UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la
pastorale sociale e del lavoro)
DIVERSITA’ E ACCOGLIENZA NEL MONDO DEL LAVORO Il progetto normativo di riforma del Terzo settore in Italia, per il quale la consultazione pubblica voluta dal Governo ha registrato una numerosissima partecipazione, contiene anche la riforma della disciplina dell’impresa sociale, che di recente è stata oggetto di un rapporto, il terzo, nel quale Iris Network, la rete nazionale di ricerca sull’impresa sociale, ha delineato l’identità e lo sviluppo di questo fenomeno imprenditoriale altamente dinamico. Se l’impresa sociale «è una sfida fondamentale per rigenerare comunità, luoghi e istituzioni» (Venturi, 2014), non va sottaciuto il suo impatto sull’economia. Così ne parliamo nella nostra rubrica, per continuare la riflessione sui temi del lavoro e dell’occupazione. Per questo ultimo punto non sono inutili alcuni dati di Unioncamere, presentati all’ultima edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia civile. Negli ultimi dieci anni, secondo questi dati, il numero e i dipendenti delle imprese sociali in Italia sono raddoppiati. Le imprese sono passate da 8.500 a 17.600 unità, mentre gli addetti hanno superato le 670.000 unità, con un aumento del 114%, in chiara controtendenza rispetto all’andamento generale del mercato del lavoro. Per quanto riguarda i settori di intervento le imprese sociali operano, oltre che nei tradizionali campi dei servizi socio assistenziali, sanitari e formativi, anche nel settore dei servizi all’infanzia, in quelli culturali, ricreativi e della ristorazione. La propensione ad assumere risulta più elevata da parte delle imprese sociali con fatturato in aumento e di quelle che hanno effettuato innovazioni di prodotto e di servizio. Quanto all’inclusione sociale, la domanda di lavoratori immigrati si mantiene più elevata rispetto alle altre imprese, il part-time rappresenta una parte importante delle assunzioni e meno evidenti sono le differenze di genere. Per quanto riguarda le caratteristiche dei lavoratori, la domanda di professioni specialistiche supera il 33%, mentre quella delle professioni intermedie è intorno al 50%. Nel complesso delle assunzioni, i lavoratori in possesso di laurea raggiungono il 23%, a fronte di una media nazionale dell’11%. Nell’ottica della capacità inclusiva delle imprese e in particolare di quelle del terzo settore, proponiamo un approfondimento di Gabriele Gabrielli (LUISS e Fondazione Lavoroperlapersona), già ospite della nostra rubrica (v. Voce Vallesina n. 19, 1 giugno 2014). Giancarlo Uncini Perché occorrono leader e manager inclusivi. Ripartiamo dalla riflessione di Martin Buber proposta nel contributo già pubblicato (Voce Vallesina, 1 giugno) per questa rubrica. Avevamo condiviso l’insegnamento che “gli uomini sono ineguali per natura” e per questo non è bene appiattire la vita ricercando risposte standard, piuttosto occorre differenziare, “perché è la diversità degli uomini, […] delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano”. Ebbene nella prospettiva del management e dell’organizzazione del lavoro, che è quella privilegiata dalla nostra riflessione, sono numerosi i cambiamenti che stanno accrescendo l’interesse intorno ai temi della diversità e della sua gestione. Le organizzazioni e le imprese, infatti, hanno sempre più bisogno di ricorrere a politiche, strumenti e pratiche in grado di creare valore e individuare vantaggi competitivi valorizzando la diversità.
