Stefano Zamagni, "La frugalità non è più una virtù. Elogio del consumo critico (2ª parte)

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UN LESSICO PER LA CITTÀ COMUNE (a cura della Commissione diocesana per la Pastorale sociale e del lavoro) La frugalità non è più una virtù. Elogio del consumo critico (2^ parte) Pubblichiamo la seconda parte della riflessione di S. Zamagni sul consumo critico quale leva di cambiamento e di costruzione sociale. La prospettiva, è bene ricordarlo, è quella dell’Economia civile, dove viene superato il binomio Stato-mercato a favore di un sistema più articolato che vede aggiungersi ai primi due le imprese socialmente ed ambientalmente responsabili ed i cittadini attori, che fanno valere il loro potere contrattuale con quello che L. Becchetti ha efficacemente definito «voto col portafoglio». Il consumo, se viene orientato e temperato, si libera dalla sua secolare connotazione negativa, fino a diventare, per il moderno pensiero sociale della Chiesa, autentico atto morale e potentissima leva di cambiamento sociale. Si aprono importanti spazi di azione per il cristiano-cittadino e si offrono grandi opportunità di compartecipazione, con tutti coloro che ci stanno, all’edificazione della città dell’uomo e al cammino comune lungo i sentieri della sua umanizzazione. Un potenziale e un ruolo politico di enorme importanza è nelle mani della società civile che può estendere le espressioni delle forme della democrazia, può integrare l’estenuata democrazia rappresentativa e … può anche fornire qualche elemento di fiducia a chi, con riferimento alle ultime vicende elettorali, assimila, a nostro avviso frettolosamente, la riduzione della rappresentanza per effetto dell’astensione alla riduzione della democrazia. Parallelamente, riteniamo che si aprano anche opportunità e, soprattutto, responsabilità pastorali per sensibilizzare ed educare il laicato alla maturità della secolarità, sua autentica vocazione, al fine di confrontarsi con la fin troppo sbandierata irrilevanza dei cattolici nella società e contribuire, questo sì tema urgente e strategico, al superamento di quella loro ignavia politica che già ci permettevamo di segnalare (v. Voce Vallesina, 1 mar 2015).

Giancarlo Uncini Il consumismo Anche se il fenomeno del «consumismo» in senso proprio scoppierà decenni più tardi, all’incirca dopo la II guerra mondiale, già tra otto e novecento se ne pongono le premesse, perché è parte integrante del sistema di autoalimentazione del capitalismo l’innescare il processo di valorizzazione del capitale attraverso il continuo consumo dei beni che il capitale stesso ha prodotto. Si pensi all’esempio dell’automobile, che per anni è stata prodotta da noi come «fuoriserie», ma solo per i ricchi. Il cambio di marcia avvenne in America, quando Ford incominciò a fare la produzione di serie, con costi e prezzi più bassi, mettendo a disposizione questo bene ad una fascia di potenziali acquirenti molto più ampia, come gli operai. Entrarono così in gioco le c.d. «economie di scala», i cui benefici per i produttori, legati alla possibilità di riduzione dei costi di produzione, si basano sulle quantità prodotte e, soprattutto, vendute perché consumate. In questo modo, quello che viene chiamato consumismo, quale deriva del consumo, diventa ciò che è preteso dal sistema capitalistico, perché senza di esso il capitale non si valorizzerebbe e non si farebbero profitti. Senza contare i costi sociali ed ambientali correlati, questo modello circolare produttoreprodotto-consumo-iperconsumo ha avuto un impatto culturale enorme perché è arrivato ad identificare il consumatore con il consumo tout court: tu sei e vali ciò che consumi; consumi poco? Vali poco! È l’homo consumens di Baumann, che vede il passaggio dallo stato di homo oeconomicus a questa nuova dimensione identitaria, dove la tumultuosa corsa di massa verso l’acquisizione di beni si traduce, in realtà, nell’assunzione di un complesso di significati e di


