UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la
pastorale sociale e del lavoro) Cucire reti di speranza in un mondo di reti vuote Dal 24 al 26 ottobre scorso si è svolto a Salerno il convegno nazionale “Nella precarietà la speranza”, per riflettere intorno ai temi della ricerca del lavoro e della progettazione della famiglia da parte delle giovani generazioni nel tempo della precarietà. All'incontro, curato dalle Commissioni episcopali laicato, lavoro, famiglia e giovani della CEI, ha partecipato Marta Santoni, componente della Commissione diocesana per la pastorale sociale del lavoro. In questo numero pubblichiamo la prima parte del suo approfondimento.
Questo che si sta vivendo è un momento prezioso per la Chiesa Italiana trovandosi di fronte ad un impegno di grandissima valenza pastorale, oltre che etica e sociale ed anche politica. Con un atteggiamento di grande rispetto della sofferenza dei giovani nel vivere la precarietà lavorativa, sofferenza che ci coinvolge tutti, si sono delineate alcune linee guida e alcune proposte di analisi e di intervento cercando di far nascere nelle nostre comunità una presenza solidale e concreta, scevra di false sicurezze, forte, tenace, costante e soprattutto fiduciosa nelle capacità e nella forza creativa dei nostri giovani ai quali vanno consegnate le mappe di accesso alla nuova società che si sta formando. E’ Dio che ci chiama a dare fiducia ai nostri ragazzi, accompagnandoli nello scrutare il cielo, oltre il visibile, oltre l’ovvietà, oltre la mediocrità, oltre il provvisorio. Da qui le parole chiave di speranza. L’EDUCAZIONE: una nuova sfida educativa. E’ questa la prima azione di speranza da realizzare in un nuovo percorso ecclesiale di condivisione e di convivenza con la precarietà del lavoro e del futuro delle nuove generazioni. Un’azione che va declinata in prima persona plurale (NOI), nel tempo presente e futuro, dove il NOI rappresenta l’intera comunità territoriale e civile in cui le singole comunità parrocchiali e la diocesi di riferimento vivono ed operano. Un’azione culturale innanzitutto che sia in grado di cavare dalla struttura sociale risposte nuove a nuovi bisogni, disponibile in modo positivo al nuovo, trasformando la cultura della precarietà in un’occasione (anche se obbligata) di innovazione, di creatività, di nuova prospettiva, di valorizzazione dei talenti, agendo con pensiero critico, ma anche con concretezza e realismo: uno spazio di scelte nuove, di saperi nuovi. La speranza che si vuole abitare è quella che la comunità cristiana ha sempre predicato e sostenuto, ma forse un po’ troppo tra di noi, chiusi nei nostri oratori e nelle nostre comunità: cucire la rete, gustare la conoscenza del nuovo, tendere una corda tra l’oggi e il domani, tra il presente e il futuro, per e con le nuove generazioni, non potrà che donare nuove motivazioni e nuovo slancio alla Chiesa nell’annuncio del Vangelo della famiglia e del progetto di amore del matrimonio. Non cedere all’evidenza, ma saper cogliere con umiltà, nelle difficoltà e nelle contraddizioni del disagio culturale e sociale che stiamo vivendo, i segni di Dio. Conoscere per capire, capire per progettare. Questa è una grande sfida educativa dove i primi a cambiare dovranno essere gli adulti, sia laici che consacrati, pronti a compiere scelte più coraggiose stando vicino ai giovani, vivendo la povertà con cuore più radicale e solidale perché i giovani precari sono più poveri di loro. Il cambiamento in atto non più arrestabile richiede che un’intera generazione di adulti converta la propria sterilità e diventi generativa nell’ascolto, superando la c.d. “adultescenza”, un neologismo di adulto e adolescente usato dall’antropologia per definire i giovani che rifiutano di diventare grandi, sperimentando ciò che non hanno potuto fare da giovani e rimando degli eterni adolescenti: questo stile di vita non potrà che generare nei giovani figli sterilità e povertà di confronto e di dialogo.
