poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n째46) art. 1, comma 1, LO/MI
mensile - anno 5 numero 3 - marzo 2011 3 euro
abbiamo fatto, facciamo, ma soprattutto faremo
DEL NOSTRO MEGLIO
EMERGENCY è una libera associazione di persone impegnate nella cura delle vittime della guerra e della povertà e nella promozione di una cultura di pace. Questo impegno nasce da una frequentazione quotidiana della sofferenza e dalla condivisione di un’idea: che esiste un’unica e sola umanità. Il lavoro di EMERGENCY – che in 16 anni ha curato oltre 4 milioni di persone – è una pratica di rapporti umani giusti e solidali, ispirati ai principi di eguaglianza, di qualità delle cure, di gratuità per tutti i feriti e gli ammalati.
Il mondo che vogliamo Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica. Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse. Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società, il diritto a cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione. Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie è davanti ai nostri occhi. In nome delle “alleanze internazionali”, la classe politica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi. In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione, un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione. In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo. È questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività? Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”? Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorarne le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini. È questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.
EMERGENCY
Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare Annamaria Rodari, 1978
marzo 2011 mensile - anno 5, numero 3
L’editoriale di Maso Notarianni Direttore Maso Notarianni
Caporedattore Angelo Miotto
Redattori Gabriele Battaglia Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli
Hanno collaborato per i testi Naoki Tomasini
Photoeditor Germana Lavagna Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi
Hanno collaborato per le foto Cristinano Bendinelli Massoud Hossaini Samuele Pellecchia/Prospekt Alexey Pirovarov/Prospekt Matt Shonfeld Naoki Tomasini
Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Vida 11- 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07
Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Vida 11 20127 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 26809458 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 28 febbraio 2011 Pubblicità Via Vida 11 20127 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 26809458 peacereporter@peacereporter.net
Ci vediamo il mese prossimo i vediamo il mese prossimo in edicola, con un nuovo giornale. L’ennesima utopia di Emergency, che speriamo si concretizzi e diventi reale come sono diventate reali le altri grande utopie di quella associazione. Il mensile “E”, diretto da Gianni Mura e condiretto da me, proporrà approfondimenti, analisi, reportage, inchieste e rubriche vestiti di una forma e di un linguaggio il più popolare (e bello) possibile assorbendo l’attuale rivista mensile di PeaceReporter. Ci stiamo lavorando, in queste ore. E la fatica vi possiamo garantire che è tanta. Ma è di più l’entusiasmo che ci prende nel vedere un progetto crescere sotto le nostre mani e i nostri occhi. Un progetto bellissimo, e importantissimo. Che deve funzionare. I nostri lettori, sono certo, accoglieranno con grande gioia questa nuova iniziativa editoriale. Stiamo lavorando per fare un giornale che provochi un terremoto nel panorama italiano. Un giornale che racconti il nostro Paese e il mondo senza essere subalterno - come purtroppo lo sono quasi tutti i media - alla sottocultura dominante che tanti danni sta causando. Un giornale libero, un giornale bello. Stiamo coinvolgendo in questa avventura i nostri amici più cari, tra fotografi e giornalisti, scrittori e intellettuali. Siamo fortunati perché tra loro ci sono anche i migliori. E mentre scrivo vedo che - per fare un esempio - quattro dei nostri hanno appena vinto il Word press photo. Voliamo alto, insomma. Cerchiamo di fare un prodotto che spacchi, che colpisca, e soprattutto che stia sul mercato. Perché è quella la sfida che dobbiamo vincere. E siamo certi di riuscirci. Perché il popolo di Emergency è grande e bello e generoso. Perché nel nostro Paese, non solo tra il popolo dell’associazione, c’è davvero bisogno di una informazione nuova. Pulita e libera, che sappia parlare ma soprattutto che sappia dire delle cose importanti. E noi siamo certi che questo riusciremo a farlo. Qui di fianco ripubblichiamo il manifesto di Firenze. Che è la nostra linea editoriale. Per salutarvi, abbiamo ripubblicato il nostri migliori lavori. E nel farlo e nello sceglierli, non vi nascondo di essermi scoperto molto molto orgoglioso della “mia” redazione.
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A presto. P.S. Non si allarrmino i nostri abbonati, riceveranno al posto di PeaceReporter la nuova rivista fino alla scadenza del loro abbonamento. Germania a pagina 32
Afghanistan a pagina 4 Russia a pagina 12
Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671
Servizio abbonamenti e arretrati Picomax S.r.l. Viale Sondrio 7 – 20124 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836 Informativa abbonamenti: Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qualità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, per le seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale inerente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l. Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a privacy@picomax.it
Colombia a pagina 16 Israele a pagina 20
L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.
Paraguay a pagina 28
Sierra Leone a pagina 8
Kurdistan a pagina 24 3
Il reportage Afghanistan Numero zero
La guerra per l’oppio Dal nostro inviato Enrico Piovesana La provincia di Helmand è cuore della “Mezzaluna d’Oro”. Da qui proviene quasi metà dell’eroina prodotta in Afghanistan, che da solo copre ormai oltre il 92 percento della produzione mondiale. Il business dell’oppio afgano non è mai stato così florido come sotto il governo Karzai. Le autorità governative di Kabul, più che combattere contro il narcotraffico, sembra combattano per spartirsi l’immensa torta ashkargah, profondo sud dell’Afghanistan, primavera 2007. Le acque del fiume Helmand, che serpeggia lento e sinuoso attraverso il Dashte-Margo, il Deserto della Morte, danno vita e fertilità a una terra altrimenti arida. Nell’aria calda e polverosa della città, il profumo degli alberi di mandarino in fiore si mescola all’odore acre di carne bruciata dei cadaveri straziati e carbonizzati dall’esplosione dell’ennesimo uomo-bomba saltato in aria in centro. Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da sottofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili, come testimoniano i feriti che arrivano nell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perché dall’anno scorso il governo afgano – di concerto con la Nato – ha imposto la censura più completa su qualsiasi notizia che possa ingenerare sentimenti “contrari alle forze internazionali presenti nel paese”. Forze che a Lashkargah non si vedono più: hanno paura. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi è impossibile incrociare per le polverose strade della città i Land Rover dell’esercito britannico – questa è zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di Lashkargah. Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio: la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti ovunque e colpiscono ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in Helmand, dove si produce la metà di tutto l’oppio afgano. Nei campi fuori città, i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per essere incisi. Quest’anno si prevede un raccolto che straccerà ogni record storico. Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regione arida, dovrebbero garantire una produttività mai vista prima, sfondando addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della norma. Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del tariak, l’oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni passati – quando l’oppio rendeva 100-120 dollari al chilo – ma sempre molto più di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais, ancora for-
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temente deprezzate a causa dell’imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno inondato il mercato afgano. Per questa gente l’oppio è l’unica possibile fonte di sussistenza. Vista la mancanza di alternative, senza l’oppio morirebbero di fame. Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a costo della loro vita. Sono già decine i contadini uccisi quest’anno dalla polizia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai, sostenuta dai quattrini della comunità internazionale. Ma anche questi fatti vengono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da morti, talebani. Già, la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non ha dato nessun risultato. La produzione dell’oppio in Afghanistan non è mai stata florida come sotto il governo Karzai. L’anno scorso nel paese c’erano 165 mila ettari di terreno coltivati a oppio e quest’anno sfioreranno i 180 mila ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91 mila ettari coltivati del 1999, l’anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest’anno il raccolto previsto è di settemila tonnellate. Le strade delle città europee sono inondate di eroina “made in Afghanistan” molto più oggi (il novantadue percento della produzione mondiale) di quando a produrla c’erano i mullah con turbante e barba lunga (il quaranta percento). ome spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin dall’inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto più importante in quanto – lo sapevano tutti – il rifiorire dell’oppio sarebbe stato usato dai talebani per finanziare la loro riscossa, com’è puntualmente accaduto. La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di Lashkargah, all’ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid antioppio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero.
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Vita in città, sotto un manifesto contro la droga. Lashkargah, Afghanistan, 2006. Enrico Piovesana © PeaceReporter
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Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri “Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell’oppio, in rubarli”, afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi. realtà ci è invischiato fino al collo. “Vedete quei camion laggiù?”, dice indicando una lunga fila di mezzi parIl che non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera che Walid Karzai, cheggiati ai margini della città. “Sono quelli sui quali il governo caricherà i fratello dell’elegante presidente afgano, è noto per essere il maggiore trafpapaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove tutto dovrebbe ficante d’oppio della regione di Kandahar. essere bruciato in grandi falò. Ma li avete mai visti questi falò?”, domanda Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realtà dei Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. “Dovrebbero farli davanti alle fatti non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha telecamere, dando alla cosa la massima pubblicità, non vi pare? Invece dell’incredibile. dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza. La verità è che Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di Helmand l’oppio viene portato nelle raffinerie del governo, trasformato in eroina, e hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di più. poi smerciato all’estero. Altro che campagna antidroga!”. “Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo, un Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice quindicesimo dell’oppio che raccoglievamo”, raccontava un contadino in fatto. “Secondo voi, per quale ragione il governo decide di ‘distruggere’ i quei giorni. “Noi accettavamo qualsiasi paga perché avevamo bisogno di campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perché aspetta lavorare. Ma quest’anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il raccolche i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di distrugto eccezionale richiede una quantità eccezionale di manodopera per incidegere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i papare tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre quest’anno – proveri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per seguiva il bracciante – lavorare qui in Helmand è pericoloso perché c’è la raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perché il governo si guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo deciso che avevamo il diritto e è sempre opposto all’uso degli aerei per distruggere i campi con i defola forza contrattuale per chiedere di essere pagati glianti? Credete forse che, come dicono loro, meglio: vogliamo la metà dell’oppio raccolto, sennò vogliano tutelare la salute dei contadini? A spararci 180 mila ettari andiamo a lavorare da un’altra parte”. addosso però non si fanno problemi!”. le piantagioni di papavero. 7 mila tonnellate Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori il raccolto di oppio d’oppio della zona sono subito andati a manifestare opo la chiacchierata con Faizullah, decidiaprevisto per quest’anno. sotto il palazzo del governatore di Helmand, mo di approfondire l’argomento. Parliamo 560 milioni di dollari Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa con altre persone di Lashkargah, altri coltiil ricavo complessivo disputa salariale a difesa dei loro profitti. vatori di papavero. Tutti confermano: il governo di dei coltivatori d’oppio. “Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i Kabul finge di lottare contro il narcotraffico, ma in 3 miliardi di dollari campi e ora rischiamo di perdere tutto se il raccolto realtà sta semplicemente cercando di imporre una il ricavo complessivo si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve difensorta di “monopolio di Stato” su questo lucroso dei trafficanti afgani. dere!”, dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza business, colpendo solo i produttori di oppio “anti114 miliardi di dollari sotto gli occhi di quella stessa polizia che, in teoria, governativi”, quelli che non si adeguano o che, pegil valore di mercato dovrebbe distruggere le loro piantagioni. gio, sfidano le autorità. dell’eroina ricavata. 26 mila gli afgani, civili Sono bastate poche ore di protesta perché il gover“Chi come me ha un campo di oppio – spiega e combattenti, morti dal 2001. natore accettasse di intervenire, stabilendo il “giuGulam, proprietario di una piccola piantagione 570 i soldati occidentali sto salario” dei raccoglitori nella misura di un quarappena fuori città – ha due spese principali, che caduti dal 2001 to del raccolto. sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodopeIncredibile: le autorità governative, lungi dal combatra stagionale necessaria per il raccolto lasciando ai tere i produttori d’oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto sembraccianti una parte dell’oppio da essi raccolto, e pagare il governo per plice: sono soci in affari. E tali sono considerati dai proprietari delle piantamettere al riparo il campo dalle ruspe e dalle irruzioni della polizia. Chi non gioni, che infatti trovano del tutto naturale rivolgersi al governo per chiedere paga questa tassa, o peggio paga il pizzo ai talebani, rischia che il suo racil suo aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo. colto finisca razziato dal governo”. Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell’oppio o “prelevandolo” otto la tutela dell’Occidente, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan sta con questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la diventando il narco-Stato più potente del pianeta. Il famoso forza a coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della cam‘Triangolo d’Oro’ in Indocina è diventato una bazzecola a confronto. pagna antidroga. Due realtà lontane, accomunate però da una caratteristica che fa rifletteChe fine faccia l’oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da re: quella di svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo Stati Uniti nelle loro guerre contro “il male” del momento: il comunismo nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell’oppio veniva trasportato direttamente all’estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove c’eieri, il terrorismo oggi. rano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in Europa. Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: “Qual è la “Poi il governo – spiega Sayed – ha capito che conveniva costruire raffinevera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nel 2001? rie qui in Afghanistan, così da smerciare all’estero direttamente il prodotto Visto che lì di petrolio non ce n’è e la famosa faccenda dell’oleodotto della finito, l’eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di polvere bianca: un Unocal era marginale e superata, l’hanno fatto per cosa: per vendicare gli camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di oppio. Ovviamente attentati dell’11 settembre oppure per difendere i loro interessi strategici questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a loro collegati, che nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?”. qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie. Quelle governative invece Lui rispose: “Né l’uno né l’altro. In Afghanistan non c’è petrolio, ma c’è stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi ha detto di aver visto l’anl’oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della comunità no scorso un camion del governo stracolmo di sacchi di farina pachistana: internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e rischiando dentro però c’era un altro tipo di polvere bianca. Tra l’altro – conclude di mettere in crisi il terzo mercato più redditizio del pianeta dopo quello del Sayed – gira voce che molti di questi sacchi vengano rivenduti, o regalati, petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto è tornato a posto”. anche a ufficiali stranieri, soprattutto statunitensi”. All’epoca non lo presi sul serio. Al di là delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre persone che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione completaIn alto: Contadino. In basso: Estrazione dell’oppio mente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in Afghanistan, 2006. Enrico Piovesana e Massoud Hossaini © PeaceReporter
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Il reportage Sierra Leone Dicembre 2007
La grande truffa dell’Onu Di Maso Notarianni Quasi due miliardi di euro dal 1999 a oggi, circa seicentomila euro al giorno spesi nel Paese africano solo dalle Nazioni Unite. Ma tra i cittadini della Sierra Leone non se ne è accorto nessuno. unica cosa di internazionale che ha l’aeroporto di Freetown è un pulmino che trasporta i passeggeri nei venti metri che separano l’aeromobile dall’ingresso. Usciti dal minuscolo aeroporto, non si viene avvolti dal tipico caldo umido dei paesi centrafricani, peggio: la Sierra Leone è il paese dove piove di più al mondo. Quattro metri d’acqua all’anno contro i settanta centimetri italiani. Appena fuori dall’aeroporto, una strada sterrata e piena di voragini dovrebbe portare i viaggiatori e i turisti in città. Già, i turisti, perché stando ai cartelloni che si vedono in ogni dove, il turismo dovrebbe essere, nelle intenzioni del governo, una delle principali fonti di attrazione in questo paese. Dopo pochi metri, Demba, l’autista del pulmino, non si scompone più di tanto per il fatto che il motore si sia spento e non dia più segni di vita nel mezzo di un’enorme pozza d’acqua, rossa come la terra della Sierra Leone, e parecchio profonda. Sospira e sorride ai passanti e ai ciclisti: nel raggio di un centinaio di metri di automobili ferme o mosse, ma a spinta, ce ne sono altre quattro. Sarebbe tutto normale, le strade a pezzi, la mancanza di strutture, la mancanza di servizi. In fondo siamo in Africa, e per giunta in un paese appena uscito da una guerra devastante. Stanno lì a ricordarcelo in quell’angolo di aeroporto, appena fuori dov’è consentito fumare, i mutilati che chiedono una dignitosa e per nulla insistente carità che non può ripagare le braccia e le gambe lasciate all’assurdità di un conflitto durato oltre dieci anni. Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone non fosse stata teatro, oltre che della guerra, anche della più impegnativa missione delle Nazioni Unite mai concepita e realizzata nella storia. Impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico. Quasi due miliardi di euro in nove anni, circa seicentoottomila euro al giorno spesi solo dall’Onu, senza contare l’impegno dei singoli Paesi, dall’Italia agli Stati Uniti. E le migliaia di Organizzazioni non governative, attirate come api dal miele del danaro. Con le loro migliaia di progetti, uffici, logisti, esperti e consulenti di questo e di quello. Oggi di quelle Ong non ce ne sono quasi più. Perché le Nazioni Unite hanno finito la loro missione, e sono finiti i soldi pubblici assegnati quasi senza controlli. Un fiume di denaro mostruoso che non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo non lo si riesce a vedere subito: Freetown ci accoglie con un temporale impressionante, che riduce la visibilità a pochi centimetri. Qualcosa però si intuisce: la missione delle Nazioni Unite, che tanto danaro è costata, non ha lasciato nemmeno un collegamento tra l’aeroporto e la città, che dev’essere raggiunta in elicottero, oppure con il ser-
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vizio di hovercraft che attraversano il golfo portando i nuovi arrivati, finalmente, vicini al centro città. reetown, in centro, assomiglia un poco a New Orleans. Non a quella famosa per il blues e le passeggiate, ma a quella post alluvione. Le strade sono tutte disfatte, le case cadenti, la povertà strutturale non lascia spazio nemmeno alla fantasia di quei quasi due milioni di abitanti costretti a vivere in una città che ancora in gran parte non ha nemmeno l’elettricità. Mohamed ha venticinque anni. È lui il Caronte che ci traghetta verso l’inferno con cui gli abitanti di Freetown convivono. “Dietro le colline che circondano la capitale, a Bumbuna, dovrebbe presto essere ultimata la costruzione di una centrale elettrica cominciata vent’anni fa. Dovrebbe portare la luce a tutta la città – ci spiega – ma solo durante e subito dopo la stagione delle piogge, quando l’acqua scorre potente. Da quel che dicono, chi l’ha progettata non ha tenuto conto del fatto che per sei mesi all’anno non piove. Non ci sono bacini di raccolta. E dunque se non piove, niente luce”. La centrale intermittente è un’opera imponente e ovviamente costosissima, circa diciotto milioni di euro, costruita dagli italiani. Ma non manca solo la luce, a Freetown manca anche l’acqua. Nel paese in cui piove di più al mondo, quasi due milioni di persone sono costrette a lavarsi e a prendere l’acqua per far da mangiare nei tanti fiumiciattoli che attraversano la città. Ma non c’è disperazione, né rabbia in questa miseria. È al ritmo del reggae e del calipso che le donne, coperte di stoffe coloratissime e sgargianti, e anche gli uomini, vanno a lavare i panni nei rivoli. Quelli più fortunati, in collina, hanno l’acqua pulita. Ma non ci sono fogne, e non c’è chi raccoglie la spazzatura. E a valle, dove vive la maggior parte delle persone, verso un mare che potrebbe fare concorrenza a quelli delle più gettonate isole tropicali, i panni vengono lavati e le pentole riempite in mezzo al pattume, in quegli stessi rivoli dove, qualche centinaio di metri più su, altri hanno gettato gli avanzi del cibo, l’immondizia di casa e anche pulito le latrine. Per bere, i ricchi usano le bibite e l’acqua minerale, che costa più della cocacola. Gli altri comperano l’acqua dai venditori di strada. Sono studenti, di solito, e trasportano sulla testa, sgattaiolando in un traffico di catorci perennemente congestionato e clacsonante, grandi cesti di sacchettini da circa mezzo litro di acqua fresca che viene venduta per pochi spiccioli.
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Bambini portano acqua presa in una discarica di Freetown Sierra Leone 2007. Maso Notarianni ©PeaceReporter
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Proprio vicino al mare c’è uno “stabilimento” dove l’acqua viene imbustata. Decine di donne con grandi mastelli prendono l’acqua che a momenti alterni sgorga dalle tubature dell’acquedotto di Freetown e la filtrano passandola da un mastello a un altro, ricoperto da un telo di stoffa che raccoglie le impurità. Le donne sono capitanate da Josef, il boss. “Faccio questo mestiere da dieci anni - racconta - e la mia acqua è pulita, la compro da Guma (la società che gestisce l’acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere nei sacchetti. Però, anche durante la stagione delle piogge, l’acqua manca spesso”, aggiunge sorridendo tra il rassegnato e il furbo. “Ma da quando ci sono state le elezioni l’acqua c’è sempre, e così anche l’elettricità, dove arriva. E riesco a fare più di quattromila sacchetti al giorno”. Come Josef, sono in molti a puntare sul dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma, il candidato che ha scommesso tutto sulla devastante corruzione del governo che lo aveva preceduto. Con lui si era schierata la società civile di Freetown, a prescindere dai gruppi etnici in cui è normalmente divisa. “Quelli che c’erano prima si sono rubati tutto, speriamo che adesso le cose vadano meglio”, conclude Josef.
n riva al mare, dove un tempo c’era il porto dei pescatori della capitale, nella zona della Kroo Bay, c’è una immensa baraccopoli. Arrivandoci, si viene avvolti da mille profumi - banane mature, pastella fritta, pesce cucinato su improvvisate griglie o fritto - ma anche da mille puzze. Sopra le quali spicca “l’odore” di Escherichia coli, un batterio che, insieme a quello della salmonella e al vibrione del colera, da queste parti non se la deve passar male. Le baracche sono strettissime, addossate l’una all’altra. Salvo nella piazza centrale, dove centinaia di ragazzi si trovano per giocare e fare musica. Mentre si disputano il pallone (il calcio è il gioco nazionale della Sierra Leone) il tramonto disegna i loro muscoli rendendo ancor più inverosimile il contrasto tra il misero e scarso cibo di cui si nutrono, la sporcizia contaminante che da tutta la città cola verso la loro bidonville e i loro fisici da atleti e da modelle. Tra le baracche, proprio sopra un rigagnolo di fogna a cielo aperto, ne salta agli occhi una che per parete ha un sacco di riso arrivato come aiuto umanitario dall’Iraq post-Saddam. Poco più avanti, c’è la casa del dottore. È un medico tradizionale, il dottor Murah, e per arrivarci bisogna superare la diffidenza degli abitanti del quartiere e dei suoi collaboratori. Probabilmente siamo i primi bianchi, whiteman, a essersi spinti fino a casa icino a Waterloo Street (tutte le strade di Freetown portano nomi sua. Prima di essere ricevuti, facciamo in tempo a raggiungere la riva del molto british) scorre uno di questi “fiumi” mare. Andandoci, ci si accorge che gradualmente cittadini. Dalla collina scende ripido, a volte la terra su cui camminiamo si trasforma in spazzaDieci anni di guerra civile dal allo scoperto, a volte entro gigantesche tubature tura. Una enorme discarica a cielo aperto contami1991 al 2001, e la corruzione di cemento. Mano a mano che l’acqua si avvicina nata dai percolati delle fogne e delle discariche che dei governi postbellici, hanno lasciato un paese dalle enormi al mare, è sempre più contaminata. Al punto che, stanno più a monte: la fogna della fogna. Dei maiaricchezze naturali allo stremo. dove ci fermiamo noi, pochi mesi fa la spazzatura li si bagnano nell’acqua salmastra e salmonellosa Due terzi della popolazione ha creato una vera e propria diga, che dopo qualche solo un centinaio di metri più al largo riesce sono scappati in Liberia o in che tempo ha ceduto scaricando sulle poche case ancora a sembrare mare. Ma il movimento che si Guinea. Fino al 2005 il tasso di e sulle molte baracche circostanti tutto il suo nota non è quello dei maiali, che non portano mortalità infantile era il più alto peso. Adesso, intorno a noi stanno piano piano magliette colorate: sono gli abitanti di Kroo Bay del mondo. Oltre il 70 percento ricostruendo, a colpi di cartone e di qualche lamieche vengono fin qui a cercare in mezzo al liquame della popolazione vive sotto la ra trovata in giro, baracche dove vivere. Stride il qualcosa di ancora utilizzabile o vendibile. soglia di povertà contrasto tra le impeccabili divise dei bambini che ell’oscurità della sua baracca, in una stanzetta di due metri per due vanno e vengono da scuola, per ognuna delle quali c’è un colore distintivo, senza finestre e con le porte chiuse, Murah ci mostra con orgoglio i e lo sporco, il fango, l’odore di malattia che si respira. suoi diplomi, rilasciati da diversi ministeri della Sierra Leone e della Proprio davanti a noi, una cascatella dove gli abitanti della zona vengono Liberia. Dietro di lui una raccolta di audiocassette, uno stereo portatile e vari a far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda lungo la main street di questa improvvisata baraccopoli andando a raccogliere le deiezioni dei suoi abistrumenti da “stregone”: pezzi di corno, frammenti di ossa, sacchetti di cuoio tanti e portando il tutto verso l’oceano, verso altre e, se possibile più dall’aria antica. Tutti da queste parti ricorrono alle sue cure, fatte di erbe, cormisere, baracche. tecce e infusi vari. Ma soprattutto fatte di saggi consigli, come bollire l’acqua Al contrario di quel che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, a prima di usarla per qualsiasi cosa abbia a che fare col corpo e allontanarsi Freetown più ci si avvicina al mare e più si sprofonda nella miseria. dalle “case” per fare pipì. “Le malattie più diffuse - spiega Murah - sono quelMa è una miseria strana, quasi felice. Spesso a tempo di musica, certale legate all’intestino e allo stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma anche la mente molto colorata, disperante più che disperata. Colorata come i conmalaria è un problema”. Le statistiche dicono che quasi trecento bambini su tainer che fanno da bar vendendo sacchetti di acqua e bibite a temperamille non arrivano a compiere cinque anni. Ma il sospetto, girando per la capitura ambiente, cioè calde; come i vestiti di donne uomini e bambini; come tale e per la Sierra Leone, è che le statistiche siano davvero impossibili da i sorrisi che ti accolgono ovunque. Sotto la cascatella, un gruppo di ragazfare, e l’entità del problema sia decisamente maggiore. “Molta gente muore zini gioca nel rigagnolo. Una donna ci raggiunge e ci racconta di quando la per le cose più stupide - dice ancora il dottore - e le erbe che raccogliamo in sua casa è stata spazzata via dalla furia dell’acqua. “Nessuno ci aiuta. questa zona non sono più efficaci per le cure. Quando ci sono emergenze Nessuno si occupa di noi. Nessuno si preoccupa del fatto che qui potrebimportanti, mando i pazienti negli ospedali. Ma non molti possono permetterbe essere una strage, se succede un’altra volta che la pattumiera formi si di pagare le medicine, le garze, le bende, o le siringhe. Tutto si paga, anche una diga”. Poco dopo arriva anche un ragazzo. “Sono il responsabile, qui, solo per entrare in ospedale ci vogliono quindicimila leoni”. Sono tre euro o sono il capo. Che volete? Che ci fate? Non si possono fare fotografie”. Ci poco più, ma il guadagno medio delle famiglie non supera i tre-quattromila vuole tutta la pazienza e la calma di Mohamed, per spiegare al gruppo di leoni al giorno. Viene spontaneo chiedersi perché gli abitanti della Sierra ragazzi che ci circonda che non siamo nemici. E che non siamo, come dice Leone debbano pagare per essere curati, soprattutto dopo essere passati lui, “come quelli che negli anni passati venivano, promettevano tutto, dall’ospedale di Emergency, poco distante dalla capitale, un gioiello di efficafacevano un sacco di domande, e poi sparivano”. Quelli erano le Ong e i cia ed efficienza del tutto gratuito. Anche perché gli ospedali e le strutture funzionari Onu. Venivano, studiavano, costruivano sulla carta i progetti, sanitarie sono state pagate con i soldi delle Nazioni Unite. La spiegazione ce se li facevano finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi e le sere sulla strada la fornisce Ibrahim Korona, studente e tassista: “È la politica della Banca che costeggia la bellissima spiaggia di Freetown, ricca, fino a che sono Mondiale, che prevede l’autosostentamento delle strutture. Ma come si può state qui le Nazioni Unite, di ristoranti, night club, bar gestiti perlopiù da pensare che un ospedale possa autosostenersi? Il diritto alla salute non è libanesi, e frequentati da puttane. Noi vogliamo solo raccontare, spieuno dei diritti fondamentali dell’uomo?”. ghiamo. Sperando che qualcuno legga e veda, e magari possa fare qualche cosa per loro. O per tutti gli altri che, come loro, sono stati presi in In alto: La vita nella bidonville di Kroo Bay. In basso: Un’auto dell’Onu giro dagli “aiuti umanitari” delle grandi agenzie e delle Ong miliardarie. sfreccia nelle strade della capitale. Freetown, Sierra Leone 2007. Ma capiamo in fretta che è meglio andarsene. Samuele Pellecchia/Prospekt per PeaceReporter
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Il reportage Russia Marzo 2008
I pupilli dello zar Dal nostro inviato Luca Galassi Viaggio tra i Nashi, la gioventù putiniana. Disciplina, sfoggio di atletismo, patriottismo, esaltazione della famiglia e della procreazione sono i pilastri della loro fede. natoly l’hanno beccato a dicembre alla frontiera con l’Estonia. Voleva fare il soldato vivente. Una vera faccia di bronzo. Si sarebbe introdotto in pullman fino a Pskov, poi cinquanta chilometri in treno fino al confine, trecento fino alla capitale Tallinn, venticinque minuti a piedi dalla stazione al parco Tönismägi e, se fosse stato possibile, in quel momento, oltre alla faccia, avrebbe desiderato avere anche il corpo, di bronzo. L’idea era salire sul piedistallo del soldato sovietico rimosso dalle autorità estoni nell’aprile scorso e sostituirlo. Risultato della (tentata) bravata: trentacinque giorni di prigione, l’espulsione dal Paese e l’interdizione a viaggiare nel territorio dei Paesi aderenti all’accordo di Schengen per un tempo indefinito. Anche Mariana, ventun anni, dovrà dimenticarsi l’Europa, meta ormai da tempo di centinaia di giovani russi che, incuranti dell’anti-occidentalismo del loro ex presidente, trascorrono sulle nevi di Neuchatel o sulle spiagge delle Cicladi le loro vacanze. Le autorità di frontiera finlandesi l’hanno rimandata indietro mentre cercava di raggiungere il Paese baltico. Come Anatoly, Mariana è finita sulla lista nera, persona non grata perché lo scorso anno aveva fatto ‘un po’ troppo casino’. Ma ad essere ingrata, per Mariana e Anatoly, è invece l’Estonia. In un Paese il cui sguardo è sempre più fiduciosamente rivolto al Vecchio Continente, un terzo della popolazione è russa. E la rimozione del soldato, nell’aprile 2007, è stata subìta da loro e dalla loro madrepatria come un’onta, un inaudito affronto alla memoria di chi ha salvato la Madre Russia, e l’Europa tutta, dall’invasione nazista. A Tallinn, per giorni, in centinaia si abbandonarono a furiose proteste nel parco Tönismägi. I disordini culminarono nella morte di un manifestante e in centinaia di feriti. A quasi un anno di distanza, la ferita del soldato rimosso sanguina ancora in Russia. Eppure, anche a Mosca, pochi anni fa, la statua di un militare dell’Armata Rossa venne spostata in un museo. In quell’occasione, però, nessuno protestò. E a chi si domanda il perché, Mariana e Anatoly suggeriscono che ‘oggi il momento storico è diverso. Oggi la Russia è animata da un nuovo, energico fervore patriottico. Uno slancio alimentato soprattutto dall’agonismo del nostro presidente Vladimir Vladimirovic Putin’. È un fatto, dicono i giovani attivisti, che nel corso dei suoi due mandati Putin abbia ridotto l’inflazione, creato nuova ricchezza, incrementato il salario medio di due volte e mezzo, gli investimenti esteri di sette volte, oltre alla promessa di far diventare il Paese una ‘nuova potenza globale’. Come è un fatto, dico io, che a livello diplomatico nessuna azione sia stata intrapresa per agevolare un clima distensivo con i Paesi europei. Gli uffici del British Council sono stati chiusi per ritorsione contro la richiesta britannica di estradare Lugovoi, ex spia del
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Kgb e ora parlamentare della Duma. Gli osservatori europei dell’Osce non hanno monitorato le elezioni politiche del 2 dicembre (e solo una sparuta pattuglia ha partecipato a quelle presidenziali del 2 marzo) perché tanto non c’era niente da monitorare, tanto vaste sarebbero state le frodi elettorali. Infine, cercando di incalzare i due ragazzi, azzardo che la risposta migliore di Putin allo scudo missilistico statunitense nel cuore dell’Europa è preconizzare il rischio di una nuova proliferazione nucleare, ed eventualmente puntare i propri missili sull’Ucraina. È vero, dicono i due cercando di scansare ogni critica. È vero, e il loro volto acerbo si riempie di soddisfazione: perché Putin è stato forte; Putin è stato intelligente; Putin ha saputo confrontarsi alla pari con le grandi potenze. natoly e Mariana sono due Nashi, il movimento dei giovani sostenitori di Putin fondato cinque anni fa. Ora che sul trono presidenziale è salito Medvedev, mi chiedo che ne sarà di Anatoly e Mariana, e delle migliaia di altri giovani che nello zar di tutte le Russie (o almeno di quelle rimaste) avevano visto l’uomo nuovo, e nei Nashi la strada che preludeva a un sogno. O forse, più cinicamente, a un lavoro, a una carriera, alla definitiva emersione da un’insopportabile condizione di anonimato. Per giunta, a gennaio l’ex presidente si è anche portato dietro il loro leader storico, Vassily Yakemnenko, un trentaduenne dai lineamenti regolari, l’altezza inferiore alla media e il corpo compatto di un lottatore. Da quando è stato eletto capo della Commissione statale per i giovani, prebenda ottenuta grazie al lavoro svolto nei tre anni di fedele acquiescenza allo zar, anche il movimento dei Nashi è cambiato. Esaurita la sua funzione di sostegno, negli anni in cui servivano volti e cuori giovani per dar corpo al progetto putiniano di modernizzazione del Paese, l’organizzazione sta oggi cercando nuove strade per rendersi visibile. Non senza fatica. Ma neppure senza nascondere l’abituale predilezione per l’azione eclatante, il colpo di teatro, eventualmente anche lo scontro fisico. Dall’ex presidente hanno mutuato la retorica, diventando un potente mantice per soffiare con forza sul fuoco della propaganda anti-occidentale. Per questo l’Estonia è un bersaglio doppiamente utile allo scopo. Per la storia del soldato. E perché membro dell’Unione Europea. La sede del movimento è un’ex scuola elementare poco distante dallo stadio della Dinamo Mosca. Evgeny, il mio Cicerone, il tecnico informatico dell’organizzazione, è uno dei pochi che parla inglese. Mi spiega il funzio-
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In alto: Mosca, Russia. Alexey Pivovarov/Prospekt. In basso: Manifestazione. Mosca, Russia 2008. Luca Galassi ©PeaceReporter.
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namento di ogni ufficio: la sala stampa, la sala riunioni, la sala ‘analisi’, l’amministrazione. Dappertutto un brulicare di adolescenti. L’età media degli aderenti al movimento è di ventitrè anni. Il nuovo leader di Nashi (che in russo significa ‘i nostri’) si chiama Dimitri Borovikov. Ha ventisei anni, ed evidentemente ancora molta strada da fare prima di poter eguagliare, per popolarità, acume intellettuale e abilità diplomatica, il suo predecessore Yakemenko. Risponde con sorriso sarcastico alle domande. Sa nascondere con volto mite e voce pacata la sua natura di militante inflessibile. Indottrinato come i suoi coetanei a un credo che non lascia alternative. Disciplina, sfoggio di atletismo, patriottismo, esaltazione della famiglia e della procreazione sono i pilastri della fede nashista. Perché si capisse chiaramente che i Nashi sono per la procreazione, all’inizio dell’anno disseminarono la Piazza Rossa di piccole croci, a simboleggiare con forza la loro contrarietà all’aborto. Su ciascuna di esse vi era il nome e il cognome di qualcuno mai venuto al mondo: ‘Nato nel 2006, morto nel 2006’, recitavano le parole scritte sulle croci . ‘Nel nostro Paese gli aborti hanno superato le nascite’, mi sussurra all’orecchio Evgeny, come a suggerire che quello è l’argomento migliore con cui iniziare l’intervista a Borovikov. Ma la mia curiosità è un’altra. Sosterrete Medvedev, ora che Putin non è più Presidente? ‘Veniamo accusati di coltivare un culto per la figura presidenziale – risponde il giovane leader – solo perché crediamo fermamente nella sua politica. Ma per noi è poco importante che a capo dello Stato ci sia Putin, o Medvedev, o Ivanov. Noi abbiamo fede nel nostro Presidente. E crediamo che anche Medvedev seguirà la linea politica di Putin. Per questo lo sosterremo’. Non rischiate un pericoloso isolamento con la vostra campagna di odio contro l’Estonia? ‘Non ci interessa che ci venga vietato l’ingresso nell’Unione Europea. Noi non siamo disposti a dimenticare la memoria dei nostri avi, né della nostra storia. È da qui che bisogna partire, dall’unità della madrepatria, per far diventare la Russia un leader globale del ventunesimo secolo. E poi, non siamo noi a isolarci, è l’Estonia con la sua politica anti-democratica’. La propaganda putiniana deve aver lavorato a dovere nei malleabili intelletti di questi giovani, se è vero che anche ciò che segue la terza domanda è una frase fatta e confezionata, che sembra afferrata di peso da un discorso presidenziale e riproposta in versione junior. Qual è il vostro manifesto politico? Avete una programma, una piattaforma di ideali, di valori? ‘Crediamo nella modernizzazione della Russia, crediamo in un Paese forte, sovrano. Crediamo in una società democratica. Molti ritengono che Nashi sia un’organizzazione politica, e si attende da noi un manifesto politico, ma noi siamo solo un’organizzazione giovanile’. Una società democratica non soffoca le opposizioni, non arresta i loro leader, come accaduto a Kasparov lo scorso anno, o a Kasyanov, a cui è stato impedito di partecipare alla corsa presidenziale con l’accusa che parte delle firme da lui raccolte erano false. Che ne pensa poi delle restrizioni imposte agli osservatori internazionali? ‘Negli Stati Uniti gli osservatori internazionali hanno forse accesso? Sono mai stati invitati? E l’Europa ha mai protestato per questo? L’Unione Europea sta giocando il suo Risiko con la Russia, per questo ci accusa di essere anti-democratici, ma è solo per interesse geopolitico che lo fa. Le elezioni in Russia seguono le leggi dello Stato: Kasyanov voleva presentarsi alle presidenziali con un’organizzazione che non era un partito politico. Per questo è stato escluso. Noi non siamo un Paese anti-democratico. Lo sono alcuni Paesi europei, come per esempio l’Estonia, che viola i diritti umani e i diritti a libere manifestazioni’. E Kasparov? ‘Kasparov è semplicemente un provocatore. È stato arrestato perché è uscito dal percorso concordato con le autorità per la manifestazione. Ripeto: noi non siamo un Paese anti-democratico’. on ho altre domande da rivolgere a Borovikov. Ammaestrato a puntino alla cautela, ad essere elusivo, all’obbedienza incondizionata, a nulla gioverà ricordargli gli episodi in cui il movimento da lui presieduto è stato coinvolto in passato. Nel 2006 i Nashi condussero una violenta campagna contro l’ambasciatore britannico, Tony Brenton, perché aveva parlato a un meeting del partito di opposizione di Garry Kasparov, Altra Russia. Nello stesso anno i Nashi bruciarono davanti al teatro Bolshoi i libri dello scrittore dissidente Vladimir Sorokin, bollandolo come
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pornografia. Nell’aprile 2007 i Nashi diedero il via alle proteste contro l’ambasciata di Estonia, mentre a maggio circondarono e bloccarono le auto degli ambasciatori estone e svedese. Il 2 dicembre, il giorno delle elezioni per il rinnovo della Duma, occuparono i luoghi chiave della capitale per scongiurare il rischio di una rivoluzione arancione. Un rischio inesistente, data l’inconsistenza dei partiti di opposizione e l’assenza, in Russia, di una compiuta società civile. Il movimento dei Nashi annovera tra i dieci e i ventimila adepti. Fu fondato da Yakemenko per contrastare ciò che egli stesso definì ‘il crescente potere dei movimenti fascisti in Russia’. Tra questi movimenti, in un’interpretazione tutta personale del termine ‘fascista’, il leader dei Nashi aveva incluso, in un’intervista rilasciata alla Komsomolskaya Pravda, anche il partito della sinistra liberale ‘Yabloko’. Finanziata ufficialmente da alcune grandi aziende filogovernative, tra cui la Gazprom, secondo molti l’organizzazione dei Nashi riceve direttamente fondi dal Cremlino. Il capo dello staff presidenziale, Vladislav Surkov, uno dei grandi sostenitori dei giovani putiniani, disse in occasione di una visita al campo estivo che si tiene annualmente sul lago Seliger (qualche centinaio di chilometri a nord di Mosca): ‘Siate preparati a disperdere le manifestazioni fasciste. Siate pronti a impedire con la forza che la Costituzione venga rovesciata’ entre mi congedo da Borovikov, Evgeny mi dà appuntamento alla grande manifestazione che si terrà di lì a qualche giorno di fronte all’ufficio della Commissione Europea, in piazza Bolotnaya, tra la Moscova e il canale Vodootvodny. Non mancherò, dico garbatamente, dissimulando a fatica un’espressione distaccata. Piazza Bolotnaya è transennata, e il luogo della manifestazione, individuabile a grande distanza dallo sventolio di centinaia di bandiere rosse e bianche, è presidiato dalla polizia. Un agente mi conduce di fronte al palco attraverso un varco a raggi X, per verificare se non abbia addosso dell’esplosivo. A gruppi ordinati, inquadrati da ‘accompagnatori’ con megafono, decine di ragazzi provenienti da tutta la Russia ascoltano il discorso di Borovikov brandendo cartelloni e agitando bandiere con la croce di Sant’Andrea (simbolo militare russo) a colori invertiti. Molti di loro vestono l’uniforme del soldato sovietico della Seconda guerra mondiale. Gli striscioni recitano slogan retorici (‘Oggi siamo mille, domani saremo un milione’), o battute contro il divieto di viaggiare nei Paesi Schengen (‘L’onore della patria vale più di una vacanza all’estero’). Qualcuno ha il volto dipinto con i colori della bandiera russa, altri indossano giacche a vento rosse o gialle con la scritta ‘Nashi’. Mentre sul palco a Borovikov succede Mariana, la militante fermata al confine con la Finlandia, mi aggiro tra i ragazzi, cercando di raccogliere qualche impressione con l’aiuto di Evgeny, che traduce le mie domande. Chi racconta di essere partito la notte scorsa da Omsk, nella Russia centrale; chi spiega di essere qui per partecipare a una grande festa; chi afferma di preferire Putin a Medvedev. Tutti si agitano, sorridono, gridano. La festa dura solo un’ora. Dopo il discorso e i saluti, gli altoparlanti diffondono la canzone dei Nashi, una melodia facile e orecchiabile come l’inno di una squadra di calcio. Come una scolaresca in gita, ciascun gruppo si mette in riga disciplinatamente, seguendo le indicazioni del capofila col megafono. Si mettono in posa per le foto di rito e, senza fretta, incuranti del vento gelido, tornano al pullman, marciando a passi regolari. Evgeny mi si avvicina, chiedendomi se mi sono divertito. Evito gentilmente di rispondere, e gli chiedo se ha costruito lui il sito del movimento, www.nashi.su. Mi dice di sì, annuendo fieramente. Gli chiedo se nella scelta del dominio non si sia abbandonato a qualche tentazione nostalgica, scegliendo .su (Soviet Union) anziché .ru (Russia). ‘No – risponde – quello è semplicemente un errore tecnico’. Ma lo fa sogghignando, lasciando intendere di sapere che quasi certamente il suo interlocutore non gli crederà.
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In alto: Metropolitana. Mosca, Russia 2008. In basso: Palestra di lotta greco-romana. Nizjniy Tagil, Urali, Russia 2008. Alexey Pivovarov/Prospekt.
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Il reportage Colombia Aprile 2008
Alla sorgente della rivolta Dalla nostra inviata Stella Spinelli Quarantasei anni, magrissimo, folti baffi neri e sguardo vigile. Schivo e sospettoso, sembra di poche parole, ma se decide di aprir bocca ha un’oratoria che incanta. Si chiama Jairo*. l suo castigliano è corretto e fluente, fatto di pause e ricco di metafore, infarcito di dogmatismo, ma anche di esperienze di vita nell’Amazzonia colombiana. Siamo nel cuore del verde Caquetà, la regione meridionale da sempre confine ultimo di civiltà e sicurezza. Da qui in poi, hic sunt leones e guerriglia. Perché è in questa immensa foresta che le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno preso vita, plasmando pensieri e azioni da rivoluzionari al ritmo placido e insistente dei grandi fiumi, le arterie navigabili di una selva meta e rifugio dei fuorilegge, scrigno inespugnabile. È questa, da oltre quarant’anni, la sorgente di quella rivolta armata che mira a sovvertire il potere costituito, considerato causa imperdonabile delle ataviche ingiustizie sociali che costringono la maggior parte dei colombiani a vivere di stenti. È qui la matrice di una rivoluzione che sembra destinata a durare ancora a lungo, nonostante i tentativi veri o presunti di trovare un accordo di pace. “Pace? - chiede divertito Jairo – vi sembriamo vicini alla pace? Guardatevi attorno”. Le piccole strade sterrate che formano le vie di questo agglomerato di case in mezzo al nulla assolato e umido sono zeppe di uomini in mimetica: soldati del battaglione anti-guerriglia che da quattro anni presidiano l’area. Con un blitz militare alla Rambo, nel 2004 invasero la zona, spinsero alla ritirata le Farc e costrinsero intere comunità a sfollare. Da allora, in questo centro urbano per decenni amministrato dal marxismo dei guerriglieri si respira un’atmosfera di estrema contraddizione. “La guerriglia sembra non esserci più, ma che non si illudano, è ovunque e comunque”, ripete metodicamente Jairo, sussurrando. Siamo in zona di guerra, dunque, ma i combattimenti non si vedono. I corpo a corpo fra soldati e guerriglieri avvengono all’ombra viscida della selva, a pochi chilometri da qui, ma lontani abbastanza perché la giungla assorba rumori, odori e morte. Fra le colorate casette in legno del caserío, invece, la battaglia è d’altro tipo: è psicologica, fatta di paziente resistenza alle costanti violazioni dei più basilari diritti civili. È il braccio di ferro fra i militari governativi piombati nella vita di centinaia di famiglie contadine nate e cresciute in territorio Farc. “Hanno militarizzato le nostre vite. È dal 2004 che sopportiamo questa violenza. Ma non è così che conquisteranno le nostre menti. Non è così che espugneranno la zona. Si comportano da occupanti stranieri ed è così che li percepiamo, quindi non ci avranno mai. Solo con innovazioni sociali, coltivazioni alternative a quella della coca, che qui da sempre regna sovrana, le cose cambierebbero. Ma a nessuno dei potenti interessa che le nostre vite migliorino e quindi ci puntano addosso mitra e sguardi di odio. La nostra unica speranza continua a restare la guerriglia”, sbotta ancora il piccolo uomo tutto d’un pezzo. Ragionamenti lampanti, che la dicono lunga: Jairo si è rivelato, è un uomo delle Farc. Non indossa mimetica e tanto meno il kala-
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shnikov. La sua arma è la parola, il suo ruolo mantenere attivi appoggio, convinzione e fede nella rivoluzione. È grazie a uomini come lui che la guerriglia continua a fare proseliti nelle aree rurali di tutto il Paese: “Gli infiltrati sono l’asso nella manica dell’esercito rivoluzionario più longevo del mondo”, gongola il campesino tutto d’un pezzo, parlando in terza persona, quale estremo tentativo di non far saltare la sua labile copertura. “In realtà gli assi sono due, miliziani e narcotraffico”. Una voce arriva improvvisa e blocca lo sfogo del piccolo miliziano. Il fiume in piena di Jairo è deviato bruscamente dall’arrivo del giovane maggiore del battaglione antiguerriglia, che da un mese ha il comando di tutte le operazioni dell’area. Spunta da dietro l’angolo della monumentale chiesa, scortato da un gruppo di uomini armati e composti. Due passi verso di noi e l’uomo Farc cade nel silenzio, poi con una scusa si congeda. Sguardo basso, saluta cordialmente e se ne va. Il maggiore non pare sorpreso. È così che la gente accoglie i militari: con fredda cortesia di facciata. “Lo so che qui ci odiano”, spiega con tono pacato. Vengono da anni e anni di convivenza con gli altri. Per loro siamo occupanti”. Ha una faccia pulita dalla pelle olivastra, occhi e capelli scuri. Il suo sguardo impostato tradisce una non naturale attitudine al comando. È amante dei libri di storia e dei film di Hollywood. A casa ha moglie e una figlia di tre anni. Cerca di tenere in mano le redini dell’assurdo villaggio, sospetta di tutto e di tutti, ha individuato infiltrati e simpatizzanti dei rivoluzionari, compreso il baffuto oratore, ma non ha nessuna prova, quindi fa buon viso a cattivo gioco. Almeno alla luce del sole. ome Jairo non ha perso occasione per elencare le malefatte dell’esercito, così il maggiore Edgar ne approfitta per snocciolare la propaganda anti-rivoluzionaria degna del Presidente Uribe. “Terroristi, ecco cosa sono. Hanno fatto cose che hanno macchiato per sempre la loro stessa natura di esercito del popolo. Ed è solo grazie al controllo sul mercato della coca che sono riusciti a racimolare montagne di soldi per finanziarsi. Qui fino a pochi anni fa era un mercato di pasta di coca a cielo aperto”, precisa scandendo le parole con lenta gestualità della mano destra. “La marea di denaro facile che hanno amministrato ha inquinato le loro menti. Sono tanti i capi Farc che hanno tradito la causa dandosi alla macchia con sacchi pieni di plata revolucionaria, la tassa che le Farc fanno pagare. Sono un branco di corrotti, ormai”. Un monologo che nessuno ha il coraggio di interrompere e che il maggiore osa pronunciare solo perché tutt’intorno non c’è più anima viva, se non i suoi uomini, posizionati in mucchi sparsi. La
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Guerriglieri delle Farc. Selva colombiana 2006. ©Matt Shonfeld
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gente si tiene alla larga. “Non ci mischieremo mai con quelli là”, è la frase che spiega un atteggiamento diffuso, dettato non solo dalla fedeltà alla causa rivoluzionaria, ancora molto radicata nel Caquetà, ma anche dalla necessità di evitare problemi. Chiunque sia sospettato dalla guerriglia di vicinanza con l’esercito rischia grosso. E i miliziani, che tutto sanno, non esitano a denunciare gli “infami”. L’accusa di essere un informatore equivale a una condanna: una volta pronunciata, o scappi o sei morto. “Noi siamo semplici contadini, ma abbiamo le nostre idee politiche – raccontava poco prima un anziano, tenendo banco in un capannello di concittadini riuniti sotto il porticato della sua vecchia casa – siamo comunisti, che male c’è? Questo non fa di noi dei terroristi”. La situazione è profondamente complessa, nessuno spazio per schematiche conclusioni. “Siamo tutti colombiani – spiega il maggiore, gambe larghe, mitra in spalla – eppure sembriamo provenire da pianeti differenti. Questa è la Colombia, un’accozzaglia di gruppi armati, idee divergenti, voglia di riscatto, sete di vendetta. Vivendo a contatto con questa gente provo a solidarizzare con le loro condizioni di vita misere, difficili, ma non capisco come possano pensare che un branco di delinquenti come le Farc siano la via d’uscita a tutto questo. Solo lo Stato può portare cambiamenti sostenibili per mezzo degli investimenti sociali che ha promesso. Le Farc non sono una speranza. E che faccia tosta! Cercare il riconoscimento politico internazionale!” incalza il maggiore rassicurato dalla musica assordante sparata dagli altoparlanti della piazza che isolano la conversazione. “Come possono pretendere lo status di belligeranti quando tengono sequestrati dei civili? Ah, quanto sono lontani ormai dalla loro ideologia. In queste condizioni non possono resistere, perché la gente non li appoggia più come una volta. E la manifestazione del 4 febbraio a Bogotà lo dimostra: in massa per dire basta alle Farc. Una svolta. Politicamente sono tagliati fuori e, dopo il colpo al cuore del loro stato maggiore, anche militarmente traballano”. l militare non usa toni trionfalistici, ma è soddisfatto mentre racconta l’attacco che il suo esercito ha sferrato il primo marzo all’accampamento guerrigliero, uccidendo Raul Reyes, il numero due, la faccia più nota del gruppo rivoluzionario, il loro portavoce. Pondera bene le parole: “Individuarlo e ucciderlo è stata un’impresa eccezionale. Era l’ideologo più intransigente che le Farc abbiano avuto. Cercava uno scambio fra gli ostaggi e i loro camaradas prigionieri nelle carceri di Stato, ma non cedeva di un passo sulle condizioni. Uccidere lui equivale a sbloccare la situazione. Nel bene o nel male. Può anche essere che reagiranno militarmente abbandonando ogni idea di accordo, ma dubito abbiano la forza per farlo. É più probabile, invece, che a lui succeda una persona più aperta. E comunque, dal punto di vista militare, non ha senso analizzare il blitz contro Reyes alla luce della liberazione degli ostaggi. Aver liberato sei civili da anni prigionieri è stato un gesto unilaterale delle Farc che non ha coinvolto il governo. Li hanno sequestrati loro e liberati loro. Militarmente è irrilevante: nessuna strategia distensiva, nessun cessate-il-fuoco” spiega, ascoltato a bocca aperta dal fedele scudiero, un sergente medico affabile e sorridente. “Quello contro Reyes è un grande colpo. E per noi un grande successo. Ma adesso si va avanti”. Poi un accenno alla scottante questione della violazione dei confini ecuadoriani, che ha scatenato una grave crisi internazionale ora rientrata. “I primi a violarli sono i guerriglieri – glissa, mentre il sergente accenna una smorfia di approvazione, guardandosi attorno - Si rifugiano da tempo lungo il rio San Miguel, frontiera naturale con il Putumayo, ma nessuno ha gridato allo scandalo per questo. A me interessa solo il lato pratico, ossia che mai più potranno dire che non abbiamo la forza sufficiente per infliggere gravi colpi al loro Stato maggiore. Le valutazioni politiche le lascio a palazzo Narino. E se dovesse accadere che il Venezuela ci dichiarasse guerra, sarebbe peggio per i venezuelani. Noi siamo abituati da sempre a combattere, loro no. Durerebbero al massimo quattro anni”. È molto convinto della sua analisi, della forza inarrestabile del suo esercito, della fine vicina delle Farc, ma i giovani volti dei soldatini che perlustrano la zona, i loro sguardi ingenui, i sorrisi accennati abbracciati a fucili di ultima generazione, sembrano suggerire un’altra verità. Quell’apparecchiatura sofisticata, il loro addestramento made in Usa (fedele e prezioso partner di Bogotà in questa guerra colombiana), il training psicologico a cui sono stati severamente sottoposti li rendono capaci di sostenere una guerra simile? Qui non ci sono regole. E se la selva
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amazzonica è un vero incubo: campo visivo ridotto a un metro e mezzo, terreno sconnesso, condizioni meteorologiche pessime. Se fra la fitta vegetazione ogni combattimento si trasforma in un corpo a corpo da togliere il fiato, avere la meglio nella selva urbana è anche peggio. Il sospetto è alimentato dall’incertezza, la tensione è nutrita di disagio. In questa terra, la convivenza fra soldato e contadino è improbabile, forzata e non porta a nulla. La gente non è libera in casa propria, sopporta perquisizioni e controlli ogni volta che entra e esce dal villaggio. Deve render conto di quanto riso compra e di quanto platano. Tutto quel che arriva da fuori è ispezionato. Il blocco economico è totale. Senza sgarri. E poi interrogatori continui, inseguimenti. uesta è la percezione dello Stato che si ha negli agglomerati urbani sul rio Caguán. Le poche infrastrutture che ci sono le ha pagate e costruite la guerriglia. Dal governo solo soldati e prepotenza. Nei primi sedici mesi dell’operativo militare, che rientra nel famigerato Plan Patriota adesso passato alla fase Victoria, l’esercito ha assassinato dodici persone, dato alle fiamme ventitré case e minacciato molte famiglie. Bastava il sospetto per scatenare reazioni incontrollate. Adesso, grazie alle denunce fatte dai contadini a associazioni internazionali e alla chiesa cattolica, molto presente nella regione, l’esercito ha scelto un altro modus operandi: più rispetto e qualche investimento economico nel campo di educazione e salute. Che per adesso restano sulla carta, però. “Gli investimenti sociali? Stanno arrivando”, assicura il maggiore. Ma la gente resta scettica. Jairo, nel suo monologo, aveva puntato il dito anche contro questa questione: “Noi diamo un sincero benvenuto a tutto quello che è investimento sociale da parte dello Stato, perché anche questa è Colombia, anche noi paghiamo le tasse, anche noi siamo cittadini colombiani. Però, se c’è una struttura civile come il Comune messa lì per amministrare e coordinare, perché questi progetti statali stanno arrivando solo per mezzo dei militari? Qual è il vero scopo? Forse ripulire la loro reputazione? Trasformare i carnefici in benefattori?”. Incalzato su questo tema, il giovane maggiore mostra un po’ di imbarazzo, ma non si tira indietro: “In effetti abbiamo fatto molti sbagli, lo ammetto. Molti miei commilitoni si sono comportati male con la gente. Hanno usato violenza, mostrato aggressività. Ma stiamo cambiando e teniamo più in conto i diritti umani. O per lo meno sappiamo cosa sono. Prima c’era molta ignoranza anche fra i militari”. Poi il rumore di un elicottero spegne le sue parole. È in zona per consegnare i rifornimenti alla miriade di soldati sparsi nell’area. Il maggiore sente il richiamo del dovere. Sparisce in una nuvola di afa e mimetiche. E torniamo a essere circondati da bambini curiosi, in mutande e canottiera, e gente perplessa. “Correte correte! È arrivata la pappa”, grida ridendo sonoramente Jairo, tenendo in braccio un bambino spettinato e sorridente. Paziente, ha atteso a dovuta distanza la partenza dei militari e ora si avvicina, passo sicuro: “Li vedo molto più tronfi da quando hanno ucciso Raul. Non si rendono conto che cambierà molto poco” afferma, serio, posando a terra il piccolo Luis. “A livello nazionale e internazionale si crede che le Farc siano un movimento comandato da un gruppo ristretto di persone: fatte fuori quelle, fatte fuori le Farc. Ma non è così. La forza della guerriglia sta nella base e nell’obiettivo: la presa del potere per una Colombia più giusta. La lotta prosegue, nonostante la perdita di un grande capo”. Abbassa lo sguardo, sospira, riprende: “Bogotà finge di non sapere che l’unica via certa per la pace è una seria politica di investimenti sociali, che pongano fine alle disuguaglianze disumane che piagano il nostro Paese. Se il diritto alla salute, all’educazione, alla dignità civile di ogni colombiano venisse finalmente garantito verrebbe meno la ragion d’essere della guerriglia. Ma è una politica che non lascia spazio alle avidità e agli interessi personali, quindi mai verrà perseguita. E la guerra continuerà”. Il sole amazzonico acceca, martella e impedisce di andare oltre. Le verità restano plurime, quaggiù più che mai: non rimane che ascoltare e percepire. Impossibile capire. Unica certezza, l’incerto. Unica regola, fare attenzione a come si parla e con chi: ésta es Colombia.
