UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la
pastorale sociale e del lavoro) Continuiamo il nostro itinerario intorno alle parole per la democrazia seguendo il filo proposto da Simone Morandini la volta precedente (Voce Vallesina, n. 21 del 15 giugno) e riflettendo sul bene comune quale privilegiata declinazione dell’etica civile. Potremmo intendere questa escursione, ma questo vale per tutto ciò che la rubrica sta proponendo, come una sorta di pellegrinaggio a fonti lessicali piene di valore e di significato per la vita delle nostre comunità complesse. Se la civitas costituisce l’efficace cifra dell’abitare attivamente lo spazio globale, nonché l’ambito dove le buone relazioni sono uno dei presupposti per una comunità di vita, di lavoro e di cura, il bene comune ne rappresenta una componente imprescindibile, oltre ad essere “il principio organizzatore dell’intero discorso sociale della Chiesa in materia politica, sociale ed economica” (D. Coatanéa, Aggiornamenti sociali n. 5, 2013). Per contro, alla prova dell’azione politica, in particolare quella dei partiti, quale sua consolidata per quanto fragile espressione, il bene comune o evapora o resta un guscio vuoto. La crisi della democrazia rappresentativa, “che non contenta più gli animi degli onesti”, lo sviluppo della riflessione intorno alla democrazia partecipativa e alla democrazia deliberativa, testimoniano di un protagonismo di quella parte della società civile per la quale la riserva di valore del bene comune non solo è conservata ma, addirittura, accresciuta. Basti guardare, da un lato, al consolidamento del terzo settore, nonostante la sconsiderata abolizione della omonima Agenzia nazionale operata nel 2012 dal governo Monti, dall’altro l’importante progetto di riforma dello stesso settore, attualmente in discussione. Il recupero di un maggiore equilibrio tra le tre espressioni della democrazia, finalizzato al suo consolidamento, può significare per parte nostra, con gli adeguati progetti formativi e nella prospettiva del convegno decennale di Firenze 2015 sul nuovo umanesimo, accogliere quella sfida educativa posta a base dei vigenti orientamenti pastorali, tesa a “sostenere la crescita di una nuova generazione di laici, capaci di impegnarsi a livello politico con competenza e rigore morale”.
Simone Morandini è coordinatore del gruppo di ricerca “Etica, filosofia, e teologia” della Fondazione Lanza di Padova ed è membro del gruppo “Custodia del creato” della CEI. Insegna presso l'Istituto di Studi ecumenici S. Bernardino di Venezia e la Facoltà teologica del Triveneto. Giancarlo Uncini Parole per la democrazia: Bene comune
La parola comune nel titolo a questo intervento non intende certo evocare quell’edificio che sta al centro di tante nostre città e neppure la struttura deliberativa ed amministrativa ad esso collegata. Ciò che vorremmo fare è soprattutto riflettere in breve sull’idea di bene comune, che crediamo essenziale per declinare efficacemente un’etica civile, per comprendere come custodire quella vita buona assieme che sta al cuore dell’esperienza democratica1. Un’idea che purtroppo sembra come smarrita in questo tempo di crisi e che occorre ripensare in tutta la sua densità. Non si tratta certo di un’espressione inedita: potremmo seguirne le tracce attraverso la modernità, per risalire al Medioevo ed oltre e che anche oggi sta al centro della Dottrina Sociale della Chiesa. Non per questo appare meno necessario chiarirne il significato ed il valore: troppe sono le interpretazioni 1
S.Morandini, Custodire futuro. Etica nel cambiamento, Albeggi, Roma 2014.
inadeguate, purtroppo ancora diffuse. È facile comprendere, ad esempio, che l’aggettivo comune (dal latino cum-munus, dono condiviso) impedisce di riferirla alla semplice sommatoria dei desideri individuali, trascurando la rilevanza del tessuto relazionale o all’insieme di quelle garanzie che – delimitando la violenza - permettono l’esplicarsi della libera iniziativa dei singoli, secondo una delle versioni del pensiero liberale della modernità. Non potremmo, insomma, dire comuni un insieme di realtà orientate semplicemente al bene privato dei diversi individui. Neppure però potremmo vedervi un preteso interesse generale della collettività, da realizzarsi a prescindere dal riferimento alla concretezza dei soggetti coinvolti ed ai loro progetti di vita. Quando parliamo di bene comune ci riferiamo piuttosto all’insieme di tutte quelle realtà che permettono e favoriscono il perseguimento di una vita buona alle persone e comunità (tutte le persone e le comunità) che ne fanno parte, consentendo loro di perseguire i loro piani di vita e di farlo assieme. Quella del bene comune è, dunque, in primo luogo una prospettiva, che guarda al tessuto sociale nella sua complessità, cogliendo la rete di relazioni che vi si intrecciano e che gli danno forma: al centro c’è un’idea di persona come singolarità irriducibile al gioco di rapporti in cui è inserita, eppure impossibile a pensarsi senza di essi. C’è una percezione dell’umano distante dall’individualismo dell’homo oeconomicus, con la sua insaziabile sete di beni per il consumo individuale; essenziale è piuttosto l’interdipendenza, per pensare una dinamica sociale che non è solo la somma di interazioni tra individui isolati. La prospettiva del bene comune non va dunque contrapposta alla domanda di libertà che caratterizza la modernità, ma compresa piuttosto come riflessione sull’insieme delle condizioni che ne fanno una realtà non formale, ma davvero fruibile - e fruibile assieme - da tutti i soggetti coinvolti (secondo una prospettiva analoga a quella espressa dall’art.3 della nostra Costituzione). In tale direzione guardava l’economista indiano Amartya Sen, nel momento in cui qualificava la stessa libertà individuale come oggetto di responsabilità sociale2. Una responsabilità che – lo sottolinea lo stesso premio Nobel in numerosi studi – dovrà orientarsi ad una varietà di ambiti: essa spazia dalla giustizia in ambito economico alla presenza di istituzioni solide e di strutture decisionali efficaci, da una legalità equa e rispettata ad un rapporto armonioso con l’ambiente, fino ad una cultura ricca e formativa, capace di sostenere la fiducia reciproca e di promuovere l’ospitalità nei confronti delle differenze, così come l’equilibrio quanto alle questioni di genere. Una varietà di realtà, necessarie proprio per disegnare uno spazio di libertà reale, che permetta ai diversi soggetti di costruire assieme ciò che essi ritengono vita buona. Si tratta evidentemente di un’istanza complessa, che domanda un agire lungimirante - una politica attenta alla correlazione tra lo sviluppo delle libertà di ognuno e quell’insieme di beni che sorgono solo nell’essere insieme e solo insieme possono essere fruiti. Una politica capace di custodire quei beni per loro natura non-esclusivi, che spesso sono associati all’espressione capitale sociale e che – nel dibattito corrente – sono a loro volta detti comuni, ad indicare la necessità di tutelarli contro la mercificazione e la privatizzazione3. Ritrovare il tessuto della civitas esige dunque di ripensare ciò che è comune ai suoi membri, di porlo al centro di un agire condiviso. Certo non si tratta di un compito facile: in un tempo di pluralismo occorre attivare percorsi di dialogo e di confronto tra le diverse prospettive ideali che la abitano, in un dialogo civile cui anche la comunità ecclesiale dovrà portare il suo contributo, con coraggio e incisività. Simone Morandini (Fondazione Lanza Istituto Studi ecumenici San Bernardino)
2
A.K.Sen, La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Bari 1992. Un’efficace presentazione del tema in L.Pennacchi, La filosofia dei beni comuni, Donzelli, Roma 2012. 3