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INTERVISTA

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TENDENZE

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UN NUOVO FORMAT ALL’ORIZZONTE E IL RADDOPPIO A MILANO DELL’INSEGNA AJI. IL FONDATORE CLAUDIO LIU RACCONTA I PROGETTI DI IYO GROUP E LE SFIDE DELLA RISTORAZIONE CONTEMPORANEA.

IYO GROUP SCOMMETTE SU MILANO

di Sabrina Nunziata

Quattro insegne, due stelle Michelin, una città: Milano. Sono questi alcuni dei numeri che caratterizzano Iyo Group, il brand della ristorazione fondato nel capoluogo lombardo da Claudio Liu. Nato in Cina e cresciuto in Emilia, l’imprenditore, dopo aver lavorato nel ristorante di famiglia, ha aperto nel 2007 Iyo, locale di cucina contemporanea giapponese e primo e unico ristorante di cucina ‘non italiana’ a ottenere una stella Michelin in Italia per l’edizione 2015 della Guida. Nel 2018 è stata la volta di Aji, format di delivery e take away di sushi e cucina orientale di alta qualità che si prepara a raddoppiare la propria presenza su Milano, e l’idea è quello di esportarlo anche fuori dai confini cittadini. Nel 2019, invece, Liu ha aperto Iyo Omakase, il sushi banco secondo l’autentica tradizione Edomaezushi, e Aalto, il fine dining “di cucina libera”, come viene descritto dal gruppo, che ha subito ricevuto una stella Michelin. La realtà milanese, che nel 2020, anno dello scoppio della pandemia, è riuscita a contenere la flessione realizzando un fatturato di 3,3 milioni di euro (contro i 4 milioni del 2019), si prepara ora a nuove sfide, tra cui un nuovo e inedito progetto proprio nella città Natale.

Da sinistra, i gyoza al branzino di Aji e l’interno del ristorante Aalto

Come è andato il 2021 per il gruppo?

All’inizio non ci aspettavamo granché da questo anno. Ma con la riapertura a singhiozzi da maggio, quando si poteva utilizzare solo la parte esterna che per noi consiste in 20 coperti, e poi con giugno, abbiamo assistito a una ripresa da 0 a 100. Questi mesi di chiusura hanno portato le persone ad avere voglia di uscire e ciò ha comportato una notevole mole di lavoro per noi e, in generale, per tutto il comparto della ristorazione. È come se quei mesi fossero stati dopati con l’euforia e la voglia di uscire delle persone che per oltre un anno sono rimaste chiuse in casa e non hanno speso. Se prima infatti uscivano per andare al ristorante una volta al mese, ora sono passati a due, e anche la spesa per la bottiglia è salita. C’è voglia di godersi la vita. Certo, è difficile prevedere se durerà. Di sicuro, se non ci fossero state le chiusure, il 2021 sarebbe stato un anno super positivo. Dal mio percepito, penso ci sarà un momento di assestamento. Le somme potremmo tirarle dalla metà del prossimo anno. In ogni caso, anche se ancora sotto al 2019 in termini di fatturato, siamo comunque riusciti a chiudere, di poco, in attivo.

Tra le vostre insegne, ce ne è stata una maggiormente trainante?

Sicuramente Aji, che è la nostra insegna dedicata al delivery e take away e che gestiamo in toto internamente, senza appoggiarci a terzi. L’abbiamo concepita nel 2018 pertanto abbiamo avuto il tempo per sviluppare esperienza nella sua gestione e tra il 2020 e il 2021 ha performato molto bene.

Per Aji siete totalemente strutturati internamente, è un valore aggiunto e imprescindibile nell’offerta del servizio?

È un fattore molto positivo perché chi ordina a casa ha l’unico contatto umano con l’insegna proprio tramite il rider. Per noi quindi chi effettua la consegna è una figura di riferimento che pertanto deve essere formata e disponibile a saper rispondere a tutte le domande poste dai clienti. E infatti i nostri rider sono tutti assunti da noi. In questo modo riusciamo a offrire qualcosa di totalmente nostro. Inoltre, disponiamo di una flotta composta da mezzi elettrici, quali 12 motorini e una Smart, un parco veicoli importante per un servizio di questo tipo.

Riuscite a coprire tutta Milano?

Attualmente la nostra unica base è in via Piero della Francesca, all’interno del flagship di Iyo, e l’area di copertura su Milano si estende da qui fino a sei chilometri, pertanto riusciamo a servire il 70% circa della città. La parte opposta, e quindi per intenderci l’area di Porta Romana, è troppo distante. L’idea, quindi, è di affittare un nuovo spazio in questa zona. Stiamo già disegnando il progetto e spero di partire già nel 2022.

Valutate l’idea di esportare fuori Milano le vostre insegne?