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* Per motivi di sicurezza tutti i nomi usati in questo reportage sono di fantasia. La divisione antiguerriglia dell’esercito colombiano in azione nella Selva amazzonica. Colombia 2008. ©Cristiano Bendinelli
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Il reportage Israele Maggio 2008
Le sirene di Sderot Dal nostro inviato Naoki Tomasini Ci sono luoghi che occupano più spazio tra le pagine dei quotidiani che sulle carte geografiche. Sono animati da ideali e pregiudizi, oltre che da persone in carne e ossa, che sopravvivono, sospese tra la desolazione frontaliera e il clamore delle news. Sderot è così. Un posto di confine a ridosso della Striscia di Gaza, un paese senza vita, oggi noto alle cronache perché bersaglio dei razzi Qassam, sparati dai miliziani palestinesi. asso e muscoloso, lunghi capelli rossi legati dietro la nuca, Noham Bedein si considera un attivista. Si prodiga per fare conoscere al mondo le sofferenze della popolazione di Sderot, il piccolo villaggio nel sud di Israele, a una manciata di chilometri dalla Striscia di Gaza, dove si è trasferito da un anno e mezzo. Ha studiato comunicazione al college di Sderot e ha deciso di mettere in pratica i suoi studi per spiegare al mondo cosa si prova a vivere sotto la minaccia dei razzi. “In qualunque punto della città ti trovi - spiega - qualsiasi cosa tu stia facendo, quando suona la sirena del codice rosso sai di avere solo venti secondi per metterti al riparo prima di sentire un’esplosione. Ho fissa in mente l’immagine di quel padre in un parco con i suoi due figli che non sapeva quale proteggere per primo. E il ricordo dei momenti immediatamente successivi, quando tutti si attaccano al telefono per sapere se amici e parenti stanno bene”. Il potenziale letale dei razzi provenienti dalla Striscia non è elevato, non è paragonabile con l’efficacia delle munizioni che l’artiglieria di Tsahal, l’esercito israeliano, spara verso i sobborghi di Gaza. Ma Noam spiega che proprio per questo la tragedia degli abitanti di Sderot non viene compresa. “I media vogliono solo sangue - dice - qui abbiano un numero di vittime relativamente basso, circa dodici dal 2001, ma ogni persona che abita qui ha avuto delle perdite o dei traumi. Il problema è questo: come si fa a comunicare la sofferenza psicologica? Non esiste altro posto al mondo dove la popolazione civile viene presa di mira da razzi che vengono sparati da aree che sono a loro volta abitate al novantasette percento da civili”. Il lancio dei razzi Qassam verso il sud di Israele, e Sderot in particolare, viene usato dal governo come pretesto per colpire le zone di Gaza da cui sono partiti. Eppure, secondo Noam, anche questo si ritorce contro la sua gente: “Quando viene colpito un quartiere di Gaza muoiono tanti civili e i media se ne occupano. È più facile parlare delle vittime palestinesi che raccontare le storie umane della gente che vive qui. È questo lo scopo dei Qassam: colpire sì, ma anche traumatizzare”. Quando un razzo viene sparato, il suo rumore viene colto da una sonda attaccata ad un pallone aerostatico che volteggia sopra il confine con la Striscia di Gaza. Il sistema dirama l’allarme, la sirena suona il codice rosso, e venti secondi dopo c’è lo schianto. I primi razzi sono caduti su questa zona periferica di Israele nel 2001, da allora ne sono stati sparati oltre ottomila, quattromila dei quali solo negli ultimi tre anni. I razzi Qassam prendono il nome da un “pioniere” della resistenza palestinese, Ezzedeen Al Qassam, ucciso nel 1933 a Jenin. Sono una via di mezzo tra un missile e un fuoco artificiale: breve gittata, nessun contenuto esplosivo e una scarsissima precisione balistica. È quasi impossibile prevedere dove cadranno, vengono sparati puntando verso il territorio israeliano, ma sono caduti anche su abitazioni palestinesi. Noam spiega come, a dispetto della relativa pericolosità dei razzi, la dimensione della minaccia sia molto estesa: “Sderot ha poco meno di ventimila abitanti, ma i razzi colpiscono tutto il
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Negev occidentale, che di abitanti ne conta quarantacinquemila. I nuovi Qassam e i Kathyusha che sono stati sparati recentemente hanno dimostrato di poter raggiungere anche la città di Ashkelon, il che porta il numero delle persone minacciate a duecentocinquantamila. E Hamas non smette di perfezionare le sue armi. Presto sarà in grado di colpire anche Ashdod, a trenta chilometri dalla Striscia. A quel punto gli israeliani minacciati saranno mezzo milione. Israele celebra i suoi sessant’anni di vita e si trova nella situazione senza precedenti di essere vulnerabile al fuoco dei razzi, sia da sud, dalla Striscia di Gaza, che da nord, al confine con il Libano, dove anche Hezbollah si sta riarmando”. ino a un paio di anni fa gli abitanti di questa città lamentavano il disinteresse del governo e dei media verso di loro, ma oggi Sderot è diventata un simbolo del diritto, o della pretesa, di Israele a vivere una vita normale, anche a pochi chilometri da un territorio dove vivono un milione e mezzo di palestinesi in condizioni di indigenza. “Viviamo fianco a fianco con ventimila miliziani di Hamas, ma anche di Hezbollah e Al Qaeda. Ogni professionista del terrorismo vive nella Striscia di Gaza, dove entrano tonnellate di munizioni ed esplosivi”. Dall’impeto oratorio di Noam si capisce che per lui vivere a Sderot è una missione eroica, ma a giudicare dall’espressione delle persone che camminano sole per la strada, passo lento e sguardo vitreo, questa vocazione non sembra essere molto condivisa. Per le strade si incontrano in prevalenza russi ed etiopi, la comunità è stata fondata nel 1951 da immigrati ebrei provenienti da paesi del nordafrica come il Marocco. “Sderot è un doppio vantaggio per il governo” spiega Dimitri, giornalista del quotidiano conservatore israeliano Jerusalem Post. “Perché è un luogo dove mandare gli immigrati di seconda classe, come appunto gli etiopi e i più poveri tra quelli provenienti dalle ex repubbliche sovietiche, per presidiare il territorio. E perché gli attacchi dei palestinesi contro di loro sono un’ottima ragione per perseguire l’escalation militare e un pretesto per definire i bombardamenti sulla Striscia di Gaza ritorsioni contro Hamas”. Un baluardo della resistenza israeliana oppure un’esca per i miliziani palestinesi? Sderot è una questione di orizzonti. Di fronte a questo scenario, quello che viene da chiedersi è: perchè i cittadini di Sderot non se ne vanno a cercare una vita normale altrove? Le spiegazioni sono due: una vale per gli immigrati che sono venuti qui negli ultimi decenni, l’altra per la gente come Noam. Per i primi si tratta di un problema economico, sono qui per godere di agevolazioni fiscali e prezzi inferiori alle grandi città, ma da quando i razzi hanno iniziato a cadere il valore dei loro immobili è crollato del cinquanta percento. Sono bloccati prima di tutto perché non riescono a vendere o ad affittare le loro case: “Chi vuoi che se lo
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In alto e in basso: Alla centrale di polizia, il deposito di razzi Qassam. Israele, 2008 Naoki Tomasini ©PeaceReporter
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compri oggi un appartamento a Sderot?” Si inserisce nella conversazione un signore di origini russe, uno dei pochi che sembra comprendere l’inglese. “Nel condominio dove vivo - continua - ogni giorno al calar del sole ci chiudiamo nella tromba delle scale o nelle stanze blindate senza finestre. Credi che non ce ne andremmo se potessimo permettercelo?”. La maggior parte degli abitanti di Sderot è vittima di una situazione che non ha scelto. Per altri, invece, si tratta di difendere l’interesse nazionale: “Il nostro è il punto di vista sionista” spiega Noam, parlando di quanti sono venuti a vivere a Sderot per un progetto preciso. “Ci sono alcune decine di famiglie che vivono qui anche a costo di mettere a rischio le vite dei loro bambini. Perché hanno capito che, se oggi abbandoniamo questa cittadina, tra poco tempo i razzi inizieranno a cadere sulla successiva, e così via”. e persone che vivono a Sderot per sostenere il sionismo sono un’esigua minoranza. Vivono al confine del territorio israeliano con lo stesso spirito dei coloni che costruiscono avamposti nel cuore della Cisgiordania, in mezzo ai villaggi palestinesi, perché ritengono di avere un diritto su quella terra e i mezzi e il dovere di difendere la presenza ebraica in quelle aree. “Loro (gli arabi, ndr.) vogliono cacciarci via. Noi vogliamo restare, la storia è tutta qui” dichiara sprezzante un uomo che, passando in bicicletta, coglie alcuni frammenti del discorso. “Non ha alcuna importanza se abbiamo il diritto di abitare questa terra o no. Siamo qui e non abbiamo un altro posto dove andare. Prima di arrivare in Israele ero un clandestino in Gran Bretagna, poi sono venuto nell’unico paese dove posso essere accettato. Ho comprato casa a Sderot e non potrei vivere altrove. Vivo nella paura, ma Tel Aviv costa il triplo, se vivessi lì morirei a causa delle banche, non dei Qassam. Almeno da quelli hai venti secondi per fuggire, mentre con le banche non hai il tempo di metterti al riparo, ti pignorano la casa e in un attimo ti ritrovi per strada”. La riflessione sul significato di quel che accade a Sderot deve tornare allora indietro di due passi: ci sono ventimila persone che vivono una condizione di disagio permanente per contribuire, volenti o nolenti, al “progetto sionista”. Che cosa fa il governo per aiutarli? Secondo molti di loro quasi nulla. I rifugi anti-razzo che si trovano in ogni angolo della città, vicino ai parchi, alle fermate dei bus, nelle scuole e nei condomini, sono stati costruiti a spese della municipalità e di donatori privati. Anche le strutture che sostengono le vittime dei razzi sono pagate dalla comunità. “Il governo non ci dà soldi e nemmeno la politica ci considera”, si lamenta Noam, che punta il dito contro Nazioni Unite e Usa, colpevoli di “impedire a Israele di fare quel che è giusto: colpire i terroristi di Gaza”. Durante la sua ultima visita in Israele il presidente Usa, George W. Bush, qui non si è visto, ma negli ultimi mesi i politici di primo piano che hanno visitato questo luogo di frontiera sono stati numerosi, da John Mc Cain fino a Jimmy Carter. Visite che formalmente dovrebbero esprimere solidarietà con la popolazione, ma, nel disilluso mondo della real politik, servono ad accreditarsi verso il proprio elettorato all’estero come un amico di Israele. Il luogo di pellegrinaggio principale per le rappresentanze politiche in visita è la centrale di polizia, dove sono accatastati i resti di alcune centinaia di razzi caduti attorno all’abitato. Nel cortile interno c’è un istruttore tarchiato, stretto nella t-shirt dell’esercito, che istruisce le reclute sulle armi del nemico: “Quelli sono Qassam di tipo I -spiega - mentre questo che vedete ora è un Qassam IV, lungo quasi due metri e con una gittata maggiore. Lì potete vedere un razzo Quds, la versione artigianale dei Grad di fabbricazione sovietica, e quest’altro invece si chiama Arafat. Si riesce anche a capire chi li ha lanciati, perchè prima di sparare i miliziani ci scrivono sopra il nome del loro gruppo con gessetti colorati”. In tutti i casi si tratta di tubi di metallo arrugginito che, non essendo dotati di carica esplosiva, si sono accartocciati dopo l’impatto. I soldati non sembrano particolarmente suggestionati, ma si guardano bene dal mostrare sollievo: a Sderot i Qassam sono una cosa seria.
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entre i visitatori stranieri si intrattengono manggiando quei tubi torti e sfrangiati, gli abitanti del villaggio compiono un diverso pellegrinaggio. Ogni giorno decine di persone bussano alla porta del Trauma Center, la struttura dove si offre sostegno psicologico ai cittadini stressati, esauriti, traumatizzati e depressi. La sala d’aspetto è spoglia, all’interno passeggia una giovanissima guardia armata e sulle seggiole
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attendono, occhi a terra, un paio di donne sulla cinquantina. Sopra le loro teste un televisore manda le immagini delle sedute di terapia collettiva, dove altre donne come loro danzano con in vita le cinture a sonagli che si usano per la danza del ventre. Sul loro viso vissuto, la voglia di concedersi all’illusione dell’infanzia, almeno per un po’. La direttrice del centro è la dottoressa Adriana Katz, immigrata dall’Italia alla fine degli anni Ottanta, e oggi impegnata a lenire le sofferenze degli abitanti di Sderot. La donna non si fà illusioni e senza esitazione dice: “Questo è un paese di morti viventi. La gente di qui non è afflitta dalla nota sindrome Ptsd, Disordine da Stress Post Traumatico. I sintomi sono gli stessi: insonnia, ansia, apatia, dolori psicosomatici, ma è il post che non arriva mai. Qui la tensione non si esaurisce, uno può anche trarre sollievo dalla cura, ma non si può pensare a un recupero psicologico se dovrà continuare a vivere con le orecchie tese alle sirene”. Racconta che i pazienti del centro sono aumentati esponenzialmente dal 2005, alcuni hanno davvero bisogno di cure, altri solo di sentirsi meno abbandonati. “Tra le vittime più paradossali di questa situazione” rivela, “ci sono alcuni pazienti palestinesi: si tratta di persone che hanno collaborato con Israele e non possono più vivere a Gaza. Come premio per il tradimento della loro gente, hanno ricevuto la residenza a Sderot, così si trovano a vivere in una comunità che li esclude, minacciati dai razzi sparati dai miliziani palestinesi. Per loro il trauma è doppio: si rivolgono al nostro centro sia quando cadono razzi su Sderot, che quando l’esericito israeliano bombarda i quartieri di Gaza dove ancora vivono i loro familiari”. La dottoressa Katz si sente vicina anche alla popolazione palestinese di Gaza. Con cui, ricorda, un tempo c’erano rapporti di scambio commerciale e anche relazioni umane. Oggi non è più così. Oltre la recinzione al confine, gli abitanti di Sderot vedono migliaia di terroristi che si fanno scudo dei civili, mentre dall’altra parte, nei quartieri di Gaza city, si vive troppo male per provare empatia per la miseria degli israeliani costretti a Sderot. Anche Julia e Naj dicono di comprendere la sofferenza che spinge i palestinesi a lanciare i razzi. Sono due studentesse sulla ventina, una è di origini russe, l’altra marocchine, ma entrambe si sentono israeliane e basta. “Non è una cosa bella essere assuefatte agli allarmi, ma chi non si abitua impazzisce” spiegano, mentre salgono su un autobus. “Il pericolo c’è - dice Julia - ma qui il vero problema è la mancanza di lavoro e di opportunità per i giovani”. “Ci sentiamo abbandonati - l’interrompe Naji - perché i politici vengono qui solo per farsi vedere, ma poi non fanno l’unica cosa che potrebbe metterci al sicuro: una pace vera con i palestinesi”. Le due ragazze sono dirette ad Ashkelon, la città sulla costa che secondo i media internazionali sarebbe entrata nel raggio di azione dei razzi palestinesi. In questo caso la minaccia non si chiama Qassam, ma Kathyusha, i razzi usati anche da Hezbollah in Libano. Il primo è caduto sulla città nell’ottobre 2007, seguito nei mesi scorsi da alcuni altri che non hanno causato vittime ma solo feriti leggeri e persone sotto choc. Ad Ashkelon, però, il senso di oppressione e minaccia che affligge la gente di Sderot non è arrivato. Non ci sono rifugi anti-razzo a ogni angolo di strada, anzi non se ne vede traccia. Le mamme giocano nei parchi con i figli e le coppiette si bagnano nell’acqua ancora fredda del Mediterraneo. Uno scenario da località di vacanze quale effettimamente è, anche se, spiega un venditore di bibite accanto alla spiaggia, “il turismo risentirà certamente di questa minaccia di cui parlano i giornali”. sud della città, verso il confine con la Striscia, c’è una base militare. Un avamposto dell’esercito contro la minaccia dei razzi? Non esattamente. È il Centro per la Ricreazione e il Riposo dei Soldati, che dopo un anno di missioni di combattimento vengono a riposare ad Ashkelon, in quella che sarebbe la nuova frontiera del terrorismo palestinese. In costume da bagno e infradito, passeggiano sul letto di conchiglie della battigia, tra il rumore delle onde e quello delle loro risate. Loro non sembrano molto stressati.
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In alto: Il confine con Gaza: postazione militare e la sonda antirazzo In mezzo: Il parcogiochi di Sderot e l’interno del rifugio In basso: Ashkelon, parco giochi e spiaggia riservata ai militari Israele, 2008. Naoki Tomasini©PeaceReporter
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Il reportage Kurdistan Gennaio 2009
Il fronte settentrionale Dal nostro inviato Christian Elia Suleimanya è un incubo. Un carosello impazzito di auto, clacson e smog, si avviluppa senza posa, dall'alba al tramonto, per le strade della città dell'Iraq settentrionale. nche se sarebbe più corretto dire città curda, meglio ancora cantiere. E' tutto un costruire, ristrutturare, decorare in un trionfo di Made in China. Il palazzo del governatore di Suleimanya è uguale agli altri: ex palazzo dei tempi del regime, è stato occupato dai nuovi padroni, l'alleanza tra Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) e Partito Democratico del Kurdistan (Pdk). Dopo il 1991 hanno combattuto tra loro, poi hanno capito che il potere è meglio spartirselo. Il governatore Dana Ahmed Majed riceve in uno studio lungo e largo. Faccia da duro, è uno che ha combattuto ai tempi della guerra tra Pdk e Puk. Adesso si gusta il potere, vestito con cura, mentre sul computer alle sue spalle passa una presentazione della Suleimanya che verrà, molto lontana dalla realtà, che è fatta di corruzione e familismo. L'unico problema sembra questo Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) che non ne vuol sapere di deporre le armi. Da un anno, l'aviazione turca bombarda i Monti Qandil, nei pressi del confine tra Iraq, Turchia e Iran. ''Se io arrivo in Danimarca, tanto per fare un esempio, armato fino ai denti, secondo lei cosa mi fanno? Mi arrestano! Le democrazie moderne fanno così. Questa gente non può rimanere qui e continuare la lotta armata'', dice Majed. Per la grande maggioranza della popolazione del Kurdistan iracheno, però, i guerriglieri curdi sono degli eroi. ''E' diverso'', risponde con un sorriso tagliente sotto i baffi curati, ''noi non andavamo all'estero a combattere. Lo facevamo in Iraq. Adesso poi, dopo quello che noi curdi abbiamo ottenuto qui, è assurdo non capire che l'unica strada per la libertà è la democrazia. Non dico che li cacceremo via, ma se non la smettono dovremo intervenire per disarmarli''. Non la pensano tutti così. Mola Bakhtyar è un mito per i curdi iracheni. Ha guidato i suoi uomini all'inseguimento delle truppe di Saddam in fuga verso Baghdad nel 2003. Adesso, anche lui in giacca e cravatta, si occupa dell'ufficio politico del Puk. ''Abbiamo fatto tanto per avere delle leggi che ci tutelassero...adesso dobbiamo rispettarle'', ammonisce Bakhtyar. ''Abbiamo già troppe macerie per continuare a distruggere. E' il momento di costruire, in primo luogo con i Paesi vicini. La Turchia e l'Iran, certo. Anche loro. Il Pkk deve capire che va lasciata strada alla diplomazia internazionale, anche se la Turchia non deve più passare in armi il confine come ha fatto l'estate scorsa'', dice l'ex guerrigliero. ''La strada è nota: la democrazia. Ma vale per tutti. Se non andasse così, beh...non esiterei un attimo a riprendere il fucile e a tornare in montagna. Quello che bisogna evitare è un conflitto intestino al mondo curdo. Il nostro popolo non capirebbe''. Lasciando la città, direzione nord, si cominciano a intravedere le prime alture. L'anima del Kurdistan, dove la gente è legata a doppio filo alle sagome dei suoi monti, spesso rivelatisi un rifugio sicuro dalle repressioni del passato e del presente. La strada verso i monti Qandil si colora di verde, mentre il profilo del monte Titano segna uno spartiacque tra l'anima urbana e quella rurale della società curda. ''Sembra una donna stesa, vedi? Il naso, la bocca, il seno'', sottolinea Kawa, il giornalista curdo che ci accompagna. La strada si complica: sempre meno asfalto, sempre meno case. A Rania si cambia auto. Un vecchia jeep arriva scricchiolando. Scendono due uomini: saranno loro a portarci sui monti Qandil, per incontrare i guerriglieri. Non solo quelli del Pkk, ma anche quelli del Partito per una Vita Libera in
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Kurdistan (Pjak), il gruppo di curdi iraniani nato nel 2004. Uno tarchiato, l'altro smilzo e secco. Sorrisi e strette di mano. Senza il kalashnikov, uno si sentirebbe a casa. Dopo i primi chilometri di silenzio é la musica a rompere il ghiaccio. ''E' un canto della guerriglia'', risponde il guidatore. L'aspetto più ironico della vicenda è che entrambi gli accompagnatori sono del Puk, ma il Pkk non lo vedono affatto come un nemico. ''Non potremmo mai prendere le armi contro i nostri fratelli''. In lontananza un check-point dei governativi. Ci fanno scendere. L'autista passa al posto di controllo, mentre l'altro fa da guida lungo un fiumiciattolo che passa alle spalle del posto di blocco. Il governo del Kurdistan iracheno non vede di buon occhio chi si reca sui monti Qandil. Dopo il passo la strada diventa sempre più impervia. Gli unici abitanti sono pastori. In prossimità di una roccia che si alza verso il cielo come un dito inquisitore, l'autista annuncia: ''Questa pietra segna il confine tra la zona sotto controllo dei partiti curdi iracheni e il Pkk''. Un confine che esiste solo nelle scelte politiche che ormai allontanano la leadership curdo-irachena dal Pkk. Ma che non esiste nella mente dei curdi, che abbatterebbero con ogni mezzo i confini che li sparpagliano in quattro stati da cento anni. n lontananza spunta il volto di Abdullah Ocalan. Apo, per tutti i curdi. Un ritratto enorme, adagiato sul fianco di una montagna. ''I turchi l'hanno bombardato qualche giorno fa'', racconta divertita la guida, ''dopo qualche giorno era di nuovo al suo posto. Li provochiamo!''. Dopo ore di sassi, sterrati e strade impervie, spunta un altro check-point. Questa volta con la bandiera del Pkk. ''Ci dovete consegnare i cellulari. Vi verranno restituiti al ritorno'', annuncia il capo posto, un omone grande e grosso con due baffi enormi. Le divise stazzonate, le radio tenute in vita da pile legate con del nastro adesivo, la guardiola fatta di mattoni raffazzonati, ma il check-point rende un'idea di efficacia. Un guerrigliero più giovane ci consegna, in cambio dei telefoni, una ricevuta spiegazzata. Arriva un camioncino. Si parte a velocità sostenuta, ci sono quattro miliziani. Due di loro sono donne. Ridono e scherzano. Poco dopo ecco una fattoria, dove tutta la famiglia viene fuori per salutare gli ospiti. ''Siete ospiti nostri e della famiglia di Ibrahim. Tra un po' torneremo per fare quattro chiacchiere''. Comincia il rito del tè e degli sguardi incuriositi dei bimbi di casa, mentre solo un miliziano resta di guardia. Tutt'intorno recinti dove sono ricoverati gli animali, muretti a secco e prati verdi. Le montagne come una corona. ''Viviamo bene qui, non ci manca niente'', racconta Ibrahim, ''ho un piccolo spaccio e le bestie ci danno quello che ci serve. Ma da quando sono iniziati i bombardamenti, a dicembre dello scorso anno, non viviamo più. Tante famiglie sono scappate, centinaia. E adesso vivono da profughe a Rania. Nessuno fa nulla per loro, il governo se ne frega. Fanno fare alla Turchia tutto quello che vuole, fregandosene dei curdi in Turchia, solo il Pkk ci difende!''. Una famiglia di guerriglieri? ''Macché, siamo poveri contadini''. Poco dopo arriva un altro mezzo, con gli stessi
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In alto: Check point controllato dal Pkk sui monti Qandil. In basso: Awal Rotinda, guerrigliera del Pkk sui monti Qandil. Foto di Naoki Tomasini ©PeaceReporter
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uomini a bordo. Solo che questa volta con loro c'è un miliziano più anziano. ''Awal Denis'', si presenta stingendo la mano con presa d'acciaio. ''Essere awal è più importante anche dell'essere fratello e sorella'', spiega Denis. ''Significa compagno, essere awal significa mettere l'uno la vita nelle mani dell'altro. Non ci sono cognomi qui, siamo tutti awal''. Anche per tenere al sicuro le famiglie dei guerriglieri. Comincia un garbato e serrato interrogatorio. Awal Denis vuol sapere tutto dei suoi interlocutori. ''D'accordo, aspettate qui e vi verremo a trovare noi. Venire voi con noi? Non è possibile, tra un bombardamento e l'altro siamo sempre in movimento. La situazione è pericolosa, non permetteremmo mai che vi accadesse qualcosa. Darebbero subito la colpa a noi!'', conclude con un sorriso gelido. a televisione è sintonizzata su uno dei tanti canali satellitari curdi. L'argomento del giorno è uno solo: le manifestazioni in tutta Europa delle comunità curde per la denuncia degli avvocati di Ocalan. Il leader sarebbe stato torturato nell'isola-fortezza di Imrali, in Turchia, dove si trova rinchiuso dal 1999. Nessuno fiata. Ormai è scesa la notte, ma all'improvviso spuntano i fari di un paio di pick-up. Ibrahim salta fuori, per ricevere gli ospiti. Sono awal Bryar e awal Agri, rispettivamente delegato politico e delegato militare del comitato centrale del Pjak. ''Il Pjak è nato nel 2004. Il suo congresso ha eletto sette delegati al comitato centrale, che coordina tutte le attività del movimento. Politiche, militari e sociali'', spiega awal Bryar, occhialetti da intellettuale e baffoni neri, seduto per terra con le gambe incrociate. ''Vi chiedete perché proprio il 2004? Secondo molti – spiega il dirigente del Pjak – la nascita del nostro gruppo è legata all'invasione dell'Iraq. Gli Usa si servirebbero di noi per destabilizzare il regime iraniano. Non è così! Non siamo mai stati finanziati da Washington e non lo accetteremmo mai. Gli Usa, insieme a Israele, forniscono i droni (aerei senza pilota) che individuano i movimenti dei guerriglieri del Pkk e del Pjak sulle montagne. Passano i dati alla Turchia che bombarda la nostra gente. Potremmo mai allearci con loro? Questa è la versione del governo di Teheran, che ha tutto l'interesse a mostrarci come agenti al soldo di una potenza nemica'', dice awal Bryar, aggiustandosi gli occhialetti e non alzando mai la voce. ''Il 2004 ha segnato solo il compimento di un lungo processo di presa di coscienza del popolo curdo in Iran. Noi subiamo, come tutte le altre minoranze iraniane, la repressione del centralismo persiano da decenni. Ahmadinejad non è che l'ultimo passaggio'', spiega il guerrigliero. ''Solo che, dopo l'invasione dell'Iraq e la sostanziale indipendenza del Kurdistan iracheno, gli stati confinanti hanno avuto paura di un effetto domino tra i curdi dei loro Paesi. E hanno incrementato la repressione. L'autodifesa è stata un passaggio necessario. Molti di noi avevano combattuto per anni nelle file del Pkk e l'arresto di Ocalan ha spinto tanti giovani verso la lotta armata. La repressione in Iran ha fatto il resto'', conclude Bryar, spegnendo la centesima sigaretta e sorseggiando l'ennesimo tè. Agri, il delegato militare, annuisce per tutto il tempo. La postura a gambe incrociate è una sofferenza per il suo fisico massiccio. ''La strategia della Turchia e dell'Iran è chiara: vogliono militarizzare la zona al confine, spingendo la popolazione civile ad abbandonare la regione. Per toglierci il nostro supporto vitale: la nostra gente. Per questo motivo bombardano e costruiscono il muro al posto di frontiera di Haji Omran, al confine tra Iran e Iraq. Queste operazioni non hanno alcun risultato pratico: spingono solo la gente ad andar via''. La mattina dopo, di buon ora, le montagne Qandil sono avvolte da una fitta foschia. Il muro risalta nel grigiore generale con i suoi paletti rossi. Una barriera di cemento per un tratto, una rete metallica per la parte ancora in costruzione. Non più di cinque chilometri, per il momento. Ma gru e betoniere dimostrano che non sono finiti i lavori. ''Dovete fare in fretta, abbiamo pochi minuti'', dice Sidwar, la guida. ''Vedete quella base militare? Ci sono gli americani, là dentro. A poche centinaia di metri dal confine con l'Iran...si possono guardare negli occhi''. Una strada sterrata e contorta conduce a Lawji, minuscolo villaggio devastato dai bombardamenti. ''Ecco gli obiettivi militari dei turchi!'', esclama awal Roj, che si aggira tra le macerie, scalciando pezzi di un letto e il telaio di una finestra. La scena è desolante: un asino si aggira solitario tra quel che resta di case abitate da persone come tante. Un cd, una mappa, un libro di scuola. Tutto quello che resta di abitazioni innocue. Un cratere
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segna il punto dove è caduta una bomba. Schegge di un razzo, taglienti come lame, sono ancora ben visibili. Porte e finestre contorte, spinte in una posa innaturale verso l'interno. Come se un vento cattivo si fosse accanito, senza pietà, su quelle costruzioni. Tra le macerie awal Roj lascia un mazzetto di fiori. Con un bigliettino. ''Lo lasciamo in ogni casa distrutta. C'è scritto un vecchio proverbio curdo che dice 'il lupo è lupo quando ha il coraggio di combattere con un lupo, non quando combatte un agnello'. Questo è quello che pensiamo dei turchi''. Dal villaggio bombardato si torna indietro. Verso le linee sicure per i guerriglieri. Una piccola radura, un circolo di pick-up. l centro del cerchio awal Bozan. Basta uno sguardo azzurro ghiaccio perché i miliziani attorno a lui si muovano all'istante. Alto e robusto, capelli sale e pepe. Sorriso aperto, ma non caldo. ''Non amo parlare di me e del mio passato'', dice secco, ''vi dico solo che sono nel Pkk da diciotto anni e sono il vice comandante del Kck. Il Kck è un sistema al quale fanno riferimento tutte le organizzazioni curde: militari, politiche, sociali, economiche. Ha un compito di coordinamento, ma ciascun gruppo è libero di decidere. Questo è importante, perché rispetta il principio del nostro leader Ocalan: l'emancipazione dei singoli per il bene collettivo''. Quindi il Pjak ha aperto un secondo fronte sulle montagne Qandil, riuscendo a mettere d'accordo Iran e Turchia nel combattervi, di testa sua? ''Certo, nessuno può impedire alla gente di difendersi. Se il loro processo di emancipazione ha portato alla lotta armata, è giusto così. Per i curdi, dopo il 2003, la pressione si è fatta enorme. Tutti gli stati hanno temuto che il Kurdistan iracheno diventasse la base per una rivolta in Turchia, Iran e Siria. Quei governi hanno reagito di conseguenza. E noi ci siamo dovuti difendere''. Solo un'autodifesa, dunque. Questo significa che sulla vostra aspirazione all'indipendenza si sbagliano. ''Certo che si sbagliano. La nostra strada è chiara, come l'ha indicata Ocalan. Noi puntiamo a una confederazione, che segni la fine degli stati nazionali e del nazionalismo. Se si risolve il problema curdo si pacifica il Medio Oriente. Se si pacifica il Medio Oriente si risolvono i problemi di questo tempo''. Usate le armi, però. E per alcuni anche gli attentati contro i civili. ''Non è vero – risponde battendosi il pugno destro nel palmo della mano sinistra – lo sanno tutti che il Pkk colpisce solo obiettivi militari. Per difendere la sua gente dagli attacchi turchi. Gli attentati contro obiettivi civili in Turchia non sono opera nostra. Possono essere i servizi segreti turchi, oppure elementi curdi fuori controllo. Ma noi no. La stampa ci addossa queste responsabilità per screditarci e nessuno riporta anche il nostro parere''. Perché i media internazionali dovrebbero avercela con voi? La figura di Ocalan, per anni, è stata considerata quella di un leader importante. Poi è diventato un terrorista. ''Sul carisma di Ocalan non hanno alcun effetto le cose che vengono dette e scritte. Basta pensare alle folle che, spontaneamente, sono scese in piazza per difenderlo dalle torture che subisce. Arafat, per esempio. Prima terrorista, poi Nobel per la pace, poi terrorista. La stampa fa gli interessi del potere e il potere, in questo periodo storico, ha bisogno di fare di Ocalan un terrorista'', risponde awal Bozan. ''Il capitalismo mostra il suo volto peggiore, perché attraversa una crisi molto grave. Il Pkk, in questa regione, è l'unica reale forza di popolo, che si pone tra gli interessi degli Usa e dell'Ue e le potenze regionali, Iran e Arabia Saudita su tutte. Siamo un problema, perché fino a quando esisteremo noi – dice sorridendo il dirigente curdo – il progetto del Grande Medio Oriente degli Usa non si potrà realizzare. Noi non siamo in vendita. Non abbiamo bisogno di molto per vivere. Quel poco che ci serve ci arriva dai curdi della diaspora, che da tutto il mondo sostengono la nostra lotta. E dalla gente comune, che divide con noi quel poco che ha. In tanti ci davano per finiti quando hanno catturato illegalmente Ocalan...adesso può tornare a casa e dire a tutti che il Pkk è ancora qui. E non smetterà di lottare fino a quando i curdi saranno oppressi''. Il tempo è finito, awal Bozan saluta con un cenno del capo, mentre i suoi uomini si stringono attorno a lui. I pick-up vanno via in fila indiana, tra queste montagne che appartengono al silenzio.
