UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la
pastorale sociale e del lavoro)
LE DISUGUAGLIANZE MINANO LA COESIONE SOCIALE E IMPEDISCONO LA RIPRESA In questo numero la rubrica si arricchisce della parola “disuguaglianza”, intesa come disuguaglianza economica, sostanzialmente legata al reddito. Nell’introduzione al suo libro (Il Capitale nel XXI secolo), di recente tradotto anche in Italia e al centro di un vivace dibattito, Thomas Piketty constata che la questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. «La crescita moderna – afferma Piketty – e la diffusione delle conoscenze … non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o quantomeno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra». Oltre al rapporto Grandi disuguaglianze crescono del gennaio 2015 di Oxfam, cui fa riferimento il Prof. Moroni nell’articolo che segue e che ha proposto per la nostra rubrica, sembra utile richiamare anche il rapporto OCSE Disuguaglianze e crescita, del dicembre scorso, che stabilisce una forte correlazione tra aumento delle disuguaglianze e freno alla crescita. In Italia, secondo questi dati, il 10 % più ricco della popolazione guadagna 10,5 volte più del 10% più povero e questa disparità di reddito sarebbe costata oltre 7 punti di Pil nel decennio 1990-2010. Sempre secondo l’OCSE, in Italia da metà anni ’80 fino al 2008, la disuguaglianza economica sarebbe cresciuta del 33% (la media dei paesi OCSE è del 12%) e oggi l’1% delle persone più ricche detiene più di quanto posseduto dal 60% della popolazione (Oxfam, 2014). Basti ricordare solo i dati sulla povertà assoluta che, sempre in Italia secondo l’ISTAT, è raddoppiata dal 2007 al 2013, passando dal 4,1% al 9,9% della popolazione residente (v. Voce Vallesina del 2 nov 2014). Su questo versante le performances dell’Italia sono critiche, tali da collocare il nostro paese nelle peggiori posizioni europee. Oltre ad essere un paese ad elevata disuguaglianza economica e con alta diffusione della povertà, l’Italia è caratterizzata anche da una bassa mobilità sociale, con la conseguenza che le disuguaglianze tendono a trasmettersi da una generazione all’altra. Questi elementi segnalano un forte malessere strutturale, che la crisi in atto acuisce, e contribuiscono ad aggravare altri problemi economici e sociali (Franzini e Raitano, 2009). E le Marche? Per quanto riguarda la nostra regione, non sembrano esserci dati prontamente disponibili sulle disuguaglianze economiche. Non sarebbe male che centri di ricerca, istituzioni e terzo settore, nell’ambito del protagonismo e delle relative funzioni, potessero lavorare attorno a queste emergenze, in vista del bene comune. Non sarebbe male che anche la chiesa, quella parte di essa che se ne deve occupare, si autoassolva di meno e si coinvolga di più nell’affrontare la tematica. Noi cattolici, sempre più clericali, politicamente analfabeti, ignavi e pastorali (Diotallevi, 2014), sembriamo muoverci lungo direttrici e priorità che indulgono più alle minute, seppur degne, politiche di erogazione di servizi o a quelle, forse meno nobili, del mattone che a quelle della comprensione sociale, proprie del nostro apostolato secolare. Giancarlo Uncini
Nel mese di gennaio molti organi di stampa hanno dato grande risalto alla notizia che le disuguaglianze sociali hanno ormai raggiunto livelli record. Nel Rapporto Grandi disuguaglianze crescono pubblicato in Inghilterra della Federazione degli organismi non governativi (Ong) si calcola che ormai la ricchezza detenuta dell’1% della popolazione mondiale si è avvicinata a quella del restante 99% e la supererà nel 2016. Lo slogan inventato dal Movimento “Occupy Wall Street” per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario si sta dunque concretizzando. In un mondo dove un miliardo di persone vive con circa un dollaro al giorno e il dieci per cento degli abitanti del pianeta non ha abbastanza da mangiare, questa esplosione della disuguaglianza frena la lotta alla povertà nei Paesi poveri e crea nuove povertà nei Paesi ricchi. In Italia, il patrimonio delle dieci famiglie più ricche è uguale al totale del patrimonio dei venti milioni di cittadini più poveri. Secondo i dati pubblicati dalla Banca d’Italia, dal 2008 la ricchezza totale degli italiani è diminuita di 814 miliardi; questa perdita, però, ha interessato soltanto la parte bassa della scala sociale; nella parte alta della scala sociale è successo l’opposto: i patrimoni personali sono cresciuti come mai era accaduto negli ultimi decenni. Non è solo un problema di giustizia: secondo alcuni dei maggiori economisti (da Paul Krugman fino a Joseph Stiglitz), l’eccessiva disuguaglianza, unita all’assoluta libertà di speculazione lasciata alla finanza internazionale, è una delle principali cause della crisi che stiamo vivendo. In una società basata su consumi di massa non ci si riprende dalla crisi se si continua a indebolire i ceti medi, in particolare impiegati e lavoratori. A sua volta, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea un altro aspetto altrettanto preoccupante: dal 1980 le grandi fortune stanno crescendo a un ritmo superiore a quello della crescita economica complessiva. Questo significa che in futuro, se non verranno introdotti dei correttivi, dopo aver indebolito la classe media, le grandi fortune raggiungeranno livelli incompatibili con le nostre società democratiche. Insomma metteranno a rischio la democrazia. Quello che sta accadendo non è ineluttabile. Si può intervenire. Si può correggere. Ma serve una politica non sottomessa all’economia e che faccia scelte coraggiose: cioè politiche di riequilibrio e politiche di equità. Da una parte occorre intervenire su un settore finanziario deregolamentato impedendo quelle speculazioni che hanno provocato la bolla finanziaria che è stata alla base della crisi del 2008. Dall’altra occorre ridurre le disuguaglianze e questo è possibile con politiche fiscali redistributive: lotta dura all’evasione e all’elusione fiscale e più tasse sulle rendite finanziarie, sulle grandi ricchezze e sui super redditi non solo per aiutare i poveri ma anche per sostenere le classi medie. Infine occorre intervenire anche sull’economia reale, sostenendo lavoro e imprese e riducendo il cuneo fiscale, ma anche favorendo una crescita della produttività basata sull’innovazione tecnologica e non sulla riduzione dei diritti dei lavoratori. E aumentando gli investimenti in ricerca e sviluppo e in formazione del capitale umano. Solo così si esce dalla crisi e si prepara un altro futuro per il nostro Paese e per l’intera umanità. Marco Moroni (Univ. Politecnica Marche - Centro Studi Acli Marche)