individualizzazione dell’apprendimento. Le tracce che hanno dato il via al processo di cambiamento della scuola, in ricerca di un modello centrato sulla cultura dell’apprendimento, sono di diversa natura. Nascono addirittura a volte da grandi discussioni, come è accaduto con la contestatissima legge Moratti 53, del 2003. L’universo pedagogico si è confrontato per molto tempo sui significati dei principi di individualizzazione e di personalizzazione, sull’utilità del portfolio, sulle visioni che davano meno centralità alla classe, alla didattica uno per tutti e tutti per uno. Oggi si tratta di un discorso che appartiene al DNA della scuola, pur non avendo ben chiaro come renderlo operativo e tangibile. Le Indicazioni provinciali altoatesine del 2009 descrivono in un passaggio le possibili modalità per realizzarlo: “Il principio di individualizzazione tramite la varietà di metodi e ambienti di apprendimento stimolanti tiene conto di diversi percorsi, di diversi ritmi, di diverse strategie e tecniche di apprendimento“(Indicazioni Provinciali per la definizione dei curricoli relativi alla scuola primaria e alla scuola secondaria di primo grado negli istituti di lingua italiana della provincia di Bolzano 2009, p. 20). La sfida è proprio quella di offrire un ambiente in cui si possano fare insieme, nello stesso ambiente, cose diverse. Interessante è la valorizzazione del principio di individualizzazione degli apprendimenti anche nelle Linee guida approvate dal MIUR che definisce in particolare tre tipologie di spazi destinati all’apprendimento: lo spazio base, o home base, ovvero l’aula, che però ac-
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quisisce nuove connotazioni; l’atelier, ovvero i laboratori e i laboratori specialistici; gli spazi di apprendimento informale. Risulta interessante notare come si sostenga un processo di progressiva appropriazione di tutti gli spazi della scuola:“… la centralità dell’aula viene superata. Le aule/sezioni diventano un luogo di appartenenza importante ma non autosufficiente, consentono attività in piccoli e grandi gruppi ma anche individuali, pareti scorrevoli consentono di coinvolgere spazi interclasse o di allargarsi negli spazi comuni rendendo i confini della sezione sfumati e flessibili. Non tutto viene svolto nella classe che è parte di un organismo più complesso: la sezione/aula è una home base, una casa madre da cui si parte e a cui si torna, caratterizzata da una grande flessibilità e variabilità d’uso. Questa “diluizione” nel tessuto scolastico avviene in modo diverso e progressivo in funzione del tipo di scuola e dell’età degli alunni.” (III.6 Sezione / Aula – Home Base) Lo spazio informale acquisisce un fascino particolare in questo processo di ripensamento della scuola: “Occorrono spazi dove lo scambio di informazioni avvenga in modo non strutturato, le relazioni siano informali, gli studenti possano studiare da soli o in piccoli gruppi, approfondire alcuni argomenti con un insegnante, ripassare, rilassarsi. In questi spazi gli insegnanti possono svolgere attività di recupero o approfondimento con uno o alcuni studenti, possono lavorare e approfondire alcuni contenuti utilizzandoli come alternativa alla sala insegnanti. I genitori e gli esterni, nelle occasioni previste, li usano come luoghi di seduta o conversazione. Sono luoghi di approfondimento, lavoro informale, relax, punti di accesso alla documentazione e gioco ma sono anche la naturale estensione delle aule e degli atelier.” (III.8.1 Gli spazi connettivi sono spazi relazionali)
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ità
Eterogene
La Montag Stiftung- Urbane Räume (2012), un ente che da anni riflette sulla relazione tra spazio e apprendimento in area tedesca, presenta dieci tesi che dovrebbero caratterizzare una scuola al passo con i tempi e che guarda al futuro: oltre all’importanza dell’apprendimento multi prospettico e diversificato, ovvero da soli, in due, nel piccolo e nel grande gruppo, con i compagni dello stesso anno o anche con gruppi misti e pluriclassi, si valorizza l’estetica degli ambienti come modalità per dialogare ed educare chi abita gli spazi. Si menziona inoltre l’importanza delle tecnologie, accanto ai libri e alla lavagna, oltre che la necessità di un approccio democratico, ecologico, eterogeneo e aperto verso la città. L’eterogeneità merita un’attenzione particolare perché si collega a un processo evolutivo sull’argomento della relazione tra scuola e bambini con bisogni educativi speciali che ha avuto chiare ripercussioni sull’organizzazione dello spazio e nello spazio scolastico. Le scuole sono passate dalla fase dell’esclusione e separazione a quella dell’integrazione. Oggi stanno contemplando l’ipotesi dell’inclusione, non trovando ancora la chiave per immaginarla concretamente. Il concetto di eterogeneità trova la sua compiutezza nel momento in cui non ci sono più separazioni nette tra gli ambienti, ma dove le trasparenze visive garantiscono una percezione di sé e degli altri comunitaria. L’eterogeneità ha luogo quando non solo a tutti si riconosce il diritto di essere speciali, di avere bisogno di sostegno nell’apprendimento, ma anche quando tutti possono avere diritto di condividere aule speciali o di sostegno, per particolari evenienze, per progetti, per attività di gruppo ecc., aule comunicanti con lo spazio comunitario, connesse con il cuore della scuola e con le sue articolazioni. Il dove e il come, lo spazio e l’approccio pedagogico-didattico sono
fondamentali per inquadrare e configurare il percorso di sviluppo del bambino. Dalle ricerche di Andrea Canevaro e Dario Ianes (2011) e dai dati Istat 2012, risulta che i bambini con bisogni educativi speciali passano ancora troppo tempo fuori dalla classe in spazi loro dedicati. Questa scelta spaziale incide moltissimo non solo sullo sviluppo della socialità, ma anche sui processi di apprendimento. Questi sono dati in netto contrasto con i principi pedagogici da tutti condivisi e addirittura con una legge che sostiene a chiare lettere l’importanza dell’inclusione di tutti e per tutti. Come già menzionato più sopra, nelle Linee guida per l’Architettura scolastica del 2013 non sono menzionate affatto le aule di sostegno e ciò è un chiaro indicatore di superamento delle divisioni e di eterogeneità o inclusione per tutti.
