Un lessico per la città comune (a cura della Commissione diocesana per la pastorale
sociale e del lavoro) «Una marcia non è fine a se stessa, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti e attività» (Aldo Capitini, 1962)
Quella di domenica 19 ottobre sarà la ventesima Marcia Perugia-Assisi e sarà un cammino per la pace e la fraternità, a cento anni dalla prima guerra mondiale, l’«inutile strage». L’ultima si è svolta tre anni fa e nel titolo riprendeva esattamente, cinquant’anni dopo, quello della prima marcia del 24 settembre 1961, per la pace e la fratellanza dei popoli. All’inizio degli anni ‘60, in un contesto diverso, con la corsa al riarmo e la guerra fredda, l’ispiratore della marcia, Aldo Capitini, era convinto che la pace fosse un bene troppo importante per lasciarlo nelle sole mani dei governanti. La scelta di Perugia come avvio, della campagna umbra come spazio del cammino comune e di Assisi come approdo non fu casuale, ma rispondeva alle caratteristiche che si volevano imprimere alla marcia. Da un lato l’iniziativa doveva lanciare il metodo nonviolento, partendo dal Centro indipendente per la nonviolenza di Perugia e richiamando il santo italiano della nonviolenza, dall’altro doveva «destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica». Gli stessi principi e le applicazioni concrete espresse nella mozione del popolo della pace, letti da Capitini alla fine della marcia, e riaffermati nella marcia del 2011, testimoniano della gigantesca fatica per la pace e di come questa sia frutto del lavoro personale e collettivo. L’odierna Perugia-Assisi sarà dedicata alla globalizzazione della fraternità e al riconoscimento del diritto alla pace delle persone e dei popoli. La pace è un bene comune indivisibile, se non c’è per tutti non c’è per nessuno, viene detto nell’appello per la marcia, e la fraternità ne rappresenta l’ineludibile, per quanto fragile, energia propulsiva. Il richiamo alla fraternità nella marcia 2014 pensiamo possa alludere anche ai profondi disaccordi che si sono verificati negli ultimi tempi dentro questa grande manifestazione, contrasti che hanno portato alla plateale rottura da parte di associazioni e movimenti tradizionalmente coinvolti. Se tutto questo non va sottaciuto, rimane il valore della marcia come espressione di popolo e del metodo nonviolento, come la intendeva Capitini. Soprattutto rimane ciò che noi possiamo fare per la globalizzazione della fraternità e contro l’indifferenza: una maggiore responsabilità personale nella costruzione di città della pace e dei diritti umani; l’educazione alla pace, investendo sui giovani e sulla loro formazione; il lavoro per una politica del disarmo e della cooperazione fondata sulla promozione dei diritti umani; la promozione della pace quale strumento dello sviluppo economico, campo d’azione dell’economia di pace. In occasione della marcia Perugia-Assisi 2014, alla quale la Commissione diocesana per la pastorale sociale e del lavoro partecipa con convinzione, all’indomani della Giornata internazionale per la nonviolenza del 2 ottobre, infine per il valore che assume il lavoro quotidiano che ognuno di noi può fare, abbiamo chiesto una riflessione per la nostra rubrica ad Enrico Peyretti, riconosciuto protagonista, e non solo in Italia, della promozione e costruzione della pace e della nonviolenza.
Giancarlo Uncini
La nonviolenza e la pace per la giustizia e per la sicurezza La pace dinamica. Mi è chiesta qualche riflessione su pace e giustizia. La propongo qui sperando che aiuti un eventuale lettore a proseguire la propria libera riflessione, anche su altre linee, e il suo impegno verso questi valori. Mi sembra chiaro: la pace è l'orizzonte desiderabile del bene comune, di tutti, senza che alcun essere umano sia uno “scarto” (discriminato in parte o in tutto, fino all'uccisione). Questo orizzonte, necessario per la dignità umana, richiede un'azione comune e convergente. Si deve pure tener conto che ci sono sempre anche interessi e forze contrarie alla pace: la produzione di armi, la volontà di dominio, le intelligenze asservite a questi scopi (il sistema militar-industrialefinanziario-mediatico-ideologico), il servilismo passivo e incosciente indotto dall'industria del divertimento (“armi di distrazione di massa”). Queste sono forti cause di guerre, più delle differenze e tensioni, che possono risolversi con l'intelligenza costruttiva e la buona volontà. I grandi valori umani sono mete ideali che devono attrarre la nostra maniera di vivere, mentre dobbiamo sapere con umiltà e concretezza che ci possiamo avvicinare a tali valori, ma non possiamo raggiungerli in maniera definitiva, farne un possesso stabile. La pace è una realtà dinamica, non uno “stato”, come gli antichi la definivano: “tranquillità dell'ordine”. La nostra mentalità è storica, dinamica, perché tale è la realtà, e in questa ottica va pensata la pace. Ogni “ordine” (sistema, stato, costituzione: termini che contengono il concetto di stabilità) può perdersi, degenerare, ma è vero anche che può migliorare, rendersi più umano e giusto, però passando attraverso fasi di crisi, di relativo “disordine”. La storia umana è incertezza, la storicità è un limite, ma è anche uno stimolo, è l'intuizione di una crescita possibile verso una maggiore autenticità e verità di vita. Nonviolenza, pace, giustizia. Su giustizia e pace si cita spesso il profeta Isaia (32,17): «La pace è frutto della giustizia».1 Dunque, prima la giustizia, poi potrà esserci la pace come