Appunti Matematici 05

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Patrizio Gravano

APPUNTI MATEMATICI

numero 5 - maggio 2015


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INDICE

IN QUESTO NUMERO

RUBRICHE PILLOLE MATEMATICHE

L’ABC dell’algebra lineare I GRANDI MATEMATICI DEL PASSATO

Nikolaj Ivanovic Lobacevskij

L’ANGOLO DEL FISICO DALL’ACCELERAZIONE ALLA POSIZIONE. IL PROBLEMA CINEMATICO INVERSO

DIAMO I NUMERI LA DEFINIZIONE DEI NUMERI REALI, LE LORO PROPRIETÀ E I NUMERI COMPLESSI

SUL PIANO STATISTICO UNA PRIMA INTRODUZIONE ALLA STATISTICA

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IN QUESTO NUMERO

Nei numeri precedenti ho portato a parziale compimento l’introduzione all’analisi. Peraltro vi sono parti di essa che verranno riconsiderate in seguito, a partire dai teoremi della media e lo sviluppo in serie di Taylor-McLaurin. Ma molte parti dovranno essere approfondite nella nuova sede degli APPROFONDIMENTI ANALITICI. Ciò premesso nelle PILLOLE MATEMATICHE di questo mese ho deciso di introdurre il calcolo matriciale e la risoluzione dei sistemi lineari. Do per scontato che il lettore ora abbia compreso gli spazi vettoriali, esaminati in precedenti L’ANGOLO DEL FISICO. Il matematico del mese è il russo Nikolaj Ivanovic Lobacevskij, creatore, insieme al magiaro Bolay, delle geometrie non euclidee. Bisognerà partire dai postulati della geometria euclidea. L’ANGOLO DEL FISICO di questo mese è dedicato al problema cinematico inverso. Poiché esso presuppone il ricorso al calcolo integrale ho deciso di introdurre il concetto di integrale indefinito (antiderivata) e di integrale definito per poter gestire i problemi inversi: data l’accelerazione o la velocità determinare la posizione nel tempo. Questa sezione conterrà anche diversi esercizi applicati, invero semplici. Con questo numero la rubrica DIAMO I NUMERI si occuperà diffusamente del campo dei numeri reali, considerati sotto il profilo della definizione di numero reale, che in relazione alle loro proprietà algebriche e d’ordine. L’ultima parte sarà dedicata ai numeri complessi. Restano infatti da considerare le radici dell’unità e le potenze intere di numeri complessi. Con questo numero prende avvio la nuova rubrica SUL PIANO STATISTICO. Con questa prima apparizione introdurrò i concetti fondamentali della disciplina. Nel momento in cui si renderà necessario avviare la parte del calcolo delle probabilità, utilizzerò, come guida, un pregevole testo degli anni Trenta, recentemente acquistato su una bancarella nella Via Nomentana, scritto da un noto matematico, Guido Castelnuovo, che trovato piano nella scrittura. (Patrizio Gravano)

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PILLOLE MATEMATICHE L’ABC dell’algebra lineare

Ove si tenga conto dei precedenti L’ANGOLO DEL FISICO il lettore ha già conoscenza dei vettori e degli spazi vettoriali. Desidero ora introdurre ulteriori nozioni di algebra lineare, partendo dalle matrici. Per mera comodità considero solo le matrici 3*3ma quanto detto per esse vale in generale per le matrici m*n, salve le eventuali specificazioni. In ogni caso, non mancherà occasione di ritornare sugli spazi vettoriali.

1. Le matrici 3*3. Eguaglianza di matrici Una matrice è una tabella numerica. Essa è costituita da un dato numero di righe e da un certo numero di colonne. Un generico elemento di essa è univocamente collocato ed è formalizzato da due indici. Per esempio per dire che đ?‘Žđ?‘–,đ?‘— è un elemento di A si scrive đ?‘Žđ?‘–,đ?‘— ∈ A. Gli indici i e j sono rispettivamente indicativi della riga e della colonna. Per esempio la scrittura đ?‘Ž2,3 denota l’elemento collocato nella seconda riga in corrispondenza della terza colonna. Per comoditĂ consideriamo matrici costituite da tre righe e da tre colonne, dette matrici 3*3. In genere gli elementi che costituiscono la matrice sono numeri reali, ma non è detto che sia sempre cosĂŹ. Il campo potrebbe anche essere C.

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2. La somma di matrici Limitiamoci al caso delle matrici 3*3. Ăˆ possibile sommare due matrici per ottenere una terza matrice detta somma di matrici. La somma è immediata, basta sommare gli elementi pari posizionati nelle due matrici. Se đ?‘Žđ?‘–,đ?‘— e đ?‘?đ?‘–,đ?‘— sono gli elementi delle due matrici con 1 ≤ đ?‘– ≤ 3 e 1 ≤ j ≤ 3. Si ha che đ?‘ đ?‘–,đ?‘— = đ?‘Žđ?‘–,đ?‘— + đ?‘?đ?‘–,đ?‘— . Nel caso delle matrici esiste una con formabilitĂ per la somma nel senso che essa ha significato nel caso le due matrici abbiano lo stesso numero di righe e lo stesso numero di colonne.

1 3 (2 2 0 2

0 1 1 1) + (1 1 1 1 1

0 0 La matrice (0 0 0 0

1 2 1) = (2 1 1

4 1 3 2) 3 2

0 0) è detta matrice zero (o nulla) nell’insieme delle matrici 3*3 0

Tali concetti sono generali con riferimento all’insieme delle matrici m*n, quindi, ad esempio, la matrice nulla nell’insieme delle matrici m*n è costituita da m righe e da n colonne tutte costituite da zeri reali, se K = R. Ăˆ possibile procedere alla somma di un numero arbitrario di matrici conformabili per la somma. Esse sono anche dette matrici dello stesso tipo. Gli elementi di una matrice đ?‘Žđ?‘– đ?‘— si dicono della diagonale principale se i = j. Per esempio nel caso delle matrici 3*3 sono i valori đ?‘Ž1,1 , đ?‘Ž2,2 , đ?‘Ž3,3. Nel caso della matrice somma di due matrici date essi sono 2, 3, 2. Una matrice avente tutti gli đ?‘Žđ?‘– đ?‘— = 0 per i ≠j e almeno un đ?‘Žđ?‘– đ?‘— ≠0 per i = j è detta matrice diagonale.

1 0 0 La matrice (0 1 0) è detta matrice unitĂ nell’insieme delle matrici 3*3. Per essa 0 0 1 esiste una particolare notazione detta di Kronecker che ricalca quando detto per le matrici diagonali ma con specificitĂ che đ?‘Žđ?‘– đ?‘— = 1 per i = j. Solitamente si usa la lettera δ.

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3. La differenza di due matrici. Matrice opposta Ăˆ possibile fare la differenza tra matrici m*n e quindi anche tra matrici 3*3. La matrice differenza ha gli elementi ottenuti da đ?‘‘đ?‘–,đ?‘— = đ?‘Žđ?‘–,đ?‘— - đ?‘?đ?‘–,đ?‘— . Consideriamo anche in questo caso un esempio concreto.

1 3 (2 2 0 2

0 1 1 1) - (1 1 1 1 1

1 0 2 1) = ( 1 1 1 −1 1

−1 0) 0

Per matrice opposta si intende la matrice che sommata ad una matrice data fa ottenere la matrice nulla. Anche in questo caso si può fare un esempio concreto e poi generalizzare.

1 3 (2 2 0 2

đ?‘?1,1 0 1) + ( ‌ . ‌. 1

đ?‘?1,2 ‌.. ‌..

‌. 0 ‌ . . ) = (0 đ?‘?3,3 0

0 0 0 0) 0 0

Ăˆ immediato che deve essere 1 + đ?‘?1,1 = 0 â&#x;ž 1 = - đ?‘?1,1 . Questo ragionamento dovrĂ essere reiterato altre otto volte con riferimento ai rimanenti elementi della matrice nulla. In generale la matrice opposta di una matrice data (đ?‘Žđ?‘–,đ?‘˜ ) è una matrice i cui elementi sono đ?‘?đ?‘–,đ?‘˜ = - đ?‘Žđ?‘–,đ?‘˜ quando đ?‘Žđ?‘–,đ?‘˜ ≠0 e đ?‘?đ?‘–,đ?‘˜ = 0 quando đ?‘Žđ?‘–,đ?‘˜ = 0. (M(3,3), +) è un gruppo commutativo. Ciò vale in generale per la struttura (M(m,n), +).

4. La moltiplicazione di una matrice per uno scalare Data una matrice A è possibile moltiplicare essa per uno scalare. Il risultato dell’operazione è una matrice i cui elementi sono gli elementi di essa moltiplicati per lo scalare. Moltiplicando una matrice qualunque per 0 si ottiene la matrice nulla. Ăˆ possibile fare un esempio. 1 3 3* (2 2 0 2

0 1 3 1) = (2 2 1 0 2

0 3 9 1) ∗ 3 = (6 6 1 0 6

0 3) 3

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5. Trasposta di una matrice Data una matrice A viene definita trasposta di A la matrice, solitamente indicata con đ??´đ?‘‡ , ottenuta scambiando le righe con le colonne di A. Le righe di A diventano colonne della trasposta e le colonne di A diventano le righe della trasposta.

3 9 Esempio data A = (6 6 0 6

0 3 3) si ha che đ??´đ?‘‡ = (9 3 0

6 0 6 6) . 3 3

Vorrei osservare che l’operazione di trasposizione ha condotto sempre ad una matrice 3*3. Questo non è vero in generale. Ciò e implicito nella sostituzione righe â&#x;ś colonne e colonne â&#x;ś righe. Pertanto se si ha una matrice m*n la trasposta sarĂ n*m. Tale operazione non è in generale interna.

6. Prodotto di matrici Ăˆ possibile moltiplicare matrici sotto particolari condizioni. Qui è bene ragionare in termini generali. Non sempre l’operazione di moltiplicazione tra matrici è ammissibile. Condizione necessaria e sufficiente affinchĂŠ due matrici A e B siano moltiplicabili (conformabili rispetto alla moltiplicazione matriciale) è che il numero delle colonne della prima sia eguale al numero delle righe della seconda. Il risultato dell’operazione è una matrice avente il numero di righe della prima e per numero di colonne il numero di colonne della seconda. La moltiplicazione di matrici non è commutativa in generale. Definita la condizione di moltiplicabilitĂ delle matrici è necessario vedere come vengono definiti (determinati) gli elementi della matrice prodotto di due matrici date, P = A*B. L’elemento đ?‘?đ?‘–,đ?‘— è il prodotto interno del vettore di componenti corrispondenti agli elementi della i-esima riga della matrice A e del vettore di componenti corrispondenti agli elementi della j-esima colonna della matrice B. Esso è comunemente detto prodotto righe per colonne. Vorrei fare qualche esempio. 2 ⌋ 4, 5, 6âŚŒ* [( 3 )] −1

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La scrittura ⌋ 4, 5, 6âŚŒ individua un vettore detto vettore riga, caso particolare di matrice 1*3, 2 mentre la scrittura [( 3 )] definisce un vettore di tre righe e di una colonna, ovvero una −1 matrice 3*1. Dette matrici sono conformabili per la moltiplicazione e il risultato è una matrice 1*1 (il primo 1 è il numero delle righe del primo vettore, mentre il secondo è il numero delle righe, pari a 1, del secondo vettore). Le matrici 1*1 in pratica sono gli scalari. 2 Ciò premesso si ha ⌋ 4, 5, 6âŚŒ* [( 3 )] = ⌋4*2 + 5*3+ 6(-1)âŚŒ= ⌋8+ 15 - 6âŚŒ = ⌋17âŚŒ −1 2 [( 3 )] * ⌋ 4, 5, 6âŚŒ. In questo caso si ha una matrice 3*1 che deve essere moltiplicata per una −1 matrice 1*3. Quindi il risultato sarĂ una matrice 3*3. Per calcolare đ?‘?1,1 = ⌋2 , 0, 0âŚŒâŚ‹4, 5, 6âŚŒ = 8 Analogamente si determinano tutti i đ?‘?đ?‘–,đ?‘— .

2 8 10 [( 3 )] * ⌋ 4, 5, 6âŚŒ = ( 12 15 −1 −4 −5

12 16 ). −6

Solo in casi particolari A*B = B*A. In questo caso le matrici sono permutabili. Moltiplicando una matrice per una matrice nulla (essendo essere dette matrici conformabili per la moltiplicazione) si ottiene la matrice nulla. Ăˆ però possibile ottenere come risultato della moltiplicazione tra matrici la matrice nulla anche quando dette matrici non sono nulle.

7. Matrice identitĂ Data una matrice A quadrata, per esempio 3*3, Sia I la matrice identica, ovvero I = 1 0 0 (0 1 0). Si ha che I*A = A*I = A. 0 0 1

8. Determinante di matrice quadrata Alle matrici quadrate, ovvero a quelle costituite da un egual numero di righe e di colonne, è associato un numero reale detto determinante. Data una matrice quadrata il determinante di essa, det(A), è unico. Non è vero il contrario, nel senso che uno stesso numero può essere il det(.) di infinite matrici.

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I numeri reali, come detto, possono essere considerati come matrici di ordine 1 (una riga e una colonna). Le matrici costituite da due righe e da due colonne sono nomate del secondo ordine, quelle costituite da tre righe e da tre colonne sono dette del terzo ordine. Per le matrici del secondo ordine il determinate è definito nel modo seguente: đ?‘Ž1,1 det (đ?‘Ž 2,1

đ?‘Ž1,2 đ?‘Ž2,2 ) = (đ?‘Ž1,1 ) (đ?‘Ž2,2 ) - (đ?‘Ž1,2) (đ?‘Ž2,1).

Il calcolo di detto determinante è banale, trattandosi di una mera sostituzione in formula.

8. Determinante di matrici 3*3. Minore complementare e complemento algebrico Per la determinazione dei determinanti delle matrici del terzo ordine (3*3) esiste una regola pratica valida solo per esse: la legge di Sarrus. Si consideri una matrice del terzo ordine. Per essa si ha đ?‘Ž1,1 đ?‘Ž1,2 đ?‘‘đ?‘’đ?‘Ą (đ?‘Ž2,1 đ?‘Ž2,2 đ?‘Ž3,1 đ?‘Ž3,2 đ?‘Ž33 đ?‘Ž31 đ?‘Ž12.

đ?‘Ž1,3 đ?‘Ž2,3 ) = đ?‘Ž11 đ?‘Ž22 đ?‘Ž33 + đ?‘Ž22 đ?‘Ž23 đ?‘Ž31 + đ?‘Ž33 đ?‘Ž31 đ?‘Ž32 - đ?‘Ž31 đ?‘Ž32 đ?‘Ž13 - đ?‘Ž32 đ?‘Ž23 đ?‘Ž11 đ?‘Ž3,3

Esiste anche una rappresentazione grafica per vedersi visivamente lo sviluppo.

In generale, i determinanti delle matrici vengono introdotti previa introduzione di due concetti: il minore complementare e i complemento algebrico. Data una matrice per esempio del III ordine, quale đ?‘Ž1,1 (đ?‘Ž2,1 đ?‘Ž3,1

đ?‘Ž1,2 đ?‘Ž2,2 đ?‘Ž3,2

đ?‘Ž1,3 đ?‘Ž2,3 ) đ?‘Ž3,3

Si considera un qualunque elemento di essa. Ammettiamo di considerare il numero đ?‘Ž3,3. Si sopprimono la riga e la colonna contenenti detto elemento.

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Si ottiene una matrice del secondo ordine del tipo

đ?‘Ž11 (đ?‘Ž

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đ?‘Ž12 đ?‘Ž22 ).

đ?‘Ž11 Si consideri det(đ?‘Ž 21

đ?‘Ž12 đ?‘Ž11 ) = | đ?‘Ž22 đ?‘Ž21

�12 �22 | = ��,� .

Detto determinante si chiama minore complementare dell’elemento đ?‘Ž3,3 . PoichĂŠ si può considerare un qualunque elemento della matrice quello generale sarĂ đ?‘Žđ?‘– đ?‘— . Detto elemento viene detto di classe pari se i + j = 2n, ovvero di classe dispari quando i + j = 2n +1. Viene definita cofattore (o complemento algebrico) la quantitĂ : đ??´đ?‘–,đ?‘— = (−1)đ?‘–+đ?‘— đ?‘€đ?‘–,đ?‘—

Ăˆ dovuto a Laplace il teorema per il quale la somma dei prodotti degli elementi di una riga (o di una colonna) qualsiasi per i rispettivi complementi algebrici è costante qualunque sia la riga o colonna che si consideri. Da questa costanza discende la definizione di determinante di una matrice del terzo ordine come la somma dei prodotti degli elementi di una riga, o di una colonna, per i rispettivi cofattori. Quanto detto vale in generale per le matrici quadrate di ordine superiore al terzo.

I determinanti godono di particolari proprietà ed esistono anche i cosiddetti determinati notevoli. Bisognerà ritornare sul’argomento.