Un fattore importante di quest’attenzione è senza dubbio il processo di globalizzazione che ha interessato anche il mercato del lavoro, avvicinando culture prima molto distanti e mettendo in contatto individui profondamente diversi fra loro (Profili, Innocenti, 2012). La globalizzazione facilita anche trend demografici e flussi diversi dal passato che rivoluzionano la composizione della forza lavoro accrescendone la sua eterogeneità. Vi sono però altri fattori di cambiamento che spingono in questa direzione, anche di natura diversa, come quelli che attengono al clima politico e sociale. Il rischio di conflitti tra diverse comunità a livello religioso, politico e tra diversi nazionalismi, infatti, pone l’esigenza di promuovere una cultura manageriale aperta al confronto e allo sviluppo di pratiche inclusive (Gabrielli, 2010; Profili, 2013). Le ricerche d’altro canto mostrano come la diversità possa avere effetti positivi sui risultati di business e sulla performance dell’organizzazione. Organizzare il lavoro promuovendo la valorizzazione della diversità (quella che nel linguaggio dell’impresa si chiama Diversity Management) sta diventando a questo punto una sfida decisiva per imprese, leader e manager. Una sfida che sollecita, al tempo stesso, anche lo sviluppo e la diffusione di appropriate competenze capaci di individuare pratiche e strumenti adeguate per valorizzare la diversità delle persone nei luoghi di lavoro. Il cerchio della diversità. La diversità può essere declinata nelle sue numerose dimensioni, tante quante sono le caratteristiche che differenziano le persone tra di loro; caratteristiche importanti perché influiscono sugli atteggiamenti, modificano le aspettative di ciascuno, ci fanno leggere con occhiali diversi il mondo che ci circonda orientando in definitiva i nostri comportamenti. C’è un modello (Gardenswartz L., Rowe A., 1994) che descrive le numerose componenti della diversità individuale, ponendole su differenti livelli di un cerchio che – partendo dal centro verso la periferia - vanno da un maggiore ad un minore grado di stabilità. Al centro della ruota della diversità è collocata la personalità, la parte più stabile delle caratteristiche psicologiche di una persona, difficilmente modificabile. Il livello successivo è rappresentato dalle cosiddette dimensioni interne, sulle quali la persona non ha controllo: l’età, il genere, le preferenze sessuali, l’abilità fisica, l’etnia, la razza. Il terzo livello è rappresentato dalle dimensioni esterne (quali la localizzazione geografica, la religione, la condizione famigliare, ecc.) che sono maggiormente sotto il controllo dell’individuo. A livello più esterno, infine, troviamo le dimensioni organizzative come il luogo di lavoro e il suo contesto, ciò che facciamo cioè il contenuto del lavoro e tanto altro. C’è resistenza come sappiamo a considerare la diversità come “ricchezza e dono” (Gabrielli, 2012). Le ragioni sono numerose e di diversa natura. Quella più radicata, forse, risiede in un errore di prospettiva dettata dal mito dell’individualismo, che ci fa credere che il destino è nelle nostre mani, che si può fare a meno degli altri, che ciò che è fuori di noi costituisce una minaccia. Anche se ormai sappiamo che “nessun uomo è un’isola” (Merton, 1998), perché non possiamo fare a meno degli altri, essendo biologicamente creati così. La ricerca scientifica ormai supporta l’idea che veniamo al mondo biologicamente impostati per vivere con gli altri e cooperare. Se ci comportiamo diversamente è solo in ragione della cultura che produciamo, quella cultura profondamente individualista che ci fa fallire il bersaglio (Turri, 2012), andare fuori strada. Su questa ideologia falsa si costruiscono molti altri errori di prospettiva come il mito del primato dei migliori che nega l’accoglienza della diversità e delle fragilità che ciascuno di noi ha, costringendoci a ridurre tutta la vita – fin da piccoli – a una performance, a una prestazione e ad essere giudicati. Per questa via, però, si nega la verità antropologica che avvolge l’umanità: che siamo persone, cioè, in quanto soggetti in relazione con l’altro. L’altro allora – la diversità – è salvezza e compimento dell’umanità e di noi stessi; al di fuori di questo riconoscimento e di quest’accoglienza non c’è civiltà, né benessere.