io Laborator
di sviluppo
La scuola inclusiva in ultima analisi si connota come un laboratorio di sviluppo delle strutture potenziali dell’individuo. Maslow ha insegnato che il bisogno più maturo di ciascuno di noi è quello di autorealizzazione. Ciascuno è alla continua ricerca del senso di sé, del senso con gli altri, del senso del mondo. Personale, sociale e globale si intersecano tra loro inglobandosi reciprocamente. La scuola ha il compito di offrire il terreno giusto per affrontare le molteplici domande di senso dei bambini e degli adolescenti. Aprire finestre e fornire cornici di sviluppo sono tra i suoi scopi primari (Capurso 2004). La scuola-laboratorio di sviluppo inclusivo si basa sulla ricerca di una vera cultura dell’apprendimento. Dalla scuola dell’insegnamento sposta il baricentro sempre di più verso la scuola dell’apprendimento. E come tale pone l’attenzione alle diverse modalità con cui si impara: vedere, sentire, toccare, gustare, odorare. I cinque sensi si attivano per incontrare l’esperienza e per formaliz-
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zarla quindi in conoscenza. Per tutto questo nasce il bisogno del laboratorio e dell’atelier, gli spazi per fare, cercare, provare, sperimentare in autonomia il sapere. Ogni modalità didattica ha il suo diritto di essere e di connotarsi nella sua eccellenza. Esistono dunque i momenti della frontalità per garantire l’introduzione di nuovi tasselli conoscitivi, per fare il punto sulle attività svolte, per dare un resoconto delle ricerche e dei progetti realizzati. Ad essi si accompagnano i momenti per l’esercitazione guidata anche nel grande gruppo. Ma in alternanza vi sono i tempi per l’esplorazione autonoma e per l’appropriazione della conoscenza secondo le modalità ed i tempi più diversi. Il tutto informato da un legame imprescindibile con lo spazio, il terzo educatore di Loris Malaguzzi (1995), uno spazio da scegliere, da abitare, di cui appropriarsi per fare e per essere sempre più noi stessi attraverso i nostri cento linguaggi. Le tracce di una configurazione della scuola come laboratorio di sviluppo sono disseminate in tutto il documento delle Linee guida. Risulta interessante richiamare in chiusura la concezione aperta e multiprospettica che dovrebbe informare gli edifici scolastici del futuro: “La struttura spaziale è interpretabile anche come una matrice con alcuni punti di maggiore specializzazione, cioè gli atelier e i laboratori, alcuni di media specializzazione e alta flessibilità, cioè le sezioni / classi e gli spazi tra la sezione e gli ambienti limitrofi (solo a volte annessi alla sezione) e altri generici , gli spazi connettivi che diventano relazionali e offrono diverse modalità di attività informali individuali, in piccoli gruppi, in gruppo. La sequenzialità di momenti didattici diversi che richiedono setting e configurazioni diverse alunni-docente o alunni-alunni sta alla base di una diversa idea di edificio scolastico, che deve essere in grado di garantire l’integrazione, la complementarietà e l’interoperabilità dei suoi spazi.” (I.1 Gli spazi di apprendimento)
Scuole del futuro
per tutti
Si è cercato di presentare le caratteristiche degli edifici scolastici inclusivi descrivendo cinque fondamentali principi: apertura e unione, comunità, individualizzazione, eterogeneità e laboratorio di sviluppo. Si tratta di concetti che possono avere un valore astratto, ma che acquistano concretezza attraverso precise soluzioni architettoniche e attente scelte organizzative. Queste scelte non dipendono solamente dai progettisti, ma soprattutto dal concetto pedagogico degli insegnanti che abitano la scuola. La scuola del futuro non chiede più una diversificazione netta tra insegnanti e insegnanti di sostegno, ma si sta già direzionando verso una competenza diffusa in direzione di una cultura dell’inclusione per tutti. L’insegnante di sostegno diventa il
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consulente dell’apprendimento per tutti, l’insegnante di classe diventa l’insegnante di sostegno per tutti. Gli insegnanti di tutti e per tutti delle scuole del futuro si stanno già adoperando per offrire ai progettisti visioni aperte e unitarie del paesaggio di apprendimento in cui lavorano, si riconoscono come una comunità in apprendimento che sostiene i processi di individualizzazione e che vede l’eterogeneità come principio di valorizzazione delle differenze. Gli insegnanti sono già al lavoro nei laboratori di sviluppo della loro creatività per offrire al futuro una scuola che: “…diventa il risultato del sovrapporsi di diversi tessuti ambientali: quello delle informazioni, delle relazioni, degli spazi e dei componenti architettonici, dei materiali, che a volte interagiscono generando stati emergenti significativi” (I.1 Gli spazi di apprendimento).