suo frutto. Non c’è dubbio! Ma constatiamo che facilmente questa verità viene intesa così: prima la (mia) giustizia – come la penso e la vedo io - poi la pace. Per la “giustizia” così intesa si fa anche la guerra: tutte le guerre si dicono fatte per ristabilire la giustizia violata, o magari imporre la “nostra” giustizia! Chi fa la guerra affida al giudizio delle armi una questione che sente (o finge di sentire) come questione di giustizia. Così non solo si fa giudice in causa propria, ma invece di giudicare con principi e regole, pone la forza cieca delle armi sul seggio di giudice. La guerra non dà ragione a chi ha ragione (se non per caso), ma a chi è più armato e più violento. Nulla di più assurdo al mondo! «No justice no peace», hanno gridato moti di protesta anche violenti: «senza giustizia non c'è pace». E siccome anche la giustizia è un orizzonte, un’idea regolativa, e sempre ne manca un po’, e sempre ci sono torti offese e violenze da togliere e riparare, dunque non si fa mai pace. Hanno ragione a volere la giustizia che fonda la pace. Ma non sono più nel giusto se abbandonano i mezzi giusti, la nonviolenza attiva, per volere una pace cercata senza giustizia. Anche i mezzi devono essere giusti perché sia giusto il risultato. Proviamo dunque a invertire: «La giustizia è frutto della pace». È ben vero che la pace deve essere giusta, fondata su rapporti giusti: sono false paci la pace di imperio (come la “pax romana”), o la pace del terrore atomico nella guerra fredda (la “mutua distruzione assicurata”), 1
Qui riprendo, con molte modifiche, alcune riflessioni presentate a Pisa nel 2006 nel convegno sui cento anni di “satyagraha”, poi pubblicate in Quaderni Satyagraha n. 12, L'11 settembre di Gandhi, Libreria Editrice Fiorentina e Centro Gandhi Edizioni, Pisa, luglio 2007, pp. 115-123; riflessioni ulteriormente elaborate in Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella editrice, Assisi 2012, cap. 6.
o una tregua per preparare altra guerra, o peggio ancora la “pace di sterminio”. La pace non è solo assenza di violenza diretta, ma assenza anche di violenza strutturale, di dominio. È altrettanto vero che la giustizia non viene se non la si cerca con mezzi giusti, pacifici. Pensiamo dunque, in questo esperimento mentale: prima la pace, poi verrà il suo frutto: la giustizia. Oltre quel detto di Isaia, nella Bibbia stessa leggiamo: «Il frutto della giustizia è seminato nella pace da coloro che operano nella pace» (Giacomo 3, 18). Perciò la giustizia va cercata con la pace, e non in altri modi, non a qualunque costo, come il caro prezzo della guerra. La giustizia va cercata con mezzi nonviolenti. La pace è frutto di giustizia, sì, ma è anche la via per avvicinarsi alla giustizia, che si ottiene davvero con mezzi pacifici, nonviolenti. Il modello dell’equivalenza. Analogamente, noi dobbiamo dire oggi, non «la pace verrà dalla sicurezza» (intesa come superiorità in potenza di armamenti; pretesa di sradicare il male che temiamo), ma «la sicurezza è un effetto della pace», e non la sua condizione. Infatti, la sicurezza o è reciproca, o non è: tu sei più sicuro se non mi minacci e impaurisci, e quindi se non mi spingi a cercare superiorità per sentirmi sicuro da te. E viceversa. Il procedere dal modello “M/m, cioè Maggiore-minore” al modello della “equivalenza” (uguale valore) è ciò che dà sicurezza e pace2. E così oggi noi dobbiamo dire che esportare dappertutto, con le buone o con le cattive, il nostro tipo di democrazia (già fragile e difettoso), non è il mezzo per avere pace, ma piuttosto sarà la pace che favorirà ovunque i diritti umani di tutti e la democrazia nella forma propria di ogni popolo e civiltà. La giustizia come frutto della pace non è soltanto la legalità, perché l’ordine esistente può essere un «disordine stabilito» (Emmanuel Mounier). Politica giusta è quella che, pur nei comuni limiti umani, riconosce, rispetta, realizza il diritto-dignità altrui, specialmente del bisognoso, dell’oppresso. È giustizia frutto della pace non l’ordine imposto dal più forte, ma la giustizia “resa, restituita” al povero, all’oppresso, alla vittima, quella giustizia che “restituisce” qualcosa che era negato alla dignità di una persona, o categoria di persone. C’è dunque questa circolarità: 1) la giustizia produce pace, perché riconoscere e dare il dovuto ottiene relazioni di reciproca soddisfazione, senza rivendicazioni aspre (è questa la maggiore forma di pace, per Raymond Aron e Norberto Bobbio); 2) la pace produce giustizia: cioè la buona disposizione verso l’altro, l’empatia, la rinuncia a violenza e dominio, la relazione costruttiva, il perdono e la riconciliazione generosa, la gestione dei conflitti con la forza umana della nonviolenza, tutto ciò è pace che rende all’altro giustizia nel senso più pieno, di dignità venerata, e ottiene maggiore probabilità di reciprocità nella giustizia. Nei conflitti gravi e paurosi che oggi abbiamo davanti agli occhi, se ci pentissimo e riparassimo le violenze storiche dell'occidente (colonialismo) e della cristianità (crociate), se riconoscessimo il valore della civiltà e spiritualità islamica, che non è riducibile al fanatismo violento, compiremmo atti storici di giustizia che contribuirebbero alla pace giusta tra le civiltà, mentre la guerra non può che peggiorare odio, disconoscimento, pericolo per tutti. Enrico Peyretti
(Centro Studi Sereno Regis; MIR; Movimento nonviolento)
2
Pat Patfoort, Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, 2006.