Il progetto di Aji è nato con l’idea di essere esportato e infatti abbiamo il sogno di aprire altrove, ma per farlo è necessario strutturarci prima per bene. Con le altre insegne è invece troppo complicato. Iyo e Aalto sono molto sartoriali e replicarli sarebbe troppo complesso perché il rischio è di snaturare il nostro concetto.

Avete invece l’idea di lanciare altri format?

Lavorando in questo settore da tanti anni ormai di idee ne abbiamo, ma io sono dell’opinione di non fare le cose troppo velocemente. In ogni caso, spero tra il 2022 e il 2023 di poter portare a termine una nuova idea che, sicuramente, si svilupperà in primis su Milano, che è una città molto severa ma anche molto generosa. Questa poi è la nostra casa e ogni progetto deve partire da qui.

Riscontrate anche voi delle problematiche relative al reperimento di personale?

Così come altri colleghi, pur avendo parecchia mole di lavoro, facciamo fatica a trovare nuovi lavoratori. Per la cucina ci arrivano tante candidature, in questo ambito c’è meno difficoltà, mentre il vero problema è sulla parte sala. In Italia, a differenza di altri Paesi, il contratto del nostro settore non agevola l’assunzione e inoltre la vita che si fa lavorando in un ristorante è fuori dall’ordinario, con orari che non combaciano con la maggior parte delle altre persone. È una vita di forte sacrificio. Il nostro obiettivo è quindi cercare di dare più tempo ai nostri ragazzi e l’inserimento di nuove figure servirà proprio a questo, a creare delle turnazioni.

Secondo lei questa maggiore attrazione verso la cucina dipende anche dalla figura dello chef-celebrità promossa dalla televisione?

I media hanno fatto il loro. Parlavo con un docente di alcune strutture scolastiche del ramo alberghiero che mi diceva della sproporzione tra le richieste per la cucina e quelle per la sala. Ma queste tendenze sono cicliche e non credo che durerà ancora tanto.

Come funziona la formazione del personale?

È un tema delicato. Attualmente avviene sul posto con i responsabili che si dedicano alla formazione dei nuovi assunti. Ma ora che il gruppo sta crescendo stiamo valutando di fare formazione in maniera più meticolosa, magari creando un reparto di formazione più chirurgico.

Che rapporto avete con i fornitori? Disponete di esclusive?

I nostri fornitori rappresentano per noi un patrimonio e la collaborazione è fondamentale. In questi anni abbiamo conosciuto persone e professionisti con cui

L’interno di Iyo, locale di cucina giapponese contemporanea, e un piatto della sua cucina: uramaki blue lobster

abbiamo legato e con cui ci siamo trovati molto bene ma questo non ci vincola. Noi compriamo dove c’è il miglior prodotto sul mercato in quanto la qualità è imprescindibile. Non abbiamo esclusive, non le diamo e non ce le chiedono, siamo assolutamente indipendenti. Abbiamo fatto un lavoro molto importante sulla ricerca del pescato. E ciò che ora stiamo cercando di fare è andare direttamente alla fonte creando un network direttamente con le imbarcazioni.

Per quanto riguarda la parte vini, quante etichette avete in carta? Ha percepito dei cambiamenti a livello di richiesta dei consumatori?

Abbiamo due ristoranti che hanno una carta vino che poggia su una base simile, mentre il 20-30% varia in base al menu di stagione, questo perché vogliamo creare un’esperienza anche tramite l’abbinamento di cibo e vino. Ogni insegna ha il suo sommelier e le etichette sono circa 800 per ristorante.

Come è cambiata, secondo lei, la ristorazione giapponese negli ultimi anni in Italia? Il fatto che Iyo sia stato il primo ristorante di cucina ‘non italiana’ a ottenere una stella Michelin nella Penisola ha in qualche modo avuto ripercussioni sull’ecosistema generale?

Il fatto di aver ricevuto una stella ha lasciato un segno indelebile perché se prima si pensava che lo stellato fosse solo il ristorante italiano portato alla massima espressione, da quel conferimento tanti miei colleghi hanno capito che la stella si può prendere anche se non si è necessariamente italiani in Italia. Questo ha portato più ambizione e voglia di alzare l’asticella. Certo, la scena della ristorazione sarebbe cresciuta a prescindere, perché ad oggi ci sono tanti giovani che hanno ambizioni differenti da prima, che vogliono fare un salto in più.

E dal punto di vista dei consumatori?

C’è molto più interesse. Sono attenti e documentati e prestano più attenzione alla provenienza della materia prima e al come viene fatto un piatto.

I vostri ristoranti sono spesso difficili da prenotare perché quasi sempre pieni. Qual è il segreto del vostro successo?

Non abbiamo un segreto particolare. Teniamo molto ai nostri modelli e mettiamo sempre il cliente al centro di tutto.

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