La diversità: una dimensione critica per la politica, per la società civile, per l’economia. Le ragioni questa visione sono state indicate con grande efficacia già da Edgar Morin (2001) quando scrive: “Ogni sistema è uno e molteplice … Una delle caratteristiche fondamentali dell’organizzazione è la capacità di trasformare la diversità in unità, senza annullare la diversità … e di creare anche diversità nell’unità e tramite essa”. Si tratta di una dimensione critica per la politica, per la società civile, per le imprese, anche per ciascuno di noi. Dobbiamo infatti più che mai vigilare affinchè “l’illusione che si possa fare di se stessi il senso di tutto, mantenendosi indifferenti e separati dagli altri” (Mancini, 2010), sia tenuta a bada con forza, non alimentata e insegnata. Non si costruisce una società accogliente e un’altra economia che generi valore senza far cadere questa barriera psicologica e culturale. Si tratta di una dimensione impegnativa, è vero, ineludibile anche per il mondo del lavoro e delle imprese. Occorre per questo riscrivere il tessuto dei legami individuo-organizzazione lasciando spazio a quell’articolazione più ampia della soggettività e delle storie personali attraverso cui l’opera dell’uomo può prendere forma in quest’epoca. La riflessione sulla diversità e sulle potenzialità del paradigma dell’accoglienza abbracciano infatti il senso stesso dell’economia, le sue teorie, le sue metriche. Si tratta di un pensiero critico che nella sua officina discute sulla correttezza, da un lato, sulla sostenibilità, dall’altro, dell’utilitarismo come fondamento del pensiero moderno, promuovendo una sorta di necessario “risveglio etico” anche per imprenditori, leader e manager. Dalla distanza alla prossimità dell’accoglienza. Mentre la ricerca scientifica sta riducendo la portata dell’utilitarismo e della razionalità economica, avanza la testimonianza concreta di imprese, progetti e attività che accorciano progressivamente accorciando la distanza antropologica e sociale alimentata dagli errori di prospettiva richiamati, sostituendola con la generatività fondata sul riconoscimento dell’altro e delle sue personali vocazioni. Si fa strada cioè la convinzione, anche nell’economia e nella prospettiva del management, che la diversità e le sue componenti – oltre agli aspetti di natura etica - possono far stare in salute anche le imprese, proponendosi come requisito per il successo di lunga durata sui mercati competitivi. In questo modo quella distanza secondo cui il “vicino emoziona sempre meno” (Zoja, 2009), sembra potersi trasformare nella consapevolezza – anche nelle imprese e di quanti le guidano che l’Altro è dimensione costitutiva della nostra identità antropologica e sociale. Gabriele Gabrielli (LUISS Guido Carli e Fondazione Lavoroperlapersona) Riferimenti Gabrielli G. (2010), People management. Teorie e pratiche per una gestione sostenibile delle persone, FrancoAngeli, Milano Gabrielli G. (2012), Interrogarsi sulla diversità. Una riflessione aperta per la teoria e la pratica, in Gabrielli G. (a cura di), La diversità come dono e sfida educativa, FrancoAngeli, Collana Lavoroperlapersona, Milano Gardenswartz L., Rowe A. (1994), Diverse team at work: capitalizing on the power of diversity, McGraw-Hill, New York Mancini R. (2012), Dal capitalismo alla giustizia, Altreconomia, Milano Merton T. (1998), Nessun uomo è un’isola, Garzanti, Milano Morin E. (2001), La natura della natura, Raffaello Cortina Editore, Milano Profili S., Innocenti L. (2012), Valorizzare la diversità, in Gabrielli G., Profili S., Organizzazione e gestione delle risorse umane, Isedi, Torino
Profili S. (2013), Imprese e diversità . Strategie organizzative per costruire vantaggi competitivi con l’inclusione, in Gabrielli G. (a cura di), La diversità come dono e sfida educativa, FrancoAngeli, Collana Lavoroperlapersona, Milano Turri M.G. (2012), Biologicamente sociali culturalmente individualisti, Mimesis Edizioni, Milano Zoja L. (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino