Stefano Zamagni, "La frugalità non è più una virtù. Elogio del consumo critico" (1ª parte)

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UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la Pastorale sociale e del lavoro) La frugalità non è più una virtù. Elogio del consumo critico (1ª parte) Continua, su questa rubrica quindicinale, il nostro viaggio attraverso le tematiche della cittadinanza responsabile e della laicità adulta, perché riteniamo che il binomio cristiani-cittadini sia una delle chiavi di lettura decisive dell'attualità, anche pastorale. Così, sebbene con modestia, intendiamo questo itinerario anche come convinto servizio ecclesiale. In questa occasione lo facciamo attraverso un contributo di Stefano Zamagni, uno dei maestri della moderna Economia civile, la quale rappresenta fin dalla sua origine, con Genovesi, Dragonetti e Filangieri, la via italiana ad un'economia al servizio dell'uomo. In quello che proponiamo di seguito ravvisiamo un «vantaggio competitivo» importante che ad un primo, fuggevole esame potrebbe suscitare qualche perplessità. Si tratta della funzione oggi strategica del consumo che, liberato dalla sua secolare connotazione negativa, può diventare leva di cambiamento, di costruzione sociale e a pieno titolo come una delle espressioni di quella democrazia partecipativa, divenuta ormai compagna inseparabile e complementare della più consueta, ma logora, democrazia rappresentativa. Chi avrebbe detto che al consumo, non solo sarebbe stato riconosciuto un ruolo di responsabilità sociale, accanto a quella di impresa, ma che sarebbe stato assimilato dagli ultimi sviluppi del pensiero sociale della Chiesa, e con esemplare chiarezza, ad un atto moralmente rilevante? Troviamo questi orientamenti, dobbiamo dirlo, fuori sintonia con quelle immagini di un «mondo sempre più minaccioso» e di una «umanità peccatrice» che, ormai anche dalle nostre parti, sono ritornate nel linguaggio corrente, sebbene questo sia chiamato, per sua funzione, più al discernimento che alle semplificazioni. Dell'intervento di Zamagni abbiamo mantenuto lo stile immediato e colloquiale tenuto in occasione dell'incontro con tema «Dal consumismo al consumo critico», organizzato qualche tempo fa da Agesci Marche e Fondazione Rinaldi, con qualche inevitabile aggiustamento dovuto alle esigenze di trascrizione dei molti passaggi fatti a braccio e con intento divulgativo. Trattandosi di un contributo relativamente lungo lo proponiamo in due parti, la seconda delle quali su Voce Vallesina del 14 giugno prossimo. Ringraziamo gli organizzatori per averci consentito la trascrizione dell’intervento di Zamagni e la sua pubblicazione in questa rubrica.

Giancarlo Uncini Il necessario Per trattare del consumo, in particolare della sua funzione sociale, è sempre necessario distinguere due fasi, quella capitalistica e quella precapitalistica. Fino a tutta la fase precapitalistica, che arriva fino alla prima metà del ‘700, epoca della prima rivoluzione industriale che dà inizio al capitalismo in senso economico, il consumo è stato visto in modo nettamente negativo. Si usava infatti distinguere tra il «necessario» e il «superfluo», di derivazione scolastica, dando ovviamente la preminenza al primo termine, che rappresentava il parametro di riferimento morale. Occorreva assicurarsi solo il necessario, in quanto indispensabile alla sopravvivenza. In questo contesto culturale e sociale, con un’economia di sussistenza, la virtù era la parsimonia, mentre il consumo era assimilato ad un vizio, da cui guardarsi perché avrebbe potuto indurre al malaffare. In questo lungo periodo, che precede la nascita del capitalismo, c’è stata ovviamente qualche voce dissonante ed anche un periodo, peraltro di non lunga durata, durante il quale qualcuno ha pensato che si potesse ragionare diversamente. Questo breve periodo fu il ‘400, quando in terra di Toscana, ma anche altrove, si diffuse l’umanesimo civile. Gli umanisti civili, che non vengono quasi mai ricordati, sono stati quelli che, con non trascurabile coraggio, hanno dato al consumo una connotazione positiva. Uno di loro, Poggio Bracciolini, in quel periodo scrisse un’opera sul lusso. Il


lusso, dice Poggio Bracciolini, è una cosa buona, tutt’altro che peccaminosa, perché gli oggetti di lusso ed il loro consumo servono ad alimentare le attività imprenditoriali. Ad esempio la posateria da tavola, viene inventata in quel periodo, essendo prima utilizzato solo il cucchiaio. Questi prodotti hanno avuto un impatto economico enorme, perché hanno fatto nascere decine e decine di imprese, visto che poi c’era la posateria d’argento per i ricchi e quella in metallo meno pregiato per i meno ricchi. Questa bella stagione durò poco, perché gli umanisti vennero fin dalla fine del ‘400 sommersi da critiche e questo atteggiamento avversativo verso il consumo durò fino alla metà del ‘700. A questo riguardo occorre fare un nome ed è quello di Bernard de Mandeville, filosofo e politologo inglese che intorno al 1705 scrisse un poemetto satirico «La favola delle api», sottotitolato «Vizi privati, pubblici benefici». Il vizio privato era riferito proprio al consumo, il quale però poteva produrre anche benefici per la società. L’errore dei suoi predecessori, diceva Mandeville, è sempre stato quello di aver demonizzato il consumo, lasciando la maggior parte delle persone nell’indigenza e nella miseria. Per queste sue posizioni, in epoca di puritanesimo imperante, Mandeville rischiò di essere bruciato vivo sulla piazza di Londra e si sarebbero dovuti attendere due secoli perché Keynes, il grande economista, lo riabilitasse definitivamente. Occorre d’altra parte capire che in un’economia di sussistenza, nella quale si produceva lo stretto necessario per mangiare, il consumo non poteva non essere considerato negativamente, anche dal punto di vista morale, perché chi avesse consumato oltre le proprie esigenze avrebbe tolto ciò che serviva agli altri. Il superfluo Le cose cambiano con la rivoluzione industriale alla fine del ‘700, con la quale si afferma il sistema capitalistico e la capacità dei processi di produrre quantitativamente di più di quanto si fosse impiegato per ottenere gli stessi prodotti. Questo scarto tra i mezzi della produzione ed i prodotti ottenuti ha avuto un impatto gigantesco e forse inatteso, perché fin da subito è stato necessario affrontare un altro problema, cioè l’utilizzo del surplus produttivo. In sua assenza era stato necessario raccomandare la parsimonia, fino a farla diventare una virtù morale, ma ora sorgevano tematiche inaspettate come l’utilizzazione del sovrappiù, altrimenti questo sarebbe andato sprecato ma, soprattutto, perché i processi del sistema produttivo così avviato avrebbero rischiato pericolosamente di non poter continuare. A questo punto occorre, però, distinguere due sotto-periodi. Nel primo, il sovrappiù non viene consumato ma risparmiato per consentirne l’utilizzazione negli investimenti, al fine di consolidare ed allargare i mezzi della produzione. In questo modo i tassi di crescita economica ne avrebbero risentito positivamente, così come effettivamente è stato. Questo ha funzionato fino a quasi la fine dell’ ‘800, quando si è passati al secondo sotto-periodo, determinato dall’esigenza di allocare quella parte di prodotti che, per la loro quantità, non era più possibile destinare agli investimenti. Qui il fenomeno del consumo, unitamente alla necessità di convincere le persone a consumare, ha avuto un enorme sviluppo, in quanto fattore strettamente necessario alla perpetuazione del sistema produttivo. Fintanto che il sovrappiù era modesto ed utilizzabile in investimenti per il consolidamento della base produttiva, il suo assorbimento era assicurato, ma quando la quantità divenne eccedente sorse la necessità della redistribuzione alle persone perché ne fruissero. A questo fine divenne però necessario disporre di strumenti adeguati alla persuasione al consumo, come quelle che sarebbero poi diventate le strategie e le campagne comunicative di marketing. L’icona di questo processo può essere rintracciata proprio nello strumento delle esposizioni, delle quali quella di Londra del 1851 rappresenta la prima a carattere universale. È con lo strumento delle esposizioni che si intendeva suscitare il desiderio e il bisogno dei prodotti messi in mostra, ed è in questo periodo che si cominciano anche ad utilizzare altri strumenti, il più importante dei quali è la pubblicità, per portare a conoscenza del maggior numero di persone tutto ciò che il sistema produttivo era in grado di produrre. (Continua)


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