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La nota teoria delle intelligenze multiple proposta da Howard Gardner in „Frames of Mind“ nel 1983 è un caposaldo per la riflessione sui processi di innovazione degli ambienti formativi, sia per i pedagogisti che per gli architetti. Gardner era convinto che la teoria classica dell’intelligenza, basata sul presupposto che esista un fattore unitario, misurabile tramite il QI, fosse errata. Dopo aver effettuato indagini sull’intelligenza dei bambini e su adulti colpiti da ictus, egli giunse alla conclusione che gli esseri umani non sono dotati di un determinato grado di intelligenza generale, che si esprime in certe forme piuttosto che in altre, quanto piuttosto che esiste una serie di facoltà relativamente indipendenti tra loro, che si ordinano a differenti tipologie di intelligenza:
Intelligenza linguistica WORD SMART Intelligenza logico-matematica NUMBER/REASONING SMART Intelligenza spaziale PICTURE SMART Intelligenza corporeo-cinestesica BODY SMART Intelligenza musicale MUSIC SMART Intelligenza interpersonale PEOPLE SMART Intelligenza intrapersonale SELF SMART Intelligenza naturalistica NATURE SMART Intelligenza esistenziale REAL WORLD SMART
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Oltre ad avere intelligenze multiple, gli individui posseggono differenti talenti e stili di apprendimento. Mentre tutti possiedono ciascuna di queste intelligenze in misure differenti tra loro, ciascuno ha una sua personalissima composizione intellettuale. Essa determina stili di apprendimento che possono lavorare indipendentemente l’uno dall’altro o insieme. Fino ad ora la scuola ha valutato gli alunni per le competenze che riguardano l’intelligenza linguistica e logico-matematica perché queste mantengono, sostengono e rinforzano un ambiente di apprendimento dove gli alunni sono riforniti delle informazioni confezionate dagli insegnanti in un contesto fondamentalmente passivo, di contro alle altre intelligenze, che necessitano di ambienti in cui l’intelligenza si manifesta con l’azione. La teoria delle intelligenze multiple sta quindi contaminando il modo di fare scuola. Si stanno mettendo a punto modalità per offrire agli alunni la possibilità di armonizzare la loro intelligenza specifica con i programmi e con la mission culturale-formativa delle istituzioni scolastiche. Allo stesso tempo nascono esperienze di scuole che organizzano gli ambienti di apprendimento in modo tale da stimolare e incoraggiare lo sviluppo delle diverse intelligenze, senza che gli insegnanti debbano pensare ad attività didattiche declinate in nove modi diversi. L’idea è quella di offrire una molteplicità di materiali, di occasioni e di postazioni didattiche perché ciascuno impari ad acquisire la conoscenza e a sviluppare le competenze con le vie che gli sono più appropriate. Le scuole che già stanno sperimentando programmi che includono la musica, il cooperative learning, le attività manuali e artistiche, i giochi di ruolo, le
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attività sul territorio, il pensiero riflessivo e metacognitivo, l’introspezione e altri metodi didattici sono ormai diverse. La teoria di Gardner non è un costrutto psicologico che studia la personalità, la moralità, la motivazione, bensì si concentra sugli aspetti intellettuali e cognitivi della mente umana. La sua attenzione quindi non arriva a descrivere come l’ambiente sociale e fisico influiscono sull’acquisizione della conoscenza. Essa poggia sull’assunto che ciò che deve essere attivo è colui che apprende, mentre l’ambiente di apprendimento viene di conseguenza considerato come passivo (Lipmann 2010). Non essendo stati chiaramente descritti gli elementi di sviluppo nelle varie fasi di età, non è facile descrivere in dettaglio come configurare ambienti didattici appropriati per le diverse intelligenze. Nonostante ciò Nair, Fielding e Lackney (2009) esplorano i differenti spazi e ambienti della scuola per verificare quali di essi possano accogliere, supportare e stimolare la pluralità delle intelligenze. A loro avviso la classe tradizionale si confà soprattutto all’intelligenza linguistica, logico-matematica, interpersonale ed esistenziale. È il luogo della lezione plenaria, delle consegne, delle restituzioni a grande gruppo. È anche il luogo in cui si ragiona insieme su temi che riguardano la vita, la filosofia, il mondo, sia attraverso attività da uno a tutti, che con la consegna di compiti da elaborare individualmente ma in modo congiunto, e che quindi possono stimolare l’intelligenza esistenziale. Al contrario le aule gruppo, le zone anfiteatro e le aree biblioteca possono stimolare tutte le intelligenze. Si presenta qui di seguito uno schema di come allocare le diverse intelligenze.
Advisory Grouping
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Cave Space
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Campfire Space
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Watering Hole Space
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Performance Space
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CafĂŠ
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Library
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Outdoor Learning Terrace
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Distance Learning Center
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Graphic Arts/ CADD Lab
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Fitness Center Playfields Blackbox Theater
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Greenhouse
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Project Studio
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Amphitheater
Entrance Piazza
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Existential
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Intrapersonal
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Interpersonal
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Naturalistic
Learning Studio
Spatial
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Bodily Kinesthetic
Logical Mathematical
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Musical
Linguistic Traditional Classroom
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Table 18.1 // Multiple Intelligences and School Spaces. @ Fielding Nair International.