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In alto: Awal Roj mostra i danni di un bombardamento turco. In basso: Il muro costruito dall'Iran al confine di Haj Omran. Foto di Naoki Tomasini ©PeaceReporter
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Il reportage Paraguay Aprile 2009
Il Condor vola ancora Di Alessandro Grandi È vero: ad Asuncion, capitale del Paraguay, non ci sono molte cose da vedere. Pochi monumenti, pochi palazzi degni di nota, poco di tutto. Ma in Calle Cile 1066, a poche cuadras dal centro della città, c’è il posto meno conosciuto e più importante del Paese: il Museo della Memoria. ll’apparenza sembra un posto come tanti altri. Una strada tranquilla, una palazzina pulita e ordinata, piante e fiori regalano colore a una facciata piuttosto anonima. In realtà la storia di Calle Cile 1066 fa accapponare la pelle. In questo luogo secondo alcune stime (non distanti dalla realtà e che forse si avvicinano più al difetto che all'eccesso) sono passati almeno tremila prigionieri politici, detenuti e torturati durante il periodo della dittatura di Alfredo Ströessner, sanguinario militare di origini tedesche, sostenitore del nazismo, che ha comandato il paese con il pugno di ferro per più di 35 anni. Da buona "colonia statunitense", come la definisce il professor Martin Almada, "il Paraguay si è sottomesso alla politica di Washington, che in tempo di Guerra Fredda puntava per prima cosa sull'anticomunismo. In Ströessner ha trovato un alleato fedele. Il Paraguay è uno dei tanti prodotti della Guerra Fredda". “In queste sale sono passati civili innocenti provenienti dall'Argentina, dal Cile, dall'Uruguay e dal Paraguay, che la dittatura considerava sovversivi, comunisti o in qualche modo nemici” racconta Martin Almada, una delle figure più importanti del Paese, scopritore dell’Archivio del Terrore, ideatore del Museo della Memoria e, grazie ai documenti da lui scoperti, uomo chiave per la detenzione londinese del Generale Augusto Pinochet. “In queste stanze si è praticata la tortura sistematica di tutte quelle persone, uomini e donne, che non si sono piegate a dire sempre sì” racconta ancora con le lacrime agli occhi Almada. La sua storia è un susseguirsi di arresti, fermi, torture e umiliazioni. “Mi consideravano un sovversivo. Ero solo un maestro che voleva riformare la scuola. Chiedevo migliori condizioni di vita per i maestri. Per la dittatura ero un comunista. Ma io comunista non lo sono mai stato. E nemmeno anticomunista. Io sono e resto un riformista”.
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trana storia quella di Calle Cile 1066. Nonostante il caldo atroce della città negli ultimi scampoli d’estate, non appena si varca la porta di ingresso del Museo un brivido freddo corre lungo la schiena. Manifesti appesi alle pareti riportano i volti di donne, uomini, ragazze e ragazzi desaparecidos. Scomparsi e mai tornati a casa. I manifesti sono come specchi che riflettono l’immagine di chi li guarda per ricordare che tutti possono soccombere davanti a una pazzesca dittatura. Le stanze del Museo sono piccole e ognuna di loro ha un pavimento di colore differente. “Io le ho riconosciute subito proprio dai differenti tipi di colore: qui sono stato imprigionato e torturato per diverso tempo. Non solo. Nella stanza dove ci troviamo – venti metri quadrati con il pavimento di color verde- si violentavano e poi torturavano le donne”. E se i muri potessero parlare chissà cosa avrebbero da raccontare. In questa palazzina è passato il non plus ultra della violenza fascista della dittatura stroessneriana. E anche i militari più sanguinari degli eserciti e delle polizie di quasi tutti i paesi del Sudamerica. Racconta ancora Almada: “Gli ufficiali che hanno compiuto
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queste azioni indecenti erano stati prima alla Escuela de las Americas, a Panama, e sono stati istruiti sui differenti tipi di tortura dagli ufficiali della Cia statunitense. Anche in queste stanze sono giunti più volte militari nordamericani per umiliare, torturare e uccidere tutte le persone che il governo paraguayano considerava pericolose, scomode, sovversive”. “Anche mio padre è stato torturato in questo luogo”, sussurra davanti alla porta del Museo Epifania Arias, figlia quarantenne di un insegnante, detenuto nei primi anni Settanta della dittatura. “Ci sono cose che non si possono dimenticare. Grazie al lavoro di Almada abbiamo saputo che in questa palazzina sono avvenute efferatezze che ancora oggi stentiamo a credere siano potute accadere. Gli inquilini degli edifici circostanti, sono stati in molti casi costretti a trasferirsi in altri quartieri della città, perché non potevano più sopportare le grida di dolore di quei poveri ragazzi causate dalle torture degli assassini di Ströessner. E tutto con il beneplacito della Cia. Oggi sappiamo chi ha istruito i militari del Paese. Ecco, queste sono storie che vale la pena raccontare”. Occhi lucidi e sguardo fiero, Epifania si accende una sigaretta dietro l'altra e cerca di capire i perché di tanta violenza. stato uno dei periodi più bui della storia dell'umanità” dice Marela Oviedo, anche lei erede di uno dei tanti uomini torturati dalla brutalità dei militari paraguayani, mentre passeggia quasi in punta di piedi fra teche contenenti strumenti di tortura, fotografie, liste di nomi di quelli che non ci sono più. È arrivata fino al Museo da sola e non è la prima volta. “Mio padre in questo posto maledetto dal Signore ha passato un po’ di tempo. Era l’uomo più buono del mondo. Aveva le mani grandi e un bel sorriso. Quelle bestie lo consideravano un sovversivo.uelle bestioe Per questo l'hanno imprigionato, umiliato e torturato senza pietà. Era semplicemente un insegnante di scuola primaria. È vero aveva una certa cultura e aveva la passione della lettura. Leggeva tutto, proprio di tutto, quando riusciva a comprare qualche libro. Forse per questo motivo è stato considerato un sovversivo. Essere colti per il potere è pericoloso. Avere la possibilità di insegnare lo è ancora di più. Ancora oggi non riesco a capire il perché di tanta ferocia. Mio padre grazie a Dio è riuscito a tornare a casa. Ma era stato per troppo tempo in condizioni disumane. In celle di due metri per uno e mezzo, con quaranta, cinquanta altri detenuti, mangiando le proprie feci e bevendo urina. Gli applicavano gli elettrodi ai testicoli per torturarlo. Quattro giorni dopo la sua liberazione, avvenuta per chissà quale motivazione, morì fra le peggiori sofferenze. Di storie come questa ne potrei raccontare a decine. Se penso che mi trovo nello stesso inferno in cui lui sapeva che avrebbe detto addio alla sua vita mi
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Il Waterboarding del Condor, una delle torture peggiori subite dai detenuti. Asuncion, Paraguay, 2009. Foto di Alessandro Grandi ©PeaceReporter
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sento male”, continua Marela. Quando parla i suoi occhi diventano lucidi per la commozione. Le mani iniziano a tremare, poco ma tremano. La voce ogni tanto si spezza. Anche i capelli, corvini e lisci, sembrano vibrare sulle sue piccole ma larghe spalle. Marela è visibilmente emozionata. È difficile per lei capire. È altrettanto difficile cercare di spiegare quello che è stato il Paraguay della dittatura. Un governo militare supportato, aiutato e istruito dalla Cia, che nel piccolo Paese sudamericano ha fatto il bello e il cattivo tempo per anni. Per i propri interessi, per la sua lotta personale al nemico russo. “Un giorno nelle campagne intorno alla città di Coronel Oviedo dice Mariela, che ci tiene a raccontare un'altra storia - dove sono nata e dove vivevo con la mia famiglia, i militari cileni insieme a quelli paraguayani fermarono un campesino. Lo picchiarono quasi a sangue accusandolo di fare propaganda marxista. Lui non sapeva né leggere né scrivere. Lo conoscevo bene. Dopo averlo quasi ammazzato lo spogliarono e lo legarono a un albero. Gli cosparsero il corpo con miele e succo d'arancia. Lo lasciarono lì, legato per giorni e morì mangiato vivo da formiche, api, topi e chissà cos’altro. Questo lavoro facevano i militari del famigerato Plan Condor”. utti i sabati venivano i torturatori - racconta Almada dalla stanza delle conferenze del Museo - venivano a distrarsi dalla settimana lavorativa. Come se fosse un gioco ci torturavano per farci confessare cose che non sapevamo. Ero detenuto in quello che avremmo chiamato il sepolcro dei vivi: chi entrava in questo commissariato non ne usciva con le sue gambe. Noi detenuti avevamo stampato nella mente come un tatuaggio i volti dei militari che ci torturavano, ma non conoscevamo i loro nomi. Usavano pseudonimi. Però un giorno le cose cambiarono. Venne arrestato un commissario di polizia il cui figlio, studente universitario in Argentina, era considerato un sovversivo a causa della sua adesione alla confederazione degli studenti universitari. Lo arrestarono perché lui non aveva fatto sapere agli alti comandi militari delle azioni del figlio. Lo spedirono in cella con noi, come un nemico della patria. Da quel momento non godeva più dei privilegi e dei diritti dei militari. Da quel momento era uno di noi. Lui conosceva tutti i soldati torturatori. Sapeva i loro nomi, quelli veri. A lui un giorno chiesi due cose: come morì la mia sposa, visto che a me avevano detto che si era suicidata. E poi volli sapere che cosa stava succedendo nel mio Paese. Chiesi perché in Paraguay mi torturavano militari stranieri. La sua risposta fu allo stesso tempo atroce e illuminante: siamo fra gli artigli del Condor. Era l’aprile o il maggio del 1975. Iniziavo a scoprire che cosa fosse il plan Condor”. Il plan Condor, però, iniziò a operare a pieno regime nel novembre 1975, alcuni mesi dopo le domande di Almada. “Ho scoperto il Condor prima che iniziasse a operare, a volare. Sono stato nel suo ventre e l’ho conosciuto da dentro”. Il plan Condor: un'impressionante operazione di polizia creata dalla Cia, tendente a destabilizzare tramite colpi di Stato militare, i governi dei paesi centro e sudamericani che tendevano a “sinistra” o potessero in qualche modo essere influenzati dall'Unione Sovietica. Le polizie di Uruguay, Paraguay, Cile, Argentina, Bolivia, Perù e Brasile cooperavano e avevano libertà di movimento e licenza di uccidere. Uno dei suoi più grandi sostenitori fu il repubblicano statunitense Henry Kissinger, "il più grande terrorista della storia" dice Almada. Ma il plan Condor ebbe un respiro molto più ampio, sono in molti a sostenerlo. Tracce delle piume del Condor si possono ritrovare anche in diversi paesi europei. Anche in Italia dove la loggia massonica Propaganda 2 (P2), invischiata in molti processi penali per le sue attività illegali, fu una fervida sostenitrice del piano. E c’è chi sostiene che gli aderenti al Condor, perfettamente organizzati, siano stati in grado di dare supporto logistico ai più smaliziati killer, faccendieri, narcotrafficanti, di diverse nazionalità e anche alcuni esponenti di spicco degli anni bui del terrorismo italiano. Molte informazioni su quegli anni adesso si possono reperire, grazie al lavoro di Almada, all’interno dei faldoni dell'archivio del terrore venuto alla luce nel 1992 grazie alla perseveranza del gruppo di lavoro di Almada e conservati nelle stanze del Palazzo di Giustizia di Asuncion. Migliaia di rapporti militari pieni di informazioni sulla “Guerra Fredda” in piena attività in quel periodo, e tutti i documenti della repressione in Paraguay dal 1929 al 1989. E nei rapporti si trova proprio tutto dice Almada: "In particolare la repressione contro gli anarchici italia-
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ni, spagnoli e francesi presenti nel Paese. Poi quella nei confronti dei comunisti. Poi il turno dei socialisti. E infine quella contro le persone come me, considerate sovversive. Ma la cosa che più ci ha più stupito è stato scoprire i documenti che riguardavano la presenza in Paraguay di Menghele, il dottor morte della Germania nazista di Hitler, e le connessioni con il nazismo. È l’enorme documentazione del Plan Condor. Secondo gli accordi, ogni Paese che ha aderito deve avere un archivio “Condor”. Proprio per questo, quando i militari brasiliani, cileni, argentini e uruguayani, dicono che non hanno un archivio di questo tipo stanno mentendo. Lo devono avere sicuramente. Forse migliore del nostro”. Tutto il lavoro di ricerca è iniziato con una mobilitazione di Amnesty International che ha permesso la liberazione di Almada da parte del regime e un rocambolesco ingresso nella mal controllata ambasciata panamense a Asuncion. “Ho approfittato del fatto che i militari paraguayani che circondavano la sede diplomatica di Panama erano ubriachi e io sono riuscito a entrare, ottenere l’asilo politico e in seguito un lavoro a Parigi alle Nazioni Unite. Ma mi ero ripromesso di indagare sul Condor e di seguire il consiglio che mi aveva dato il commissario detenuto con me nel sepolcro dei vivi: leggere la rivista della polizia del Paraguay. Lì avrei trovato molte delle informazioni sul plan. Scoprire cosa era successo e i nomi di quelli che mi avevano fatto del male”. Fino alla definitiva scoperta anche dei luoghi di detenzione illegali presenti nel Paese, alcuni con storie impressionanti. “Una nonnina, una volta rientrato in Paraguay, mi ha detto che in un terreno vicino a quello in cui lei viveva, usato dai soldati come luogo di detenzione illegale, di notte si sentivano le grida delle anime in pena dei ragazzi torturati. E si potevano riconoscere anche le cadenze e capire se fossero argentini, cileni, paraguayani. Uno di loro, quello che più soffriva, secondo la nonnina era cileno”. ll’inizio gli investigatori paraguayani della squadra di Almada credevano che il Condor avesse in America Latina come unico referente Pinochet. Ma si sbagliavano: “Oltre a Pinochet che voleva ripulire dai comunisti la politica, l’esercito e la società civile, in Bolivia c’era Banzer che aveva ideato un piano per sterminare i "comunisti" presenti all’interno della chiesa cattolica. Suore, sacerdoti, vescovi e arcivescovi considerati o legati alla Teologia della Liberazione venivano sterminati secondo un piano ben preciso. Talmente perfetto che venne esportato in tutto il Sudamerica. Io sono convinto- conclude Almada- che il sistematico accanimento e gli omicidi degli appartenenti alla chiesa cattolica avvenuti in Sudamerica facciano parte di un unico piano: quello di Banzer”. E si rammarica del fatto che la Chiesa abbia concesso i funerali cristiani al famigerato generale boliviano “regalandogli a tutti gli effetti un passaporto per il paradiso”. Martin Almada oltre a essere un punto di riferimento per i giovani del Paese che fanno a gara per intervistarlo e creano lunghe code lungo i corridoi del Museo, è un convinto sostenitore del fatto che il Plan Condor esista ancora oggi. “Ci sono documenti in mano ai giudici in cui un colonnello dell'esercito del Paraguay racconta dell'incontro fra Pinochet e Menen avvenuto nel novembre 1995 a Bariloche in Argentina, dove si scambiarono la lista dei 'sovversivi dei rispettivi paesi'. Lo stesso colonnello dice che la testa del Condor sarebbe la Conferencia del ejercito americano, un apparato militare creato dalla Cia e dal Pentagono, soprattutto per contrastare la rivoluzione cubana. Il Condor vola ancora, e sono convinto che non sia finito con la morte di Pinochet. Si è globalizzato con il lavoro di George W. Bush. La riprova sono i centri di detenzione segreti presenti nel mondo, e anche in Europa. Non mi invento nulla. Usano anche le stesse tecniche di tortura, gli stessi mezzi, le stesse modalità. Come il waterboarding – la tremenda tecnica di simulazione di annegamento che Almada e molti altri hanno subito nel sepolcro dei vivi- che appunto oggi è globale. Lo ripeto: il Condor continua a volare e bisogna in tutti i modi tagliargli le ali”. La dittatura in questo Paese incastonato fra Brasile, Argentina e Bolivia, ha lasciato segni indelebili come marchi a fuoco sulle cosce dei cavalli. Dolorosi e impossibili da cancellare.