LA FAMIGLIA: non esitare. La famiglia dovrà restare al centro di tutti i possibili prossimi provvedimenti sociali ed economici per continuare ad essere il primo soggetto permanente produttivo, perché nonostante la precarietà della società italiana resta infatti vivo il bisogno ed il desiderio di famiglia: quanto più essa sarà unita e forte tanto più sarà capace di dare certezze, coraggio e verità ai propri figli. Scegliere di costruirsi una famiglia ha anche un valore politico: per eccellenza è il luogo in cui si esprime sia il principio di solidarietà sia l’incontro tra generazioni diventando il luogo del reciproco aiuto. La famiglia è una comunità di generazioni che convivono arricchendosi e donandosi a vicenda: il dono di accogliere la vita e il compito di custodirla e trasmetterla. Il vero umanesimo è quello dell’uomo che lavora e della coppia che fa famiglia, un nuovo umanesimo che ci chiede di fare un salto di qualità nei percorsi di educazione uscendo dalle parrocchie e mettendosi più dall’altra parte, sul campo delle affettività bruciate, dei legami persi, dei gesti di amore sprecati, come dice Papa Francesco: “ giocare sempre nella metà del campo avversario!”. IL SENSO DEL LAVORO: costruire mani e cuori che lavorano. Il lavoro è la creazione affidataci nelle nostre mani da Dio, è dare un volto umano alla realtà, per la dignità della persona e della famiglia, per costruire un mondo e una società per il bene di tutti. Il lavoro quindi non può essere “il posto”, “la sistemazione”, il mezzo di sussistenza individuale: il lavoro deve essere una missione, un cammino di senso e di crescita, non può ridursi ad un’unica arida scelta per tutta la vita. I nostri giovani patiscono uno sfruttamento quotidiano e un annullamento della loro dignità nei lavori sottopagati, nelle false promesse, nella sottovalutazione delle proprie capacità, nell’essere “accantonati” nella vita e nel lavoro. Eppure hanno risorse inaspettate, sono intelligenti e hanno tante opportunità di conoscere e di viaggiare che non tutti noi avevamo. Per tutto questo devono pretendere di diventare artisti della propria vita (e noi abbiamo il dovere di renderli tali), scegliere se diventare un “Superuomo” dove la ricerca della felicità è data dalla propria autopromozione, oppure riconoscersi fragili, sentirsi a volte anche degli “zeri”, ma responsabili di un progetto che va oltre loro, in cui il grado di felicità sta nell’”essere per gli altri”. Ben venga la riforma del terzo settore e quella del lavoro, ma superando un’idea di mercato esclusivamente ripiegato sull’obiettivo del profitto a tutti i costi dove le “risorse umane”, cioè le persone, vengono ridotte ad un parametro tecnico dell’azienda prescindendo dall’eticità dei mezzi, dei fini e dal senso del servizio della persona. La dottrina sociale della Chiesa (che è nata per difendere il lavoro umano) insieme alla Costituzione italiana (che include il principio lavorista) sono le due bussole culturali che possono guidarci: i loro principi vanno interpretati e infusi nell’attuale contesto socio – economico dove l’educazione al valore del lavoro diventa il modo di costruire il bene comune: il valore della persona che incarna il progetto di Dio che diventa valore per la comunità civile come cittadino. In poche parole se l’adempimento del dovere al lavoro vale come “qualificazione del cittadino” l’educazione al valore del lavoro dei giovani vale come “formazione del cittadino”: di qui la proposta e la nuova esperienza ad esempio di attivare forme di lavoro per i giovani anche nelle parrocchie, nei periodi estivi, nei fine settimana, di realizzare percorsi di orientamento e formazione professionale. I giovani sono chiamati a riscoprire nel lavoro anche un fondamento spirituale, un cammino di crescita e di rinnovamento, non senza sacrificio (anche quotidiano), lontano dai sogni dei facili e falsi lavori che troppo spesso la società propone: non c’è cambiamento senza salita (1 – continua).
Marta Santoni