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Scuola elementare di Monguelfo La scuola primaria in lingua tedesca di Monguelfo è un’apripista sul modo di collegare le intenzioni pedagogico-didattiche con gli spazi. Si parte dall’idea che la scuola sia una comunità in apprendimento che pone al centro il bambino con la sua ricerca per lo sviluppo delle proprie qualità individuali. Le classi sono disposte agli angoli dell’edificio e lo spazio intermedio viene descritto come un paesaggio di apprendimento, zona di apprendimento condivisa, biblioteca diffusa, laboratorio didattico, officina del fare. Gli insegnanti, alternando i momenti d’aula alle attività di approfondimento e di ricerca, offrono ai bambini un ambiente predisposto con i più
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diversi materiali per sfidare sistematicamente le capacità e la creatività e rendendoli consapevoli della responsabilità per il proprio apprendimento. Sono i bambini insieme ai loro insegnanti a crearsi l’ambiente che è in continuo cambiamento. Gli spazi si usano liberamente in base alla situazione e alle esigenze. Anche i corridoi oppure le scale sono impiegati per apprendere. L’aula originariamente destinata al sostegno è un luogo speciale per tutti coloro che necessitano di un luogo di raccoglimento, non separato, ma in continuità con lo spazio comune, grazie a una parete a vetro mobile. E gli insegnanti stessi a rotazione diventano consulenti dell’apprendimento.
Reggio Children e gli spazi plurali Nei nidi e nelle scuole dell’infanzia di Reggio Children, da qualche anno anche nella scuola elementare presso il Centro Internazionale Loris Malaguzzi anche lo spazio riflette la peculiarità dei “cento linguaggi” di cui l’essere umano è dotato. L’apprendimento può avvenire dappertutto e quanto più gli spazi sono diversificati, tanto più il bambino è stimolato nel ricercarne una destinazione d’uso. Le sezioni sono spesso organizzate almeno su due livelli, con piccoli e grandi soppalchi per le attività di gruppo o per gli approfondimenti. I gradoni, che si ispirano alle soluzioni architettoniche di Herman Herzberger, offrono molteplici piani dove fare esperienze con i più diversi materiali. Gli spazi atelier, che
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appositamente si interfacciano con le zone di raccolta del gruppo attraverso collegamenti e vetrate, sono i luoghi dove quotidianamente i bambini incontrano una varietà di materiali, linguaggi, punti di vista, per avere contemporaneamente attive le mani, il pensiero e le emozioni, valorizzando l’espressività e la creatività di ciascun bambino e dei bambini in gruppo. Una democrazia di sguardi, dall’alto verso il basso e viceversa, dal dentro al fuori, tra ambienti chiusi e aperti, tra piazza e sezione, tra classe e atelier, che trasformano anche in spazio concreto e in esperienza vissuta il principio della pluralità culturale e dei tanti diversi modi di osservare e conoscere il mondo.
Riporto qui una riflessione molto acuta sulla classe di Marco Orsi, dirigente scolastico e promotore del progetto “Scuola senza zaino” (www.senzazaino.it) tratta da un saggio per Dirigenti Scuola 2013 (“Per una leadership efficace: cinque caratteristiche della organizzazione scolastica”). “Nel locale di una redazione di un giornale, in un ufficio di un’anagrafe comunale o in un’agenzia delle poste in un unico locale, di norma assai più grande di una qualsiasi aula scolastica, possono essere raggruppate al massimo cinque-sei persone. Negli ospedali e nelle carceri i pazienti da un lato, e i detenuti dall’altro, non sono più di quattro-sei ad abitare lo spazio che li ospita (la corsia o la cella). La scuola, lo si capisce subito, è diversa: negli spazi di un’aula, non più grandi dei precedenti, sono ospitati dalle venti alle trenta persone (includendo anche i docenti) che debbono “lavorare” quattro-cinque ore al giorno per circa duecento-duecentoventi giorni all’anno. Questa caratteristica la indichiamo con il termine “densità eccezionale”. (…) La questione è che mettere assieme per un dato tempo e in un dato spazio, molte persone portatrici della novità e imprevedibilità tipica delle nuove generazioni, genera timore, ansia, paura. La densità eccezionale dice della catalizzazione dell’inedito e della novità e per questo le scuole sovente rispondono a una situazione del genere con metodi improntati alla tramissività, al controllo, alla sorveglianza (Foucault 1976), piuttosto che alla partecipazione e alla responsabilità. Certamente occorre riconsiderare lo spazio abitativo delle scuole, andando oltre la dimensione spesso totalizzante dell’aula, tentando di sfruttare tutte quelle aree che sovente sono disabitate o scarsamente utilizzate: atri, corridoi, laboratori, spazi in genere connettivi, immaginando anche aggregazioni libere che vanno oltre il sistema della classe rigidamente strutturato. In conclusione: è possibile – ci domandiamo - uscire
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da questa chiusura tradizionale accettando la sfida della fiducia (Marzano 2012), vale a dire creare un ambiente in cui la comunicazione e la collaborazione fioriscono e le responsabilità sono delegate? La fiducia, come è stato detto (Fukuyama 1996), produrrebbe con maggior probabilità organizzazioni comunitarie, perciò coese e flessibili, dove non necessariamente i ruoli sono rigidamente inquadrati e dove il successo sarà più a portata di mano.” Considerare le qualità pedagogiche della fiducia e della responsabilità significa offrire alla scuola la chance di innovarsi giocando sull’impegno di ciascuno a prendersi un po’ più sul serio, nelle proprie possibilità e nei propri limiti. Accompagnando l’Istituto Comprensivo Merano I nello sviluppo del proprio concetto pedagogico in vista di una prossima ristrutturazione dell’edificio durante tutto il 2013, sono emerse da parte degli insegnanti una serie di segnalazioni di disagio rispetto al troppo carico di responsabilità, allo stress, uniti al desiderio di generale “star bene” a scuola. Ragionando sul concetto di possibilità e di limite, è emerso come il limite degli insegnanti consista proprio nel “sorvegliare” o “condurre” tutti gli alunni contemporaneamente, sia in classe, sia nel percorso dal cortile alla classe. Non concedere fiducia e responsabilità agli alunni comportava per gli insegnanti un enorme carico di stress. Nella definizione dei principi pedagogico/didattici della scuola sono emersi quindi i propositi di informare l’agire didattico di nuove abitudini per raggiungere un maggiore benessere per tutti, insegnanti e bambini. Gli insegnanti hanno descritto la loro scuola del futuro con i seguenti termini: una scuola nomade, ovvero in movimento, luogo unitario e al contempo suddiviso in macro e microspazi dove tutti i soggetti della scuola si muovono con grazia per raggiungere gli obiettivi che si prefiggono; una scuola comunità, in cui si condividono principi e uno stile di vita improntato alla responsabilità di tutti, per tut-
ti; una scuola città, fatta di strade con le sue officine, di piazze per l’incontro e lo scambio, sostenuta con l’impegno laborioso e la coscienza civica; una scuola atelier, o laboratorio del fare, basato sull’osservazione, l’ascolto, l’azione creativa e la vivacità espressiva; una scuola salotto, in cui sono accolti e pedagogicamente sostenuti i momenti di sosta e di ristoro, gli scambi informali, i momenti in cui si cerca anche calore e tranquillità. A seguito della consegna del “piano organizzativo a indirizzo pedagogico” della scuola al comune di Merano, per iniziare le procedure che conducono alla ristrutturazione, la dirigente Vally Valbonesi e gli insegnanti hanno stabilito di voler continuare il loro percorso e di iniziare a trasformare in azioni concrete i principi affermati nel documento, a dimostrazione che tra dire e fare non c’è sempre di mezzo il mare. Dal 2014 sto seguendo la
metamorfosi di questa scuola che con azioni semplici trasforma lentamente il modo di fare scuola: alcune classi riorganizzano l’arredo in isole e si aprono agli androni antistanti, alcuni insegnanti cercano la complicità dei genitori e iniziano progetti di percorso autonomo dei bambini dal cortile alla classe al mattino; altri considerano l’opportunità di posizionare i computer fuori dall’aula e di arredare alcuni spazi intermedi con una biblioteca tematica, altri ancora trasformaLA SCUOLA NOMADE no i guardaroba in zone relax e lettura. Se(una scuola movimento) gnali piccoli, carichi in di grandi cambiamenti.
La scuola è luogo unitario, integrato,
Riportocon quimocrospazi di seguito alcuni elementi porche promuovono tanti del concetto pedagogico sviluppato dal differenti attività. È una scuola che gruppo spazi Merano I, descritti anche in un continuo movimento forma presuppone grafica dall’architetto Sandy Attia, dei suoi abitanti, glisui insegnanti, gli mia compagna di ricerca temi della alunni, tutto il personale non pedagogia chee dialoga con l’architettura.
docente, in direzione dellʼautorealizzazione.
LA SCUOLA NOMADE
LA SCUOLA NOMADE (una scuola in movimento) (una scuola in movimento)
LA SCUOLA COMUNITÀ (una scuola democratica)
LA SCUOLA COMUNITÀ (una scuola democratica) La scuola si fonda
sul principio che ciascun soggetto (genitore, insegnante, La scuola è luogo unitario, integrato, si fonda sul principio che ciascun La scuola è luogo unitario, integrato, con mo- La scuola alunno, custode, amministrativo, dirigente) con mocrospazi che promuovono soggetto (genitore, insegnante, alunno, crospazi che promuovono differenti attività. ha una funzione costitutiva per una differenti attività. È una scuola che custode, amministrativo, dirigente) ha una È una scuola che presuppone un continuo comunità diper lavoro che si organizza funzione costitutiva una comunità di movimento dei suoiun abitanti, gli insegnanti, presuppone continuo movimento intorno a un variegato paesaggio gli dei alunni, e tutto il personale non docente, in suoi abitanti, gli insegnanti, gli lavoro che si organizza intorno a un variega- di apprendimento e si fonda su su principi to paesaggio di apprendimento e si fonda direzione dell’autorealizzazione. alunni, e tutto il personale non principi condivisi. condivisi.
docente, in direzione dellʼautorealizzazione.
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LA SCUOLA CITTÀ
(apprendimento civico)
Usando la metafora della città, l scuola si costruirsce intorno alle strade dellʼapprendimento e alle
LA SCUOLA NOMADE
(una scuola in movimento) La scuola è luogo unitario, integrato, con mocrospazi che promuovono differenti attività. È una scuola che presuppone un continuo movimento dei suoi abitanti, gli insegnanti, gli alunni, e tutto il personale non docente, in direzione dellʼautorealizzazione.
LA SCUOLA CITTÀ
LA SCUOLA CITTÀ (SCUOLA apprendimento civico) LA SALOTTO (apprendimento civico)
LA SCUOLA COMUNITÀ (una scuola democratica)
(apprendimento relax) Usando la metafora della città, la scuola costruirsce Usando la metafora dellaun città, laintorno scuola sialle La scuola èsianche luogo aperto, costruirsce alle strade strade dellʼapprendimento caldo eintorno accogliente, condell’apprenluoghi e alle sue dimento e alle sue officine, ha piazze Il destinati allo scambio informale. officine, ha piazze come come luoghi luoghi d’incontro e di scambio. La didattica salotto è impiegato come la La didattica dʼincontro e di scambio. si vive in un ambiente civico strutturato e metafora visualizzare uncivico si viveper in ambiente in un’atmosfera di un corrresponsabilità. ambiente didattico e strutturato e ininformale unʼatmosfera di domestico.
La scuola si fonda sul principio che LASCUOLA SCUOLA SALOTTO LA SALOTTO LA(apprendimento SCUOLA ciascun soggettoCITTÀ (genitore, insegnante, relax) relax) (apprendimento (apprendimento civico) alunno, custode, amministrativo, dirigente) La scuola è anche un luogo aperto, La scuola è anche un luogo aperto, e ha Usando una funzione costitutiva per la unacaldo la metafora della città, accogliente, con luoghi destinati allo scamcaldo e accogliente, con luoghi comunità lavoroIl che si èorganizza scuola sidicostruirsce intorno alle bio informale. salotto impiegato come Il destinati allo scambio informale. intorno a un variegato paesaggio di strade dellʼapprendimento e alle sue la metafora per visualizzare un ambiente salotto è eimpiegato come la officine, ha piazze luoghi apprendimento si come fonda su principi didattico informale e domestico. dʼincontro e di scambio. La didattica metafora per visualizzare un condivisi. si vive in un ambiente civico ambiente didattico informale e strutturato e in unʼatmosfera di domestico. corrresponsabilità.
corrresponsabilità.
LA SCUOLA ATELIER
LA SCUOLA ATELIER (un laboratorio di apprendimento) (un laboratorio di apprendimento)
Il modello educativo si basa sulʼosservazione, lʼascolto e lʼazione. Con Il modello educativo si basa sul’osservazione, enfasi sullʼapprendimento creativo l’ascolto e l’azione. Con enfasi sull’apprenattraverso laboratoriali centrati sul dimento creativoprogetti attraverso progetti laboratoriali centrati sul fare,la scuola diventa fare,la scuola diventa un workshop un workshop vivente si esplorano le vivente dove si dove esplorano le dimensioni dimensioni espressive e plurali dell’individuo espressive e plurali dellʼindividuo
te)
LA SCUOLA ATELIER
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(un laboratorio di apprendimento) Il modello educativo si basa sulʼosservazione, lʼascolto e lʼazione. Con
Una tesista, Ochner Desiree, in un questionario ai bambini tra le diverse domande chiedeva “se la scuola avesse un gusto”? Una domanda interessante… perché non usare anche metafore per descrivere la propria esperienza scolastica, perché non accostare alle nostre riflessioni i cinque sensi, che ci raccontano dei nostri ricordi, delle nostre sensazioni ed emozioni, dei vissuti che ci hanno scolpito e sulla base dei quali costruiamo il nostro futuro. Il gusto della scuola… dolce, salato, aspro, amaro… già troppo generico il pensiero, già quasi astratto, spesso diventa un concetto “esperienza dolce-amara”, “momenti aspri” ecc. . Se invece penso a qualcosa di concreto mi viene in mente la cosiddetta “michetta” o “rosetta”, il pane più semplice che c’era allora là dove vivevo, bianco, vuoto dentro, ne duro ne morbido, quasi insipido. Lo stesso gusto della mia esperienza di scuola, semplice, tranquilla, a volte un pò insipida e vuota, che si colorava un pò di più quando ci mettevo (e a volte nascondevo) dentro qualcosa io… Il gusto della scuola in realtà consente interessanti giri di parole: a scuola con gusto, una scuola di gusto, scuola per tutti i gusti. Questo è un po’ lo slogan delle scuole del futuro.
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A scuola con gusto, dove si ha piacere di andare e dove non si perde il gusto di apprendere. Ricordiamo che conoscere, cercare, capire il mondo è una caratteristica a noi connaturata, un bisogno fondamentale dell’individuo, che nessuno può cambiare… certamente invece ciascuno può decidere di cambiare il luogo e il modo in cui avviene. Si impara con gusto là dove l’appetito non scompare, dove al pensiero viene l’acquolina in bocca… Una scuola di gusto, dove l’attenzione all’estetica non è un dettaglio, dove l’organizzazione degli spazi è un’arte, dove l’architettura ha il suo perché e vuole offrire il suo linguaggio formativo e culturale. Una scuola di gusto perché pensata ad ampio raggio come unità di spazio e ragionamento, pensiero pedagogico e soluzione architettonica. La forma concreta di una idea e di una proposta formativa. Scuola per tutti i gusti dove l’apprendimento è al centro, e dove ciascuno dunque cerca le proprie vie per conoscere, nella piena consapevolezza che siamo tutti uguali e tutti diversi. Una scuola laboratorio, luogo di sperimentazione e del fare, luogo di ricerca e di cultura, in cui il gusto che prova ciascuno nel proprio personale percorso di ricerca è rispettato, sostenuto e guidato.