senso che assurgono a valori, personali e collettivi. Il consumismo, lungi dal rappresentare semplicemente un fenomeno economico, è diventato un fatto culturale travolgente che ha modificato nel profondo, spesso senza il nostro consenso, i modelli di riferimento e le nostre mappe cognitive. Il consumo come atto morale Questa dimensione «espressiva» del consumo, che si è aggiunta negli ultimi decenni a quella più propriamente «acquisitiva», legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, può però mostrare la sua faccia più positiva se governata ed educata. Per grandi linee possiamo dire che solo il 25% di ciò che consumiamo ha una componente acquisitiva, mentre il restante 75% ha quella espressiva, con la quale il nostro atto di consumo manifesta la nostra identità e il nostro bisogno di riconoscimento culturale, di genere, religioso, ecc. I modelli di consumo diventano rivelatori di culture e di identità personali e collettive. Al di là delle degenerazioni contenute nelle espressioni legate al consumismo, per la prima volta nella storia dell'umanità noi possiamo fare in modo che il consumo, sulla base dell'enorme potere che può esercitare e facendo leva proprio sulla sua componente espressiva, possa assumere una funzione nuova, quella educativa. Si tratta di una vera rivoluzione, se la vogliamo governare, altrimenti sarà il consumo stesso a determinare la nostra personalità. In questo momento della nostra vicenda sociale ci troviamo di fronte ad un bivio e, ovviamente, scegliere l'una o l'altra strada non è privo di conseguenze. Questo momento critico e dalle grandi potenzialità non poteva sfuggire ad uno degli ultimi sviluppi del pensiero sociale della Chiesa, la Caritas in veritate. Per la prima volta un documento ufficiale della Chiesa parla di responsabilità sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilità sociale di impresa, perché l'atto dell'acquisto oltre che economico è sempre un atto morale. Questo, specie nelle espressioni della cooperazione e nelle nuove forme di commercializzazione internazionale (vi si intravvede il riferimento al commercio equo e solidale), rappresenta un auspicabile fattore di democrazia economica (CV, 66). Altri documenti magisteriali in passato hanno girato intorno alla tematica, come la stessa Centesimus annus, ma non hanno mai affrontato direttamente la questione. Per la Caritas in veritate l'atto del consumo attraverso l'acquisto si carica di significato morale perché è frutto di una scelta consapevole tra ciò che è bene e ciò che è meno bene. Comprare una cosa piuttosto che un'altra è un atto morale e come tale è gravido di conseguenze. Scegliere un modello di consumo piuttosto che un altro non è la stessa cosa dal punto di vista della responsabilità sociale del cittadino consumatore. Alcuni classici del consumo critico Il commercio equo e solidale (Fair trade). Risalgono agli anni '70 le attività di certificazione del commercio equo in Messico da parte di un religioso cattolico belga, Frans Van der Hoff, teologo ma anche economista. La forte idea iniziale è quella di servirsi degli stessi concetti economici e di mercato per finalità positive a favore e con i più svantaggiati, in quel contesto i campesinos, per contribuire insieme a svincolarsi dallo sfruttamento delle grandi imprese capitalistiche. Da un lato attraverso il recupero di potere contrattuale dei più svantaggiati nelle filiere produttive, dall'altro con lo stabilirsi di una relazione tra importatori e produttori che garantisca questi ultimi a crescere nelle loro capacità. In questo modo viene superato lo stesso modello pauperista che, dal punto di vista economico, indirettamente favorisce il mantenimento di condizioni di povertà e di miseria di intere fasce sociali.


Il boicottaggio. Questa forma di resistenza collettiva operata dal basso nasce nella seconda metà dell’800 e deriva il suo nome da Charles Boycott, un militare inglese al quale era stata affidata l’amministrazione di molti fondi rustici in Irlanda. A fronte dello sfruttamento perpetrato a danno dei conduttori agricoli, che comprendeva anche l’obbligo dell’acquisto dei mezzi della produzione e dei prodotti raccolti a prezzi iniqui, gli abitanti della zona iniziarono sistematiche azioni di isolamento e di non collaborazione, compreso il rifiuto di lavorare sulle sue terre, costringendo Boycott a lasciare l’Irlanda. Nelle sue forme più conosciute e moderne, il boicottaggio ha riguardato le campagne di denuncia, operate da ONG, dei processi produttivi di grandi multinazionali delocalizzate in paesi con scarse tutele ambientali e dei lavoratori, spesso minori, alle quali seguivano gli appelli a scala internazionale a non acquistare i loro prodotti. Una vera e propria contro-pubblicità alla quale le aziende, dalla Nike alla Nestlé, si sono mostrate molto sensibili, fino a cambiare i loro processi produttivi per rimediare alla diminuzione dei loro titoli di mercato. L’investimento responsabile. Fece scalpore, anni fa, la vicenda delle suore americane che acquistarono azioni di una società quotata, non per fare profitti, come molti avevano malgiudicato, ma semplicemente per avere diritto di parola in assemblea e poter denunciare le decisioni dei vertici aziendali incompatibili con la responsabilità sociale ed ambientale d’impresa. Le cronache ci dicono che i vertici aziendali tentarono di corromperle con donazioni in denaro per i loro poveri ma, ovviamente, trovarono un netto rifiuto. Grandi le donne, alle quali si dovrebbero affidare molti più incarichi di responsabilità ai vertici delle aziende e, soprattutto, grandi le suore, quelle della vicenda sicuramente! In linea generale, si tratta di una forma di consumo critico perché si «consuma» la quota azionaria non per speculare e ottenere un personale vantaggio economico, ma per avere diritto di parola al fine di orientare le scelte aziendali verso il bene comune. Presupposto fondamentale è che ci siano aziende quotate in borsa, cosa che almeno per l’Italia rappresenta un fattore limitante, visto che il basso numero di aziende quotate limita la diffusione di questo strumento di pressione. Queste e molte altre forme, che usando una fortunata espressione coniata dall’economista L. Becchetti esprimono il c.d. «voto con il portafoglio», sono una delle frontiere della vita democratica di un paese, tanto che l’Unione europea le inserirà nella nuova formulazione dei trattati, e rappresentano un’occasione educativa fondamentale per le società moderne. Il consumo, inaspettatamente e se si adoperano gli strumenti adeguati, diventa potenziale occasione di sviluppo ed estensione della democrazia e di cambiamento della società. Tutto ciò è possibile ma occorre passare dal modello consumatore-cliente a quello consumatorecittadino. Oggi la parola strategica non è più «marketing» ma «societing» e lo slogan non è più «consumare meno», una sorta di continenza sui beni, ma «consumare diversamente», perché solo così, sul versante dei consumi, si favoriscono la solidarietà, i diritti umani, il rispetto dell’ambiente, la responsabilità sociale di impresa. Questa è una grande conquista di civiltà, che apre oggi a grandi speranze, facendone un momento propizio di civilizzazione e di umanizzazione. E questa è anche, è bene sottolinearlo, un’importante sfida educativa per le nostre comunità ecclesiali. (Fine)


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