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In alto: La repressione dei soldati di Ströessner negli Anni ‘70 e ‘80. In basso: I volti dei desaparecidos. Asuncion, Paraguay, 2009. Foto di Alessandro Grandi ©PeaceReporter
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Reportage Berlino Settembre 2009
A cena con Ingo e Andreas Di Nicola Sessa Andreas Dresen e Ingo Schulze sono per la loro storia e spirito di osservazione due punti di riferimento nel mondo degli intellettuali della Germania riunificata. Entrambi nati nell'ex Repubblica Democratica Tedesca, sfioravano i trent'anni nel 1989. Tanto Dresen nei suoi film, quanto Schulze nei suoi romanzi, pennellano, senza ricorrere mai a trucchi, la vita dei loro personaggi nella quotidianità che scorre lenta. Ho incontrato il regista e il romanziere in giorni e luoghi diversi: il primo a Potsdam, in SchopenauerStrasse; il secondo a Berlino, al 207 di GreifwalderStrasse negli uffici della casa editrice Berlin Verlag. Ho immaginato una chiacchierata a tre, per conoscere il loro punto di vista sul passato della Ddr e quello sulla nuova Germania, senza i filtri e le sfumature dei loro personaggi. L'appuntamento è a Potsdam alle otto di sera nel magnifico parco ai piedi del Palazzo di Sanssouci, la Versailles di Prussia, voluto da Federico il Grande. È una serata di quelle che solo gli sgoccioli di aprile riescono a regalarti. A queste latitudini, gli ultimi raggi solari irradiano ancora di una luce morbidissima i viali del parco. I lampioni si sono accesi da pochi minuti e le lampade ai vapori di sodio sono ancora gialle e fioche. Il tavolo tondo è stato apparecchiato in cima alle scale nel giardino, davanti al grande salone delle feste. Una bottiglia "Cuvée Jérémy" Florimont del 1997, aspetta di essere bevuta. Andreas e Ingo prendono posto di fronte a me, rispettivamente a ore 10 e ore 2. Partiamo dal nocciolo della questione: dopo vent'anni di vita comune possiamo dire Germania Riunificata, missione compiuta? Andreas Dresen, (AD): Dipende dal punto di osservazione. Fino a dieci, quindici anni fa era ancora molto facile individuare, anche a Berlino, chi avesse avuto un passato nell'ex Repubblica Democratica Tedesca. Bastava scambiare due parole per capirlo. Oggi è impossibile distinguere le due entità. Ma questo discorso vale solo per Berlino e dintorni. Se fai un giro in città come Eisenhuttenstadt, Cottbus o anche Jena lì troverai ancora quelli che erano i tedeschi dell'est. Lo stesso discorso vale per quelli dell'ovest, se piombi in una birreria di qualche cittadina della Baviera. A me non interessa se sei un tedesco dell'ovest o dell'est, piuttosto mi preoccupa di capire che tipo di uomo mi trovo davanti. Ingo Schulze, (IS): E sono in molti, quelli dell'est, a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di Riunificazione. Tecnicamente, si è trattato di una Beitritt, dell'adesione della Repubblica Democratica Tedesca a quella Federale. Che cosa vuol dire Riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti. Non c'è stato nulla di tutto questo, anzi... Le differenze si sono rimarcate. Prima della caduta del Muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania Federale. Si è cominciata a fare distinzione tra i due popoli, paradossalmente, proprio dopo la Wende quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, “tedeschi dell'est”. 32
AD: Ma d'altra parte, nessuno prima di quel 9 novembre pensava che avrebbe perso una parte della loro biografia, che la loro nazione, la Ddr, sarebbe scomparsa dalle cartine... Ma come? Ricordo benissimo che ballavate davanti alla Porta di Brandeburgo cantando “Noi siamo un solo popolo!”. AD: Questo accadeva solo dopo, però... Durante le “Manifestazioni del lunedì”, le Montagsdemonstrationen che ebbero inizio a Lipsia il 4 settembre per poi diffondersi in tutte le altre città, la gente gridava Wir sind das Volk, “Noi siamo il popolo”. Le persone scesero in strada per chiedere più libertà e l'apertura dei confini, volevano poter acquistare le cose e i prodotti che vedevano nei film occidentali. Sottolineavano che in una democrazia è il popolo che deve avere il potere e non un'oligarchia di idioti chiusi in un palazzo. IS: La scomparsa della Ddr non era nei pensieri di nessuno. Anche perché, preso al netto di quelle persone idiote che avevano isolato il popolo dal mondo occidentale, il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti – che per il settanta percento si sviluppava su rotaia. Il diritto al lavoro era qualcosa di concreto e non un'astrazione come lo è oggi nel sistema occidentale. E che dire, poi, del diritto di famiglia: nella Repubblica Federale il divorzio è stato inquadrato nella legislazione solo nel 1976. I miei genitori si separarono molti anni prima e ancora oggi mia madre mi dice di essere stata fortuna a trovarsi nella Ddr, altrimenti avrebbe dovuto sopportare mio padre per molti anni ancora. D'accordo, ma tutte queste cose bilanciavano la mancanza di libertà? IS: Non fraintendermi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Siamo tutti d'accordo nel dire che quel sistema si basava su una dittatura liberticida e nessuno vuole tornare indietro. Mettiamola così: non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone. Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di poter lavorare. Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Ora, se prendi il treno da Berlino centro alla periferia il biglietto ti costa due euro e dieci all'andata e altrettanti al ritorno. Ti rimangono cinque centesimi: ci compri la libertà? Possiamo dire che queste persone sono libere? Bernauerstrasse. Berlino, Germania 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter
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Direi di no, hai ragione. IS: Era questo che intendevo: se le due parti si fossero incontrate a mezza strada, forse stasera qui parleremmo in maniera diversa. Ma, come dicevo prima, ci siamo trovati difronte a una assimilazione. Il grande che ha inglobato il piccolo. AD: So che è brutto dirlo, ma è come se la Ddr fosse stata 'invasa' dalla Repubblica Federale. Invasione o no... Ma non è quello che volevano i tedeschi della Ddr? Entrare nel sistema occidentale? IS: Sì, in quell'Occidente che vedevano in televisione. La verità è che il crollo del sistema socialista ha avuto degli effetti devastanti anche nel cosiddetto mondo libero: dopo il 1990 l'Occidente ha subito un brusco arresto nello sviluppo. In un attimo sono svaniti tutti i risultati guadagnati in duecento anni storia. Le lotte in Inghilterra, a Manchester, i valori che si riconoscevano nell'Illuminismo: tutto al vento. In nome della competitività, le politiche sociali sono state sacrificate sull'altare del Capitale. Per rimanere in gara, i governi non possono che tagliare, tagliare e tagliare ancora. Cos'è la crisi economica di questi anni se non l'espressione più pura di questa competitività folle? I politici ti parlano di libertà e democrazia per nascondere questi che sono i grandi problemi che dobbiamo affrontare. Questa finirà, è vero, passerà. Ma le crisi si susseguono. Appena esci da una, puoi intravvederne subito un'altra all'orizzonte. Sembra che ci si sia dimenticati del fatto che esiste un'alternativa a questo sistema di vita. Perché te la ridi, Andreas? Cos'è che ti diverte tanto? AD: Me la rido perché quando l'anno scorso giungevano voci a mezza bocca su questa terribile crisi (che ne avrebbe scoperchiata un'altra più grande, che a sua volta ne conteneva una ancora peggiore), vedevi le persone precipitarsi in libreria a comprare Das Kapital, Il Capitale di Karl Marx: volevano capire cosa stava succedendo. Personalmente io, ma credo anche Ingo, già venticinque anni fa sapevo come sarebbe andata a finire. A scuola noi studiavamo l'economia marxista, non eravamo così naif come volevano farci apparire. Marx era un genio, è stato abilissimo nello spiegare come funzionasse il sistema capitalista e a individuarne tutte le falle: un'analisi perfetta. Peccato che non si sia cimentato in uno studio altrettanto enciclopedico sul possibile modello di sviluppo dell'economia socialista. Ma ditemi, come immaginate le vostre vite all'interno di una Ddr sopravvissuta alle spallate della società tedesca e alla voglia di libertà? IS: Scusa se rido alla tua domanda, non offenderti. Ma è come se mi avessi chiesto: “Ingo, cosa avresti fatto nella vita se fossi nato sulla Luna?”. Non lo so... probabilmente avrei continuato a lavorare nel teatro, quello che facevo prima: piccole sceneggiature, monologhi. In effetti, io esisto come scrittore proprio dal 1990. Già! E ora The New Yorker ti ha annoverato tra i migliori romanzieri del nostro tempo. E tu Andreas, come sarebbe stata la tua carriera? AD: Avrei fatto comunque il regista. Nel 1990 mi sono diplomato alla Scuola di Cinema di Babelsberg e i miei film sarebbero stati prodotti dalla Defa, la casa di produzione statale. Sì, e immagino quanta libertà di espressione avresti avuto: il partito ti avrebbe precettato per qualche film di propaganda, la censura sarebbe stata il tuo più valido collaboratore e a quest'ora i premi ricevuti ai festival internazionali, Cannes incluso, sarebbero stati giusto un sogno. AD: Questo è un vecchio cliché sulla Ddr e sull'intera produzione artistica e letteraria. Anche tu, vedo, sei vittima di questo stereotipo. Io cominciai la scuola nel 1986, quando alla direzione c'era Lothar Bisky: un personaggio straordinario. Era un uomo di partito, è vero, però era un riformatore. Portò all'interno della scuola i concetti di Glasnost e Perestroika. Ci spingeva a esprimerci liberamente e ha sempre protetto 34
i suoi allievi e i suoi film. Nella scuola c'era un'atmosfera molto libera e rilassata. Attraverso le sue produzioni criticò diversi aspetti dell'apparato. Per esempio, nel 1988 realizzò un documentario molto duro sulle forze armate della Ddr che non piacque, ovviamente, ai vertici militari. Nonostante mille opposizioni, riuscì comunque a imporne la pubblicazione. Non contesto che dalla Defa uscissero molti film di propaganda, ma altrettanti erano veri e propri capolavori. Molti registi, di comprovata onestà intellettuale, si sono visti stroncare la loro carriera dopo la caduta del Muro e non hanno più lavorato: all'Ovest, i film del nostro mondo non interessavano. Sono stati discriminati dalle produzioni della Germania riunificata? AD: Ma io non parlerei di discriminazione. Credo che nessuno volesse discriminarli. Si tratta di ignoranza: non conoscendo nulla del cinema della Ddr, i produttori non sono stati in grado di capire chi fosse davvero coinvolto nelle logiche di partito e soprattutto di capire i colori e le sfumature di quel tipo di cinema. I tedeschi della Ddr sono profondamente colti e abituati a leggere tra le righe: mentre nella Repubblica Federale si producevano in serie film sul passato della Germania, sulla guerra e sul regime nazista, prendendo a piene mani dalle produzioni holliwoodiane, nella Ddr, ma anche negli altri paesi dell'est, si faceva un lavoro di introspezione sulla vita quotidiana. Ma posso capire che non a tutti interessava aprire una finestra su quella parte di mondo. A te invece è andata meglio, no? AD: Sì. Devo ammettere di essere stato fortunato. Ho finito gli studi in una grande scuola di cinema e sono entrato nel mondo del lavoro nel 1990. Le produzioni della Germania dell'Ovest cercavano giovani direttori che non avessero avuto il tempo di “compromettersi” con il regime. Ingo, nel tuo romanzo 'Vite Nuove' contestualizzi la storia nel 1990, l'anno del cambiamento. Riesci in una battuta a concretizzare la virata che c'è stata nell'ideologia e nel sistema economico? IS: C'è un esempio che può rendere molto bene l'idea: prima del 1989 potevi liberamente criticare il tuo datore di lavoro, ma non potevi dire assolutamente nulla contro il partito; oggi puoi dire ogni sconcezza rivolta ai membri del governo, ma nulla contro il tuo capoufficio. A meno che non ti sia stancato del tuo lavoro. Cosa non ha funzionato? Qual è la differenza con gli altri Paesi del ex blocco sovietico? Perché voi non avete raggiunto ancora l'obiettivo di essere un 'popolo solo', amalgamato? IS: Semplicemente perché non ci siamo venuti incontro naturalmente: ci vuole tempo per assimilare un nuovo sistema di vita, per di più imposto. E venti anni non sono bastati? AD: No. Sono d'accordo con Ingo. Vuoi sapere qual è la differenza con gli altri Paesi del blocco? Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca hanno potuto organizzarsi da soli e fare progressi giorno per giorno, insieme. Hanno potuto creare il loro 'nuovo sistema' senza ingerenze esterne. Ti faccio un rapido esempio: dall'oggi al domani, il sistema televisivo della Ddr è stato spento e si è passati a quello della Repubblica Federale. E sappiamo benissimo quanto la televisione sia un punto di riferimento importante per la gente. A Praga piuttosto che a Budapest, anche la tv ha subito un lungo e lento processo di maturazione-assimilazione. Quindi la missione 'Germania Riunificata', continua? IS: Sì, continua. Ma c'è da modificare un parametro: fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione 'geografica'. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri. È una sfida molto difficile da vincere perché la distanza rischia di diventare incolmabile. Va bene... Allora finiamo il vino e diamoci appuntamento al 2019, per il trentennale. Vedremo a che punto siete e se avrete vinto la sfida.
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