9. Matrice inversa Assegnate due matrici quadrate, A e B, dello stesso ordine, esse sono l’una l’inversa dell’altra se e solo se si ha A*B = B*A= I, ove, quando si considerano matrici del 1 0 0 terzo ordine è I = (0 1 0). 0 0 1

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Ăˆ bene ricordare che in generale per matrici di ordine n la matrice inversa è costituita da n elementi eguali a 1 e collocati sulla diagonale principale risultando gli altri elementi tutti nulli. Essa è sintetizzabile con il δ di Kronecker. Normalmente ci si chiede se data una matrice A esiste una matrice B che verifichi la condizione di invertibilitĂ . In questo caso si dice che B è la matrice inversa. Se esiste l’inversa essa è unica. Una matrice che ammette inversa è detta invertibile. Senza entrare nei dettagli della teoria è bene ricordare che una matrice quadrata A ammette la matrice inversa se e solo se essa è non singolare. Una matrice quadrata M è detta non singolare se det(M) ≠0. Esiste un metodo pratico per il calcolo dell’inversa . 1. Data M si determina det(M). Se det(M) = 0 si ammette che l’inversa non esiste, altrimenti si va al punto 2; 2. Si considera đ?‘€đ?‘‡ , ovvero la trasposta di M; 3. Si considera la matrice đ??´đ?‘–,đ?‘— i cui elementi sono i cofattori della matrice đ?‘€đ?‘‡ ; 4.đ?‘€âˆ’1 =

đ??´đ?‘–,đ?‘—

.

det(đ?‘€)

Solitamente la matrice inversa di M si denota con la scrittura đ?‘€âˆ’1 . Dal punto 4. ben si comprende che i coefficienti della matrice inversa sono ottenuti dai cofattori divisi per det(M).

10. Rango di una matrice Di una matrice m*n viene definito il rango inteso come il numero di vettori riga o di vettori colonna linearmente indipendenti. Il rango di una matrice A, si indica con r(A) e si ha r(A) ⊽ min (m, n). Per stabilire il rango di una matrice si considera un intero p ⊽ min(m, n). CosĂŹ facendo è possibile formare una matrice quadrata di ordine p, detta matrice estratta. Il determinante di essa è detto minore di ordine p della matrice A. Per definizione il rango è l’ordine massimo dei suoi minori non nulli. La ricerca del rango può risultare laboriosa e a volte è utile trovato un minore non nullo di ordine p orlarlo. Se i minori ottenuti orlando sono tutti nulli allora la matrice ha il rango eguale all’ordine p.

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Gli esempi chiariranno questa parte.

10.1 Determinazione del rango di una matrice đ?‘Ž Data la matrice (đ?‘Ž đ?‘Ž

0 0 đ?‘Žâˆ’1 0 ) 2đ?‘Ž − 2 2đ?‘Ž − 2

Questa matrice contiene un parametro a, quindi lo studio del rango ne deve tenere conto. PoichÊ si tratta di una matrice quadrata di ordine 3, allora il rango può valere 3, 2, oppure 1.

Si consideri la matrice A = (

đ?‘Ž đ?‘Ž

0 ) â&#x;ždet A = a(a-1) – 0*a = đ?‘Ž2 - a đ?‘Žâˆ’1

detA ≠0 per a≠0 e per a ≠1.

0 0 0 Considero il caso a = 0. Detta matrice diviene (0 −1 0 ). Il corrispondente 0 −2 −2 determinante deve valere zero, il che si evince ictu oculi dagli zeri di riga e di colonna. In questo caso la matrice non può avere rango 3. Da detta matrice è però −1 0 estraibile quella di ordine due ( ) il cui determinante è immediatamente −2 −2 calcolabile ed è ≠0. Per a = 0 si ha r(A) = 2 1 0 0 Si consideri il caso a = 1. Si ha A = (1 0 0) . A occhio si vede che si può pensare 1 0 0 1 0 alla matrice ( ) ma anche in questo caso il determinante vale zero. 1 0 Per a = 1 si ha che r(A) = 1 đ?‘Ž 0 ) đ?‘Ž đ?‘Žâˆ’1 per per a≠0 e per a ≠1 è possibile “orlareâ€? 0 0 đ?‘Žâˆ’1 0 ) con a≠0 e a ≠1. Se det 2đ?‘Ž − 2 2đ?‘Ž − 2

Fuori dalle considerate ipotesi poichĂŠ si era considerata la matrice A = ( â&#x;ždet A = a(a-1) – 0*a = đ?‘Ž2 – a ≠0 đ?‘Ž considerando quindi la matrice (đ?‘Ž đ?‘Ž đ?‘Ž 0 0 (đ?‘Ž đ?‘Ž − 1 0 ) ≠0 allora r(A) = 3. đ?‘Ž 2đ?‘Ž − 2 2đ?‘Ž − 2

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PoichĂŠ la prima riga contiene due valori 0 che annullano i cofattori il determinante đ?‘Žâˆ’1 0 si riduce a det(A) = a(−1)2 det( )= 2(a)(đ?‘Ž − 1)2 . 2đ?‘Ž − 2 2đ?‘Ž − 2 PoichĂŠ si è posto a ≠0 e a≠1 allora detA ≠0. Con ciò si è dimostrato che r(A) = 3 quando a ≠0 e a≠1.

11. Sistema di equazioni lineari Siano date n incognite đ?‘Ľđ?‘– , ove 1 ≤ i ≤ n. Una equazione è lineare (o di I grado) quando è riconducibile alla forma đ?‘Ž1 đ?‘Ľ1 + đ?‘Ž2 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Žđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = b, ove b e đ?‘Žđ?‘– sono parametri reali. b è detto termine noto. I sistemi lineari sono posti nella forma seguente đ?‘Ž11 đ?‘Ľ1 + đ?‘Ž12 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Ž1đ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?1 đ?‘Ž21 đ?‘Ľ1 + đ?‘Ž22 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Ž2đ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?2 ‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌.. đ?‘Žđ?‘š1 đ?‘Ľ1 + đ?‘Žđ?‘š2 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Žđ?‘šđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?đ?‘š Si deve notare che i paramenti a contengono due indici, il primo relativo al numero d’ordine dell’equazione e il secondo relativo al collegamento con la incognita. Quando i parametri b sono tutti nulli il sistema è detto omogeneo. Nel caso considerato si è ammesso di avere m equazioni. Giova osservare che non necessariamente il numero m delle equazioni e eguale al numero n delle incognite. Risolvere il sistema vuol dire trovare, se esiste, una n-pla (essendo n le incognite) di numeri reali che soddisfi contemporaneamente le m equazioni date. Esiste una rigorosa tassonomia dei sistemi. I sistemi che ammettono soluzioni si dicono compatibili. I sistemi compatibili possono essere determinati, se ammettono una ed una sola soluzione, ovvero una ed una sola n-pla che verifica tutte le m equazioni, oppure possono essere indeterminati, se esistono infinite soluzioni. I sistemi privi di soluzione di dicono incompatibili.

12. Metodo della matrice inversa Il caso piÚ semplice è quello nel quale il numero delle incognite eguaglia il numero delle incognite. In questo caso è immediata la rappresentazione matriciale del

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sistema nel quale m = n. Viene đ?‘Ž1,1 sistema, nella forma A = ( â‹Ž đ?‘Žđ?‘›,1

considerata la matrice A, detta dei coefficienti del â‹Ż đ?‘Ž1,đ?‘› â‹ą â‹Ž ). La matrice colonna dei coefficienti del â‹Ż đ?‘Žđ?‘›,đ?‘› đ?‘?1 đ?‘? sistema è posta nella forma B= ( 2 ). Il vettore colonna delle incognite è X = ‌. đ?‘?đ?‘› đ?‘Ľ1 đ?‘Ľ2 (‌ .). Fatte queste premesse un sistema lineare è ponibile in forma matricale đ?‘Ľđ?‘› essendo AX = B. Occorre per prima cosa calcolare det(A). Se det(A) ≠0 è possibile lavorare su AX = B avendo đ??´âˆ’1 A X = đ??´âˆ’1 B â&#x;ž X = đ??´âˆ’1 B. Da det(A) ≠0 discende đ?‘Ľ1 đ?‘&#x;1 đ?‘Ľ2 đ?‘&#x;2 l’esistenza e la unicitĂ della soluzione, ovvero dei valori R = (‌ .) = (‌ .). đ?‘Ľđ?‘› đ?‘&#x;đ?‘›

In pratica, per risolvere un sistema di n equazioni in n incognite si determina det(A). Se det(A) = 0 il sistema non ammette soluzioni. Se det(A) ≠0 di determina l’unica soluzione.

13. Teorema di RouchĂŠ – Capelli Molte volte ci si trova di fronte a situazioni piĂš complesse nelle quali il numero delle incognite e il numero delle equazioni non coincide. đ?‘Ž11 đ?‘Ľ1 + đ?‘Ž12 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Ž1đ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?1 đ?‘Ž21 đ?‘Ľ1 + đ?‘Ž22 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Ž2đ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?2 ‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌‌.. đ?‘Žđ?‘š1 đ?‘Ľ1 + đ?‘Žđ?‘š2 đ?‘Ľ2 + ‌‌ + đ?‘Žđ?‘šđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› = đ?‘?đ?‘š In questo caso si parte dalla ipotesi m ≠n. Ăˆ assegnata la matrice dei coefficienti (detta anche matrice incompleta). Essa è cosĂŹ đ?‘Ž1,1 â‹Ż đ?‘Ž1,đ?‘› â‹ą â‹Ž ). formalizzata A = ( â‹Ž đ?‘Žđ?‘š,1 â‹Ż đ?‘Žđ?‘š,đ?‘›

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La matrice completa contiene una ulteriore colonna quella dei termini noti, essa è đ?‘Ž1,1 ‌ đ?‘Ž1,đ?‘› đ?‘?1 â‹Ž â‹ą â‹Ž ). C =( đ?‘Žđ?‘š,1 ‌ . . đ?‘Žđ?‘š,đ?‘› đ?‘?2 Il sistema assegnato ammette soluzioni (una o infinite) se e solo se le due matrici hanno lo stesso rango. Credo che in questo caso al di lĂ degli approfondimenti sia piĂš celere svolgere esercizi applicativi.

14. Sistema di n equazioni omogenee in n incognite Viene considerata la matrice A, detta dei coefficienti del sistema, nella forma A = đ?‘Ž1,1 â‹Ż đ?‘Ž1,đ?‘› â‹ą â‹Ž ). La matrice colonna dei coefficienti del sistema è posta nella forma ( â‹Ž đ?‘Žđ?‘›,1 â‹Ż đ?‘Žđ?‘›,đ?‘› đ?‘Ľ1 đ?‘?1 đ?‘Ľ2 đ?‘? B= ( 2 ). Il vettore colonna delle incognite è X = (‌ .). ‌. đ?‘Ľđ?‘› đ?‘?đ?‘› 0 0 Se det(A) ≠0 si ha la unica soluzione X = ( ). ‌. 0 Se det(A) = 0 il sistema ammette infinite soluzioni. In particolare di dimostra che đ?‘Ľ1 đ?‘Ľâ€˛1 đ?‘Ľ2 đ?‘Ľâ€˛ se det(A) ≠0 allora se X = (‌ .) e X’ = ( 2 ) allora ÎąX + φX’ è una soluzione. ‌. đ?‘Ľđ?‘› đ?‘Ľâ€˛đ?‘›

15. Applicazioni lineari Si consideri un campo commutativo, per esempio R, insieme dei numeri reali. Siano definiti due distinti spazi vettoriali sullo stesso campo, S e T. Sia assegnata una funzione f che associa (fa corrispondere) ad un elemento di S corrisponda uno ed uno solo elemento di T. Formalmente si scrive f : S â&#x;ś T. La funzione f è detta applicazione lineare (o omomorfismo) se e solo se, considerati due distinti elementi x ed y di S si ha, ∀r ∈ R, f(x+y) = f(x) + f(y) f(kx) = kf(x)

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Si ha la conservazione dell’addizione e la moltiplicazione per uno scalare. In particolare essa �

vale anche per r = 0, avendosi f(0) = 0. đ?‘‚đ?‘† → đ?‘‚đ?‘‡ . Esiste un criterio di linearitĂ di una applicazione. Una applicazione è lineare se e solo se esistono due scalari di campo, h e k, tali che f(kx + hy) = kf(x) + hf(y), essendo x ed y elementi di S. Si è considerato il campo R in realtĂ si potrebbe usare anche C. Traggo da Swirner-Scaglianti alcuni esercizi che mi sono proposto di risolvere. Dimostrare che le f seguenti sono lineari. đ?’‚ đ?’‡ đ?’‚+đ?’ƒ 1) f : đ?‘šđ?&#x;? â&#x;ś đ?‘šđ?&#x;? ( ) → ( ) đ?’ƒ đ?’‚ In questo caso i due spazi vettoriali coincidono. đ?‘Ž đ?‘Ž+đ?‘? Si considerino gli elementi ( ) e (đ?‘Žâ€˛). Tramite la f detti elementi divengono ( ) đ?‘? đ?‘Ž đ?‘?′ ′ đ?‘Ž e (đ?‘Ž + đ?‘?′) . Si consideri quindi ( ) + (đ?‘Žâ€˛) = (đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛). Tramite la trasformazione đ?‘? đ?‘? + đ?‘?′ đ?‘Žâ€˛ đ?‘?′ ′ definita dalla legge f al valore (đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛) đ?‘?đ?‘œđ?‘&#x;đ?‘&#x;đ?‘–đ?‘ đ?‘?đ?‘œđ?‘›đ?‘‘đ?‘’ (đ?‘Ž + đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘?′). Occorre đ?‘? + đ?‘?′ đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ ′ ′ đ?‘Ž+đ?‘? dimostrare che ( ) + (đ?‘Ž + đ?‘?′) = (đ?‘Ž + đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘?′) . Ciò discende dalla definizione đ?‘Ž đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛ di somma di due matrici e dalla proprietĂ commutativa della somma di numeri reali. La f definita sarebbe un omomorfismo anche se K = C, e fosse f: đ??ś 2 â&#x;ś đ??ś 2 . ′ Per una nota proprietĂ delle matrici si ha che se (đ?‘Ž + đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘?′) ∈ đ?‘‰đ?‘‡ allora anche đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ ′ đ?‘Ž + đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘?′ k( ) ∈ đ?‘‰đ?‘‡ đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛

Per il futuro ometterò tale parte dimostrativa ogniqualvolta risultasse evidente. đ?’‚ đ?’‡ 2) f: đ?‘š â&#x;ś R : (đ?’ƒ) → 2a -3b + 4c . đ?’„ đ?&#x;‘

In questo caso la trasformazione manda un vettore di đ?‘… 3 in un vettore della retta. đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ Siano dati due elementi (đ?‘? ) e (đ?‘?′). Essi mediante la f diventano 2a - 3b + 4c e 2a’ – 3b’ + 4c’ đ?‘? đ?‘?′ đ?‘Ž đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛ đ?‘? đ?‘? f( ( ) + (đ?‘?′) ) = 2(a+a’) – 3(b+b’) + 4(c+c’) . Ma essa è eguale alla somma f ( ) + đ?‘“ (đ?‘?′) . đ?‘? đ?‘? đ?‘?′ đ?‘?′

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đ?‘Ž đ?‘“ Quindi f: đ?‘… â&#x;ś R : (đ?‘? ) → 2a -3b + 4c definisce una applicazione lineare. đ?‘? 3

đ?’‚ đ?’‡ đ?’„ 3) f: đ?‘š â&#x;ś đ?‘š : (đ?’ƒ) → ( ) đ?’‚+đ?’ƒ đ?’„ đ?&#x;‘

đ?&#x;?

đ?‘Ž đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ đ?‘? ′ Siano dati due elementi di đ?‘… (đ?‘? ) e (đ?‘? ). I corrispondenti elementi di f(đ?‘? ) = ( ) đ?‘Ž+đ?‘? ′ đ?‘? đ?‘? đ?‘? đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛ đ?‘? + đ?‘?′ ma anche f(đ?‘?′) = ( đ?‘?′ ). Pertanto f(đ?‘? ) + f(đ?‘?′) = ( ). ′ đ?‘Žâ€˛ + đ?‘?′ đ?‘Ž + đ?‘?+ đ?‘Ž + đ?‘?′ đ?‘? đ?‘?′ đ?‘?′ 3

đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ đ?‘? + đ?‘?′ f( (đ?‘? ) + (đ?‘? ′ )) = f((đ?‘? + đ?‘?′) = ( ). ′ đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘Ž + đ?‘?′ ′ đ?‘? đ?‘? đ?‘? + đ?‘?′ 4. Dimostrare che l’applicazione f: đ?‘šđ?&#x;? â&#x;ś R definita nel modo seguente non è lineare. đ?‘Ž đ?‘“ đ?‘Ž ( ) → det [ đ?‘? đ?‘?

đ?‘? ] đ?‘Ž

đ?‘Ž đ?‘? Il det [ ] = đ?‘Ž2 - đ?‘? 2 è uno scalare reale, quindi è ben posto che la f sia da đ?‘… 2 a đ?‘? đ?‘Ž valori reali. đ?‘Ž đ?‘Ž Siano ( ) e (đ?‘Žâ€˛) due distinti elementi di đ?‘… 2 . Si ha f(( )= đ?‘Ž2 - đ?‘? 2 e f((đ?‘Žâ€˛)= đ?‘Žâ€˛2 – đ?‘?′2 đ?‘? đ?‘? đ?‘?′ đ?‘?′ đ?‘Ž Pertanto f(( ) + f((đ?‘Žâ€˛)= đ?‘Ž2 - đ?‘? 2 + đ?‘Žâ€˛2 – đ?‘?′2 . Occorre ora determinare f((đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛). Per come đ?‘? đ?‘? + đ?‘?′ đ?‘?′ đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ è definita la trasformazione lineare posso scrivere che (( ) = det [đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ đ?‘? + đ?‘?′] đ?‘? + đ?‘?′ đ?‘? + đ?‘?′ đ?‘Ž + đ?‘Žâ€˛ đ?‘Ž đ?‘Žâ€˛ ′ 2 ′ 2 = (đ?‘Ž + đ?‘Ž ) – (đ?‘? + đ?‘? ) ≠f(( ) + f(( ). đ?‘? đ?‘?′ Quindi non si tratta di un omomorfismo.

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Considero anche i seguenti esercizi proposti in “Katzan, Intermediate Calculus and Linear Algebra, Harward University Lecture Notes, 1965” 1. T: 𝑹𝟐 ⟶ 𝑹𝟐 TX= (𝒙𝟏 + 𝒙𝟐 , 𝒙𝟏 − 𝒙𝟐 ) dove X = (𝒙𝟏 , 𝒙𝟐 ) ∈ 𝑹𝟐 𝑥′′ 𝑥′ 𝑥′′ Siano ( 1 ) e ( 1 ) per il tipo di trasformazione assegnata possiamo dire che T( 1 ) 𝑥′′2 𝑥′2 𝑥′′2 𝑥′′ + 𝑥′′2 𝑥′ 𝑥′ + 𝑥′2 𝑥′′ 𝑥′ 𝑥′′ + 𝑥′′2 𝑥′ + 𝑥′2 = ( 1 ) e 𝑇 ( 1) = ( 1 ). T( 1 ) + 𝑇 ( 1 ) = ( 1 )+ ( 1 )=𝑇 𝑥′′1 − 𝑥′′2 𝑥′2 𝑥′1 − 𝑥′2 𝑥′′2 𝑥′2 𝑥′′1 − 𝑥′′2 𝑥′1 − 𝑥′2 𝑥′′ + 𝑥′′2 ( 1 ) 𝑥′′1 − 𝑥′′2 La scelta operata dall’autore mi ha costretto a usare i pedici ‘ e ‘‘ . Anche in questo 𝑥′′ + 𝑥′′2 𝑥′′ + 𝑥′′2 caso ∀ ( 1 ) ∈ 𝑉𝑇 anche k* ( 1 ) ∈ 𝑉𝑇 . 𝑥′′1 − 𝑥′′2 𝑥′′1 − 𝑥′′2 2. T: 𝑹𝟐 ⟶ 𝑹𝟐 TX=( 𝒙𝟏 + 𝒙𝟐 + 𝟏 , 𝒙𝟏 − 𝒙𝟐 ) Per semplificarmi la vita pongo 𝑥1 = 𝑎 𝑒 𝑥2 = b 𝑇 (𝑎′) → (𝑎′ + 𝑏′ + 1) 𝑏′ 𝑎′ − 𝑏′ 𝑇 (𝑎′′) → (𝑎′′ + 𝑏′′ + 1) 𝑏′′ 𝑎′′ − 𝑏′′ ′ ′ T(𝑎′) + T(𝑎′′) = (𝑎′ + 𝑏′ + 1) + (𝑎′′ + 𝑏′′ + 1) = (𝑎 + 𝑏′ + 1 + 𝑎′′ + 𝑏′′ + 2 ) 𝑎 − 𝑏 + 𝑎′′ − 𝑏′ 𝑏′ 𝑏′′ 𝑎′ − 𝑏′ 𝑎′′ − 𝑏′′ ′ (𝑎′ + 𝑏 ′ ) + (𝑏 ′ + 𝑏 ′′ ) + 1 Determino ora T(𝑎′ + 𝑎′′) = ( ). (𝑎′ + 𝑎′′) − 𝑏′ + 𝑏′′ 𝑏 + 𝑏′′ ′ È ben evidente che T(𝑎′) + T(𝑎′′) ≠ T(𝑎′ + 𝑎′′) quindi non si è in presenza di una 𝑏 + 𝑏′′ 𝑏′ 𝑏′′ trasformazione lineare.

3. T: 𝑹𝟐 ⟶ 𝑹𝟐 TX=( 𝒙𝟏 +𝒙𝟏 ∗ 𝒙𝟐 , 𝒙𝟐 ) Pongo 𝑥1 = 𝑎 𝑒 𝑥2 = b. ′ 𝑇 (𝑎′) → (𝑎 + 𝑎′𝑏′) 𝑏′ 𝑏′ ′′ 𝑇 (𝑎′′) → (𝑎 + 𝑎′′𝑏′′) 𝑏′′ 𝑏′′ ′ ′ ′ ′′ ′ ′′ T(𝑎′) + T(𝑎′′) = (𝑎 + 𝑎′𝑏′) + (𝑎 + 𝑎′′𝑏′′) = (𝑎 + 𝑎 𝑏 ′ + 𝑎 + 𝑎′′𝑏′) 𝑏 + 𝑏′′ 𝑏′ 𝑏′′ 𝑏′ 𝑏′′ ′

T(𝑎′ + 𝑎′′) = ( 𝑏 + 𝑏′′

(𝑎′ + 𝑎′′ ) + (𝑎′ + 𝑎′′ )( 𝑏 ′ + 𝑏 ′′ ) 𝑎′ + 𝑎′′ + 𝑎′ 𝑏 ′ + 𝑎′ 𝑏 ′′ + 𝑎′ 𝑏 ′ + 𝑎′′𝑏′′) ) = ( 𝑏 ′ + 𝑏′′ 𝑏 ′ + 𝑏′′

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′ PoichĂŠ T(đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛â€˛) ≠T(đ?‘Žâ€˛) + T(đ?‘Žâ€˛â€˛) che si desume immediatamente da đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛ đ?‘? ′ + đ?‘Žâ€˛â€˛ + đ?‘? + đ?‘?′′ đ?‘?′ đ?‘?′′ ′′ ′ ′ ′′ ′ ′ ′ ′′ đ?‘Ž đ?‘? ≠đ?‘Ž + đ?‘Ž + đ?‘Ž đ?‘? + đ?‘Ž đ?‘? + đ?‘Žâ€˛ đ?‘? ′ + đ?‘Žâ€˛â€˛đ?‘?′′

4. T: đ?‘šđ?&#x;‘ â&#x;ś đ?‘šđ?&#x;? TX=( đ?’™đ?&#x;? + đ?’™đ?&#x;? − đ?’™đ?&#x;‘ ) Pongo đ?‘Ľ1 = đ?‘Ž, đ?‘Ľ2 = b e đ?‘Ľ3 = c. đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛â€˛ Siano (đ?‘?′) e (đ?‘?′′) due elementi dello spazio đ?‘… 3 . Su detti elementi opera la đ?‘?′ đ?‘?′′ trasformazione che manda detti vettori in uno scalare, ovvero in un elemento di R. Per la formalizzazione della legge di trasformazione si ha đ?‘Žâ€˛ đ?‘‡ đ?‘Žâ€˛ (đ?‘?′) → (a’ + b’ – c’) = T(đ?‘?′) đ?‘?′ đ?‘?′ đ?‘Žâ€˛â€˛ đ?‘‡ đ?‘Žâ€˛â€˛ (đ?‘?′′) → (a’’ + b’’ – c’’) = T(đ?‘?′′) đ?‘?′′ đ?‘?′′ đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛â€˛ T(đ?‘?′) + T(đ?‘?′′) = (a’ + b’ – c’) + (a’’ + b’’ – c’’) đ?‘?′ đ?‘?′′ đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛â€˛ Occorre determinare T(đ?‘? ′ + đ?‘?′′) = ((đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛) + (b’+b’’) + (c’+c’’)). đ?‘? ′ + đ?‘?′′ Occorre verificare se (a’ + b’ – c’) + (a’’ + b’’ – c’’) = ((đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛â€˛) + (b’+b’’) - (c’+c’’)). Si può ragionare sul primo membro avendo (a’ + b’ – c’) + (a’’ + b’’ – c’’) = a’ + b’ – c’ + a’’ + b’’ – c’’ = a’ + a’’ + b’ + b’’ – c’ – c’’ = (a’ + a’’) + (b’ +b’’) – (c’ + c’’). Ma questo è proprio il secondo membro, quindi la eguaglianza è provata. La seconda parte della dimostrazione è semplice in quanto la trasformazione ha come risultato uno scalare e moltiplicando uno scalare per un altro si ha sempre uno scalare, quindi un elemento di R. Coordinando i due punti si desume che la trasformazione T: đ?‘… 3 â&#x;ś đ?‘…1 TX=( đ?‘Ľ1 + đ?‘Ľ2 − đ?‘Ľ3 ) è una trasformazione lineare. 5. T: đ?‘šđ?&#x;‘ â&#x;ś đ?‘šđ?&#x;? TX=( đ?’™đ?&#x;? + đ?’™đ?&#x;? − đ?’™đ?&#x;‘ + đ?&#x;?) Pongo đ?‘Ľ1 = đ?‘Ž, đ?‘Ľ2 = b e đ?‘Ľ3 = c.

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đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛â€˛ Siano (đ?‘?′) e (đ?‘?′′) due elementi dello spazio đ?‘… 3 . Su detti elementi opera la đ?‘?′ đ?‘?′′ trasformazione che manda detti vettori in uno scalare, ovvero in un elemento di R. Per la formalizzazione della legge di trasformazione si ha đ?‘Žâ€˛ đ?‘‡ đ?‘Žâ€˛ (đ?‘?′) → (a’ + b’ – c’ + 2) = T(đ?‘?′) đ?‘?′ đ?‘?′ đ?‘Žâ€˛â€˛ đ?‘‡ đ?‘Žâ€˛â€˛ (đ?‘?′′) → (a’’ + b’’ – c’’ + 2) = T(đ?‘?′′) đ?‘?′′ đ?‘?′′ đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛â€˛ T(đ?‘?′) + T(đ?‘?′′) = (a’ + b’ – c’ + 2) + (a’’ + b’’ – c’’ + 2) = (a’ + b’ – c’) + (a’’ + b’’ – c’’) + 4 đ?‘?′ đ?‘?′′ = ((đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛) + (b’+b’’) + (c’+c’’)) + 4 đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛â€˛ T(đ?‘? ′ + đ?‘?′′) = ((đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛) + (b’+b’’) + (c’+c’’)) + 2. đ?‘? ′ + đ?‘?′′ đ?‘Žâ€˛ + đ?‘Žâ€˛â€˛ đ?‘Žâ€˛ đ?‘Žâ€˛â€˛ PoichĂŠ T(đ?‘?′) + T(đ?‘?′′) ≠T(đ?‘? ′ + đ?‘?′′) non si tratta di un omomorfismo. đ?‘? ′ + đ?‘?′′ đ?‘?′ đ?‘?′′

15.1 Matrice associata Una applicazione lineare da uno spazio vettoriale ad un altro può essere rappresentata da una matrice, quando siano fissate le basi nei due spazi. Essa è detta matrice associata.

15.2. Autovettori ed autovalori Dato uno spazio vettoriale di dimensione finita n su un campo K (R o C) e sia assegnata la base. Sia data la matrice quadrata di ordine n A = 〔đ?‘Žđ?‘– đ?‘˜ 〕si considera đ?‘Ľ1 đ?‘Ľ1 ‌ ‌ l’applicazione lineare definita da f(( ‌ )) = A( ‌ ) đ?‘Ľđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› đ?‘Ľ1 0 Viene definito autovettore, un vettore non nullo (‌‌ ) ≠(‌‌ ) per il quale valga la relazione đ?‘Ľđ?‘› 0 đ?‘Ľ1 đ?‘Ľ1 A(‌‌ ) = Îť(‌‌ ). Îť è un elemento di R o di C a seconda del campo su cui si opera (tali o đ?‘Ľđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› complessi).

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Îť è detto autovalore. đ?‘Ľ1 đ?‘Ľ1 ‌ ‌ Se ( ‌ ) è un autovettore allora anche k ( ‌ ) k ≠0 L’insieme i cui elementi sono tutti gli auto đ?‘Ľđ?‘› đ?‘Ľđ?‘› vettori è detto autospazio di Îť.

15.3 Equazione caratteristica e polinomio caratteristico Il calcolo degli autovalori si realizza utilizzando un noto teorema per il quale Îť è un autovalore della matrice A di ordine n se e solo se si ha: det(A – ÎťI) = 0, essendo I la matrice identitĂ di ordine n. Si omette la dimostrazione invero semplice. Il determinante det(A – ÎťI) è detto caratteristico della matrice A. L’equazione det(A – ÎťI) = 0 è detta caratteristica della matrice A. Detto determinante è scritto in forma detta sviluppata come segue: đ?‘Ž1,1 − đ?œ† â‹Ž det(A – ÎťI) = đ?‘‘đ?‘’đ?‘Ą ( đ?‘Žđ?‘›,1

â‹Ż â‹ą â‹Ż

đ?‘Ž1,đ?‘› â‹Ž ) đ?‘Žđ?‘›,đ?‘› − đ?œ†

Îť è considerabile come una indeterminata ottenendosi un polinomio in Îť, detto p(Îť), definito come polinomio caratteristico della matrice A. La sembianza di detto determinante in forma espansa si giustifica agevolmente dal fatto che moltiplicando I per Îť si ottiene una matrice diagonale avente gli elementi in diagonale tutti eguali đ?‘Ž1,1 − đ?œ† â‹Ż đ?‘Ž1,đ?‘› â‹Ž â‹ą â‹Ž a Îť. Facendo la differenza (A – ÎťI) = ( ). đ?‘Žđ?‘›,1 â‹Ż đ?‘Žđ?‘›,đ?‘› − đ?œ† 15.4 Esempio di calcolo di autovalori e autovettori A=(

1)

Da A = (

đ?&#x;? đ?&#x;Ž

đ?&#x;“ ) đ?&#x;‘

1 5 1−đ?œ† ) đ?‘ đ?‘– â„Žđ?‘Ž A – ÎťI = ( 0 3 0

5 ) 3− đ?œ†

Trattando Îť come una variabile si ha p(Îť) = (1-Îť)(3 – Îť) – 5*0 = 3 – Îť - 3Îť + đ?œ†2 ovvero p(Îť) = đ?œ†2- 4Îť + 3. Occorre ora determinare i Îť : p(Îť) = 0. Si ha đ?œ†2- 4Îť + 3 = 0, ovvero đ?œ†1,2 =

22

− (−4)Âąâˆš(−4)2 −4(1)(3) (2)(1)

=

4Âąâˆš16 −12 2

=

4Âą2 2

da cui đ?œ†1 = 6/2 = 3 e đ?œ†2 = 2/2 = 1


�1 �1 Deve essere A(‌‌ ) = Ν(‌‌ ). �� �� �1 5 �1 ) (� ) = 3(� ) 2 2 3

1 0

Nel caso in esame ( đ?‘Ľ + 5đ?‘Ľ2 ( 1 3đ?‘Ľ2

đ?‘Ľ1 0 đ?‘Ľ + 5đ?‘Ľ2 ) = 3(đ?‘Ľ ) â&#x;ž 1 0 3đ?‘Ľ2 2

= =

3đ?‘Ľ1 3đ?‘Ľ2 5

5 5 Da đ?‘Ľ1 + 5đ?‘Ľ2 = 3đ?‘Ľ1 â&#x;ž 5đ?‘Ľ2 = 2đ?‘Ľ1 â&#x;ž đ?‘Ľ1 = 2 đ?‘Ľ2 â&#x;ž X = ( 2 ) X = ( ) ma in generale X = k( ). 2 2 1 5

Da 3đ?‘Ľ2 = 3đ?‘Ľ2 si evince che đ?‘Ľ2 può assumere qualunque valore. Detta eguaglianza è vera per ogni đ?‘Ľ2 Va ora considerato il caso Îť = 1. đ?‘Ľ1 5 đ?‘Ľ1 ) (đ?‘Ľ ) = 1(đ?‘Ľ ) 2 2 3

1 0

Nel caso in esame ( đ?‘Ľ + 5đ?‘Ľ2 ( 1 3đ?‘Ľ2

đ?‘Ľ1 0 đ?‘Ľ + 5đ?‘Ľ2 ) = 1(đ?‘Ľ ) â&#x;ž 1 0 3đ?‘Ľ2 2

= 1đ?‘Ľ1 = 1đ?‘Ľ2

In questo caso 3đ?‘Ľ2 = 1đ?‘Ľ2 â&#x;ž đ?‘Ľ2 = 0. 1 Pertanto X = k( ) 0

2)

đ?&#x;? đ?&#x;?

đ?&#x;— ) đ?&#x;?

A=A=(

Da A = (

2 9 2−đ?œ† ) đ?‘ đ?‘– â„Žđ?‘Ž A – ÎťI = ( 1 2 1

9 ) 2− đ?œ†

Trattando Îť come una variabile si ha p(Îť) = ( 2 − đ?œ†)2 – 9. L’equazione caratteristica si ottiene ponendo p(Îť) = 0 ovvero ( 2 − đ?œ†)2 – 9 = 0 4 - 4Îť + đ?œ†2 − 9 = 0 da cui đ?œ†2 - 4đ?œ† - 5 = 0. Usando la formula risolutiva si ha đ?œ†1,2 = − (−4)Âąâˆš(−4)2 −4(1)(−5) (2)(1)

=

4Âąâˆš(−4)2 −4(1)(−5) (2)(1)

=

4Âąâˆš36 2

=

4Âą6 2

si ottiene đ?œ†1 = 5 e đ?œ†2 = - 1.

Considero il caso đ?œ†1 = 5. (

đ?‘Ľ1 2 9 đ?‘Ľ1 ) (đ?‘Ľ ) = 5(đ?‘Ľ ) 1 2 2 2

2đ?‘Ľ + 9đ?‘Ľ2 ( 1 đ?‘Ľ1 + 2đ?‘Ľ2

đ?‘Ľ1 0 ) = 5(đ?‘Ľ ) 0 2

Si ha il seguente sistema lineare di due equazioni in due incognite.

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2�1 + 9�2 = 5�1 �1 + 2�2 = 5�2 meglio riscrivibile come 9�2 = 3�1 �1 = 3�2 Due modi equivalenti di dire la stessa cosa‌ Posso porre �2 = 1 avendo �1 = 3�2 = (3)(1) = 3 3 Pertanto X = k( ) 1

Considero ora il caso đ?œ†2 = - 1. (

đ?‘Ľ1 2 9 đ?‘Ľ1 ) (đ?‘Ľ ) = (-1)(đ?‘Ľ ) 1 2 2 2

2đ?‘Ľ + 9đ?‘Ľ2 ( 1 đ?‘Ľ1 + 2đ?‘Ľ2

đ?‘Ľ1 0 ) = (-1)(đ?‘Ľ ) 0 2

Si ha il seguente sistema lineare di due equazioni in due incognite. 2đ?‘Ľ1 + 9đ?‘Ľ2 = -đ?‘Ľ1 â&#x;ž 3đ?‘Ľ1 = - 9đ?‘Ľ2 ovvero đ?‘Ľ1 = - 3đ?‘Ľ2 đ?‘Ľ1 + 2đ?‘Ľ2 = - đ?‘Ľ2 â&#x;ž đ?‘Ľ1 = - 3đ?‘Ľ2 Questo sistema ha infinite soluzioni oltre a quella degenere đ?‘Ľ2 = 0. X = k(

−3 ) 1

16. Noticella sulle operazioni binarie Una operazione binaria in un insieme S è una funzione da SXS a S. Una operazione binaria ⨳ è detta associativa se e solo se (∀x, y, z ∈ S) ⨳(x, ⨳(y,z)) = ⨳(⨳(x,y), z). Essa è commutativa se e solo se (∀x, y, z ∈ S) ⨳(x, y) = ⨳ (y, x). Un elemento u ∈ S è detto elemento neutro (identity or unit) se (∀x ∈ S) si ha ⨳(u,x) = ⨳(x, u) = x. Un elemento z è detto elemento 0 per l’operazione ⨳ se (∀x ∈ S) si ha ⨳(z,x) = ⨳(z, u) = z. Vengono definiti il neutro sinistro e il neutro destro. Il primo quando (∀x ∈ S) si ha ⨳(u,x) = x. Il secondo quando (∀x ∈ S) si ha ⨳(x, u) = x. La condizione di commutativitĂ (ovvero se essa vige) fa si che neutro sinistro e neutro destro coincidano. Identity e l’elemento zero per ⨳ se esistono sono unici (e non eguali tra loro).

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Ho sintetizzato il § 8.1 dei Fundamentals of Abstract Analysis (di A. M. Gleason, Harvard University). A titolo applicativo ho sviluppato il terzo esercizio del § citato. Quale delle seguenti operazioni binarie definite sugli ordinari numeri sono associative? Commutative? Hanno elemento neutro a sinistra? Hanno elemento neutro a destra? Zero a sinistra? Zero a destra? L’autore ha in teso riferirsi all’insieme R salvo il caso sub f). a)

(x, y)â&#x;ś x

non commutativitĂ : infatti (y, x) â&#x;ś y ≠x elemento neutro: (u, y) â&#x;ś u mentre (x, u) â&#x;ś x ≠u. Però se u = x si ha (u, y ) â&#x;ś u ma anche in questo caso (y, u) = y ≠đ?‘Ľ = đ?‘˘. ∃ u per (x, y) : x = y e solo in questo caso. Zero a sinistra e zero a destra. (0, φ) â&#x;ś 0 âˆ€Ď† ∈ R. A destra si avrebbe (φ, 0) â&#x;ś φ. Ma in generale φ≠0. Non esiste uno zero, ma esiste uno zero a sinistra. Lo zero a destra si avrebbe solo nel caso degenere (0, 0) â&#x;ś 0. AssociativitĂ : Siano date le coppie (x’, y’) (x’’, y’’) e (x’’’, y’’’). max ((x’,y’) , max( (x’’, y’’), (x’’’, y’’’) = max ( max((x’, y’), (x’’ , y’’)) , (x’’’ , y’’’)). Sia max (x,y) = a, max(x’’, y’’) = b e sia max(x’’’, y’’’) = c. Con queste sostituzioni possiamo dire che max ((x’,y’) , max( (x’’, y’’), (x’’’, y’’’) = max ( a, max ( b, c). Ma anche max ( max((x’, y’), (x’’ , y’’)) , (x’’’ , y’’’)) = max( max(a, b), c). Verifico se max ( a, max ( b, c)) = max( max(a, b), c). A questo punto posso reiterare il ragionamento ponendo max(b, c) = d e max (a,b) = e, avendo max( a, d) = max (e , b). Si ha: a = e = max(a, b) e b = d = max (b,c)

b)

(x, y) â&#x;ś │x – y│

commutativitĂ : infatti (x, y) â&#x;ś │x – y │ ma anche (y, x) â&#x;ś │y – x │= │x- y│â&#x;ľ (x, y) elemento neutro: (u, φ) â&#x;ś │u – φ │= │φ - u│â&#x;ľ (φ, u). ∃ u neutro per la data operazione âˆ€Ď† Ricerca degli eventuali zeri. (0, φ) â&#x;ś │0 – φ │= │– φ │≠0 âˆ€Ď† : φ ∈ R - âŚƒ0⌄. Il numero reale 0 non è uno zero sinistro per l’operazione data. Verifico ora a destra (φ, 0) â&#x;ś │φ - 0 │= │ φ │≠0 âˆ€Ď† : φ ∈ R - âŚƒ0⌄. Il numero reale 0 non è uno zero sinistro per l’operazione data. Occorre verificare se può esistere un Ď„ ≠0 : │τ – φ │ = │ φ - Ď„ │= Ď„. Tali relazioni non sono vere in generale ma solo per φ = 0 e per Ď„ ⊞ 0.

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AssociativitĂ . Sia dato un z ∈ R. (y , z) â&#x;śâ”‚y – z│ (x, │y – z│) â&#x;ś │ x - │y – z││ (│x - y│ , z) â&#x;ś ││x-y│ - z │ Per verificare se la legge è associativa bisogna che sia │ x - │y – z││= ││x-y│ - z │ Essa ha un senso quando contemporaneamente è x - │y – z│> 0 e │x-y│ - z > 0 ovvero x > │y – z│ e │x-y│ > z. Ma sono egualmente ammissibili i casi in cui sia x - │y – z│< 0 e │xy│ - z < 0. Per togliermi di impiccio ai fini della validitĂ dell’ipotesi della associativitĂ la condizione deve valere ∀ z quindi anche per z = 0. Occorre verificare che │ x - │y – z││= ││x-y│ - z │vale ∀ z quindi anche per z = 0. Per mera sostituzione si ha │ x - │y – 0││= ││x-y│ - 0 │â&#x;ž │ x - │y ││= ││x-y││â&#x;ž │ x - │y ││= │xy│. Se y > 0 si ha │ x - y │= │ x - y│ . Ma per y < 0 │ x - (-y) │ = │x -y│, si avrebbe │ x + y) │ = │x -y│. Ho concluso nel senso della non associativitĂ .

(x, y) â&#x;ś x + y + xy

c)

commutativitĂ : (x, y) â&#x;ś x + y + xy ma anche (y, x) â&#x;ś y + x + yx La condizione di commutativitĂ della data operazione è data da x + y + xy = y + x + yx (vera per la commutativitĂ di + e * in R). Definizione del neutro. (u, φ) â&#x;ś u + φ + uφ. Considero ora (φ, u) = φ + u + φu. La esistenza è garantita dalla commutativitĂ della somma e del prodotto infatti u + φ = φ + u ed anche uφ = φu. Zero a sinistra e zero a destra. Verifico se Ď„ è zero a sinistra. Si ha (Ď„, φ) dovendo essere Ď„+ φ + τφ = Ď„ â&#x;ž φ + τφ = 0 â&#x;ž τφ = - φ â&#x;ž Ď„ = - 1. Esiste a sinistra. Verifico se esso esiste a destra. Considero la coppia di reali qualunque (Îą, β) â&#x;ś Îą+β + ιβ. Affinchè sia β uno zero della operazione assegnata deve risultare Îą+β + ιβ = β â&#x;ž Îą+ ιβ = 0 â&#x;ž Îą = - ιβ â&#x;ž 1 = - β â&#x;ž đ?›˝ = −1. PoichĂŠ Ď„ = β = - 1 allora (-1) è uno zero dell’operazione. Verifica della associativitĂ . Da (x, y) â&#x;ś x + y + xy considero (y, z) â&#x;ś (y + z + yz). (x, y +z + yz) â&#x;ś x + (y + z + yz) + x(y+z+yz) = x + y + z + yz + xy + xz + xyz. Considero ora (x +y + xy , z) â&#x;ś (x+y+xy) + z + (x+y+xy)z = x + y + xy + z + xz + yz + xyz. Si è ben evidenziata la associativitĂ .

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d)

(x, y) â&#x;ś xy – 2x – y + 4

Non commutativitĂ . Ragionando come sopra si evidenzia che xy – 2x – y + 4 ≠yx – 2y – x + 4 â&#x;ľ (y, x). Ricerca del neutro. (u, y) â&#x;ś uy – 2u – y + 4, ed anche (y, u) = yu – 2y – u + 4. Da 2u + y = 2y + u si ha u = y. Ha senso per x = y. Zero a sinistra. Dovrebbe risultare xy – 2x – y + 4 = x â&#x;ž xy – 3x – y + 4 = 0. Tale relazione non è vera in generale. Da (x, y) â&#x;ś xy – 2x – y + 4 si ha (y, z) = yz -2y – z + 4 (x, yz – 2y – z +4) = x(yz -2y – z +4) – 2x – (yz – 2y – z +4) + 4 = xyz -2xy – xz + 4x – 2x – yz + 2y + z – 4 + 4 = xyz – 2x – xz + 2x – yz + 2y + z = đ?œ‘1 (x, y, z) (xy – 2x – y + 4 , z) = (xy – 2x – y + 4)z – 2(xy – 2x – y + 4) – z + 4 = xyz – 2xz – yz +4z – 2xy + 4x +2y – 8 – z + 4 = xyz – 2xz – yz +4z – 2xy + 4x +2y – 4 – z = đ?œ‘2 (x, y, z). Ma đ?œ‘1 (x, y, z) ≢ đ?œ‘2 (x, y, z), nel senso che i polinomi nelle indeterminate reali x, y, z non sono coincidenti, nel senso di Abel. Desumo la non associativitĂ .

e)

(x , y) â&#x;ś xy + y – 1

Non commutativitĂ . Infatti xy + y – 1≠yx + x – 1 â&#x;ľ (y, x). Neutro. (u, y) â&#x;ś uy + y -1 ed anche (y, u) = yu + u – 1. Situazione analoga alla precedente. Zeri. x è uno zero sinistro se xy + y -1 = x â&#x;ž yx – x + y – 1 = x(y-1) +(y-1) = (y-1)(x+1) = 0 per x = - 1 y = 1, oppure x = -1 e ∀ y o anche per y = 1 con x qualunque. Zero desto è y tale che xy + y – 1 = y â&#x;ž xy = 1. Non è definito lo zero per detta operazione. Verifica della associativitĂ . (y, z) → yz + z – 1, (x, yz + z -1) → x(yz + z – 1) + yz + z – 1 – 1. Ma (x , y) â&#x;ś xy + y – 1 e quindi (xy + y – 1, z) → (xy + y – 1)z + z – 1 = xyz + yz –z + z – 1 = xyz + yz – 1. Osservo che x(yz + z – 1) + yz + z – 1 – 1 = xyz + xz + x + yz + z ≠xyz + yz – 1 â&#x;ž non associativitĂ .

f)

(x, y) â&#x;ś √đ?’™đ?&#x;? + đ?’šđ?&#x;? con x e y non negativi

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CommutativitĂ . Infatti si ha (x, y) â&#x;ś √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 = √đ?‘Ś 2 + đ?‘Ľ 2 â&#x;ľ (y,x). Osservo che √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 = √đ?‘Ś 2 + đ?‘Ľ 2 è garantita dalla commutativitĂ della somma di numeri reali. Esistenza del neutro. (u, y) â&#x;ś √đ?‘˘2 + đ?‘Ś 2 = √đ?‘Ś 2 + đ?‘˘2 â&#x;ľ( y, u) vera ∀y ⊞ 0. Uno zero per detta operazione non può esistere infatti dovrebbe essere │x│ = √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 = √đ?‘Ś 2 + đ?‘Ľ 2 = │y│. Ma essa è vera quando │x│ =│y│. Ma da essa nasce una assurditĂ in quanto │x│ = √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 â&#x;ž y = 0. Ma allora dovrebbe essere │y│= 0. Caso degenere. Per le posizioni fatte si evidenzia che √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 = √đ?‘Ś 2 + đ?‘Ľ 2 = đ?œ > 0. Ma nel caso piĂš generale đ?œ ≠│y│ . Per x > 0 e nel caso generale y > 0 si non può essere che x è uno zero per l’operazione assegnata in quanto √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 = đ?œ > │x│. Stessa riflessione vale per si ammetta sia y uno zero destro. OSSERVAZIONE. Relativamente alla ricerca degli zeri si può affermare che non esiste uno zero per una operazione assegnata quando si è provato che non esiste lo zero a sinistra oppure quando si è verificata la inesistenza dello zero da destra. Verifica della associativitĂ dell’operazione binaria (x, y) â&#x;ś √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 con x e y non negativi. Sia dato uno z ∈ R. Si ha (y, z) â&#x;ś √đ?‘Ś 2 + đ?‘§ 2 Considero ora (x, √đ?‘Ś 2 + đ?‘§ 2 ) → √đ?‘Ľ 2 + (√đ?‘Ś 2 + đ?‘§ 2 )2 = √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 + đ?‘§ 2 . Da (x, y) â&#x;ś √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 ottengo (√đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 , z ) → √(√đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 )2 + đ?‘§ 2 = √đ?‘Ľ 2 + đ?‘Ś 2 + đ?‘§ 2 . La legge è associativa.

(x, y) â&#x;ś max (x, y)

g)

CommutativitĂ . Se (x, y) â&#x;ś max (x, y) allora (y,x) = max (y, x). Ma max(x, y) = max (y, x). Tra due numeri x ed y il massimo è invariate rispetto all’ordine di essi. Max(a, b) = a = b quando a = b. Neutro. (u, β) â&#x;ś max( u, β) = max (β, u) â&#x;ľ (β, u). La ricerca dello zero non è sensata in quanto lo zero sinistro esiste se e in quanto max(a, b) = a, ovvero quando il massimo coincide con la prima componente. Sotto questa condizione non può esistere lo zero sinistro. Questo caso è sufficiente ad evidenziare che non esiste lo zero. AssociativitĂ . (x, y) â&#x;ś max (x, y) ed anche (y, z) â&#x;ś max (y, z). Ammetto esso sia đ?‘š1 = max (y, z). (x, đ?‘š1 ) → max (x, đ?‘š1 ) = đ?‘š2 Considero ora max (x, y) = đ?‘š0 determino quindi max(đ?‘š0 , z) = đ?‘š3 . Affinchè la legge sia associativa deve essere đ?‘š2 = đ?‘š3 . Si molto semplicemente perchĂŠ nei vari confronti tra le variabili si ottiene sempre il max e confrontando detto max con la rimanente variabile si “ottieneâ€? sempre max.

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Ovviamente đ?‘š2 = đ?‘š3 vale o x, o y o z. Ammettendo noto đ?‘š2 = đ?‘š3 = đ?‘§ (in ragione di ciò si avrebbe (đ?‘š2 = đ?‘š3 = đ?‘§) â&#x;ş x < z, y < z)) si avrebbe đ?‘š0 < z. Non ho considerato relazioni del tipo x ≤ y.

h)

(x, y) â&#x;ś max (đ?’™đ?&#x;? - y, đ?’šđ?&#x;? - x)

Da (x, y) â&#x;ś max (đ?‘Ľ 2 - y, đ?‘Ś 2 - x) si ha (y, x) â&#x;ś max (đ?‘Ś 2 - x, đ?‘Ľ 2 - y) Essa è commutativa perchĂŠ in generale max (a, b) = max (b,a). Elemento zero. Esso non esiste. (x, y) â&#x;ś max (đ?‘Ľ 2 - y, đ?‘Ś 2 - x) = đ?‘Ś 2 – x che non è vero in generale. Infatti esistono coppie (x , y) : đ?‘Ľ 2 – y > đ?‘Ś 2 – x. Non si ha lo zero destro. Quindi non esiste lo zero. Neutro a destra. (x, u) = x ovvero (x , y) â&#x;ś max (đ?‘Ľ 2 - y, đ?‘Ś 2 - x) = đ?‘Ľ 2 – y. Non è detto in quanto possono esistere (x , y) : đ?‘Ś 2 – x > đ?‘Ľ 2 – y. In generale non esiste neutro.

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I GRANDI MATEMATICI DEL PASSATO Nikolaj Ivanovic Lobacevskij

Questa figura è un modo elementare e visivo per evidenziare le geometrie non euclidee (le prime due rappresentazioni) rispetto alla geometria euclidea. Un posto centrale nell’elaborazione delle geometrie non euclidee ha avuto lo studio e le riflessioni dei matematici su un postulato della geometria di Euclide.

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La geometria euclidea è quella che tutti noi abbiamo studiato a scuola. Essa si basa sui cinque postulati di Euclide, enunciati negli Elementi (primo libro). Li vorrei enunciare anche se essi sono ben noti. 1) Tra due punti del piano (del piano o dello spazio) passa una ed una sola retta; 2) In segmento è prolungabile indefinitamente; 3) Dato un punto e un lunghezza è possibile descrivere un cerchio; 4) Tutti gli angoli retti sono congruenti tra loro; 5) Se una retta che taglia due rette determina dallo stesso lato angoli interni minori di due angoli retti, prolungando le due rette, esse si incontrano dalla stessa parte dove i due angoli sono minori di due retti. La formulazione più nota del 5) è che per un punto esterno ad una retta data passa una ed una sola parallela alla retta data. Detto postulato vale sia per il piano che per lo spazio. Da questi postulati discendono tutti i teoremi noti della geometria del piano e dello spazio. Per secoli questi punti di partenza apparivano inconfutabili. Ma già Euclide aveva avuto una certa riluttanza ad usare il V postulato nelle sue dimostrazioni. Fu col Saccheri, matematico gesuita del XVII secolo, che si posero le basi delle geometrie non euclidee, ovvero di impostazioni coerenti che dalla negazione del V postulato portavano alla costruzione di edifici logico-matematici alternativi ma coerenti. Saccheri voleva dimostrare il postulato euclideo della unicità per assurdo, evidenziando che dalla sua negazione sarebbe sorta una invalidità non sanabile (una contraddizione) che avrebbe a contrariis dimostrato valido il postulati di Euclide. Egli non comprese che così facendo avrebbe posto le basi per le geometrie non euclidee. È ben nota la rappresentazione dei quadrilateri di Saccheri che prevede tre casi incompatibili: l’ipotesi dell’angolo retto (coerente con la geometria euclidea) e le ipotesi dell’angolo ottuso e dell’angolo acuto. Relativamente al fatto che l’ipotesi dell’angolo acuto fosse confutabile veniva indicata come non valida pure il non limitabile prolungamento del segmento. Ho trovato abbastanza “oscuro” il contenuto del paragrafo della voce Wikipedia relativo a Giovanni Girolamo Saccheri.

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È un po’ come se osservando la gaussiana con introduzione di una restrizione del suo domino dovessi dire che essa non è prolungabile all’infinito, risultando l’asse delle ascisse un asintoto orizzontale. La geometria elaborata da Lobacevskij (e da Bolay) soddisfa i primi quattro postulati euclidei ma non il quinto che quindi è indipendente. Nella geometria di Lobacevskij il V postulato di Euclide è sostituito dal seguente: Data una retta r ed un punto P : P ∉ r esistono almeno due rette passanti per P e parallele a r. Si opera su un piano detto iperbolico. Esistono diversi modelli atti a descrivere la geometria iperbolica. Uno di essi è il disco di Poincaré: lo spazio iperbolico è costituito dai punti interni ad un circolo C. Le rette vengono rappresentate dagli archi di circonferenza che intersecano il bordo perpendicolarmente. Tale angolo retto è pure l’angolo tra la perpendicolare nel punto di comune tra la retta tangente la circonferenza, non dello spazio euclideo e la retta euclidea ortogonale ad essa e passante per il punto del circolo.

Data una retta iperbolica τ (i cui punti p sono tali che p ∈ C) allora esistono infinite rette iperboliche passanti per un p’ ≠ p tali che esse sono parallele alla retta τ. Nel modello di Klein le rette iperboliche sono disegnate come fossero segmenti. Al di là di quello che si potrebbe pensare osservando le figure gli estremi delle rette iperboliche vanno pensati all’infinito. La nozione iperbolica di parallelismo è più complessa di quella euclidea. Si ammetta di avere una retta L. Si consideri un punto P ∉ L. Da P si considera una retta euclidea che interseca in B la retta L. Ogni retta iperbolica che passa per P e non ha punti in comune con L è una parallela. Ognuna di esse forma un angolo θ con la retta per i punti P e B. θ è detto angolo di parallelismo. Risultano parallele ad L tutte e sole le rette aventi angoli ψ: ψ∈⦋θ , π- θ ⦌.

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Nella geometria iperbolica la nozione di parallelismo non è una relazione di equivalenza. Non vale la proprietà transitiva. Una relazione di equivalenza è una relazione tra elementi di un insieme che gode delle proprietà commutativa, riflessiva e transitiva. Se a e b sono elementi di un insieme la relazione r è di equivalenza se R(a,b) = R(b,a) è vero che R(a, a) ed anche ( R(a,b) e R(b,c) ⟾ R(a,c). È facile convincersi che nel mondo euclideo la relazione di parallelismo è una relazione di equivalenza nel senso che se una retta a è parallela a una retta b è anche vero che la retta b è parallela alla retta e, e che ogni retta può considerarsi parallela a se stessa. Ma è anche vero che se a e b sono parallele tra loro e pure b e c son parallele tra loro (proprietà transitiva). Nel contesto iperbolico questa ultima asserzione è infondata. Se si può dire che vale la simmetria per la quale se una retta iperbolica è parallela ad un’altra e che vale il viceversa e che non nascono problemi nel considerare una retta iperbolica parallela a se stessa, già il disegnino che evidenzia il parallelismo iperbolico inficia la transitività. Infatti se x e y sono due delle infinite rette passanti per P (non punto di L) e se è vero che entrambe sono parallele alla L è immediato che la transitività che imporrebbe x ed y parallele tra loro è viziata insanabilmente dal fatto che esse passano per il comune punto P. Avendo esse un punto in comune non possono essere parallele. Non vigendo la proprietà transitiva la relazione di parallelismo iperbolico non può essere una relazione di equivalenza. Ho mutuato questo appunto dalla voce Geometria iperbolica di Wikipedia con evidenti semplificazioni e qualche mia integrazione.

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L’ANGOLO DEL FISICO Dall’accelerazione alla posizione. Il problema cinematico inverso

1. L’integrale indefinito L’integrale indefinito di una funzione è una funzione. PiĂš precisamente è quella funzione che derivata riproduce la funzione data. L’integrazione è l’operazione inversa della derivazione, ed è detta anche antiderivazione. GiĂ studiando la derivazione di era evidenziato che derivando una funzione si otteneva una nuova funzione (quando possibile‌) e che la stessa funzione (derivata) la si otteneva derivando la funzione f(x) + k, ove k è un qualunque numero reale. La figura sottostante che ho rinvenuto in Internet ben evidenzia questo stato di cose.

Il simbolo âˆŤ đ?‘“(đ?‘Ľ)đ?‘‘đ?‘Ľ è detto integrale indefinito della funzione f(x) detta funzione integranda. La lettera C della figura indica una costante reale, anche nulla.

âˆŤ đ?‘“(đ?‘Ľ)đ?‘‘đ?‘Ľ = P(x) è detta funzione primitiva perchĂŠ derivandola si ottiene la funzione f(x). Se P(x) è una primitiva di f(x) tutte le primitiva si esprimono come P(x) + C. Ăˆ immediato ricordare che đ??ˇđ?‘Ľ C = 0.

Queste questioni saranno riprese nel prossimo numero nelle PILLOLE MATEMATICHE

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2. L’integrale definito đ?‘?

L’integrale definito è un numero. La scrittura âˆŤđ?‘Ž đ?‘“(đ?‘Ľ)đ?‘‘đ?‘Ľ ha un ben noto significato geometrico, quello di area della superficie delimitata dalla curva f(x) e dalle rette verticali y = a e y = b. a e b sono detti estremi di integrazione. Le f(x) di pertinenza cinematica sono solitamente continue. Ciò consente di avere grandezze cinematiche istantanee. Anche su queste questioni bisognerĂ approfondire nel prossimo numero nella rubrica PILLOLE MATEMATICHE. đ?‘?

Per ora si può solo scrivere âˆŤđ?‘Ž đ?‘“(đ?‘Ľ)đ?‘‘đ?‘Ľ = P(b) – P(a). In pratica data f(x) si determina la corrispondente primitiva (o antiderivata) đ?‘?

ammettendo C = 0, quindi si ammette âˆŤđ?‘Ž đ?‘“(đ?‘Ľ)đ?‘‘đ?‘Ľ = P(b) – P(a). Questi passaggi saranno ben formalizzati in quanto costituiscono il corollario (di Torricelli) del teorema fondamentale del calcolo.

3. Il problema cinematico inverso Nel precedente ANGOLO DEL FISICO si era osservato che data una funzione di posizione la sua derivata temporale definiva la velocitĂ istantanea e derivando ulteriormente si arrivava alla accelerazione istantanea. Ăˆ ben evidente che potrebbe darsi il caso opposto ovvero di dover a partire dalla accelerazione (o dalla velocitĂ ) giungere a dover definire la posizione all’istante t. Schematicamente si ha: đ?‘‘đ?‘“đ?‘– ′ (đ?‘Ą) đ?‘‘đ?‘Ą

r(t) →

� � ′ (�) �� �

v(t) →

âˆŤ đ?‘“′′đ?‘– đ?‘‘đ?‘Ą+ đ?‘?đ?‘–

a(t) →

âˆŤ đ?‘“′đ?‘– đ?‘‘đ?‘Ą+ đ?‘˜đ?‘–

v(t) →

r(t)

Questa rappresentazione potrĂ essere chiarita con esempi.

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4. Esempi di problemi cinematici inversi Al solito ragioneremo in đ?‘… 3 . Ammettiamo sia nota a(t), quindi sono note le tre funzioni scalari nel dominio del tempo. Nota a(t) risultano note pure le componenti scalari, ovvero risultano note đ?‘“′′đ?‘– đ?‘‘đ?‘Ą , ove i =1, 2, 3. I valori đ?‘?đ?‘– sono le condizioni iniziali riferite alle tre componenti, quindi si tratta delle velocitĂ misurate lungo i tre assi ove si ammetta di scomporre il moto secondo direzioni ortonormali. Ecco quindi il significato della introduzione di un vettore C = đ?‘?1 đ?’Š + đ?‘?2 đ?’‹ + đ?‘?3 đ?’Œ. Pertanto v(t) = âˆŤ đ?’‚(đ?’•) dt = âˆŤ(đ?‘Ž1(t)i + đ?‘Ž2 (t)j + đ?‘Ž3 (t)k) dt = đ??´1 (t)i + đ??´2 (t)j + đ??´3 (t)k + C. In pratica đ?‘?đ?‘– = đ?‘Łđ?‘– (0). Per il formalismo usato đ??´đ?‘– devono intendersi le primitive per C = 0. In pratica si bypassa il corollario di Torricelli, poi si considera C dato. In modo del tutto analogo si evidenzia che r(t) = âˆŤ đ?’—(đ?’•) dt = âˆŤ(đ?‘Ł1(t)i + đ?‘Ł2 (t)j + đ?‘Ł3 (t)k) dt = đ?‘‰1(t)i + đ?‘‰2(t)j + đ?‘‰3(t)k + r(0). r(0) denota la posizione iniziale del corpo. Ho rielaborando utilmente mutuando da Stewart, Calcolo. Funzioni di piĂš variabili, Apogeo. Ăˆ molto utile usare le seguenti formule (Stewart, op. cit.) che presuppongono l’uso del corollario di Torricelli. đ?‘Ą

v(t) = v(đ?‘Ą0 ) + âˆŤđ?‘Ą đ?’‚(Ď„)dĎ„ đ?‘œ

đ?‘Ą

r(t) = r(đ?‘Ą0 ) + âˆŤđ?‘Ą đ?’—(Ď„)dĎ„ đ?‘œ

Ď„ è solo un modo alternativo di denotare il tempo evitando di confondere t usato negli estremi di integrazione.

Posso esemplificare considerando un semplice esercizio proposto dallo Stewart (op. cit.). Una particella parte dall’origine con velocitĂ i – j + 3k. La sua accelerazione è a(t) = 6ti + 12đ?’•đ?&#x;? – 6tk. Trovare la sua posizione. Per i dati del problema si ha: v(0) = i – j + 3k . Si ha v(t) = âˆŤ đ?’‚(đ?’•) dt = âˆŤ(đ?‘Ž1 (t)i + đ?‘Ž2 (t)j + đ?‘Ž3 (t)k) dt = âˆŤ 6đ?‘Ąi + 12đ?‘Ą 2 j – 6t k) dt = đ??´1 (t)i + đ??´2 (t)j + đ??´3 (t)k + v(0) = đ??´1 (t)i + đ??´2 (t)j + đ??´3 (t)k + (i – j + 3k) = 3đ?’•đ?&#x;? i + 6đ?‘Ą 3 j - 3đ?‘Ą 2 k + (i – j + 3k) = (3đ?‘Ą 2 + 1)i + (6đ?‘Ą 3 -1)j +3(1 - đ?‘Ą 2 )k .

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DIAMO I NUMERI La definizione dei numeri reali, le loro proprietĂ e i numeri complessi

1. La definizione del numero reale Il metodo piĂš noto per definire i numeri reali è quello delle partizioni di Dedeking (matematico tedesco dell’Ottocento). Esso è basato (Citrini, Analisi matematica I, BB) sulla idea che “un numero reale è noto quando siano note tutte le sue approssimazioni razionali, per difetto e per eccessoâ€?. Richard Dedeking definĂŹ il concetto di sezione del campo razionale. I razionali costituiscono un campo abeliano. In pratica si considera l’insieme Q dei numeri razionali. Quindi si ammette di separare gli elementi di Q in due sottoinsiemi propri di esso. Ciò avviene con la regola che ogni elemento di Q appartenga all’uno a all’altro di detti sottoinsiemi (che quindi sono non vuoti). La separazione dei razionali e quindi la loro appartenenza ad uno dei due sottoinsiemi ubbidisce ad una regola molto semplice. Va preliminarmente osservato che nell’insieme Q è definita una relazione d’ordine (stretta e totale) che poi di fatto conduce alla tricotomia. Ăˆ quindi possibile dire che dati due razionali Îą e β è vera una ed una soltanto delle tre relazioni Îą < β, Îą = β, Îą > β. Ciò conduce naturalmente a definire il criterio (oggettivo) di attribuzione dei razionali agli insiemi A e B. A = âŚƒâˆ€Îą : Îą ∈ Q e Îą < β ∀đ?›˝ âˆś đ?›˝ ∈ đ?‘„ ⌄; B = âŚƒâˆ€β : β ∈ Q e β >Îą ∀đ?›ź âˆś đ?›ź ∈ đ?‘„ ⌄. Nel linguaggio insiemistico si dice che A e B definiscono una partizione dei razionali. Infatti AâˆŞB = Q A∊B = ∅ Alcune di queste sezioni contengono un elemento separatore. Si ammetta esista un đ?›źđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ ∈ A oppure un đ?›˝đ?‘šđ?‘–đ?‘› ∈ B. Sia đ?œ? l’elemento di separazione. Vale una ed una sola delle seguenti ipotesi Ď„ = đ?›źđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ oppure Ď„ = đ?›˝đ?‘šđ?‘–đ?‘› . Ho constatato (Citrini, op cit.) che per semplificare la trattazione di introduce una condizione addizionale per la quale B non ha minimo, ovvero B non ha minimo.

37


Potrebbe però capitare che non esistano supA e inf B. In questo caso non esiste l’elemento separatore, bensĂŹ una lacuna. Alla lacuna corrisponde un numero irrazionale. Credo eccessivo formalizzare completamente la definizione di numero reale. Ăˆ opportuno che in generale per numero reale si intende una sezione dei numeri razionali nell’ipotesi B non ha minimo. Un numero reale è definito da una sezione. Per esempio x = (A,B) si intende il numero reale x definito dalla partizione A,B ove B è privo di minimo, mentre y = C,D) si intende il numero reale x definito dalla partizione C, D ove D è privo di minimo. A = C â&#x;ž x = y (piĂš ampiamente si tratta di una complicazione). Ho lasciato â&#x;ž perchĂŠ geneticamente il numero è definito da una sezione. Nell’insieme R dei reali vige la relazione di ordine stretto < e totale (valida senza limitazioni nei possibili confronti) per la quale x < y. Dal punto di vista formale A ⊂ C â&#x;ž x < y. Essa è sensata in quanto se A ⊂ C allora C contiene tutti gli elementi di A esistendo almeno un elemento di C non appartenente ad A. Ma D non contiene il minimo (per come sono costruite le partizioni). Esiste però un Îł = max C ma Îł ∉ A. Infatti se fosse ÎłâˆˆA allora sarebbe A = C da cui sarebbe x = y. Che in caso del genere sia x < y discende dal fatto che l’approssimazione γ’ < Îł ove γ’ = max A si ripercuote sul numero e quindi sul confronto tra essi, avendosi quindi A ⊂ C â&#x;ž max A < max C = γ’ < Îł â&#x;ž x < y. Una formale definizione completa è contenuta in Citrini (op. cit.) a pag. 65. L’insieme R dei numeri reali è costituto dai numeri razionali e dai numeri irrazionali. R = QâˆŞđ?•ľ ove đ?•ľ è l’insieme degli irrazionali. Questi due insiemi costituiscono una partizione in quanto Q∊đ?•ľ = ∅. Ăˆ utile ricordare che in un intervallo I ⊂ R con I ≠∅ sono contenuti infiniti razionali e infiniti irrazionali.

2. Le proprietà algebriche e d’ordine dei numeri reali Per quanto attiene all’insieme R dei numeri reali e alla corrispondente struttura algebrica (R, +, *) possibile affermare che si tratta di un campo abeliano per il quale per ogni x, y, z elementi di R sono sempre verificate le proprietà seguenti. (x+y) + z = x + (y + z) = x + y + z

38


(x*y)*z = x*(y*z) Queste due relazioni esprimono la proprietà associativa dell’operazione + e *, rispettivamente. Valgono anche le due seguenti relazioni che definiscono la commutatività delle due operazioni. x+y=y+x x*y = y*x Relativamente alle due operazioni sono poi definiti gli elementi neutri, quello additivo, ovvero il numero 0, e il neutro moltiplicativo, ovvero l’unità, 1. x+0=0+x=x x*1 = 1*x = x Per le due operazioni esistono gli elementi simmetrici. Essi sono rispettivamente – x e 1/x avendosi rispettivamente: x + (- x) = 0 x*(1/x) = 1 quando x ≠ 0. I due simetrici (uno per operazione) sono unici. Vale, infine, la proprietà distributiva per la quale deve essere: x*(y+z) = x*y + x*z

2.1 I campi ordinati Mutuo da Gleason (op. cit.) la definizione formale di campo ordinato. Un campo ordinato è una configurazione (F, +, *, <, ⩽) tale che 1)

(F, +,*) è un campo;

2)

F(<, ⩽) è un insieme ordinato;

3)

se x < y allora x+ z < y + z;

4)

se 0 < x e 0 < y allora 0 < xy.

Per i campi ordinati valgono le ben note proprietà: a) a> 0 se e solo se a < 0; b) se a > b e c > d allora a + c > b+d; c) se a > 0 e b < 0 allora ab < 0;

39


d) se a < 0 e b < 0 allora ab > 0; e) se a > b e c > 0 allora ac > bc; f) se a > b e c < 0 allora ac < bc; g) se a > b ⊞ 0 e c > d ⊞ allora ac > bd; h) đ?‘Ž2 ⊞ 0; i) se a e b non sono contemporaneamente eguali a zero allora đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 > 0; j) 1 > 0; 1

k) se a > 0 allora đ?‘Ž > 0. Per alcuni campi ordinati vale la proprietĂ archimedea per la quale per ogni x ∈ F allora esiste un n tale che n > x. Se x ed y sono elementi non negativi di un campo ordinato si ha che đ?‘Ľ 2 < đ?‘Ś 2 se e solo se x < y. Ho potuto ritrovare la formalizzazione di ben note proprietĂ di uso comune. 1) a ⊽ √đ?‘Ž2 2) √đ?‘Žđ?‘? = √đ?‘Žâˆšđ?‘? se a ⊞0 e b ⊞ 0 3) √(đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 = √đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 + √đ?‘? 2 + đ?‘‘ 2

3. I numeri complessi

40


Questa figura sintetizza efficacemente lo stato dell’arte sui numeri complessi. Si era arrivati ( nel numero di marzo) alle seguenti relazioni z = (a , b) = a + ib = Ď cosφ + iĎ sinφ = Ď (cosφ + isinφ)= Ď (eiφ ) , ove Ď = √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 . In allora non furono considerate le potenze, ovvero le scritture đ?‘§ đ?‘› , e le radici di đ?‘›

numeri complessi, ovvero √đ?‘§ . In questi casi sovvengono noti teoremi. đ?‘§ đ?‘› = Ď đ?‘› (cos(đ?‘›Ď†) + isin(nφ)) = Ď đ?‘› (ei(nφ) ) Trattasi di un caso particolare della moltiplicazione. Si dimostra (usando la formula di addizione del seno) che đ?‘§1 *đ?‘§2 = Ď 1 Ď 2 (cos(φ + Ď„) + isin(φ+Ď„)= Ď 1 Ď 2 ei(φ+Ď„) ) . Tale formula è generalizzabile (usando la proprietĂ associativa) a k đ?‘§đ?‘– . Quando poi Ď đ?‘– = costante e φ = Ď„ = â‹Ż ‌. si ottiene la relazione che definisce đ?‘§ đ?‘› . Ăˆ molto algebrico e impositivo (tenendo conto della periodicitĂ della funzione seno) della il criterio di ricerca della radice di ordine n di un numero complesso z, ovvero đ?‘›

√đ?‘§ . φ

đ?‘›

√đ?‘§ = âˆšĎ (cos(đ?‘› +

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

φ

) + i sin(đ?‘› +

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

)

Delle k determinazioni solo n sono distinte e sono dette radici n-esime di z. Per z = 1, ovvero z = 1 +i0 si ha φ = 0 (in quanto il punto (1,0) nel piano di Argand�

0

Wessel-Gauss coincide con l’asse delle x reali) si ha √1 = √1 (cos(đ?‘› + 2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

) = (cos(

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

) + i sin(

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

0

) + i sin(đ?‘› +

).

Dal punti di vista algebrico i numeri complessi sono in ampliamento del campo reale, essendo R ⊂ đ??ś. Essi costituiscono un campo abeliano.

41


3.2 Qualche semplice esercizio in C. Ho tratto da “Katzan, Intermediate Calculus and Linear Algebra, Harvard University Lecture Notes, 1965�, i seguenti esercizi sui numeri complessi.

Esprimere nella forma a + ib i seguenti numeri complessi (đ?&#x;? − đ?’Š)đ?&#x;? In questo caso è sufficiente sviluppare usando la formula del binomio di Newton. (1 − đ?‘–)2 = 12 - 2(1)(i) + đ?‘– 2 = 1 – 2i – 1 = -2i = (0 , - 2)

(2 + i)(3 – i) Ăˆ sufficiente sviluppare i calcoli (2 + i)(3 – i) = 2*3 + (2)(-i) + 3i –(i)(i) = 6 – 2i + 3i + 1 = 7 + i = ( 7, 1) đ?&#x;? đ?’Š 1

đ??ˇđ?‘Žđ?‘Ąđ?‘œ

đ?‘–

è possibile moltiplicare e dividere per i avendo

1 đ?‘–

đ?‘–

*đ?‘– =

đ?‘– đ?‘–2

=

đ?‘– −1

= - i = (0, -1)

đ?&#x;?+đ??˘ đ?&#x;?−đ??˘

Anche in questo caso è possibile “razionalizzareâ€? avendosi 2+đ?‘–+2đ?‘–+ đ?‘– 2 4− đ?‘– 2

=

2+3đ?‘–−1 4−(−1)

=

2+3đ?‘– 5

=

2 5

+

3 5

1+i 2−i

=

1+i 2−i

*

2+i 2+i

=

(1+đ?‘–)(2+đ?‘–) (2−đ?‘–)(2+đ?‘–)

=

i = ( 2/5, 3/5).

đ?&#x;?+đ?’Š đ?&#x;?+đ?&#x;?đ?’Š

Ăˆ possibile moltiplicare e dividere tale numero per la quantitĂ 1 – 2i. avendo 1+đ?‘– 1+2đ?‘–

=

1+đ?‘– 1+2đ?‘–

*

1−2đ?‘– 1−2đ?‘–

=

(1+đ?‘–)(1−2đ?‘–) (1+2đ?‘–)(1− 2đ?‘–)

=

1−2đ?‘–+đ?‘–−2đ?‘– 2 1−4(đ?‘– 2 )

=

1−đ?‘– +2 5

=

3−đ?‘– 5

=

3 5

1

- 5i = (3/5, -1/5)

đ?’Šđ?&#x;‘ + đ?’Šđ?&#x;’ + đ?’Šđ?&#x;?đ?&#x;•đ?&#x;? Anche in questo caso la soluzione è semplice. Basta scomporre gli esponenti. i3 + i4 + i271 Ma i271 = iđ?‘– 3 đ?‘– 5 đ?‘– 9 đ?‘– 3 = đ?‘– 4 đ?‘– 4 đ?‘– 4 đ?‘– 4 đ?‘– 2 đ?‘– 3 = 1*1*1*1(-1)(-1)i = i quindi si ha che i3 + i4 + i271 = -i +1+i=1 Esprimere in forma trigonometrica i seguenti numeri

42


La formula trigonometrica dei numeri complessi è z = (a , b) = a + ib = Ď cosφ + iĎ sinφ = Ď (cosφ + isinφ) , ove Ď = √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 đ?œ‹

1)

đ?œ‹

i = ( 0, 1) = 1(cos( 2 ) +i sin(2 )) đ?œ‹

2)

đ?œ‹

2i = (0 , 2) = √2( cos(2 ) +i sin(2 )) 3đ?œ‹

3)

3đ?œ‹

- 2i = (0, - 2) = √2( cos( 2 ) +i sin( 2 )) đ?œ‹

3đ?œ‹

In questi casi ricordare che cos( 2 ) = 0 e cos( 2 ) = 0. 4)

4 = (4, 0) = 2(cos0 + i sin0)

sin0 = 0 5)

- 1 = ( -1, 0) = 1(cosπ + isinπ) = 1(-1) + i0 = - 1 c.v.d.

6)

(đ?&#x;? − đ?’Š)đ?&#x;‘ = 1 – 3(1)đ?‘– 2 + 3(1)i - đ?‘– 3 = 1 + 3 + 3i + i = 4 + 4i

PoichĂŠ Re(z) = Imm(z) > 0 allora φ = đ?œ‹

đ?œ‹

e đ?œŒ = √ 42 + 42 = √32 = 4√2

4

đ?œ‹

Pertanto 4 + 4i = 4√2(cos4 + i sin4 ) đ?&#x;?

7)

(đ?&#x;?+đ?’Š)đ?&#x;?

=

1 1+2đ?‘–+ đ?‘–2

1

=

1+2đ?‘–−1

=

1 đ?‘– 2đ?‘– đ?‘–

đ?‘–

=

1

= -2i

−2

1

1

3đ?œ‹

3đ?œ‹

3đ?œ‹

Messo in questa forma si ha che z = -2i = √4( cos( 2 ) + đ?‘– sin( 2 )) = ½ isin( 2 ) 8)

½ (√đ?&#x;‘ + i)

1 1 √3 In questo caso si ha đ?œŒ = √( 2)2 + ( 2 )2 = √ 4 +

3 4

4

= √4 = 1

√3

Pertanto z = 1(cos (arccos( 2 )) + i sin(arcsin (1/2)) 9)

Calcolare le tre radici cubiche di i , - i e di 1 + i φ

đ?‘›

đ?‘†đ?‘– â„Žđ?‘Ž √đ?‘§ = đ?‘›âˆšĎ (cos(đ?‘› +

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

φ

) + i sin(đ?‘› +

2đ?‘˜đ?œ‹ đ?‘›

)

Pertanto le radici cubiche sono formalizzabili come n = 3. a)

3

φ

3 √đ?‘§ = âˆšĎ (cos(3 +

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

φ

) + i sin(3 +

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

)

43


3

Per z = i si ha Ď = 1 quindi đ?‘›âˆšĎ = 1 e √đ?‘§ = 3âˆšĎ (cos(0 + isin(

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

) + i sin(0 +

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

) = 1(cos(

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

)+

)). Esse si determinano praticamente ponendo in essa k = 0, quindi k = 1 e

infine k = 2. Analogamente nel caso z = -i Esamino ora il caso z = 1 + i φ

3

đ?‘†đ?‘– đ?‘Ž √đ?‘§ = 3âˆšĎ (cos(3 +

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

2đ?‘˜đ?œ‹

φ

) + i sin(3 +

3

)

Ď = √12 + 12 = √2 = 21/2 Poiche Re(z) = Imm(z) = 1 â&#x;ž φ =

3

2

đ?œ‹

Pertanto si ha √đ?‘§ = (đ?œŒ)3 (cos(12 +

2đ?‘˜đ?œ‹ 3

đ?œ‹

2đ?‘˜đ?œ‹

) + i sin(12 +

3

đ?œ‹

(a meno del periodo).

4

).

Per ottenere le tre radici terze basta porre nella precedente k = 0, 1, 2. Per k = 1 si 2

đ?œ‹

ha la seconda di esse che è (đ?œŒ)3 (cos(12 + 10)

2đ?œ‹ 3

đ?œ‹

) + i sin(12 +

2đ?œ‹ 3

)

Calcolare le sei radici seste di đ?’›đ?&#x;” = 1 6

Si ha che z = √1 Si ha che il numero 1 è anche (1,0) in C. Basta ricordare la sua collocazione geometrica nel piano complesso. Per esso si ha che Ď = 1 e φ = 0 (a φ

đ?‘›

meno del periodo). Dalla formula generale đ?‘ đ?‘– â„Žđ?‘Ž √đ?‘§ = đ?‘›âˆšĎ (cos(đ?‘› + 6

0

6

). Per n = 3 essa diviene √1 = √1 (cos(6 + )) = cos(

2đ?‘˜đ?œ‹ 6

) + i sin(

2đ?‘˜đ?œ‹ 6

) = (cos(

đ?‘˜đ?œ‹ 3

2đ?‘˜đ?œ‹ 6

0

) + i sin(6 +

) + i sin(

đ?‘˜đ?œ‹ 3

2đ?‘˜đ?œ‹ 6

đ?‘›

)= 1 (cos(

) + i sin(đ?‘› +

2đ?‘˜đ?œ‹

2đ?‘˜đ?œ‹

2đ?‘˜đ?œ‹

φ

6

) + i sin(

đ?‘›

6

). Esse (sono sei) si ottengono

concretamente ponendo nella relazione trovata k = 0,1, ‌..5.

44

2đ?‘˜đ?œ‹


3.3 ProprietĂ dei numeri complessi Dato un numero complesso z = a + ib, – come è noto – il coniugato di esso, denotato con z’ è definito come z’ = a – ib. Per essi quindi si ha Re(z) = Re(z’) e Im(z’) = - Im(z). GiĂ si è ricordato che per definizione si ha: │z│= √ (đ?‘…đ?‘’(đ?‘§))2 + (đ??źđ?‘š(đ?‘§))2 . Siano x e y due numeri complessi qualunque. Si può dimostrare che valgono le seguenti relazioni. L’autore le indica senza dimostrazione. Fornisco le semplici dimostrazioni. 1)

(x¹y)’ = x’ ¹ y’

Ăˆ possibile ragionare considerando il caso (x +y)’ = x’ + y’ e ragionare sul primo membro. Ăˆ possibile intenderlo come la composizione di due operazioni somma e coniugazione. Si ha che (x+ y) = ((Re(x) + iIm(x)) + (Re(y) + iIm(y)) =Re(x) + iIm(x) + Re(y) + iIm(y) = Re(x) + Re(y) iIm(x) + iIm(y) = (Re(x) + Re(y)) + i (Im(x) + Im(y)). Ma (x +y)’ = (Re(x) + Re(y)) - i (Im(x) + Im(y)). Opero ora sul secondo membro. Da x = Re(x) + iIm(x) e y = Re(y) + iIm(y) posso ottenere immediatamente x’ = Re(x) - iIm(x) e y’ = Re(y) - iIm(y). Da ciò si ottiene che x’ + y’ = Re(x) - iIm(x) + Re(y) - iIm(b) = Re(x) + Re(y) – i((Im(x)+Im(y)) = (Re(x) + Re(y)) – i((Im(x)+Im(y)) = x’ + y’. In modo analogo si dimostra che (x - y)’ = x’ - y’. 2)

(xy)’ = x’y’

Considero il primo membro xy = (Re(x) + iIm(x))(Re(y) + iIm(y))= Re(x)Re(y) + iRe(x)Im(y) + iIm(x)Re(y) + đ?‘– 2 (Im(x)Im(y)) = (Re(x)Re(y) - Im(x)Im(y)) + i(Re(x)Im(y) + Im(x)Re(y)) â&#x;ž (xy)’ = (Re(x)Re(y) - Im(x)Im(y)) - i(Re(x)Im(y) + Im(x)Re(y)). Considero ora il secondo membro avendo x’y’ = (Re(x)-iIm(x))(Re(y)-iIm(y)) = Re(x)Re(y) - Re(x)iIm(y)- iIm(x)Re(y) + đ?‘– 2 Im(x)Im(y) = Re(x)Re(y) - Re(x)iIm(y)- iIm(x)Re(y) - Im(x)Im(y) = (Re(x)Re(y) + Im(x)Im(y)) – i(Im(x)Re(y) - Im(x)Im(y)). Ăˆ quindi dimostrato che (xy)’ = x’y’. 3)

(x/y)’ = x’/y’

Per questa dimostrazione ho deciso di manipolare i due membri, con la consueta razionalizzazione. Opero simultaneamente sui due membri ed ho: đ?‘Ľ

�′

� �′ ′ ) �′

= đ?‘Śâ€˛ đ?‘Ś â&#x;ž (xy’)’ = x’y

(�)′ = �′ (�

�′ �

Incidentalmente osservo che y’y = yy’ ∈ R. posto y’ = a essa diviene (xa)’ = x’a modo alternativo di definire la precedente (xy)’ = x’y’ solo che si ponga y’ = a â&#x;ş y = a’.

45


4)

(x’)’ = x

Questa è una nota proprietĂ immediata in quanto dato x viene definito due volte il coniugato. Da x = a + ib si ha che x’ = a – ib. A questo punto si determina il coniugato di x’ esso è (x’)’ = (a – ib)’ = a + ib. Con ciò la tesi. 5)

x ∈ R â&#x;ş x = x’

Pure essa è immediata, Infatti x = a + ib e x’ = a - ib, ∀x∈C. b = 0 â&#x;ž x = x’ = a. Essa rigorosamente va studiata nei due sensi. x ∈ R â&#x;ž x = x’. In questo caso si ha (a, 0) per la quale x = a+i0 e x’ = a – i0. Nel senso opposto x = x’ â&#x;ž x ∈ R. Dall’ipotesi x = x’ discende che a+ib = a –ib. Detta relazione ha significato solo per b = 0. In questo caso si definisce la coppia (a,0) cui corrisponde un elemento x ∈ R │ x = a. 6)

x è “puramente immaginarioâ€? (“purely imaginary) se e solo se (â&#x;ş) x = - x’

Anche in questo caso si è in presenza di una condizione necessaria e sufficiente. Quindi vanno considerati i due casi (scambiando l’ipotesi con la tesi). Un numero x è detto puramente immaginario se è del tipo x = 0 + ib, con b≠0. In termini di coppie si ha x = (0, b). Occorre dimostrare che x = (0, b) â&#x;ž x = - x’. Se x è dato si evince che x = ib e che – x’ = - (-ib) = ib. Quindi la tesi. Nella seconda parte, ovvero x = - x’ â&#x;ž x = (0, b) basta declinare il numero nella tesi avendo (0, b) = - (0, -b) â&#x;ž 0 + ib = - (0 – ib) â&#x;ž ib = - (-ib) â&#x;ž ib = ib, quindi la tesi. 7)

Re(x) = ½ (x + x’)

Un numero complesso è sempre esprimibile nella forma x = Re(x) + iIm(x). ½ (x + x’) = ½ (Re(x) + iIm(b) + Re(x) – iIm(x)) = ½ (2Re(x)) = Re(x), quindi è dimostrata la relazione assegnata. 8)

Im(x) =

đ?&#x;? đ?&#x;?đ?’Š

(x – x’) 1

1

1

Essa è immediata se si lavora sul secondo membro. Infatti 2i (x – x’) = 2i(a+ib – a +ib) = 2i (2ib) 2i

= b2i = b. Ma b = Im(x). Quindi si è dimostrata l’identitĂ .

L’autore ricorda poi che valgono anche le seguenti identitĂ : │x│= √(đ?‘Ľ)(đ?‘Ľ ′ )

1)

Anche in questo caso ho deciso di fare una breve dimo. Lavoro sul secondo membro, sviluppandolo. √(đ?‘Ľ)(đ?‘Ľ ′ ) = √đ?‘Ľđ?‘Ľâ€˛ = √(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?)(đ?‘Ž − đ?‘–đ?‘?) = √ đ?‘Ž2 − đ?‘–đ?‘Žđ?‘? + đ?‘–đ?‘Žđ?‘? − (đ?‘–đ?‘?)2 =√ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 Ma quella trovata è, come noto, anche l’espressione di │x│.

46


2)

│x│= 0 â&#x;ş x = 0

In questo caso si è in presenza di una complicazione. Quindi bisogna considerare il caso │x│= 0 â&#x;ž x = 0. Esso è immediato in quanto │x│ = 0 â&#x;ž √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 = 0 ovvero a e b tali che a = b = 0. Quindi si ha il numero x = (0, 0). Ora va considerata la seconda parte del teorema quella per la quale se x = (0, 0) allora │x│ = 0. Ciò e immediato in quanto x = (0 , 0) = 0 + i0. Ma │(0,0)│ = √ 02 + 02 = 0, indi la tesi.

3)

- │x│⊽ Re(x) ⊽ │x│

Anche questa è data senza dimostrazione. In ogni caso l’Autore (Gleason, op. cit.) ricorda che “the first equality holds if and only if x ⊽ 0, the second, if and only if, x ⊞0â€?. Considero il caso x = (0,0). Per esso - │x│⊽ Re(x) ⊽ │x│â&#x;ž - │(0,0)│ Re((0,0)) ⊽ │(0,0)│â&#x;ž 0 = 0 = 0. Ciò conduce a esito non contraddittorio, quindi l’ipotesi è vera. Considero il caso x = (a, b) ≠(0, 0). Per esso si ha - │x│⊽ Re(x) ⊽ │x│â&#x;ž - √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 < a < √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 ovvero a < │√ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 │ Ma ove si ponga b = 0 si ha a = │a│ â&#x;ž a > 0. Nel caso sia (a, b) = (0, b) con b ≠0 allora sarebbe - │x│⊽ Re(x) ⊽ │x│â&#x;ž - √ đ?‘? 2 < 0 < √ đ?‘? 2 â&#x;ž - │đ?‘?│ < 0 < │đ?‘?│

4)

│Re(x)│⊽ │x│

Sia dato un numero complesso x = a +ib. Re(x) = a â&#x;ž │Re(x)│ = │a│. Ăˆ ampiamente noto che │x│ = √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 ⊞0 per ∀ (a,b) : a e b reali. Se a > 0 posso dire che │a│ = a, quindi ho a ⊽ √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 . Essa è vera ∀b ≠0. Per b = 0 si ha a = │a│ vera per a > 0. Quando a < 0 si ha che │a│ = - a > 0. Ponendo - a = u poichè đ?‘˘2 = (−đ?‘Ž)2 si ha che u ⊽ √ đ?‘˘2 + đ?‘? 2 vera quando b ≠0.

5)

│Im(x)│⊽ │x│

Dato il numero complesso x = a +ib si ha che Im(x) = b e │Im(x)│= │b│. Ma │x│ = √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 . Si ha 0 < │b│ ⊽ √ đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 per (a, b) ≠(0, 0). Per (a, b) = (0, b) ∀ b R - âŚƒ0⌄ si ha 0 < │b│ = √ đ?‘? 2 . Il caso x = (0, 0) è degenere.

47


6)

│xy│= │x││y│

Siano (a,b) e (c, d) i due numeri complessi tali che (a,b) ≠(c, d) ≠(0, 0). Lavorando sul primo membro si ha │xy│ = │(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?)(đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘)│ = │ac + iad + ibc + đ?‘– 2 đ?‘?đ?‘‘│= │(ac – bd) + i(ad + bc)│= √ (đ?‘Žđ?‘? − đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘ + đ?‘?đ?‘?)2 . Relativamente al secondo membro si ha │x│= √đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 e │y│= √đ?‘? 2 + đ?‘‘2 da cui │x││y│ = (√đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 ) ( √đ?‘? 2 + đ?‘‘ 2 ) = √( đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 )( đ?‘? 2 + đ?‘‘2 ) Ammetto per ipotesi sia √ (đ?‘Žđ?‘? − đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘ + đ?‘?đ?‘?)2 = √( đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 )( đ?‘? 2 + đ?‘‘ 2 ) ovvero (đ?‘Žđ?‘? − đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘ + đ?‘?đ?‘?)2 = ( đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 )( đ?‘? 2 + đ?‘‘ 2 ) (đ?‘Žđ?‘?)2 - 2(acbd) + (đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘)2 + 2adbc + (đ?‘?đ?‘?)2 = (đ?‘Žđ?‘?)2 + (đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘)2 + (đ?‘?đ?‘?)2 (đ?‘Žđ?‘?)2 + (đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘)2 + (đ?‘?đ?‘?)2 = (đ?‘Žđ?‘?)2 + (đ?‘?đ?‘‘)2 + (đ?‘Žđ?‘‘)2 + (đ?‘?đ?‘?)2 Quindi │xy│= │x││y│ nel caso generale. Andrebbero considerati i sottocasi x = y ovvero a + ib = c + id, il caso sia almeno uno dei due x (o y) eguale a (0, 0). Ma essi sono comunque elementari. Per b = d = 0 si cade nel caso dei numeri reali. Riflessioni analoghe possono essere fatte quando x ed y sono puramente immaginari.

│đ?’™ + đ?’šâ”‚đ?&#x;? = │đ?’™â”‚đ?&#x;? + │đ?’šâ”‚đ?&#x;? +2Re(x(y’))

7)

Sia x = (a,b) e sia y = (c, d). In relazione al I membro si ha: │đ?‘Ľ + đ?‘Śâ”‚2 = │(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?) + (đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘) │2 = │(đ?‘Ž + đ?‘?) + đ?‘–(đ?‘? + đ?‘‘) │2 = │√ (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 │2 = √ (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 )2 = (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 Considero ora il II membro. Si ha │đ?’™â”‚đ?&#x;? + │đ?’šâ”‚đ?&#x;? +2Re(x(y’)) = (│đ?’‚ + đ?’Šđ?’ƒâ”‚)đ?&#x;? + (│đ?’„ + đ?’Šđ?’…│)đ?&#x;? + 2Re((a+ib)(c-id)) = │√ (đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 │2 + │√ (đ?‘?)2 + (đ?‘‘)2 │2 + 2 đ?‘…đ?‘’(đ?‘Žđ?‘? − đ?‘–đ?‘Žđ?‘‘ + đ?‘–đ?‘?đ?‘? + đ?‘?đ?‘‘)= (đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 + (đ?‘?)2 + (đ?‘‘)2 + 2(ac + bd) Riprendendo quanto definito al I membro e sviluppando i quadrati si ha (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 = (đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 + 2ac + (đ?‘?)2 + (đ?‘‘)2 + 2 bd = (đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 + (đ?‘?)2 + (đ?‘‘)2 + 2(ac + bd) Con ciò si è dimostrata la eguaglianza

8)

│đ?’™ + đ?’šâ”‚ ⊽ │đ?’™â”‚ + │đ?’šâ”‚

Se x = (a,b) e y = (c, d) si ha:

48


│(a+ ib) + (c+id)│ = │(𝑎 + 𝑐) + 𝑖(𝑏 + 𝑑)│ = √(𝑎 + 𝑐)2 + (𝑏 + 𝑑)2 │𝒙│ + │𝒚│= │𝑎 + 𝑖𝑏│+ │𝑐 + 𝑖𝑑│ = √𝑎2 + 𝑏 2 + √𝑐 2 + 𝑑 2 Se si prova che √(𝑎 + 𝑐)2 + (𝑏 + 𝑑)2 ⩽ √𝑎2 + 𝑏 2 + √𝑐 2 + 𝑑 2 si è provato che │𝒙 + 𝒚│ ⩽ │𝒙│ + │𝒚│ Consideriamo √(𝑎 + 𝑐)2 + (𝑏 + 𝑑)2 ⩽ √𝑎2 + 𝑏 2 + √𝑐 2 + 𝑑 2 e quadriamo avendo: (𝑎 + 𝑐)2 + (𝑏 + 𝑑)2 ⩽ (√𝑎2 + 𝑏 2 + √𝑐 2 + 𝑑 2 )2 (𝑎 + 𝑐)2 + (𝑏 + 𝑑)2 ⩽ (𝑎2 + 𝑏 2 ) + (𝑐 2 + 𝑑 2 ) + 2(√𝑎2 + 𝑏 2 )( √𝑐 2 + 𝑑 2 ) 𝑎2 +2ac + 𝑐 2 + 𝑏 2 + 2bd + 𝑑2 ⩽ 𝑎2 + 𝑏 2 + 𝑐 2 + 𝑑 2 + 2√(𝑎𝑐)2 + (𝑎𝑑)2 + (𝑏𝑐)2 + (𝑏𝑑)2 0⩽ 2√(𝑎𝑐)2 + (𝑎𝑑)2 + (𝑏𝑐)2 + (𝑏𝑑)2 Essa è sicuramente vera in quanto (𝑎𝑐)2 + (𝑎𝑑)2 + (𝑏𝑐)2 + (𝑏𝑑)2 ⩾ 0 comunque si scelgano quattro numeri reali: se a 0 b = c = d allora vale 0 = 2*0 = 0

9)

││𝒙│ − │𝒚││ ⩽ │𝒙 − 𝒚│

Sia x = (a, b) e y = (c,d) si ha ││𝒙│ − │𝒚││ =│ √𝑎2 + 𝑏 2 - √𝑐 2 + 𝑑2 │ │𝒙 − 𝒚│= √(𝑎 − 𝑐)2 + (𝑏 − 𝑑)2 In termini formali (√𝑎2 + 𝑏 2 + √𝑐 2 + 𝑑 2 ⩽ √(𝑎 − 𝑐)2 + (𝑏 − 𝑑)2 ) ⟾ │𝒙│ + │𝒚││ ⩽ │𝒙 − 𝒚│ │√𝑎2 + 𝑏 2 - √𝑐 2 + 𝑑 2 │ ⩽ √(𝑎 − 𝑐)2 + (𝑏 − 𝑑)2 . Quadrando ambo i membri si ha (│√𝑎2 + 𝑏 2 │)2 + (│√𝑐 2 + 𝑑2 │)2 - 2 (│√𝑎2 + 𝑏 2 │)(│√𝑐 2 + 𝑑2 │) ⩽ (𝑎 − 𝑐)2 + (𝑏 − 𝑑)2 (√𝑎2 + 𝑏 2 )2 + (√𝑐 2 + 𝑑 2 )2 - 2 (√𝑎2 + 𝑏 2 )(√𝑐 2 + 𝑑2 ) ⩽ 𝑎2 - 2ac + 𝑐 2 + 𝑏 2 + 𝑑2 - 2db 2

2

2

2

𝑎2 + 𝑏 2 + 𝑐 2 + 𝑑2 - 2√(𝑎𝑐) + (𝑎𝑑) + (𝑏𝑐) + (𝑏𝑑) ⩽ 𝑎2 - 2ac + 𝑐 2 + 𝑏 2 + 𝑑2 - 2db √(𝑎𝑐)2 + (𝑎𝑑)2 + (𝑏𝑐)2 + (𝑏𝑑)2 ⩽ -ac – bd

49


Infine due semplici esercizi. Dimostrare che │đ?‘¤ + đ?‘§â”‚2 + │đ?‘¤ − đ?‘§â”‚2 = 2(│đ?‘¤â”‚2 + │ đ?‘§â”‚2 )

1)

�� ℎ� │� + �│2

=

│(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?) + (đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘)│2

=

│(đ?‘Ž + đ?‘?) + đ?‘–(đ?‘? + đ?‘‘)│2

=

(√ (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 )2) = (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 ed anche │đ?‘¤ − đ?‘§â”‚2 = │(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?) − (đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘)│2 = │(đ?‘Ž − đ?‘?) + đ?‘–(đ?‘? − đ?‘‘)│2 = (√ (đ?‘Ž − đ?‘?)2 + (đ?‘? − đ?‘‘)2 )2) = (đ?‘Ž − đ?‘?)2 + (đ?‘? − đ?‘‘)2 Pertanto il I membro diviene (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 + (đ?‘Ž − đ?‘?)2 + (đ?‘? − đ?‘‘)2 Ăˆ utile considerare il secondo membro. Si ha: 2(│đ?‘¤â”‚2 + │ đ?‘§â”‚2 ) = 2( │đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?│2 + │đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘│2 ) = 2(đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 + đ?‘? 2 +đ?‘‘2 ) . Giova osservare che per la presenza dei segni meno si ha (đ?‘Ž + đ?‘?)2 + (đ?‘? + đ?‘‘)2 + (đ?‘Ž − đ?‘?)2 + (đ?‘? − đ?‘‘)2 = 2(đ?‘Ž2 + đ?‘? 2 + đ?‘? 2 +đ?‘‘2 ). A tale risultato si perviene comunque dalla nota relazione notevole (đ?›ź + đ?›˝)2 = đ?›ź 2 + 2ιβ + đ?›˝ 2 .

2)

Siano x, y, e z tre complessi tali che x ≠(0, 0). Dimostrare che │� + � + �│= │�│ + │� │+

│đ?’›â”‚ â&#x;ž ∃ đ?’“, đ?’” ∈ đ?‘š+ âˆś y = rx e z = sx.

Dal simbolo â&#x;ž si evince che │đ?‘Ľ + đ?‘Ś + đ?‘§â”‚= │đ?‘Ľâ”‚ + │đ?‘Ś │+ │đ?‘§â”‚ è vera (per ipotesi). Si ha che │đ?‘Ľ + đ?‘Ś + đ?‘§â”‚= │đ?‘Ľâ”‚ + │đ?‘Ś │+ │đ?‘§â”‚ â&#x;ž │(đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?) + (đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘) + (đ?‘’ + đ?‘–đ?‘“)│= │đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?│ + │đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘ │+

│đ?‘’ + đ?‘–đ?‘“│â&#x;ž

│(a+c+e)

√( đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘’)2 + (đ?‘? + đ?‘‘ + đ?‘“)2

+

i(b+d+f)│=

│đ?‘Ž + đ?‘–đ?‘?│ + │đ?‘? + đ?‘–đ?‘‘ │+

√( đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 +

=

│đ?‘’ + đ?‘–đ?‘“│â&#x;ž

√( đ?‘? 2 + (đ?‘‘)2 +√( đ?‘’)2 + (đ?‘“)2

â&#x;ž

√( đ?‘Ž + đ?‘? + đ?‘’)2 + (đ?‘? + đ?‘‘ + đ?‘“)2 - √( đ?‘Ž)2 + (đ?‘?)2 = √( đ?‘? 2 + (đ?‘‘)2 +√( đ?‘’)2 + (đ?‘“)2 . A questo punto il problema diventa puramente algebrico.

Un esercizio sulla struttura di campo di un insieme dato (Proposto da Gleason, op. cit.) Ăˆ assegnato un insieme F = {p, q} con p ≠q. Sono date due leggi a ed m binarie. đ?‘Ž: đ?‘? đ?‘ž

đ?‘? đ?‘? đ?‘ž

đ?‘ž đ?‘ž đ?‘?

đ?‘š: đ?‘? đ?‘? đ?‘? đ?‘ž đ?‘?

đ?‘ž đ?‘? đ?‘ž

L’operazione a(p,q) è convenientemente rappresentata come p + q. L’operazione m(a,b) è convenientemente scritta come a*b = ab Occorre verificare se dalla tabella relativa ad a: e dalla tabella relativa ad m: sono verificate le proprietĂ che definiscono la struttura di campo:

50


CommutativitĂ : p + q = q ed anche q + p = q ; pq = p ed anche qp = p. Il problema si complica perchĂŠ l’insieme contiene solo due elementi distinti p e q non essendo ammissibile introdurre un elemento ulteriore, avendosi per questa via un ulteriore insieme F’ ≢ F. Ho deciso quindi di studiare la associativitĂ introducendo una “variabileâ€? χ che assume i valori χ = p e χ = q e solamente essi. Allora sarebbe (χ + p) + q = χ + (p + q) . Essa va verificata per valori χ = p e χ = q, avendosi che (p+p) + q = p+ (p+q) â&#x;ž p + q = p + q â&#x;ž q = q. Nel caso χ = q si avrebbe (q + p) + q = q + (p + q) â&#x;ž q + q = q + q â&#x;ž p = p. In modo analogo si discute l’associativitĂ moltiplicativa per la quale (χp)q = χ(pq) va considerata nei due casi possibili χ = p e χ = q. Infatti per χ = p si ha (χp)q = χ(pq) â&#x;ž(pp)q = p(pq) â&#x;ž pq = pp â&#x;ž p = p. Per χ = q si ha (qp)q = q(pq) â&#x;žpq = qp â&#x;ž p = p. La proprietĂ distributiva χ(p+q) = χp + χq da studiare per i casi χ = p e χ = q. Sia χ = p si ha che χ(p+q) = χp + χq â&#x;ž p(p+q) = pp + pq â&#x;ž p(q) = p + p â&#x;ž p = p. Ove si ponga χ = q allora si ha che q(p+q) = qp + qq â&#x;ž q(q) = p + q â&#x;ž q = q. La p. distributiva è quindi verificata. Va quindi verificato che ∀x deve essere x + χ = x. PoichĂŠ il campo (presunto! almeno fino questo momento) è costituito dai soli p e q distinti allora deve esistere un đ?œ’ : p + χ = p ed anche q + χ = q. la prima è verificata per χ = p oppure χ = q. La seconda è verificata se se đ?œ’ ≠đ?‘ž, ovvero per χ = p. Pertanto l’elemento neutro additivo è đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ = p . Ăˆ possibile fare la verifica. Si ha che p + p = p â&#x;ž p = p ed anche che q + p = q â&#x;ž q = q. In modo analogo si ragiona per il neutro moltiplicativo per il quale deve essere Ď„x = x ∀x∈F. Deve essere Ď„p = p ed anche Ď„q = q . La prima è vera per Ď„ = p oppure Ď„ = q. La seconda solo per Ď„ = q. Ciò si desume immediatamente osservando la tabella moltiplicativa. Pertanto l’elemento neutro della moltiplicazione esiste (ed è unico) ed è l’elemento q. Per ogni elemento b dell’insieme esiste un x tale che b + x = đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ Occorre verificare che per b = p e per b = q esiste un X (che può essere o p o q) tale che la somma +, come definita, sia eguale a đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ . Ăˆ stato ricavato che đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ = p pertanto occorre verificare che: b + x = p. Per b = p si ha che p+ x = p. Dalla tabella relativa all’operazione a: si desume che x = p. Per b = q si ha che q + x = p, da cui analogamente x = p.

51


∀b ≠đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ ∃x : bx = u. PoichĂŠ si era ricavato che đ?œ’đ?‘›đ?‘’đ?‘˘đ?‘Ąđ?‘&#x;đ?‘œ đ?‘?đ?‘’đ?‘&#x;+ = p allora b ≠p â&#x;ž b = q. Ma si era evidenziato che il neutro moltiplicativo u = Ď„ = q , pertanto ci si riduce a considerare il caso qx = q . Dalla tabella della m: vi evince che x = q. PoichĂŠ q ≠p allora il neutro moltiplicativo e quello additivo sono distinti.

52


SUL PIANO STATISTICO Una prima introduzione alla statistica

1. Oggetto della statistica La statistica è stata definita “scienza del collettivoâ€?, ovvero disciplina che avvalendosi dello strumento logico-matematico studia i fenomeni collettivi, riferiti a insiemi costituiti da unitĂ statistiche. L’unitĂ statistica è definita rigorosamente e non necessariamente coincide con un soggetto fisico, potendo essere la famiglia, l’impresa o altro. Il collettivo può anche essere generico, per esempio costituito dai partecipanti ad una crociera. Tra essi vanno evidenziati i collettivi “specificiâ€? detti anche popolazioni, caratterizzati da una o piĂš caratteristiche comuni (cittadinanza, residenza, etc). Una distinzione focale è quella tra collettivi empirici e collettivi teorici (campioni). I campioni sono ricavati con criteri scientifici e sono utili se e in quanto essi sono rappresentativi di una popolazione. Per carattere statistico si intende una qualsiasi proprietĂ osservabile. Le modalitĂ sono i diversi modi di essere (o valori assunti) di una proprietĂ . I caratteri possono essere quantitativi o qualitativi. Quelli quantitativi possono essere continui o discreti, generalmente espressi da numeri interi. Data una popolazione di N unitĂ statistiche se il carattere X assume le i modalitĂ đ?‘Ľđ?‘– si indica con đ?‘“đ?‘– il numero delle unitĂ statistiche che nella rilevazione hanno la modalitĂ đ?‘Ľđ?‘– . đ?‘“đ?‘– indica la frequenza assoluta. Il rapporto

đ?‘“đ?‘– đ?‘

è detto frequenza relativa.

đ?‘Ľ1 ‌ ‌ ‌ . . đ?‘Ľđ?‘– L’insieme delle i determinazioni del carattere X = ( đ?‘“ ‌ ‌ ‌ ‌ đ?‘“ ) è detta variabile 1 đ?‘– statistica. Le variabili statistiche possono essere divise in classi (per esempio in classi d’etĂ , aziende agricole secondo la superficie, etc.). Quando il carattere è qualitativo si parla di mutabile statistica. Anche in campo statistico valgono i concetti giĂ noti di errore assoluto e di errore relativo, di errore sistematico e di errore accidentale. Le variabili e le mutabili statistiche possono essere rappresentate graficamente nel piano cartesiano, avendosi diagrammi per punti, diagrammi a segmenti, il diagramma a spezzata, il poligono di frequenze e la curva di frequenza. Questa ultima è ottenuta riducendo l’ampiezza delle classi di frequenza.

53


Sull’asse delle x si pongono le modalitĂ mentre sull’asse delle y si pongono le corrispondenti frequenze. Per le frequenze può essere necessario non porre sull’asse y le frequenze bensĂŹ il logaritmo di esse (avendo la scala detta logaritmica). Ăˆ possibile rappresentare i fenomeni statistici con diagrammi a coordinate polari. Esistono rappresentazioni come gli istogrammi, potendo le classi di ampiezza essere diverse, contrariamente al caso rappresentato in figura nel quale le classi hanno la stessa ampiezza.

Esiste anche la possibilità di rappresentare un fenomeno nel corso del tempo (posto sull’asse delle x). Si tratta delle serie storiche, particolarmente utilizzate in economia.

2. Le medie statistiche La nozione piĂš generale di media è dovuta a V. Castellano per il quale data una funzione G= G(đ?‘Ľ1 ‌‌ đ?‘Ľđ?‘˜ , x) la quantitĂ x è detta media se sostituita al posto delle đ?‘Ľđ?‘– con i ⊽ k, lascia inalterato o minimizza la quantità │G(đ?‘Ľ1 ‌‌ đ?‘Ľđ?‘˜ , x) - G(x‌.., x,, x)│= min.

54


Ogni media è interna al campo di variazione della variabile osservata (A-L Cauchy). La prima media che si incontra è quella aritmetica, facilmente definita come đ?‘€đ?‘Ž = Quando è nota la frequenza assoluta đ?‘“đ?‘– si ha la media ponderata đ?‘€đ?‘Ž =

∑đ?‘˜ đ?‘–=1 đ?‘Ľđ?‘– đ?‘“đ?‘– đ?‘

∑đ?‘˜ đ?‘–=1 đ?‘Ľđ?‘– đ?‘

.

. Viene definito

scarto (o scostamento) dalla media il valore đ?‘ đ?‘– = đ?‘Ľđ?‘– - đ?‘€đ?‘Ž . Ăˆ elementare dimostrare che ∑đ?‘˜đ?‘–=1 đ?‘ đ?‘– = 0 Rispetto al tradizionale metodo di introduzione delle medie vorrei considerare il caso della media di potenza di ordine r cosĂŹ definita: đ?‘&#x;

đ?‘˜

đ?‘&#x;

∑ (đ?‘Ľ ) đ?‘€đ?‘&#x; = √ đ?‘–=1đ?‘˜ đ?‘–

che in forma di media ponderata diviene đ?‘&#x;

đ?‘˜

đ?‘&#x;

∑ (đ?‘Ľ ) đ?‘€đ?‘&#x; = √ đ?‘–=1 đ?‘ đ?‘–

��

ove N = ∑đ?‘˜đ?‘–=1 đ?‘›đ?‘–

per r = 1 si ottiene la media aritmetica, per r = -1 la media armonica. Quando si đ?‘˜

ammette che r â&#x;ś 0 si ottiene la media geometrica đ?‘€đ?‘”đ?‘’đ?‘œ = √âˆ?đ?‘˜đ?‘–=1 đ?‘Ľđ?‘– . Nel caso r = 2 si ha una particolare media detta quadratica.

Viene definita moda (o norma) il valore prevalente di una data variabile statistica. Una variabile statistica, come noto, è definita dalle modalitĂ e delle frequenze relative. X = (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘“đ?‘– ) moda è l’đ?‘Ľđ?‘– cui corrisponde max (đ?‘“1 , ‌ ‌ , đ?‘“đ?‘˜ ). Ăˆ il modo piĂš diffuso di un carattere statistico. La situazione si complica quando le variabili statistiche sono raggruppate in classi. Si utilizza questa formula: đ?‘€đ?‘œđ?‘‘đ?‘Ž = đ??żđ?‘–đ?‘›đ?‘“ +

đ?œ (đ??šđ?‘€ − đ??šđ?‘€âˆ’1 ) 2đ??šđ?‘€ − đ??šđ?‘€+1 − đ??šđ?‘€âˆ’1

Anche in questi casi si ragiona per step. Il primo è la determinazione della classe modale. Essa è la classe cui corrisponde la massima frequenza assoluta. Detta frequenza è indicata con đ??šđ?‘€ mentre đ??šđ?‘€+1 e đ??šđ?‘€âˆ’1 definiscono le frequenze delle classi successive e precedente. Îś =đ??żđ?‘ đ?‘˘đ?‘? - đ??żđ?‘–đ?‘›đ?‘“ indica l’ampiezza della classe modale. đ??żđ?‘ đ?‘˘đ?‘? e đ??żđ?‘–đ?‘›đ?‘“ definiscono limiti superiore e inferiore della classe. Può però capitare che le rilevazioni vengano fatte senza che sia garantito Îś = cost. In questi casi per individuare la classe modale si procede ai rapporti đ?‘…đ?‘– =

đ?‘“đ?‘– đ?œ đ?‘–

.

55


Tra detti rapporti esiste il max đ?‘…đ?œ? per un qualche Ď„. In questi casi solitamente ci si limita alla determinazione della classe modale anche se esiste pure la formula che ne consente il calcolo.

Va definito ora il concetto di mediana. Ove sia data una variabile statistica riferita ad un carattere X che assume k valori numerici đ?‘Ľđ?‘– è possibile un ordinamento (se non è dato bisogna farlo) per il quale sia đ?‘Ľđ?‘– < đ?‘Ľđ?‘–+1 . (oppure >). Se k = 2n+ 1 la mediana coincide con il termine centrale, essendo il valore che bipartisce la successione (tanti termini a sinistra, tanti termini a destra). Se k è pari la mediana è la media aritmetica dei due termini centrali. La frequenza “entraâ€? nella determinazione della moda solo quando i dati sono raggruppati in classi. Per determinare la classe mediana occorre anzitutto determinare la frequenza cumulata. Essa altro non è che la somma delle frequenze delle classi fino a quella che si considera. Insomma se considero la j-esima classe đ?‘— la frequenza cumulata đ??šđ?‘?đ?‘˘đ?‘š,đ?‘— = ∑đ?‘–=1 đ?‘“đ?‘– . Ci si arresta appena đ??šđ?‘?đ?‘˘đ?‘š,đ?‘— ⊞ (½)N. Il đ?‘—đ?‘šđ?‘–đ?‘› tale che đ??šđ?‘?đ?‘˘đ?‘š,đ?‘— ⊞ ½(N) individua la classe mediana. đ?‘—−1 Ma determinato j (ovvero la classe mediana) è ben definito đ??šđ?‘?đ?‘˘đ?‘š,đ?‘—−1 = ∑đ?‘–=1 đ?‘“đ?‘– = đ?‘ƒđ?‘–đ?‘›đ?‘“ . Tale grandezza è detta frequenza cumulata corrispondente al limite inferiore della classe mediana. đ?‘

Si utilizza la seguente formula đ?‘€đ?‘’đ?‘‘đ?‘–đ?‘Žđ?‘›đ?‘Ž = đ??żđ?‘–đ?‘›đ?‘“ +

đ?œ ( − đ?‘ƒđ?‘–đ?‘›đ?‘“ ) 2 đ??šđ?‘€

.

Ho sintetizzato e rielaborato parte del Cap. III relativo alle medie degli Appunti di statistica descrittiva, Nuova edizione, Bozzi Editore, Genova, della prof.ssa Valeria Maione.

56


Proprietà letteraria e intellettuale Nell’elaborare il presente documento ho inevitabilmente attinto a fonti. Esse sono indicate nel testo, di volta in volta. Per quanto attiene alle “figure” – utilissimo supporto – queste sono state estratte da Internet nella presunzione che quanti le hanno collocate ne avessero titolo. In questo caso non mi è stato possibile citare la fonte. Preciso che questo elaborato non ha fini di lucro.

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pubblicazione a cura di Pascal McLee

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