Tutti insegnano, e insegnano sempre. Questa è una responsabilità che ti assumi inevitabilmente nel momento in cui accetti una qualsiasi premessa, e nessuno può organizzare la propria vita senza un sistema di pensiero. Una volta che hai sviluppato un sistema di pensiero di qualsiasi genere, vivi in conformità a esso e lo insegni. La questione non è se tu insegnerai, poiché in questo non c’è scelta. Si potrebbe dire che lo scopo degli studi che fai è di fornirti il mezzo per scegliere ciò che vuoi insegnare sulla base di ciò che vuoi imparare. Insegnare è imparare, cosicché insegnante e studente sono la stessa cosa. L’insegnamento è un processo costante. Insegnare e imparare sono le tue forze più grandi adesso, perché ti mettono in grado di cambiare la tua mente e di aiutare gli altri a cambiare la loro. Ricordati sempre che insegnerai ciò in cui credi. Imparerai ciò che insegnerai. Se questo è vero, e sicuramente lo è non dimenticare che ciò che insegni ti sta insegnando. Qualsiasi situazione deve essere per te un’occasione per insegnare agli altri cosa sei e cosa essi sono per te. Niente più di questo, ma anche niente di meno. Non insegnare a nessuno quello che tu non vorresti essere. L’altro è lo specchio in cui vedi l’immagine di te stesso. Impari qualsiasi cosa insegni. Insegna solo l’amore e impara che l’amore è tuo e tu sei l’amore. Insegna solo amore perché questo è ciò che sei.
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Le nuove prospettive della cultura pedagogico-didattica presuppongono una modalità di lavoro e di ricerca a tutto tondo protesa alla qualificazione di tutti i segmenti e ambienti dello sviluppo umano. In particolare i concetti di cultura diffusa, intelligenza e creatività, permettono di approfondire il ruolo dell’innovazione come chiave di volta tra teoria e azione, tra acquisizione scientifica e processo culturale. Se per innovazione si intende un processo che genera sviluppo e crescita, che offre elementi costruttori di bene comune, uno dei più importanti luoghi dell’innovazione dovrebbero diventare gli spazi e gli ambienti della formazione e dell’educazione. A partire da alcune riflessioni emerse da un singolare convegno organizzato dalla Fondazione Collodi il 25 Ottobre 2013 intitolato “Interrogando pinocchio - Nuove prospettive della cultura”, si presentano alcune riflessioni conclusive di questo lavoro, con l’intento di lanciare nuove piste di ricerca e di indagine tra pedagogia e architettura.
a L’innovazione tr ne azione e riflessio L’innovazione si fonda sui dispositivi della capacitazione e della relazione, come ben argomentato da Umberto Margiotta (2009), pensando al capability approach. L’ambiente scuola, i parchi giochi, i luoghi di aggregazione comunitaria più o meno formali, possono diventare quindi un elemento chiave di indagine sui processi che formano le qualità degli individui. In questo senso il riferimento all’inquiry circle di Dewey del 1938, oltre che a quello di Kolb del 1984 e di Bruce e Bighop del 2008, offrono interessanti spunti per analizzare i processi della generazione e rigenerazione della cultura negli universi della socializzazione educante. Essi si basano in particolare su due elementi chiave: l’azione sul campo
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(osservazione, esperienza, sperimentazione, discussione) e l’astrazione o generalizzazione, determinata dall’importante ruolo della riflessione, che non è altro che l’introiezione, analisi ed elaborazione costruttiva degli esiti dell’azione. Come noto essi sono fondamentali per la professionalità di coloro che hanno responsabilità diversificate sugli ambienti preposti all’educazione e alla formazione: la politica, l’amministrazione, la scuola, l’università, sotto i più diversi punti di vista, hanno il compito euristico, ovvero propositivo, generativo, di dare identità pedagogica a questi luoghi, nell’ottica tutta laportiana della “comunità educante”.
i spazi Innovazione degl ivazioni tra bisogni e mot Il percorso che guida all’identità si basa sull’innato bisogno umano che tende alla conoscenza e all’autorealizzazione, ben descritto con la tassonomia dei bisogni di Abraham Maslow. Il bisogno, oltre che procedere da una mancanza, è guidato dall’elemento positivo della motivazione, che quanto più è intrinseca, tanto più è soddisfacente e contaminante (Capurso 2004). I luoghi pubblici preposti alla formazione più o meno formale, oggi, sono alla ricerca di una loro identità e più specifica connotazione pedagogica. Negli ambienti dell’architettura sta maturando interesse e sensibilità per la progettazione dello spazio pubblico come luogo ibrido, tra giardini e cortili delle scuole, spazi gioco all’aperto, luoghi di aggregazione. Se pensiamo alle scuole, alcuni istituti comprensivi, istituti superiori e professionali appartenenti ai diversi contesti territoriali stanno costruendo un chiaro profilo pedagogico che guidi l’azione didattica. Ne sono prova non poche iniziative che vanno dalla Toscana, con “scuole senza zaino” di Marco Orsi, alla Lombardia, con le esperienze di Cristina Bonaglia a Mantova per le secondarie superiori, A Reggio Emilia, con le scuo-
le he seguono il Reggio Approach, all’Alto Adige, dove non solo proliferano scuole pubbliche fino alla secondaria di primo grado a orientamento montessoriano, steineriano e misto, con nuove organizzazioni dello spazio degli arredi e delle attività, ma dove dirigenti motivati ed attenti alla relazione spazio e apprendimento (come Josef Watschinger a Monguelfo), stanno offrendo ottimi esempi di scuola all’avanguardia. La scuola, da luogo di accentramento del sapere, si sta aprendo alle cosiddette “periferie dell’apprendimento”, che si muovono tra i mondi della formazione istituzionale, informale, sportiva, del lavoro e della vita pubblica. In questo processo, gli stessi luoghi tradizionalmente preposti all’insegnamento, le classi, si aprono ai corridoi, ai connettivi, cercando trasparenze visive o spazi di lavoro condiviso. I grandi androni diventano le “piazze dell’incontro e dell’apprendimento”, gli spazi abitualmente destinati a funzioni specifiche si smaterializzano a vantaggio di una ibridazione dei tanti luoghi “morti” o di passaggio tra gli ambienti.
endimento Ambienti di appr sualità tra creatività e ca La riflessione diffusa sul concetto di “ambiente di apprendimento” è nata forse con un’analisi delle potenzialità delle tecnologie e della Rete, come luogo dell’apprendimento individuale, ma anche condiviso e partecipato, in cui sostenere i processi conoscitivi in ottica costruttivista (Marconato 2012). Oggi gli assunti e le modellizzazioni didattiche (pensiamo al problem solving e agli ask system di Jonassen) maturati sugli ambienti virtuali cercano una loro traduzione operativa in spazi fisici e negli ambienti scolastici concreti. Nasce una nuova attenzione alla “geografia degli spazi educativi” (Ziliotto 2013) come luoghi dell’orientamento consapevole e dell’esperienza nella tensione tra libertà e controllo del processo conoscitivo. Si fa strada
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la riflessione sul concetto di “apprendimento creativo”, che per il fatto stesso di connotarsi come divergente, è diversificato, multiprospettico, proteso verso la validazione delle qualità di ciascuno come differente dagli altri, secondo il principio inclusivo, certamente anche gardneriano (2002) del: tutti uguali e tutti diversi. In realtà, la creatività è un processo che spinge l’individuo ad affinare le proprie capacità espressive, valorizzando la propria specialità o differenza nel raccontarsi, nel leggere il reale e nel porsi nel mondo per trovare sempre di più la propria identità. Un percorso costellato da casualità, come acutamente segnalato da Roberto Masiero, una casualità affasciante, perché indica una serie di accadimenti che possono essere letti come impedimenti o occasioni, a seconda di quanto ciascuno, quindi anche gli enti preposti all’educazione alla formazione, abbia chiara la propria direzione.
ssibilità Creatività tra fle e movimento Al concetto di creatività si lega anche quello di flessibilità, come proposto da Mario Lipoma, inteso come azione e movimento con le cose/ sulle cose, che genera relazionalità e interdisciplinarità. È proprio l’attenzione allo sviluppo del movimento delle/ con le/ e tra le cose/ discipline/ persone/ ambienti che si può cogliere la qualità della “grazia”, quel movimento consapevole, controllato, elegante (già ampiamente valorizzato da Maria Montessori) che genera una spinta all’innovazione e stravolge i classici sistemi di apprendimento della conoscenza e li trasforma da lineari, dunque simbolico - astratti, a reticolari, diffusi, espressivi.
Scenari In tutto ciò si prospettano scenari affascinanti: la comunità educante è in cerca di nuovi modelli didattici basati su esempi concreti di come fare scuola e di come gene-
rare socialità formativa negli spazi pubblici. Tutto questo poggia su euristiche pedagogiche condivise, assunte dalla comunità con responsabilità e passione. La scuola si riconosce come corpo: corpo che si ha, corpo che si è, corpo che racconta di abitudini e stili di vita, qualità e impegni. Il corpo che dà abito e che è allo stesso tempo abitato (Galimberti, 1987), la zona di confine tra ciò che rappresenta il noi della scuola e ciò che va oltre. I progetti sui luoghi, gli ambienti e gli spazi dell’apprendimento e della formazione offrono un terreno molto fertile allo scambio culturale tra le discipline, gli ambiti, le competenze di soggetti che generalmente non sempre dialogano tra di loro: pedagogisti, studiosi del movimento, psicologi, filosofi, architetti, designer, insegnanti, rappresentanti degli enti locali, committenti, tecnici e molti altri ancora possono diventare gli interlocutori attivi di un processo di ripensamento, nuova invenzione e appropriazione partecipata degli spazi per educare e apprendere.
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Per insegnare “Il Saper Fare” cosa bisogna “F A R E “ ...
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... Il tutto con i cinque sensi:
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